Vedi Francia dell'anno: 2012 - 2013 - 2014 - 2015 - 2016
La Francia si è affermata fin dall’epoca moderna come leader in Europa e, nel corso del Ventesimo secolo, è stata capace di assicurarsi la ribalta nelle più importanti organizzazioni Mondiali. In virtù del suo ruolo nelle Nazioni Unite (dove detiene uno dei cinque seggi permanenti del Consiglio di Sicurezza), nel G8, nell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) e nella Nato, si trova oggi ad affrontare una fase impegnativa nel gioco della parti proprio della politica internazionale. Fautrice dell’ideale di Europa unita sin da quando esso ha preso forma, Parigi per molti versi fatica a rimanere sul podio dei condottieri e rischia di essere temporaneamente arginata nelle retroguardie, insieme agli altri paesi (economicamente meno virtuosi) del Mediterraneo. Il 2014 è stato il terzo anno consecutivo in cui il rapporto deficit/pil si è mantenuto al di sopra del 3%, il debito pubblico continua a crescere e la ripresa economica stenta a decollare. François Hollande, presidente del paese dal 2012, è soggetto a un drammatico calo dei consensi che ha cercato di recuperare mostrando i muscoli in politica estera attraverso le missioni militari in Africa e gli interventi in Medio Oriente, puntando così a mantenere l’egemonia della Francia laddove si presenti ancora la possibilità di rivendicarla. Ciò è stato ampiamente dimostrato negli ultimi anni, quando, all’attivismo profuso da Nicolas Sarkozy durante la crisi libica del 2011 hanno fatto seguito nel 2013 il massiccio intervento dell’esercito francese in Mali per fermare l’avanzata dei ribelli islamisti, la missione nella Repubblica Centrafricana avviata nello stesso anno, e il sostegno logistico e militare ai militanti curdi in Iraq nel 2014. Presso le sue ex colonie Parigi ha ancora la possibilità di giocare da protagonista, ma sul fronte interno sembra rassegnarsi a condurre una politica puramente gestionale, nonostante numerosi settori dell’imprenditoria e dell’opinione pubblica in generale reclamino un approccio più coraggioso e radicale. Nella speranza di attenuare il rigore imposto dalla Germania, Hollande ha pure momentaneamente abbandonato il tradizionale asse franco-tedesco per puntare su un insolito triangolo, avente Madrid e Roma quali altri vertici, che comunque si presenta con scarsi spazi di manovra. La marginalità del ruolo francese in Europa e i giochi al ribasso del suo presidente rischiano inoltre di rivelarsi controproducenti per la difesa della moneta unica, oggi più minacciata che mai dall’ascesa degli euroscettici, dalle mire isolazioniste del Regno Unito e dalla sempre più consolidata divisione tra paesi del nord e paesi del sud.
Oltreoceano Parigi mantiene i consueti rapporti con gli Stati Uniti, ancora più forti in seguito al reintegro della potenza francese nel comando congiunto della Nato (dopo l’uscita voluta da Charles de Gaulle nel 1966) e alla linea politica adottata durante la presidenza di Nicolas Sarkozy. Negli ultimi anni però l’attenzione si è spinta anche verso l’estremo Oriente, focalizzandosi sempre più sul continente oggi al cuore dell’economia mondiale e al centro delle più significative tensioni geopolitiche. Basta considerare che tra il maggio 2012 e il novembre 2013 hanno avuto luogo in Asia ben 33 visite di stato francesi, contro le 13 registratesi in totale nel biennio precedente. La Francia sta espandendo il proprio raggio di azione verso Oriente, nel tentativo di migliorare la propria bilancia commerciale e di accaparrarsi una quota degli investimenti cinesi diretti in Europa e contesi tra diverse potenze, Germania e Regno Unito in prima fila. Tuttavia, in misura maggiore di quanto stia facendo Berlino, la diplomazia francese ha rafforzato la cooperazione con i paesi asiatici anche in materia di sicurezza, in particolare con il Giappone. Persino la vendita di armi alla regione è aumentata notevolmente, rischiando gravi implicazioni economiche e politiche. Come altri paesi europei, la Francia ha comunque evitato di prendere posizione circa le tante questioni territoriali aperte che riguardano la regione asiatica ma, a differenza di altri stati membri dell’Eu, si ritrova sempre più legata alle sorti di alcuni dei suoi principali protagonisti.
La Francia è una repubblica costituzionale, a regime parlamentare semipresidenziale (con forti poteri in mano al Presidente della Repubblica) e, in seguito alla riforma costituzionale del 2003, a organizzazione decentrata. L’organo legislativo è costituito da un parlamento bicamerale: accanto all’Assemblea nazionale (577 membri eletti per cinque anni), vi è il Senato, formato da 321 membri nominati su base territoriale e in carica per nove anni, rinnovati dei due terzi ogni tre anni. All’epoca del settennato, le elezioni legislative si tenevano separatamente da quelle presidenziali e, quindi, poteva accadere che la maggioranza parlamentare non fosse espressione del partito del presidente. In questi casi si aveva la cosiddetta ‘coabitazione’: il presidente, per mantenere la fiducia in parlamento, era costretto a nominare un primo ministro della parte politica opposta. Questo è avvenuto tre volte: tra il 1986 e il 1988, tra 1993 e il 1995 e tra il 1997 e il 2002.
A partire dalla presidenza di Charles De Gaulle, nel sistema di governo francese il capo dello Stato ha assunto un ruolo ben più rilevante di quello attribuito dalla carta costituzionale. Più in dettaglio, quando la maggioranza presidenziale e quella dell’Assemblea nazionale (l’unica camera nei confronti della quale l’esecutivo è responsabile) coincidono, il presidente assume, di fatto, il ruolo di vera e propria guida del governo e il primo ministro si trasforma nel suo principale collaboratore (nonostante nella storia della Quinta repubblica non siano mancate tensioni tra presidenti e primi ministri). Il presidente, in altri termini, si ‘impossessa’ dell’esecutivo, dotato dalla Costituzione del 1958 di notevoli poteri in materia d’iniziativa e di dibattito legislativi e ulteriormente rafforzato dall’affermazione della logica maggioritaria.
L’adozione per l’Assemblea nazionale di un sistema elettorale maggioritario a doppio turno con soglia di sbarramento (pari oggi al 12,5% degli aventi diritto al voto) e l’elezione presidenziale a suffragio universale a doppio turno con ballottaggio hanno condotto alla bipolarizzazione del sistema partitico e, dunque, alla formazione di solide e coese maggioranze parlamentari. Il fatto che la bipolarizzazione abbia preso forma soprattutto attorno ai due candidati alla presidenza presenti al secondo turno dell’elezione presidenziale ha favorito la sovrapposizione tra maggioranze presidenziali e maggioranze parlamentari e l’assunzione, da parte del presidente, del ruolo di leader effettivo anche delle seconde. La leadership di fatto della maggioranza parlamentare ha dunque consentito al presidente di estendere il suo controllo sull’esecutivo responsabile verso quella stessa maggioranza.
Durante le fasi di coabitazione, invece, il presidente era costretto ad arretrare e il primo ministro si riappropriava del ruolo di guida del governo riconosciutogli dalla Costituzione. La centralità del presidente è stata rafforzata dalla riforma della Costituzione introdotta nel 2000 e divenuta operativa per la prima volta nel 2002, quando le elezioni presidenziali e legislative coincisero. Con quella riforma, il mandato presidenziale è stato ridotto a cinque anni, la stessa durata dell’Assemblea nazionale. La coincidenza dei due mandati (ora altamente probabile) ha reso la maggioranza parlamentare (dal momento che le elezioni presidenziali precedono in ordine di tempo quelle legislative) ancora più dipendente dalla figura del presidente, la cui elezione ha un effetto di trascinamento sulle consultazioni per l’Assemblea nazionale.
Un’altra revisione della Costituzione è stata approvata nel luglio 2008 su iniziativa di Nicolas Sarkozy. Il processo di riforma aveva come obiettivi, da un lato, quello di fornire un riconoscimento costituzionale, almeno parziale, alle effettive relazioni tra presidente, primo ministro e membri del governo e legislativo; dall’altro, quello di rivalutare il ruolo di quest’ultimo (pur sempre mantenendosi in una prospettiva maggioritaria, ove l’esecutivo mantiene la preminenza sul legislativo).
Il primo obiettivo, in realtà, non è stato raggiunto. È mancata infatti una razionalizzazione esplicita dei rapporti tra il presidente e le altre istituzioni, fatta eccezione per la possibilità per il presidente di presentare ogni anno il proprio programma alle camere riunite in un discorso al quale segue un dibattito senza voto e in assenza del presidente. In più, i pochi limiti posti all’esercizio del potere presidenziale riguardano non tanto il ruolo di leader della maggioranza e reale guida del governo, quanto quello di capo dello stato (va segnalata la limitazione dei mandati presidenziali a due). Risultati più significativi, invece, sono stati raggiunti in relazione al ruolo e all’operatività del parlamento. Questo è stato dotato di strumenti che dovrebbero consentire con più efficacia di contribuire alla scrittura delle leggi e di esercitare la funzione di controllo; l’esecutivo, a sua volta, ha visto una relativa attenuazione delle sue possibilità d’intervento.
Nell’ultima tornata elettorale per le presidenziali del maggio del 2012, François Hollande, leader del Partito socialista, ha vinto con il 51,6% dei voti il ballottaggio contro Nicolas Sarkozy, presidente uscente ed esponente del partito neogollista Union pour un mouvement populaire (Ump). Le successive elezioni legislative del giugno 2012 hanno ulteriormente rafforzato tale risultato, conferendo alla coalizione di centro-sinistra una cospicua maggioranza parlamentare. Le misure impopolari che Hollande si è trovato costretto ad adottare per far fronte al cattivo stato di salute dell’economia francese e agli standard imposti dall’Europa hanno però provocato al neopresidente una netta perdita di consensi. L’ambizioso programma di stampo progressista promosso dal presidente in campagna elettorale, che doveva creare nuovi impieghi pubblici e ridurre l’età di pensionamento, non è stato realizzato, e la popolazione francese affronta un salato aumento delle tasse e della disoccupazione. Le misure volte a contenere il deficit di bilancio entro il 3% per rispondere alle condizioni dell’Eu, hanno inoltre provocato un mutamento nei sentimenti europeisti nutriti dalla popolazione francese. Nell’agosto del 2014 le discussioni interne al fronte di maggioranza sull’indirizzo di politica economica della Francia, hanno portato alle dimissioni del primo ministro Manuel Valls. Nonostante queste siano rientrate, vi è stato un rimpasto di governo, sintomo di una situazione politica sempre più difficile.
Il malumore è degenerato in un’avversione tale da compromettere il consenso al presidente in carica e rafforzare il partito della destra sociale fattosi portavoce dell’antieuropeismo, il Fronte nazionale, e affermatosi come primo partito del paese alle elezioni europee del maggio 2014.
La Francia è, dopo la Germania, il paese demograficamente più rilevante dell’Unione Europea (Eu), con un tasso di crescita demografica (0,5%) al di sotto della media mondiale (1,1%), ma comunque più alto della maggior parte dei paesi europei.
La lenta ma costante crescita demografica francese è dovuta sia a un tasso di fecondità notevole (poco più di due figli per donna), sostenuto da politiche sociali volte al sostegno della famiglia, sia a ingenti flussi migratori. Dalle ex colonie nel Sud-Est asiatico e nell’Africa settentrionale è giunta in Francia negli anni Sessanta una massiccia ondata di immigrati, in particolar modo provenienti da Algeria, Marocco, Tunisia e Vietnam. Un fenomeno di rilievo a partire dal 1962, anno dell’indipendenza dell’ex colonia algerina, è stato il rimpatrio dei cosiddetti ‘Pieds Noirs’, i francesi nati in Algeria. L’acquisizione della cittadinanza, compiuti i 18 anni, da parte di persone nate nel territorio francese da genitori non francesi è stata resa automatica nel 1997 grazie alla legge sulla nazionalità. Ciò non ha però sciolto le tensioni legate soprattutto alla scarsa integrazione di queste comunità nel sistema socioeconomico francese. Tali problemi, soprattutto dopo l’11 settembre 2001 e gli attentati di Parigi del gennaio 2015, riguardano in particolare la comunità musulmana francese, la più numerosa d’Europa, che rappresenta il 10% circa della popolazione. Il disagio degli abitanti di alcuni quartieri periferici dei centri urbani, in gran parte di origine africana, è più volte sfociato in atti di violenza e guerriglia contro le forze dell’ordine. L’approccio dell’ex presidente Sarkozy, che legava strettamente sicurezza e immigrazione, lo ha posto talvolta in contrasto con l’Eu: è il caso delle espulsioni della minoranza Rom nel 2010. Per quanto riguarda la coabitazione interna, l’attenzione del dibattito pubblico francese ed europeo è stata attratta recentemente dai sentimenti di manifesta avversione nei confronti della comunità ebraica da parte di gruppi di giovani francesi.
Il sistema di protezione sociale francese è fondato sul principio di solidarietà nazionale e su un approccio universalistico al welfare. Nella pratica, tale approccio si traduce nell’allocazione di una quota consistente della spesa pubblica alle misure di protezione sociale, che fungono così da ammortizzatore sociale e comprendono politiche di sostegno alla maternità, pensioni e sussidi di disoccupazione. La Francia è infatti tra i primi paesi al mondo per rapporto tra risorse destinate al welfare e pil, ma una tale scelta economica si mostra insostenibile in anni di crisi: da qui il disagio del popolo francese nei confronti delle misure di contrazione della spesa pubblica che i governi degli ultimi anni si sono visti costretti ad adottare. La totalità della popolazione francese è assicurata tramite un regime di base (Régime général o Régimes spéciaux). Nell’ultimo decennio, la Francia ha speso circa l’11% del pil per la sanità, una cifra oggi drasticamente ridottasi attorno al 2%. Il sistema scolastico francese si basa sul principio, sancito dalla Costituzione del 1958, che l’insegnamento pubblico obbligatorio e laico a tutti i livelli è un dovere dello stato. Per quanto concerne l’ambito universitario, due istituti d’istruzione superiore rientrano nella classifica stilata dall’Osservatorio internazionale sull’eccellenza e il posizionamento accademico (Ireg): l’École Normale Supérieure de Paris, situata al 33° posto, e l’École Polytechnique, al 36° posto.
La Francia è la patria della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, precorritrice di successivi strumenti giuridici a tutela dei diritti umani, e del motto ‘libertà, uguaglianza, fratellanza’.
Dopo la riforma costituzionale del 2008 che ha istituzionalizzato la parità di genere, sociale ed economica, nel maggio 2013 la Francia si è distinta per un’altra conquista sul fronte delle libertà civili: con un emendamento all’articolo 143 del Codice civile il parlamento francese ha riconosciuto e legalizzato i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Le disposizioni che ne derivano, come l’età degli sposi o alcuni impedimenti, rimangono gli stessi della precedente legislazione.
Per quanto riguarda la situazione delle donne, nell’ambito lavorativo risulta che, a parità di mansioni, guadagnino in media ancora il 25% in meno degli uomini. Sono previste ‘quote rosa’ in alcune consultazioni elettorali, tra cui quelle europee, per effetto di una legge varata nel 1999, ma alle elezioni parlamentari del 2012 solo il 27% dei seggi sono stati conquistati da donne. Di fatto rimangono sottorappresentate nelle posizioni dirigenziali pubbliche e private.
La disuguaglianza economico-sociale appare invece in diminuzione in Francia, che si presenta come uno dei pochi paesi sviluppati nei quali il rapporto tra la fascia più ricca e quella più povera della popolazione è andato riducendosi nell’ultimo trentennio.
I media sono liberi e rappresentano un’ampia gamma di opinioni politiche. La maggior parte degli oltre cento quotidiani francesi sono di proprietà di privati: alcuni hanno forti legami con esponenti politici di rilievo. Come avvenuto altrove in Europa, l’introduzione di misure anti-terrorismo ha comportato negli ultimi anni una parziale restrizione di alcune libertà. In particolare, nel 2006 è stata adottata una legge che prevede che i sospettati di terrorismo trattenuti dalla polizia abbiano diritto a un avvocato soltanto dopo 72 ore; in più la loro facoltà di rimanere in silenzio durante un eventuale interrogatorio non è esplicitamente riconosciuta dal Codice di procedura penale. Inoltre, il Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite ha espresso preoccupazione circa l’uso di lunghe carcerazioni preventive – fino a quattro anni e otto mesi – in caso di terrorismo e crimine organizzato. La legislazione permette anche di sorvegliare luoghi specifici come le moschee.
L’accesso alla rete è libero e nel 2012 gli utenti Internet costituivano quasi l’80% della popolazione. La legge antiterrorismo permette però di controllare l’accesso di sospetti terroristi. Inoltre dal 2009 è entrata in vigore una legge per la diffusione delle opere dell’ingegno e la tutela dei diritti su Internet che prevede la possibilità di sospendere la connessione – per un massimo di un anno, senza un’ordinanza di un giudice – agli utenti che scarichino illegalmente musica o altri materiali protetti da diritto d’autore.
Con un pil che supera i 2 mila miliardi di euro, la Francia è la quinta economia mondiale e la seconda in Europa dopo la Germania. Benché il governo abbia avviato dagli anni Ottanta una parziale o completa privatizzazione che ha coinvolto molte aziende (tra cui Air France, France Telecom, Renault e Thales), il sistema economico prevede una presenza massiccia dello stato. Il governo controlla settori chiave: energia, trasporto pubblico e industrie della difesa. I leader francesi, adoperando leggi, politiche fiscali e un sistema di welfare che privilegia l’equità sociale, si sono quasi sempre ispirati a un modello di capitalismo in cui siano ridotti la disparità di reddito e l’impatto del libero mercato, in materia soprattutto di salute pubblica e benessere. La crisi economica, manifestatasi in un nuovo periodo di stagnazione nel primo quadrimestre del 2014 e in un tasso di disoccupazione pari all’11%, ha ulteriormente rafforzato l’intervento pubblico.
Il settore primario rappresenta meno del 2% del pil, ma ha una forte rilevanza politica. La Francia rimane il maggiore produttore agricolo dell’Eu, in un contesto in cui il settore agricolo ha perso drasticamente la sua centralità. Lo stato ha sempre esercitato grande influenza nella definizione della politica agricola comune dell’Unione Europea (Cap) e ne è stata storicamente la prima beneficiaria (nel 2013, per esempio, ha ricevuto circa 10 miliardi di euro – equivalenti al 20% del totale dei fondi Cap). Da tempo in Europa si discute della necessità di riformare questo strumento, elaborando una riforma in grado di promuovere la modernizzazione del sistema agricolo e diminuire i sussidi agli agricoltori. In questo contesto, la Francia mira a mantenere intatti i sussidi esistenti, posponendo ogni tentativo di autentica riforma. Proprio questa necessità di sostenere la Cap rende la Francia, assieme al resto dell’Eu, oggetto di critiche da parte dei paesi meno sviluppati, che denunciano gli effetti distorsivi della Cap sui mercati agricoli internazionali. A fronte di tali implicazioni, la portata della cooperazione francese ed europea allo sviluppo ne esce fortemente ridimensionata. A rappresentare un’importanza notevole è il settore terziario. Con almeno 80 milioni di turisti stranieri all’anno, la Francia è il paese più visitato al mondo: il turismo rappresenta la terza maggiore voce del reddito dell’economia nazionale.
Sul piano commerciale la Francia è un attore di primo piano, poiché è il sesto esportatore mondiale. Tuttavia, il paese registra un forte deficit commerciale strutturale. Il peso delle importazioni continua a superare quello delle esportazioni a causa dei prezzi più competitivi delle merci importate rispetto a quelle prodotte a livello nazionale. In aggiunta a questo e nonostante gli sforzi del governo per favorire l’innovazione, le esportazioni francesi presentano un valore aggiunto ancora relativamente basso e nel 2013 la quota di beni esportati ha subito un preoccupante calo, soprattutto nel settore automobilistico. Di contro però, le esportazioni di prodotti agricoli (soprattutto cereali) sono aumentate e le importazioni di risorse energetiche sono diminuite.
Il principale partner commerciale della Francia è la Germania e tra i prodotti più esportati nel mondo figurano quelli alimentari, aerei Airbus, autoveicoli e attrezzature militari. Sebbene intrattenga i suoi rapporti commerciali principalmente entro l’Unione Europea, Parigi sta coltivando un proprio terreno d’affari anche nella regione asiatica, nel tentativo di fermare il declino dei dati commerciali. La bilancia commerciale con l’Asia è infatti migliorata e la Francia presenta attualmente un surplus con l’Australia, la Corea del Sud, la Malesia, Hong Kong e Singapore. Anche le vendite in Giappone sono aumentate tra il 2009 e il 2012, così come le esportazioni verso l’India. Con quest’ultima i risultati economici sono in parte condizionati da un importante accordo che prevede la vendita a New Delhi di 125 aerei da combattimento Rafale valutati 8 miliardi di euro. La spinta per la conclusione dell’affare con l’India e la mobilitazione top-down con la Cina riflette la tradizione francese di guidare politicamente i grandi accordi economici. Durante la visita in Francia del presidente cinese Xi Jinping, nell’aprile 2014, per esempio, sono stati stipulati negoziati per un valore di 18 miliardi di euro, che includono il trasferimento di mille elicotteri civili nel corso dei prossimi anni.
La volontà di incrementare i rapporti bilaterali con i paesi asiatici potrebbe da un lato migliorare la situazione economica del paese, ma dall’altro rischia di danneggiare la linea sempre sostenuta da Parigi circa la necessità di adottare un approccio unico a livello comunitario rispetto alle politiche commerciali e di investimento.
L’industria dell’energia rappresenta il 2,1% del valore aggiunto, il 25% degli investimenti industriali e il 2,8% degli investimenti totali. Il panorama energetico francese è tradizionalmente dominato dall’industria nucleare, che conta 19 centrali e un totale di 58 reattori attivi. La produzione elettronucleare transalpina è seconda solo a quella statunitense e fornisce il 79% dell’elettricità prodotta in Francia, nonché quasi il 45% del mix energetico francese. La produzione nucleare rende inoltre la Francia il primo esportatore di elettricità dell’Eu, per un controvalore annuo di 2,6 miliardi di euro. Belgio, Germania, Italia, Spagna, Svizzera e Regno Unito sono i suoi maggiori partner. Allo stesso tempo, la Francia rimane un paese importatore di idrocarburi, soprattutto petrolio (circa 1,7 milioni di barili al giorno), proveniente in gran parte dai paesi dell’ex Unione Sovietica, dall’Arabia Saudita e dalla Norvegia.
La Francia è largamente dipendente anche per l’approvvigionamento di gas naturale, importato soprattutto da Norvegia, Paesi Bassi, Russia e Algeria. Nonostante le potenzialità, la produzione interna di gas da giacimenti non convenzionali è al momento bloccata per preoccupazioni relative all’impatto ambientale. Il mercato dell’energia francese è solo parzialmente liberalizzato, come dimostrano i richiami dell’Unione Europea e dell’Agenzia internazionale dell’energia (Iea), e ancora dominato da campioni nazionali (Edf, Gdf Suez) a controllo statale.
Benché quasi la metà della domanda di energia venga ancora soddisfatta dal petrolio, il livello di emissioni di CO2 pro capite derivanti dall’utilizzo di elettricità è diminuito, grazie allo sviluppo del nucleare e dell’energia idroelettrica (pari all’1,5% del mix energetico nazionale), tradizionalmente la principale fonte rinnovabile francese, che sfrutta gli invasi montani delle Alpi e dei Pirenei. La Francia è ottava nella classifica dei paesi con minori livelli di emissioni in Europa e sesta nella classifica internazionale della performance ambientale. Il governo ha avviato inoltre un ambizioso programma ambientale, denominato ‘Grenelle de l’environnement’, e ha recentemente adottato alcune leggi volte ad aumentare il risparmio energetico e la percentuale di energia rinnovabile.
La Francia è una potenza nucleare e possiede circa 300 testate atomiche. Sebbene Parigi inizialmente non abbia firmato il Trattato sulla messa al bando totale degli esperimenti nucleari (Comprehensive Test Ban Treaty), lo ha ratificato nel 1996 e ha firmato il Trattato di non proliferazione nucleare (Npt), ratificandolo nel 1992. All’interno dell’Eu, è una sostenitrice convinta dello sviluppo della Politica europea di sicurezza e difesa comune (Esdp), progetto all’interno del quale si sono svolte le prime missioni di peacekeeping dell’Unione, come quelle nei Balcani, nella Repubblica Democratica del Congo, nel teatro caucasico e in quello mediorientale. L’aumento dell’influenza francese nel continente africano e nell’area del Medio Oriente è testimoniato proprio dalla partecipazione alle più importanti missioni. In Africa, la Francia partecipa, tra le altre, all’Opération Licorne in Costa d’Avorio (dove ci sono ancora 450 militari) e a Minurcat (Missione delle Nazioni Unite nella Repubblica Centrafricana e in Ciad); in Afghanistan contribuisce alla missione Isaf della Nato (con 1400 soldati dispiegati) e in Libano alla missione delle Nazioni Unite, Unifil II. L’Opération Licorne, ora sotto l’egida delle Nazioni Unite e rinominata Unoci (Missione Un in Costa d’Avorio), ha una rilevanza particolare rispetto alle altre, in quanto nel 2002 la Francia ha dato il via a tale missione in maniera autonoma, senza l’intervento delle Nazioni Unite, arrivate solo in un secondo momento; ciò a testimonianza di quanto siano importanti gli interessi francesi in quell’area. Importanza riemersa durante la crisi della Costa d’Avorio del 2010-11, a seguito delle contestate elezioni presidenziali, in cui l’esercito francese ha avuto un ruolo di primaria importanza per la cattura e la destituzione dell’ex presidente Laurent Gbagbo. Analogamente, la Francia ha assunto la leadership delle operazioni militari contro il regime libico di Muammar Gheddafi a fine marzo 2011, poi passate sotto comando Nato, dopo che – su iniziativa della stessa Francia – le Nazioni Unite (attraverso la risoluzione 1973 del Consiglio di sicurezza) avevano autorizzato l’intervento aereo. L’autorizzazione era giustificata dalla protezione della popolazione civile.
La Francia ha inoltre una serie di basi militari all’estero, soprattutto nei territori delle ex colonie come Costa d’Avorio, Ciad, Gabon, Senegal e Gibuti, e ha inaugurato da poco una base militare negli Emirati Arabi Uniti (Uae). Le relazioni con il Medio Oriente e l’Africa si estendono anche alla cooperazione al settore della difesa. Il principale mercato di esportazione dell’industria francese della difesa sono proprio gli Emirati Arabi Uniti (al primo posto) e rilevanti sono le esportazioni verso Arabia Saudita, Marocco, Libia, Egitto e Israele. La Francia coopera intensamente in materia di sicurezza con i paesi della sponda sud del Mediterraneo in un’ottica di stabilizzazione politica, sia per contenere la minaccia terrorista, sia per limitare i flussi migratori. In tale prospettiva, per fermare l’espansione di gruppi jihadisti come Aqim, Ansar al-Din e Mujao in seguito alla crisi nel nord del Mali, nell’ottobre del 2012 Parigi si è fatta promotrice di una risoluzione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha autorizzato l’intervento di una forza multinazionale africana. Di fronte all’aggravarsi della situazione, la Francia è tuttavia intervenuta unilateralmente a fianco dell’esercito maliano per bloccare l’offensiva dei gruppi terroristici, contemporaneamente all’arrivo nel paese dei primi soldati della Misma, Mission Internationale de Soutien au Mali, sotto l’egida della Ecowas. Nel quadro dell’Operation Serval, integrata in seguito nella Minusma (la Missione delle Nazioni Unite in Mali), 5000 soldati, affiancati dalle forze aeree, hanno combattuto nelle zone attorno alle principali città tuareg a Gao, Kidal e Timbuctù, respingendo i jihadisti oltre confine. In seguito alla stabilizzazione del Mali, che aveva permesso a Hollande di visitare il paese nel febbraio 2013, e al buon svolgimento delle elezioni presidenziali, il contingente francese avrebbe dovuto essere ridotto, ma la recrudescenza di attentati nel nord del paese, l’uccisione di due giornalisti francesi e, in generale, la diffusione della presenza jihadista ha indotto Parigi a prorogare i termini della missione, rimodulando i contingenti in Africa in un nuovo dispositivo di sicurezza. Serval e Epervier cessano di esistere per fondersi in un’unica missione di counter-terrorism nel Sahel dal nome Barkhane.
Tra il 7 e il 9 gennaio 2015, Parigi è stata sconvolta da tre attentati che hanno messo duramente alla prova i dispositivi di sicurezza nazionale francese. Il 7 gennaio un gruppo di almeno tre persone, armate di fucili Ak47 e Ak74, ha condotto un attacco alla sede parigina del settimanale satirico Charlie Hebdo, uccidendo dodici persone e ferendone venti. Le operazioni immediatamente condotte dalle forze speciali francesi in tutta l’Île-de-France e nelle sue immediate vicinanze hanno portato all’individuazione dei due presunti autori, Saïd e Chérif Kouachi, due fratelli franco-algerini sospettati di avere collegamenti con la galassia jihadista. Mentre il terzo soggetto sospettato, il diciottenne Hamid Mourad, si è costituito alla polizia di frontiera, al confi ne con il Belgio, i due uomini autori della strage sono riusciti a fuggire in auto e ad asserragliarsi in una tipografi a a Dammartin-en-Goële, nella periferia nord-orientale di Parigi. L’8 gennaio un’altra sparatoria avvenuta nei sobborghi meridionali di Parigi, a Montrouge, ha provocato la morte di una poliziotta e il ferimento di un altro agente. L’attentatore era Amedy Coulibaly, un uomo di origini maliane in passato arrestato dalla polizia anti-terrorismo. Dopo essere riuscito a fuggire, Coulibaly si è reso responsabile il 9 gennaio di un’irruzione in un supermercato kosher a Porte de Vincennes, alla periferia orientale della capitale, prendendo in ostaggio sei persone (quattro delle quali uccise nell’attacco). Nelle ore successive, un doppio blitz coordinato in simultanea dal Groupe d’Intervention de la Gendarmerie Nationale (GiGN) al market ebraico e alla tipografi a di Dammartin-en- Goële ha portato all’uccisione di tutti e tre i sospetti terroristi.
Da quando si è insediato al potere, nel maggio 2012, François Hollande ha visto diminuire progressivamente la fi ducia riposta in lui dai francesi fi no a raggiungere, nell’aprile 2014, un tasso di gradimento pari solo al 18% che lo rende il presidente francese più impopolare della storia dal 1958. Un tale risultato non può essere slegato dal malcontento legato ai danni della crisi economica e alle misure di austerity adottate dal governo per contrastarla. Con Hollande crolla il favore popolare nei confronti dell’intero Partito socialista, il quale alle elezioni amministrative tenutesi tra il 23 e il 30 marzo 2014 ha perso il controllo su ben 151 comuni aventi una popolazione superiore a 10.000 abitanti. Alla gravità del risultato il presidente ha cercato di rispondere tempestivamente ponendo alla guida del suo governo una nuova fi gura politica, più vicina a posizioni centriste, Manuel Valls. In ambito strettamente economico, invece, ha scommesso tutto sul ‘Patto di responsabilità e solidarietà’ che mira a tagliare il costo del lavoro e ad aumentare la competitività delle imprese. Inoltre, al fi ne di raggiungere un deficit fi scale pari al 3% entro il 2017, il nuovo primo ministro ha presentato un piano per risparmiare 50 miliardi di euro nel prossimo triennio, basato principalmente sul congelamento ai livelli attuali di salari, benefi ci e pensioni per i dipendenti pubblici. L’utilità di un tale piano per il rilancio dell’economia del paese e il riassestamento del defi cit è ancora dubbia, mentre è certa la sua ineffi cacia nel risollevare l’approvazione popolare nei confronti dell’amministrazione vigente (migliaia di dipendenti statali hanno protestato nelle piazze di Parigi dopo la sua presentazione) e nel consolidare l’unità del partito.
L’attacco di Israele a Gaza dell’estate 2014 ha comportato, come accade ormai da dieci anni a questa parte, una nuova eruzione di violenze contro le comunità ebraiche stanziate in Europa occidentale e, in modo particolare in Francia, evocando timori di insorgenza di sentimenti antisemiti nella popolazione. Proprio come accadde durante i conflitti del 2004, del 2008-09 e del 2012, la grande asimmetria di vittime tra israeliani e palestinesi ha spinto molti giovani francesi a ‘invocare giustizia’ perpetuando attacchi casuali contro comunità ebraiche locali.
Mentre gli israeliani occupavano Gaza, gruppi di francesi assaltavano sinagoghe, saccheggiavano aziende di proprietà ebraica e negozi di alimenti kosher e aggredivano verbalmente e fisicamente singoli ebrei, spesso anche durante manifestazioni pro-palestinesi a cui si univano compagini politiche estremiste e semplici teppisti.
Anche in Belgio, Italia, Olanda, Ungheria e Svezia, proteste mirate a contestare l’offensiva militare di Israele hanno finito presto per trasformarsi in aperti attacchi agli ebrei in generale. L’ondata di antisemitismo ha raggiunto persino l’Australia, dove otto uomini hanno assalito un autobus pieno di bambini della scuola ebraica di Sydney, al grido di ‘Uccidete gli ebrei’ e ‘Heil Hitler’. Ma quelli avvenuti durante le operazioni militari a Gaza non sono gli unici episodi di antisemitismo verificatisi in Europa. Nel mese di maggio 2014, alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo che avrebbero decretato il trionfo dei partiti di estrema destra in Francia, Grecia, Ungheria e Germania, un museo ebraico di Bruxelles divenne teatro di un attentato che ha provocato quattro vittime e il cui responsabile è stato un giovane francese di 29 anni.
I fattori che determinano oggi la diffusione in Europa di sentimenti ostili nei confronti degli ebrei sono profondamente diversi da quelli che imperversavano negli anni Trenta e Quaranta. Secondo gli analisti, l’antisemitismo in Francia è covato soprattutto dai militanti di movimenti politici estremisti di destra e di sinistra che, sfruttando la rabbia dei giovani musulmani francesi per la sorte dei palestinesi sotto assedio israeliano, scagliano la più grande comunità islamica d’Europa (circa 5 milioni di persone), contro la terza più grande comunità ebraica del mondo, che conta circa 500.000 componenti. L’ondata di episodi di antisemitismo in Francia ha anche acceso una polemica circa la necessità di cambiare il nome di un antico paesino nella regione di Orleans, chiamato fin da epoca medievale ‘La Mort aux Juifs’ (Morte agli ebrei).
La crisi economica si è tradotta in Francia in una contrazione del pil reale del 2,5%, un aumento del 4% nel tasso di disoccupazione tra il 2008 e il 2014, e un innalzamento sia del deficit di bilancio sia del debito pubblico, pari rispettivamente al 4,2% e al 90% del pil nel 2013. Il deterioramento della posizione fiscale della Francia è evidenziato anche dal downgrading del merito di credito francese operato dalle agenzie di rating per ben due volte in meno di due anni.
Se Sarkozy, durante il suo mandato, ha reagito a tale stato di cose implementando misure di austerity che contenessero il deficit entro il tetto del 3% stabilito per la zona euro, Hollande mirava inizialmente ad attuare politiche economiche pro crescita. Di fronte però a un debito pubblico così alto e a un tasso di crescita che nel 2014 non ha raggiunto neppure l’1%, il presidente ha dovuto dare la priorità a misure impopolari di contenimento della spesa pubblica e a severe imposizioni fiscali. Le attuali politiche economiche non sono considerate sostenibili da parte di alcuni economisti che pronosticano per la Francia – in assenza di riforme radicali – una grave crisi finanziaria. Il governo francese è stato più volte giudicato incapace di portare le misure necessarie per far fronte alle deficienze economiche. Vale a dire: riduzione della spesa (la più grande in Europa rispetto al pil), introduzione di iniziative per sbloccare il potenziale di crescita, consolidamento del bilancio. La risposta data da Hollande a queste esigenze finora è stata soprattutto l’innalzamento (reiterato più volte) del cuneo fiscale, che supera già di molto i livelli medi europei. Un altro ostacolo alla crescita è un mercato del lavoro ancora troppo rigido, nonostante sia stato alleggerito dalla riforma del 2013. La vera spina nel fianco del governo di François Hollande comunque è la disoccupazione (quella giovanile ha raggiunto quasi il 24%), che indebolisce il sostegno per ulteriori misure rilevanti di politica fiscale e strutturale. Per provare a rilanciare l’occupazione, il governo ha emesso a inizio anno 2014 un provvedimento chiamato ‘Patto di responsabilità e solidarietà’, che stabilisce l’assegnazione di venti miliardi di euro in forma di agevolazioni fiscali alle aziende e lo sgravo degli oneri dei datori di lavoro sugli assegni familiari dei dipendenti per un totale di circa dieci miliardi di euro. I risultati di tale piano determinano la credibilità dell’amministrazione Hollande, che aveva fatto della lotta alla disoccupazione il cavallo di battaglia della campagna elettorale.
Il Fronte nazionale è nato nell’ottobre del 1972 come unione di diversi gruppi e personalità della destra estrema e radicale francese, e fin dagli inizi Jean-Marie Le Pen ne è stato il leader indiscusso. Dopo un decennio di irrilevanza politica, l’inversione di tendenza si è avuta negli anni Ottanta, grazie all’emergere dell’immigrazione come tema politicamente rilevante e alla convergenza programmatica tra le principali forze partitiche del paese. Nella stabilizzazione elettorale del Fronte nazionale un ruolo decisivo è stato svolto dal temporaneo passaggio ad un sistema proporzionale nel 1986, che gli ha consentito di ottenere il 9,8% dei voti e 35 seggi in parlamento. Il partito è riuscito a consolidare la propria rilevanza politica nonostante la natura fortemente distorcente del sistema elettorale maggioritario a doppio turno, reintrodotto nel 1988, anche se il suo peso specifico ha finito per influenzare quasi esclusivamente le dinamiche di competizione elettorale e non i processi decisionali stricto sensu. Tra gli anni Novanta e il 2007 la performance elettorale del Fronte nazionale è sempre stata ben al di sopra della doppia cifra, ad eccezione del 2007, e alle presidenziali del 2002 Le Pen è riuscito ad accedere al ballottaggio sfidando Chirac.
Le ragioni del successo del Fronte nazionale sono da rintracciare nella sua offerta ideologica, che gli ha consentito di ricavarsi una nicchia significativa nel mercato politico francese, ma la sua persistenza nel lungo periodo non sarebbe stata possibile senza una solida struttura organizzativa e senza le capacità di imprenditore politico del fondatore. Il partito ha certamente beneficiato dell’enfasi competitiva sul tema dell’immigrazione, ma interpretarne il successo in chiave monotematica appare certamente riduttivo. Il Fronte nazionale ha progressivamente ampliato la propria piattaforma politica, e mutato le proprie preferenze in materia economica tra gli anni Ottanta e gli anni Novanta, spostandosi dal laissez-faire al protezionismo di stato. Il passaggio a quest’ultimo è stato accompagnato anche da un riposizionamento riguardo al processo di integrazione europea, che ha reso il Fronte nazionale una delle punte di diamante del panorama euroscettico del vecchio continente.
Il passaggio della leadership del partito nelle mani di Marine Le Pen nel 2011 ha rappresentato una svolta per le prospettive elettorali del Fronte nazionale. La nuova leader ha accelerato un pluridecennale processo di riposizionamento ideologico che ne ha ampliato l’offerta politica, passando per una maggior enfasi sulla critica alla globalizzazione e la sconfessione di alcune posizioni controverse assunte dal padre. Nel 2011 il ‘nuovo’ Fronte nazionale ha ottenuto il miglior risultato della sua storia alle consultazioni locali (15,1 %), mentre alle presidenziali del 2012 Marine Le Pen ha raccolto ben il 17,9% delle preferenze al primo turno (+7,5 rispetto al 2007), superando anche la miglior performance del predecessore registrata nel 2002. Marine Le Pen è stata abile nel compiere i primi passi verso una de-demonizzazione del partito, al punto che un numero crescente di elettori ha iniziato a percepire ‘credibile’ il Fronte nazionale anche su temi diversi dall’immigrazione, quali l’economia e l’Unione Europea. In particolare, la nuova leader è riuscita ad allargarne la base elettorale che, sebbene resti ideologicamente e sociologicamente simile a quella del padre, ha registrato una maggior propensione al voto da parte delle donne.
Le potenzialità di espansione elettorale del ‘nuovo’ Fronte nazionale si sono rese ben visibili in occasione delle elezioni europee del 2014. Il partito è passato dal 6,3% del 2009 al 24,9% del 2014, e ha rafforzato il consenso nelle proprie roccaforti elettorali, oltre ad espandersi nelle zone tradizionalmente ostili, raccogliendo inoltre suffragi da tutte le coorti d’età e in particolare da operai e impiegati. La presenza di un leadership carismatica, una strutturata macchina partitica, un programma politico di natura anti-sistemica di forte appeal per l’elettorato, e una base elettorale diversificata sono le principali risorse a disposizione del Fronte nazionale. Il partito appare fermamente consolidato nel sistema partitico francese, e l’attuale contesto di crisi economica caratterizzato dalla crescita del sentimento euroscettico e del discredito nei confronti dei partiti tradizionali sembrano destinati ad incrementarne ulteriormente il successo nel medio periodo. Per le prospettive future un ruolo determinante sarà svolto dalle risposte strategiche delle forze tradizionali della destra, che potrebbero scegliere di radicalizzare ulteriormente la propria retorica al fine di contenerne l’ascesa, contribuendone tuttavia alla progressiva legittimazione e uscita dall’isolamento politico che ha contraddistinto la storia del Fronte nazionale fin dalle origini.