FRANCHI (De Franchi), Paolo de', detto il Partenopeo
Nacque a Napoli nel dicembre 1490, in una nobile famiglia decaduta il cui cognome, Bruto o de Brutis, è testimoniato dal titolo di un'orazione del F. e dalla sua iscrizione sepolcrale. Il F. cambiò il cognome originario con quello della nobile famiglia genovese De Franchi, alla quale fu ascritto nel 1534; nei repertori storico-letterari della Liguria è sempre ricordato, comunque, con l'appellativo di Partenopeo. Dopo un'ottima educazione classica e cavalleresca, dalla famiglia d'origine il F. fu avviato all'attività militare. Tra il 1521 e il 1522 approdò a Genova, forse al seguito delle truppe imperiali di Carlo V.
Si ignorano le motivazioni e protezioni che lo indussero a fermarsi a Genova e a riprendere gli studi di retorica per diventare, di lì a poco, pubblico docente; è probabile un collegamento iniziale tramite un segretario o istitutore di casa Fieschi; Sinibaldo Fieschi lo introdusse poi presso Andrea Doria e altre grandi famiglie genovesi, ai cui esponenti il F. dedicherà negli anni successivi orazioni e brevi trattati.
Nel 1522 il F. sposò una giovane genovese, Francesca degli Abbati, da cui ebbe sette figli. Nel 1528, dopo il varo della riforma doriana, di cui egli si professò sostenitore entusiasta, il governo gli conferì l'incarico di pubblico docente di retorica, un insegnamento che con lui divenne quotidiano, mentre prima le lezioni si tenevano solo nei giorni festivi per non intralciare l'attività lavorativa.
Che l'impegno del F. fosse interno alla riforma politica in atto è dimostrato dagli incarichi pubblici, quasi integrati tra loro, affidatigli dal governo. Nel 1531, subito dopo l'inizio del primo corso accademico, il doge Battista Spinola e il Senato lo nominarono annalista della Repubblica, revocando di fatto, se non formalmente, B. Tagliacarne, ormai troppo compromesso con la Francia; inoltre da quell'anno, attuandosi per la prima volta la celebrazione della festa dell'Unione, il Senato gli affidò l'orazione di ringraziamento da recitarsi in duomo nella ricorrenza del 12 settembre.
Il profilo intellettuale del F. emerge da queste orazioni piuttosto che dall'opera storica - che sacrifica a una pretesa oggettività filodoriana ogni altra personale emozione, in uno stile latino limpido ma asettico - o dai corsi accademici di retorica, che rivelano le sue predilezioni di lettore della classicità in ambiti molto tradizionali. Le orazioni invece lasciano trapelare convinzioni che sembrano personali, anche se sempre collegabili ai protettori del momento: a cominciare dalla prima, De virtutis et bonarum artium praestantia, pronunciata in S. Lorenzo il 12 sett. 1531, con la quale il F. esortava la Genova mercantile agli studi, attualizzando la classica e umanistica formula conciliativa otium-negotium in un progetto politico-culturale gradito al Doria e al Fieschi. Entusiasmo per il Doria e le nuove istituzioni della Repubblica si esprime anche nelle orazioni degli anni 1533-35, De libertatis excellentia, De charitate patriae e De vera libertate e con la forza di convinti stereotipi riecheggia in altre orazioni d'occasione pronunciate dal F. negli stessi anni: per la nomina senatoriale di A. Pallavicini il 12 marzo 1533; per la pubblica celebrazione dei magnifici A. Grimaldi e G. Promontorio il 1° luglio 1535; De moderatione et aequalitate per G.B. Sauli il 20 febbr. 1536. Già in quest'ultima, tuttavia, sembra delinearsi una posizione politicamente più definita: il tema suntuario, pur con le inevitabili componenti moralistiche della tradizione letteraria, stava diventando in quel momento l'espressione di diffusi malumori, anche se non ancora politicamente definibili come dissenso.
Certo il F. riteneva emancipante la sua ascrizione all'"albergo" De Franchi, famiglia di nobiltà "nuova" ma in piena ascesa; e forse si illudeva di poter svolgere - come storico e come intellettuale - anche un ruolo di mediazione tra il formarsi di nuovi blocchi di antico privilegio e le conseguenti reazioni dei nuovi esclusi, sopravvalutando il significato della protezione prima del Doria e dei De Franchi e poi dei Grimaldi (di un pupillo di questi ultimi, Emanuele, fu amato precettore e di un cardinale, Gerolamo, beneficiario). Anche il fatto che nel 1533 la sua primogenita decenne, Simonetta, fosse stata designata da Andrea Doria a recitare un'orazione latina di benvenuto all'imperatore Carlo V, oltre a gratificare il suo orgoglio di padre, doveva confermargli l'assoluta fiducia del principe, che già si era espressa in due luttuose circostanze l'anno precedente, quando al F. furono affidate l'orazione funebre per Filippino Doria e quella per Sinibaldo Fieschi.
Sembra che il F. fosse anche assunto per qualche tempo tra i familiares di Andrea Doria, forse con funzioni di segretario; di certo calorosa è la lettera commendatizia con cui, nel 1536, il Doria lo presentava al duca di Mantova, città dove il F. doveva recarsi per non meglio precisati affari personali (ma non sembrano da escludere compiti di controllo per conto del Doria su personaggi genovesi, specie della famiglia Fregoso, già esiliati). Eppure nelle orazioni del F. degli anni seguenti - De tranquillitate Rei Publicae et eius conservatione del 1538, De oboedientia del 1539 -, molti sono i suoi dubbi e nell'ultima, De gratia, del 1540, si avvertono nuove inquietudini sui destini della Repubblica. Non stupisce che l'anno dopo, con la giustificazione di favorire gli studi dei figli e del genero, il F. chiedesse e ottenesse il trasferimento a Bologna, cessando dal duplice ufficio di pubblico docente e di annalista. La lettera da lui inviata al governo genovese da Bologna il 26 genn. 1542 lascia trapelare non solo il risentimento del funzionario economicamente umiliato (il governo era disposto a rinnovargli il duplice contratto sulla base delle 250 lire annue fino ad allora percepite, rendendogli ormai insostenibile il mantenimento della numerosa famiglia), ma soprattutto l'amarezza dell'intellettuale deluso da un gruppo dirigente che, dopo essersi servito di lui, sembrava temerne ritorsioni o ricatti, come egli stesso confidava all'amico Stefano Fieschi, affidandogli la cronaca dell'anno 1536 affinché vi apportasse le correzioni opportune.
Il rapporto di fiducia si era davvero spezzato: nel 1537 il governo aveva smarrito (o finto di smarrire) la copia degli Annali che il F. aveva consegnato; dovendo provvedere a ritrascriverla, egli aveva recato con sé a Bologna il proprio originale, proseguito fino al 1540, ma doveva rassicurare il Senato sulla sua buona fede, sulla fedeltà all'impegno assunto e sulla sua devozione al Doria e a Genova, sua seconda patria. L'intrigo dello "smarrimento" della prima copia ufficiale degli Annali porrà poi il problema della corretta identificazione dei tre manoscritti (quello che il F. definisce "primo originale", la copia del 1537 andata "perduta" e quella trascritta a Bologna e inviata al governo) tra la mezza dozzina di manoscritti conservati nella Civica Biblioteca Berio di Genova e nell'Archivio di Stato di Torino: problema esaurientemente indagato sotto l'aspetto filologico dal Neri (1901). Sotto il profilo politico, resta da capire perché, affidato a Jacopo Bonfadio il nuovo incarico di annalista, gli fosse imposto di riprendere la narrazione dal 1528 invece che dal 1540, cioè di riscrivere la parte redatta dal F.: infatti l'entusiasmo espresso da questo per la riforma doriana, per le istituzioni e gli uomini del decennio 1528-38, avrebbe semmai dovuto garantire all'opera la maggiore protezione politica. Anche dalle proteste del Bonfadio circa le sollecitazioni del governo a servirsi del testo del F. per una più rapida ed elegante stesura si ricava la convinzione che il governo genovese volesse cancellare non già quanto scritto dal F. ma, in qualche modo, il nome di lui dalla memoria collettiva, pur senza contestargli alcuna colpa specifica. Né questa rimozione sembra imputabile alle fonti indicate dallo stesso F., nel momento in cui aveva ricevuto l'incarico di continuare l'opera del Giustiniani: i diari di Cattaneo Pinelli e i brevi commentari di Giovanni De Franchi, oltre la propria diretta esperienza degli eventi.
Gli Annales Rei publicae Genuensis del F. rimasero comunque inediti fino al 1847, quando fu pubblicata a Genova la buona traduzione italiana di S. Bacigalupo. Forse la ragione dell'oblio va ricercata in certe simpatie luterane espresse dal F., riconoscibili anche in una sua lettera dedicatoria all'arcivescovo di Genova dell'operetta di G. Savonarola Solacium itineris mei, da lui fatta stampare per la prima volta nel 1536 a Genova presso il tipografo torinese A. Bellone, lo stesso che stamperà nel 1543 i Sermoni dell'Ochino e il cui trasferimento a Genova era stato caldeggiato proprio dal Franchi.
Morì a Bologna nel settembre 1544 e venne sepolto nella chiesa di S. Francesco, dove, a cura di Lorenzo Conti, avvocato e scrittore genovese, sposato alla figlia Giulia, venne posta una lapide che ricordava tra le benemerenze e gli onori del defunto il titolo di cavaliere e di conte palatino di cui sarebbe stato insignito da Carlo V.
Fonti e Bibl.: Genova, Civica Bibl. Berio, Mss. D bis 4, 3, 14-D bis 5, 2, 7: Paoli Parthenopei Annales et orationes; R. Soprani, Gli scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 279; J. Bonfadio, Annali delle cose di Genova, Capolago 1836, pp. 32 ss.; Paolo Partenopeo, Annali, Genova 1847, a cura di S. Bacigalupo, Prefaz.; L. Spotorno, Storia letter. della Liguria, Genova 1858, ad Indicem; N. Giuliani - L. Belgrano, Dei tipografi e delle loro imprese, in Atti della Soc. ligure di storia patria, IX (1869), pp. 75, 262, 348; N. Giuliani, Albo letter. della Liguria, Genova 1886, p. 48; A. Neri, Andrea Doria e la corte di Mantova, Genova 1898, p. 19; Id., P. Partenopeo, in Giorn. stor. e lett. della Liguria, II (1901), pp. 402-422 (in bibl. elenco ragionato dei manoscritti e delle opere a stampa); F. Donaver, Storia della Repubblica di Genova, Genova 1913, pp. 189, 402; L. Levati, Dogi biennali della Repubblica di Genova, Genova 1930, pp. 12, 19, 21.