ZAGANELLI, Francesco
ZAGANELLI, Francesco. – Figlio di «magistro Bosio» (Zama, 1994, p. 15; risulta sconosciuto invece il nome della madre), nacque a Cotignola, nel Ravennate, in un periodo imprecisato, ma verosimilmente circoscrivibile tra il 1450 e il 1460 (ibid., p. 21).
Ebbe almeno due fratelli, entrambi pittori come lui: Bernardino, con il quale collaborò in più occasioni, e Matteo, sulla cui carriera non si possiedono invece ulteriori notizie (Bernicoli, 1912, p. 223; Zama, 1994, pp. 15 s.).
Nato in un piccolo centro sottoposto dapprima al dominio degli Sforza, e quindi, dall’inizio del Cinquecento, al governo estense di Ferrara, Francesco potrebbe aver mosso i primi passi, insieme al fratello, proprio in una bottega ferrarese, subendo inevitabilmente la fascinazione della fervente e raffinata cultura artistica locale, rappresentata in particolare da Ercole de’ Roberti.
L’opera di quest’ultimo doveva infatti essere giunta ben viva agli occhi di entrambi anche grazie alla celeberrima pala di S. Maria in Porto nella vicina Ravenna (1480 circa) e tramite il loro stesso ricorrente gravitare – documentato con certezza almeno per Bernardino – tra Imola e Bologna. Se dunque l’ambiente ferrarese fece da tramite soprattutto per gli innesti di cultura nordica e Bologna mediò, in particolare per Bernardino, l’aggiornamento al Perugino attraverso Lorenzo Costa e Francesco Francia, la formazione dei due artisti risentì senz’altro anche della tradizione lombarda e transalpina derivante dalla presenza sforzesca a Cotignola e dal conseguente arrivo in città di opere provenienti da Milano. Le carte accertano tra l’altro che un ritratto di Giovanni Sforza di mano di Francesco Zaganelli si trovasse nell’anno 1500 presso la libreria sforzesca di Pesaro, a ulteriore riprova, dunque, dell’avvenuto contatto professionale del pittore con la corte (ibid., pp. 22 s.).
L’avvio della carriera dei due «fratelli siamesi» – come sempre li volle vedere Roberto Longhi (1940, p. 19) –, sebbene in parte distinto nei modelli prediletti da ciascuno e, quindi, nelle componenti stilistiche, fu di fatto congiunto nella prima pala firmata da entrambi nel 1499, cioè la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni Battista e Floriano oggi custodita a Milano, presso la Pinacoteca di Brera (inv. Reg. Cron. 6033), ma eseguita per la chiesa di S. Francesco a Cotignola, dove tuttora si trova la lunetta con la Pietà che ne costituiva la cimasa.
La grande tavola, in cui il nome di Francesco precede nel cartiglio con l’iscrizione quello del fratello, già documenta in nuce le diversità stilistiche tra i due pittori, che si confermano con chiarezza dal confronto tra la Madonna col Bambino e i ss. Francesco d’Assisi, Nicola di Bari e il committente Pietro Marinazzo – firmata da Francesco nel 1505 e anch’essa a Brera (inv. Reg. Cron. 379), ma proveniente dalla chiesa dei minori riformati di Civitanova Marche – e il coevo S. Sebastiano di Bernardino nella National Gallery di Londra (inv. NG1092), appartenente a un polittico smembrato già in S. Maria del Carmine a Pavia (De Marchi, 1990, pp. 108-110; Zama, 1994, p. 23). Mentre Bernardino si mostra infatti debitore a un gusto luministico di matrice veneta e ben conscio, al contempo, della lezione peruginesca assorbita da Costa e da Francia a Bologna, Francesco palesa al contrario, in questa prima fase, delle ‘secchezze’ e asperità di tratto più affini agli esempi ferraresi e un’evidente attenzione, anche nel tipo di pennellata, alle minuziose finezze della grafica e della pittura nordiche. Altra fondamentale componente dell’arte degli Zaganelli fu la cultura figurativa melozziana del forlivese Marco Palmezzano, che ebbe soprattutto su Francesco un ascendente preponderante e che permeò anche l’attività di personaggi a loro volta cresciuti all’ombra della bottega zaganelliana, come il cotignolese Girolamo Marchesi e il ravennate Luca Longhi.
Proprio a Ravenna, nel 1504, era approdata un’altra tavola a doppia firma – la cui esecuzione è tuttavia riconducibile principalmente a Francesco –, ossia la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni Battista e Francesco d’Assisi per il convento di S. Apollinare Nuovo degli osservanti. Emblematico di un vero e proprio rapporto di collaborazione commerciale tra i due fratelli – secondo alcuni studiosi unicamente legato alla firma (quasi un’etichetta) anziché all’effettivo intervento autoriale dell’uno o dell’altro (Roli, 1965, p. 228; Zama, 1994, p. 24) –, il dipinto, oggi anch’esso custodito a Brera (inv. Reg. Cron. 173), costituì un punto di riferimento per gli artisti locali, anticipando di poco il trasferimento in città dello stesso Francesco, documentato stabilmente a Ravenna, insieme alla moglie, Cecilia di Francesco Attendolo, almeno dal 1513 (Bernicoli, 1912, p. 220). Andrea De Marchi (1994, p. 127) ha tuttavia sollevato qualche dubbio sull’interpretazione delle firme congiunte come meri «marchi societari» connessi al prevalere del solo Francesco, ritenendo che la consueta comparsa del nome di Bernardino in seconda posizione rispetto a quello del fratello non vada letta come prova della sua subalternità, ma anzi come sintomo del suo maggiore prestigio e quale suggello qualitativo per il lavoro di Francesco, il cui intervento autoriale autonomo fino alla scomparsa di Bernardino sembra in effetti per lo più celarsi proprio dietro la doppia firma, in uno scambio comunque alla pari di echi stilistici e suggestioni.
Ancora nel 1509 i due maestri firmarono e datarono insieme la Sacra Famiglia dell’Accademia Carrara a Bergamo (inv. 81LC00132) e, per la chiesa dei riformati a Imola, il Bambino adorato dalla Vergine e dai ss. Francesco d’Assisi, Antonio di Padova e Bernardino (Dublino, National Gallery of Ireland, inv. NGI 106), opera dai raffinati dettagli compositivi nella quale, per l’ennesima volta, è la mano di Francesco a prevalere, nonostante la doppia firma.
Sebbene Bernardino sia morto verosimilmente nel 1519 – come si desume da un atto notarile a nome della moglie e vedova Diamante, rogato nel dicembre di quello stesso anno, nel quale egli viene menzionato come defunto di recente (Zama, 1994, p. 29) –, dopo il 1509 non sono note altre sue opere certe, mentre Francesco iniziò da quel momento a firmare i lavori da solo, portando avanti in maniera autonoma, per ragioni che purtroppo ci sfuggono, anche l’attività della bottega cotignolese.
A Ravenna, subentrato, come narra Giorgio Vasari (1550 e 1568, 1976), all’egemone e allora appena scomparso Nicolò Rondinelli, Francesco divenne a tutti gli effetti il più singolare e affermato pittore di Romagna. Nello stesso 1513 firmò però lavori destinati a collocazioni non ravennati, primo fra tutti la Concezione della Vergine per la chiesa di S. Biagio a Forlì, oggi custodita nella locale Pinacoteca civica (inv. 37), opera ancora una volta di retaggio nordico nella quale appare sempre più evidente la riflessione sull’arte di Albrecht Dürer. A questa pala fecero seguito, tra le altre, nel 1514, il Battesimo di Cristo per S. Domenico a Faenza (Londra, National Gallery, inv. NG3892.1), con la lunetta con il Cristo morto tra angeli che ne costituiva l’originario coronamento (Londra, National Gallery, inv. NG3892.2), e il Cristo morto tra angeli di Brera (inv. Reg. Cron. 6008), già nella chiesa di S. Domenico a Lugo di Romagna.
Nel 1516 le carte ravennati (Bernicoli, 1912, p. 221; Zama, 1994, p. 14) relative a un rimborso da parte di Francesco di alcune somme di denaro ricevute in prestito dalla moglie (proveniente da una famiglia molto agiata e imparentata con gli Sforza), documentano in via definitiva che i due fratelli erano stati in effetti legati tra loro da un atto di «fraternitate», che sanciva legalmente la gestione societaria del lavoro e la comunione dei rispettivi beni.
In quello stesso anno Francesco, ammalatosi, fece testamento, nominando sua erede universale la coniuge Cecilia e disponendo tra le altre cose un lascito in denaro alla Società del Corpo di Cristo di Cotignola e una dote da assegnare a una non meglio nota «Francesca», menzionata nell’atto come se si trattasse di una figlia adottiva (ibid.). Scampato tuttavia alla morte, già a partire dal 1517 la sua attività sembrò riavviarsi a pieno regime. Si datano in particolare a questi anni due pale firmate, l’una per la chiesa di S. Martino a Viadana, nel mantovano, con la Madonna col Bambino e i ss. Giovanni Battista, Francesco d’Assisi, Rocco e Sebastiano (1518), e l’altra realizzata per la chiesa francescana della SS. Annunziata a Parma (1519).
La grande tavola parmense, rappresentante una Madonna col Bambino e i ss. Giovanni Battista, Bernardo, Giovanni Evangelista e Francesco d’Assisi, pur mantenendo nell’insieme un impianto ancora quattrocentesco, associa i consueti stilemi di matrice nordica a un singolare tentativo di adeguamento ai canoni raffaelleschi (Paolucci, 1966, p. 67); essa reca inoltre, disposti nei due scomparti lignei ai lati opposti della predella, gli intensi ritratti dei donatori, Rolando Pallavicino con la figlia Barbara, entrambi con lo sguardo chino su un breviario, da un lato, e la moglie Domitilla Gambara, anche lei con un piccolo libro di orazioni aperto tra le mani, nell’altro. Si tratta dell’ultimo dipinto firmato e datato da Francesco che sia giunto fino a noi (Zama, 1994, p. 34; McIver, 2003).
Alla tarda attività del maestro sono riferibili alcuni dipinti sui quali sono tuttavia spesso rilevabili interventi di bottega. Tra questi, l’Adorazione dei pastori con i ss. Girolamo e Bonaventura oggi alla Pinacoteca comunale di Ravenna (inv. QA0281), opera dall’impianto bidimensionale, con figure che sembrano appiattirsi e affastellarsi una sull’altra senza alcun tipo di accorgimento prospettico; lo Sposalizio mistico di s. Caterina da Siena con i ss. Rocco, Romualdo, Giuseppe, Giovanni Evangelista e Giovannino, già per l’ospedale ravennate di S. Caterina e oggi custodito presso il locale seminario arcivescovile, la cui qualità esecutiva è comunque ancora, nell’insieme, di livello eccellente; e la Crocifissione di Cristo con i ss. Antonio Abate e Francesco d’Assisi dipinta per la chiesa di S. Agata a Ravenna, anch’essa oggi in Pinacoteca comunale (inv. QA0030), di chiara matrice anticlassica e dalla notevole originalità espressiva, «forse l’esito più alto e significativo del pittore» (Zama, 1994, p. 35).
Tra il 1529 e il 1530 alcuni pagamenti documentano l’impegno di Francesco per la realizzazione della grande tela rappresentante il Cenacolo, destinata al refettorio del monastero benedettino di S. Maria del Monte a Cesena, e, già in stato conservativo compromesso agli inizi del Novecento, andata definitivamente distrutta durante gli eventi bellici (Panzavolta, 2004).
Sempre grazie al supporto dei documenti è possibile avere certezza che il maestro fosse ancora vivo nel mese di gennaio del 1532, mentre nel dicembre di quello stesso anno la moglie Cecilia veniva menzionata come vedova, motivo per cui la scomparsa del pittore si può senz’altro fissare nell’arco dei precedenti dieci mesi (Bernicoli, 1912, p. 222; Zama, 1994, p. 35).
Alla sua morte, tuttavia, continuarono a susseguirsi pagamenti per opere di cui l’artista era evidentemente rimasto creditore, tra cui quelli per la Deposizione oggi presso la Pinacoteca nazionale di Bologna (inv. 1023), e in origine sempre destinata alla Madonna del Monte di Cesena, il cui ultimo saldo fu riscosso nel 1535 dalla consorte (ibid., p. 15).
Fu forse proprio questo l’ultimo, e altissimo, lavoro portato integralmente a termine da Francesco che, fermo nel rifiuto del classicismo raffaellesco, che invece molti suoi colleghi avevano ormai accolto, architettò una scena disposta tutta in primo piano, nella quale la voluta assenza di prospettiva risulta ulteriormente accentuata dall’eccentrico ricorso a un compatto sfondo nero, dal quale emergono le figure disposte una sull’altra intorno al rigido ed esile corpo del Cristo morto.
Nel 1539, scomparsa anche Cecilia, furono altri – e non meglio noti – eredi del pittore a ricevere i versamenti per la tela con la Resurrezione di Lazzaro della Biblioteca Classense di Ravenna (Bernicoli, 1912, pp. 222 s.), già sull’altar maggiore della chiesa della badia di Classe, opera dal tono cupo, disordinatamente affollata di personaggi e con ogni probabilità condotta a termine dagli aiuti di quella stessa bottega ravennate che, nell’insieme, aveva visto anche la sua fine con la dipartita del maestro, «lasciando un’eredità che solamente di riflesso avrebbe interessato le nuove generazioni figurative in Romagna» (Zama, 1994, p. 36).
Fonti e Bibl.: G. Vasari, Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori e architettori nelle redazioni del 1550 e 1568, a cura di R. Bettarini - P. Barocchi, IV, Firenze 1976, p. 555; S. Bernicoli, Arte e artisti in Ravenna, in Felix Ravenna, VI (1912), pp. 217-243; W. Suida, F. Z. von Cotignola und die deutsche Kunst, in Zeitschrift für bildende Kunst, LXIV (1930-1931), pp. 248-251; Mostra di Melozzo e del Quattrocento romagnolo: onoranze a Melozzo nel V centenario della nascita (catal.), a cura di C. Gnudi - L. Becherucci, Forlì 1938, passim; R. Longhi, Ampliamenti nell’officina ferrarese, Firenze 1940, pp. 19 s.; I. Kunze, Z. F. di Bosio, in U. Thieme - F. Becker, Allgemeines Lexikon der bildenden Künstler von der Antike bis zur Gegenwart, XXXVI, Leipzig 1947, pp. 382 s.; R. Roli, Sul problema di Bernardino e F. Z., in Arte antica e moderna, VIII (1965), pp. 223-243; A. Paolucci, L’ultimo tempo di F. Z., in Paragone, XVII (1966), 193, pp. 59-73; B. Berenson, Italian pictures of the Renaissance. Central Italian and North Italian Schools, I-III, New York 1968, ad ind.; Z. e dintorni: “per una ricerca sui dipinti di Francesco e Bernardino, fra Cotignola e Ravenna” (catal., Cotignola), a cura di R. Zama, Faenza 1989; A. De Marchi, Bernardino Zaganelli, in Da Biduino ad Algardi: pittura e scultura a confronto (catal.), a cura di G. Romano, Torino 1990, pp. 100-113; R. Zama, Gli Z. (F. e Bernardino) pittori. Catalogo generale, Rimini 1994; A. De Marchi, Bernardino Zaganelli inedito: due “Facies Christi”, in Prospettiva, 1994, n. 75-76, pp. 124-135; A.K. McIver, Music, patrons and politics: a re-assessment of Zaganelli’s altarpiece for Rolando Pallavicino and Domitilla Gambara, in Art and music in the Early Modern period, a cura di A.K. McIver, Aldershot - Burlington (Vt.) 2003, pp. 45-56; F. Panzavolta, F. Z. nell’Abbazia di Santa Maria del Monte di Cesena, in Il Carrobbio, XXX (2004), pp. 107-112; C. Arrighetti, La vocazione veneziana per la grafica tedesca: distillazioni düreriane in alcune opere di F. Z., in Atti e memorie della Deputazione per la storia patria per le Province di Romagna, LXV (2015), pp. 135-165; Ead., Le prime testimonianze letterarie sull’arte di Bernardino e F. Z. e un disegno del Cavalcaselle per un “Ecce Homo” da ritrovare, in Ravenna, studi e ricerche, XXIII (2016), pp. 11-66; R. Zama, Una “Madonna” di Dürer in Romagna: per la restituzione al maestro di Norimberga, in Romagna arte e storia, XXXVII (2018), 109, pp. 21-57.