FRANCIA
(A. T., 30-31, 32-33-34, 35-36).
Sommario. - Geografia: Formazione territoriale e situazione mondiale (p. 876); Rilievo (p. 877); Evoluzione geologica (p. 878); Coste (p. 881); Clima (p. 882); Acque continentali (p. 884); Vegetazione (p. 885); Fauna (p. 886); Caratteri etnici della popolazione (p. 887); Demografia (p. 888); Suddivisioni storiche e amministrative (p. 888); Densità e distribuzione della popolazione (p. 888); Habitat rurale (p. 891); Habitat urbano (p. 892); Migrazioni (p. 894). - Condizioni economiche: Prodotti del suolo (p. 895); Allevamento del bestiame (p. 897); Foreste (p. 898); Pesca (p. 898); Miniere e industrie (p. 898); Strade (p. 903); Ferrovie (p. 904); Vie d'acqua (p. 904); Marina mercantile (p. 905); Aviazione civile (p. 906); Commercio con l'estero (p. 906). - Dominî coloniali (p. 908). - Ordinamento dello stato: Ordinamento politico (p. 909); Ordinamento amministrativo (p. 909); Ordinamento giudiziario (p. 910); Culti (p. 910); Forze armate (p. 910); Ordinamento scolastico (p. 912); Finanze (p. 912). - Preistoria (p. 913). - Storia (p. 917). - Lingua e dialetti (p. 964). - Folklore (p. 971). - Arti figurative (p. 974). - Musica (p. 993). - Letteratura (p. 997). - Diritto (p. 1014).
Formazione territoriale e situazione mondiale. - Cesare indica come confini naturali della Gallia: i Pirenei, il Mediterraneo, le Alpi, il Reno e l'Atlantico; e questa concezione dei confini naturali della regione francese rimase poi sempre come tradizionale. I confini furono di molto allargati dall'impero di Carlomagno; invece, all'inizio della dinastia dei Capetingi (fine del sec. X), il dominio reale si ridusse press'a poco all'Isola di Francia, perché non oltrepassava Noyon al nord e Orléans al sud; più tardi si andò ampliando lentamente con continui progressi. Nel contempo si andava formando nell'O. un vasto stato anglo-normanno-angioino, il quale finì per incorporare anche l'Aquitania. Le vittorie di Filippo Augusto precipitarono il crollo della potenza inglese sul continente. Con l'Angiò e il Maine (1481), la Turenna, la Normandia (1450), il Poitou (1422) e la Saintonge, la Francia capetingia guadagnò una duplice fronte sul mare; e la crociata degli Albigesi le diede, con la Linguadoca (1271), una spiaggia sul Mediterraneo. La frontiera si spostò anche verso est, con la presa di possesso della Brie e della Champagne (1235), e penetrò fino al cuore delle Alpi, con l'acquisto del Delfinato (1349). La guerra dei Cento anni interruppe tale opera di consolidamento. Dopo le vittorie di Giovanna d'Arco e di Carlo VII, agl'Inglesi non restò più che Calais, che essi dovevano perdere un secolo più tardi. Luigi XI riprese la marcia verso E. e la sconfitta e la morte del potente duca di Borgogna Carlo il Temerario (1477) lo fecero padrone della Borgogna e della Piccardia, mentre, pochi anni dopo, l'eredità di Renato d'Angiò gli diede la Provenza. A ovest non restava fuori che la Bretagna, la quale divenne poi definitivamente francese sotto Luigi XII. Senonché il matrimonio dell'erede del Temerario con Massimiliano d'Austria, darà origine a una serie di guerre per oltre duecento anni tra il regno di Francia e l'impero, la quale si tradusse in oscillazioni della frontiera dalla parte delle Fiandre e delle marche orientali. Comunque, Francesco I riuscì a consolidare il blocco francese, con la confisca dei beni dei Borboni, che comprendevano una gran parte del Massiccio centrale (Borbonese, Alvernia, Forez e Rouergue), ed Enrico II acquistò i tre vescovati lorenesi. Alla morte di Enrico IV (1610), il quale con i suoi dominî (Béarn, Armagnac, Albret) aveva reso possibile l'estendersi della frontiera ai Pirenei, la Francia è, si può dire, costituita, comprendendo i 4/5 del territorio attuale. Tuttavia, essa è ancora lontana dai confini naturali a nord-est. Richelieu concepì il disegno di "confondre la Gaule avec la France et partout ou fut l'ancienne Gaule y retablir la nouvelle"; e l'attuò in parte con la conquista dell'Artois, dell'Alsazia e del Rossiglione (1648, 1659). Luigi XIV compì l'opera, togliendo definitivamente alla Spagna le Fiandre e la Franca Contea, mentre l'annessione di Strasburgo, nel 1681, "ferme la Gaule aux Germains".
Alla vigilia della rivoluzione del 1789, la Francia era presso a poco quale è oggi. Le conquiste napoleoniche diedero all'Impero Francese un'estensione anormale, non duratura; e l'Europa vittoriosa ridiede alla Francia le frontiere del 1789, riducendole anche qua e là: dalla parte del Belgio, il confine fu modificato con rientranze che costituivano un pericolo per la difesa; dalla parte della Lorena, fu data alla Prussia la Sarre con le sue miniere di carbon fossile. In seguito la Francia non ha mai chiesto altro che il rispetto alla frontiera del 1815. L'unico acquisto da essa fatto, è stato quello della Savoia e della Contea di Nizza, confermato da un plebiscito delle popolazioni, nel 1860. Alla perdita dell'Alsazia e di parte della Lorena, toltele dalla Germania dopo la guerra del 1870-71, ha posto riparo la vittoria del 1918.
La Francia occupa il più stretto degl'istmi europei, per il quale necessariamente devono passare le vie di traffico che vanno dai mari del Nord al Mediterraneo. Invero, mentre vi sono 1300 km. dal Baltico al Mar Nero per la Polonia e la Romania, e 1000 dal Mar del Nord all'Adriatico per la Germania, l'Austria e l'Italia, 800 km. soltanto separano Dunkerque da Marsiglia, e non ve ne sono più di 350 dalla foce della Gironda al litorale della Linguadoca. E i re di Francia, la cui potenza ebbe inizio, come si è detto, dal Bacino Parigino, dovettero a tale situazione se poterono conseguire ciò che per gl'imperatori tedeschi rimase sempre un sogno, la formazione d'uno stato con la fronte a un tempo sull'Oceano e sul Mediterraneo, e non solamente sull'Oceano Atlantico propriamente detto, ma anche su quei mari interni (Manica e Mare del Nord), a cui è derivata un'importanza straordinaria dai grandi centri industriali e commerciali sviluppatisi sulle loro coste.
Pertanto, la Francia è a un tempo un paese oceanico, semicontinentale e mediterraneo. Avendo per frontiera il Reno e occupando i Vosgi e il Giura, partecipa alla struttura e, fino a un certo punto, ai tipi di clima dell'Europa centrale; protendendo in mare le due penisole della Bretagna e del Cotentin, è battuta dalle tempeste dell'Oceano e presenta alcuni paesaggi, un clima e anche una popolazione affini a quelli della Cornovaglia, del Galles e dell'Irlanda; mentre a NE. del Passo di Calais essa vede cominciare il litorale basso, nebbioso, ma ricco, delle Fiandre; infine la Linguadoca e la Provenza, per una lunghezza di oltre 500 km., stendono in pieno sole in riva al Mediterraneo le loro pianure coperte di vigneti e le loro coste rocciose, il cui aspetto, a mano a mano che si procede verso est, si avvicina sempre più a quello delle coste italiane. Tale varietà, che risulta dalla posizione stessa della Francia ed è un elemento essenziale della sua fisionomia geografica, se reca i suoi vantaggi, reca pure i suoi inconvenienti.
Le frontiere della Francia sono frontiere naturali a NO. (coste del Mare del Nord e della Manica), a O. (coste dell'Oceano Atlantico), a S. (Pirenei e Mediterraneo) e a SE. (Alpi e Giura); ma a NE. a cominciare dal punto dove la frontiera lascia il Reno, per un tratto di oltre 500 km., non vi è più alcun accidente del suolo che ne segni il tracciato. Da questo lato, appunto, dal sec. XVIII la frontiera è andata soggetta alle maggiori variazioni; e gli stranieri invasori si sono sempre avanzati da questa parte, mirando alla capitale, che dista appena 400 km. dal Reno e 200 dal Belgio. È questa una delle zone più in pericolo del territorio francese, specie dopo lo sviluppo industriale, essendo il più grande bacino carbonifero (quello del dipartimento del Nord) e le più grandi miniere di ferro (quelle della Lorena) nelle immediate vicinanze della frontiera.
Entro tali confini, la Francia ha una superficie di 550.986 kmq. ed è uno dei più grandi stati europei, venendo prima della Germania e dell'Italia. Le sue dimensioni sono press'a poco eguali da N. a S. (9° di lat. e 973 km. in linea retta da Zuydcoote, 51° 5, a Prats-de Mollo, 42° 20′) e da O. a E. (930 km. dalla Punta di Corsen alla confluenza della Lauter e del Reno, il che corrisponde, vista la latitudine, a 13° di long. ossia a una differenza oraria di 52 minuti).
Rilievo. - I caratteri generali del rilievo mostrano una ripartizione sistematica delle pianure e dei monti analoga a quella che regola l'andamento generale del rilievo europeo. Si è spesso osservato che una linea, tirata in senso SO.-NE. dalla foce della Bidassoa (punto nel quale la frontiera spagnola tocca l'Oceano) alla confluenza della Lauter e del Reno (nord dell'Alsazia), lascia a SE. quasi tutti i rilievi più elevati e a NO. quasi tutte le pianure e le colline. Invero, mentre da una parte le altitudini superiori a 500 m. rappresentano più che la metà della superficie, dall'altra esse sono presso che inesistenti. La Francia presenta i due tipi di massicci montuosi conosciuti in Europa e tutti i tipi di regioni basse, eccettuato quello delle pianure di origine glaciale, che domina in Germania e Polonia.
Le montagne recenti, di origine terziaria, oltrepassanti i 3000 m. d'altezza, che subirono fortemente gli effetti della glaciazione quaternaria e che contengono ancora ghiacciai più o meno estesi, sono rappresentate dai Pirenei, che costituiscono il confine con la Spagna, dalle Alpi, che costituiscono il confine con l'Italia e dal Giura, ramo di queste ultime, che è il confine con la Svizzera. Le più alte vette europee s'innalzano tra la Francia e l'Italia, tra Chamonix e Courmayeur (Monte Bianco 4810 m.). Le Alpi francesi contengono molti picchi vicini ai 4000 m.; altezza cui non giungono i Pirenei, il cui punto culminante, un po' al di là della frontiera spagnola, è la Maladetta (3404 m.). Il Giura, sebbene si riallacci ai piegamenti alpini, non giunge ai 2000 m. (Crêt de la Neige 1723 m.).
I sollevamenti erciniani, il cui ripiegamento risale all'era primaria, più bassi e di forme generalmente dolci, sono rappresentati dai Vosgi e dal Massiccio Centrale. Nessun punto dei due massicci giunge all'altezza di 2000 metri (punto culminante dei Vosgi il Ballon de Guebwiller, 1426 m.; punto culminante del Massiccio Centrale il Puy de Sancy, 1886 metri). Altri massicci erciniani meno elevati si trovano a NO. della diagonale accennata più sopra: il massiccio delle Ardenne, estremità del massiccio scistoso renano (punto culminante in Francia 497 metri); il Massiccio Armoricano, anche meno elevato (altezza massima 417 metri), che forma le penisole del Cotentin e di Bretagna e si estende fino a sud della Loira, con la Vandea.
Le regioni di pianure e di colline appartengono a due tipi. Le une sono vere pianure alluvionali, che occupano un'area di affondamento in mezzo a massicci erciniani, come la pianura d'Alsazia, oppure un corridoio depresso sul margine d'un arco di piegamento, come il solco del Rodano, che si prolunga di là dal gomito che il fiume fa a Lione, con la pianura della Saona (Bresse). Le altre sono piuttosto regioni di colline, formate da strati sedimentarî di età secondaria o terziaria, che si sono depositati in mari interni o in conche lacustri nelle parti più depresse della zona ercinica. Tali sono: il Bacino Parigino, racchiuso tra il Massiccio Centrale, i Vosgi, le Ardenne e il Massiccio Armoricano; e il Bacino d'Aquitania, racchiuso tra il Massiccio Centrale e i Pirenei. Gli strati di questi antichi bacini, emersi in seguito a movimenti del suolo, sono stati attaccati dall'erosione, in modo ineguale a seconda della durezza delle rocce, e ne è derivato quel modellamento del rilievo in côtes che è caratteristico del Bacino Parigino, vale a dire in linee di colline dissimmetriche, le quali presentano tutte una fronte ripida dalla parte del massiccio erciniano più vicino.
Evoluzione geologica. - I grandi movimenti orogenici dell'epoca erciniana hanno interessato tutto il territorio francese. Nelle Alpi e anche nei Pirenei si notano tracce evidenti persino di piegamenti del Carbonico, accompagnati da metamorfismo e da iniezioni di magma eruttivi. Un piccolo bacino carbonifero si è conservato nelle Alpi (La Mure), e di altri si osservano avanzi nei Pirenei orientali. Lo zoccolo erciniano esiste in profondità sotto le pieghe del Giura e, in occasione di trivellazioni, è stato ritrovato nella regione a est di Lione. Ma si capisce che l'antica struttura, pur attaccata a fondo dall'erosione, che ha livellato le pieghe limandole fino alle radici, si può meglio osservare nei massicci erciniani propriamente detti. Il Massiccio Armoricano e il massiccio delle Ardenne presentano il maggiore interesse, per la serie di strati primarî che vi appaiono, dal Cambrico al Carbonico. Nella Bretagna si trovano: un Precambrico scistoso, spesso metamorfizzato e iniettato di graniti, sul quale appare in discordanza il Silurico, formato molte volte di scisti con ardesie e di arenarie per lo più trasformate in quarziti; il Devonico con scisti e arenarie; il Carbonico a facies scistosa. Belle faune del Silurico e specialmente del Devonico sono state descritte per varie località. Le Ardenne presentano una serie più svariata e il calcare non è come in Bretagna quasi assente. Le opere di J.-A. Gosselet hanno resa classica la sezione della profonda valle della Mosa, che, a partire dagli scisti ardesiferi e dalle quarziti del Cambrico, attraversa tutti i piani del Devonico scistoso e calcare, con una facies corallina assai interessante. Nel massiccio dei Vosgi l'erosione ha spianate le pieghe fino alle parti profondamente metamorfizzate. Graniti e gneiss vi dominano; e il Carbonico non si è conservato che in una stretta sinclinale. Il Permico è sopraggiunto a ricoprire l'antico massiccio spianato, con strati di arenarie, che sono state attraversate o coperte qua e là da colate eruttive; poi, esso è stato a sua volta attaccato, in seguito a nuovi movimenti del suolo, e ricoperto in trasgressione dalle arenarie del Triassico. Anche nel Massiccio Centrale lo zoccolo erciniano è stato profondamente spianato dall'erosione. Gli strati primarî o metamorfizzati mancano quasi del tutto fuorché nelle sinclinali dove si sono conservati depositi e talvolta bacini carboniferi, come nella stretta sinclinale che traversa l'Alvernia da Champagnac fino verso Moulins, e, soprattutto, in quelle orientate SO.-NE., che rendono accidentato il margine orientale del Massiccio lungo il solco del Rodano, con i bacini carboniferi d'Autun e di Saint-Étienne.
Ciò che rimane degli affioramenti primarî in Francia, permette di ricostituire l'edifizio erciniano, supponendo che le linee direttrici dei corrugamenti della fine del Primario formassero una V alquanto acuta a sud e più aperta a nord. La cerniera esiste ancora nel Massiccio Centrale; le pieghe del Massiccio Armoricano meridionale sono nettamente orientate SE.-NO.; mentre nel Cotentin prevale la direzione O.-E: nei Vosgi predomina la direzione SO.-NE., come nell'est del Massiccio Centrale.
Durante il Secondario la maggior parte della Francia partecipa alla storia della zona erciniana dell'Europa centrale, che può essere riassunta così: trasgressioni e regressioni dei mari sullo zoccolo piegato, spianato dalle erosioni, salvo in talune aree più alte, spesso risparmiate o ricoperte soltanto da acque poco profonde, che dànno facies litorali, mentre su altre aree depresse, quasi costantemente sommerse, si accumulano sedimenti di notevole spessore, dove abbondano i calcari. Le aree elevate corrispondono su per giù ai massicci erciniani, oggi ben individuati: Vosgi, Ardenne, Massiccio Centrale e Massiccio Armoricano; le aree depresse ai bacini parigino e aquitano.
L'inizio del Triassico è indicato da una trasgressione generale, che ha lasciato in ogni punto, sul margine dei massicci erciniani, arenarie più o meno grossolane. Tale copertura forma ancora tutta la parte settentrionale dei Vosgi, dando origine a grandi altipiani rivestiti di foreste. Il Triassico medio, con la sua facies di marne iridate e i suoi giacimenti di sale, è anch'esso molto ben sviluppato da quella parte, formando nella Lorena pianure umide, che sono coperte di stagni nel Saulnois. Nella Lorena si nota pure il Muschelkalk, il cui banco più massiccio produce a E. di Nancy una piccola côte.
Con il Liassico comincia ad apparire una differenza tra la zona mediterranea del sud-est della Francia, dove le acque sono più profonde, e la zona erciniana, dove predominano i depositi caratteristici della piattaforma continentale. In Lorena, in Borgogna e anche in Normandia, si hanno le marne e calcari con grifee, che dànno sui versanti delle valli, scavate piuttosto profondamente dall'erosione, i profili convessi caratteristici dovuti a scorrimenti del suolo, e che per lo più dànno origine a zone molto fertili. Nelle Alpi si hanno i calcari zoogeni con cefalopodi e i calcari compatti originati da fanghiglie.
Nel Giurassico medio e superiore la diversità tra le antiche provincie si accentua. Si preparano le Alpi, per la formazione d'un geosinclinale, dove i depositi spesso calcarei (specialmente calcari corallini) si accumulano in grandi masse. Il Bacino Parigino si delinea sotto forma d'una manica, tra il Massiccio Armoricano, forse ancora congiunto alla Cornovaglia e a tratti anche al Massiccio Centrale, e un Massiccio Renano (Vosgi, Ardenne). A intervalli, specialmente nel Batoniano e nel Rauraciano, vi si formano calcari zoogeni, i quali costituiranno le cornici delle côtes della Mosa e della Mosella e i dirupi delle côtes borgognone, che circondano il Morvan. La fine del Giurassico è segnata da un'emersione, chiaramente indicata dalle facies continentali del Purbekiano, mentre invece nelle Alpi si accumulano i calcari massicci del Portlandiano.
Nel Cretacico va precisandosi la differenza tra la zona erciniana e la zona alpina, sulla quale appaiono già i piegamenti che preparano quelli del Terziario. Il Wealdiano, con le sue argille e le sue sabbie continentali o litorali, indica un'emersione nel Bacino Parigino, mentre nel Giura, durante il Cretacico inferiore si formano ancora calcari zoogeni e nelle Alpi si depositano calcari melmosi di mare profondo (Neocomiano, Valanginiano, Hauteriviano). In seguito, i corrugamenti che si delineano nella zona alpina diminuiscono localmente le profondità e fanno apparire le facies coralline con i poderosi strati dei calcari urgoniani, che hanno tanta importanza nel rilievo delle Prealpi francesi. La zona erciniana, al contrario, è invasa da trasgressioni successive, che prima dànno origine a sabbie, poi alla creta (craie), calcare melmoso in parte zoogeno. Questi potenti strati di creta, ora bianca e abbastanza pura, ora marnosa o glauconiosa, spesso abbondantissimi di noduli di selce, allineati in strisce, affiorano ancora su larghi tratti del Bacino Parigino e nel nord del Bacino d'Aquitania dove rappresentano una parte di prim'ordine nel paesaggio geografico, e inoltre formano la base dei depositi terziarî, mentre le ondulazioni da essi subite ne regolano la distribuzione.
La fisionomia del suolo francese si fissò definitivamente durante il Terziario. Nella zona erciniana appare netta l'individuazione degli alti massicci, accidentati da rilievi a cupola, da fratture e da affondamenti, mentre i bacini sono golfi o anche laghi. Il Bacino Parigino è il teatro di numerose trasgressioni e regressioni, la cui storia è scritta nelle continue variazioni delle facies, che sono state minutamente studiate dai geologi. Una delle fasi più interessanti è quella durante la quale il centro del bacino, verso Parigi, fu occupato da lagune nelle quali si depositò il gesso, formando lenti rivestite di marne, che fornirono al Cuvier grandi scheletri di mammiferi. Il banco calcare del Luteziano corrisponde a un golfo più esteso; quello delle sabbie dello Stampiano, note sotto il nome di arene di Fontainebleau, indica una trasgressione marittima avvenuta molto lontano, poiché se ne osservano le tracce fino nella Champagne. Essa fu seguita da una fase lacustre, che diede i calcari d'Aquitania, detti calcari della Beauce. Dopo quell'epoca, il Bacino Parigino emerse definitivamente e fu sottoposto all'erosione.
Durante tale periodo, il Massiccio renano si smembrò. A partire dal Paleogenico superiore, i Vosgi e la Foresta Nera furono separati da una fossa tettonica, ove si avanzava un braccio di mare proveniente da S. e dove si accumularono depositi d'una potenza di oltre 100 m., favoriti da un abbassamento graduale. Il Massiccio Armoricano fu in parte invaso dal mare luteziano, che lasciò tracce nella sua parte orientale. Il Massiccio Centrale fu accidentato da rilievi a cupola e da sprofondamenti locali con faglie; e le eruzioni vulcaniche cominciarono all'inizio del Neogenico o forse anche prima, per continuare fino al Quaternario. Le colate più antiche spesso preservarono i depositi terziarî poco consistenti (argille e sabbie) del Paleogenico superiore e del Neogenico inferiore, i quali indicano l'estensione di laghi su un vecchio penepiano leggermente deformato, come in molti altri massicci erciniani dell'Europa centrale. Nel sud del Massiccio (Montagne Noire), il mare del Paleogenico medio s'era avanzato su un penepiano anche più antico, che l'erosione comincia a liberare.
Tutto adunque sta a indicare che nella zona erciniana, tanto gli antichi massicci, quanto i bacini sedimentarî secondarî, nella prima parte del Terziario formavano un insieme di terre a debole rilievo, livellate dall'erosione e in parte occupate da laghi. Ma alla fine del Terziario, in seguito a movimenti del suolo e forse a un abbassamento di livello degli oceani, venne in ogni parte ravvivata l'erosione, che cominciò a incidere profondamente le valli, asportando in gran copia i terreni poco resistenti, mettendo a nudo le rocce dure e facendo spesso riapparire le scarpate di faglie antiche. Nel Bacino Parigino centrale comparvero allora le piattaforme calcari costituenti la Brie, la Beauce ecc., e le conche, come il Pays de Bray e il Boulonnais, incise nei rilievi a cupola più accentuati. Nell'est e nel sud-est (Lorena, Borgogna), dove gli strati erano regolarmente inclinati verso il centro, si delinearono le côtes disposte ad arco, volgenti la loro fronte dirupata verso E., SE. e S. Il massiccio delle Ardenne fu liberato del suo rivestimento secondario e terziario, e la Mosa vi si gettò attraverso una meravigliosa gola. Nel Massiccio Centrale avvenne lo scavo delle fosse tettoniche della Limagne e del Forez, dove s'erano conservati i depositi terziarî poco resistenti, e si verificò il sollevamento delle piattaforme granitiche; quivi l'erosione era in contrasto con l'accumulazione vulcanica, che mise capo al rilievo, pieno di contrasti, dell'Alvernia.
A questo differenziarsi graduale della zona ercinica corrisponde l'elevarsi della zona alpina mediterranea, che terminò con la formazione dei poderosi sollevamenti dei Pirenei e delle Alpi, con la ramificazione del Giura, affiancati da corridoi depressi, più o meno larghi, che li separarono dai massicci erciniani, ultimi avanzi di quei profondi geosinclinali, dove si accumularono gli strati violentemente sollevati dai piegamenti terziarî.
Tali piegamenti nelle Alpi francesi si propagarono in direzione di ovest, e nei Pirenei, invece, in direzione nord. In questi ultimi i carreggiamenti sono, a quanto sembra, press'a poco terminati con il Paleogenico medio. Nei Pirenei orientali la catena fu spezzettata da sprofondamenti, e le antiche pieghe furono livellate su alte zone. Gli avanzi dei Pirenei attaccati dall'erosione formarono anzi la maggior parte del suolo dell'Aquitania, che, durante tutto il Terziario, fu una manica, o un golfo poco profondo, oppure fu occupata da una serie di laghi. Vi si accumularono le arene e le argille della molassa, e raramente si depositarono calcari nelle acque più tranquille. Nelle Alpi pare che la fase acuta del corrugamento abbia avuto luogo nell'Aquitaniano; a quell'epoca, le falde di carreggiamento erano già in posto; e le spinte successive non fecero che rendere più accentuati i piegamenti delle catene calcari prealpine, attaccando la stessa molassa, che spesso si conservò in qualche sinclinale e talvolta fu sormontata. Il Giura altro non è che una diramazione staccatasi dalle catene prealpine del Delfinato e separata da quelle della Savoia per mezzo di un geosinclinale, dove la molassa si è conservata, coprendo ancora le pieghe degli strati secondarî meno robusti. La sua formazione diminuì la larghezza del solco, per il quale i mari terziarî s'erano avanzati dal Mediterraneo sino al fossato renano dell'Alsazia. Durante il Neogenico, il Bacino della Saona fu occupato da un lago o da una serie di laghi, che finirono con il vuotarsi (Lago Bressan). La stessa valle del Rodano si venne formando al posto di uno stretto golfo (impropriamente denominato fiordo da taluni geologi), il quale fu colmato dai depositi marini del Neogenico superiore e dalle alluvioni alpine. Ma il gran fiume vi penetrò profondamente, parecchie centinaia di metri al di sotto del suo tracciato primitivo, e abbattendosi qualche volta nell'antico zoccolo del Massiccio Centrale, vi s'incastrò in avvallamenti epigenici, che determinarono la posizione di tutta una serie di città: Valenza, Montélimar, ecc.
Probabilmente durante il Neogenico superiore e nel momento che il mare si avanzava ancora entro il solco del Rodano, le coste della Provenza acquistarono la loro configurazione attuale, per affondamento dei massicci ercinici, di cui i Maures e l'Estérel sono gli ultimi avanzi.
Il Quaternario non apportò grandi mutamenti alla fisionomia del suolo francese. I progressi dell'erosione, alternandosi con periodi d'accumulazione lungo i grandi fiumi, ebbero per effetto la formazione di terrazzi a gradini, che sono soprattutto netti nei bacini della Loira e della Senna. Limi fertili, qualche volta veri loess, ricoprirono le piattaforme del nord e dell'est del Bacino Parigino e la pianura d'Alsazia. Nelle Alpi e nei Pirenei, il raffreddamento del clima determinò una grandiosa estensione dei ghiacciai, i quali a varie riprese riempirono tutte le valli e traboccarono nelle pianure limitrofe. In tal modo, nel Basso Delfinato e nella parte meridionale della Bresse, si formò una frangia di depositi grossolani, simili a quelli che ricoprono le colline svizzere e l'altipiano bavarese.
Nell'interno delle montagne, il tipo del rilievo fu totalmente mutato. Le forme classiche della glaciazione (valli sospese, rialzi di sbarramento, bacini e circhi) diedero il loro carattere alle catene e ai massicci centrali della Savoia e del Delfinato, costituiti da profonde falde di carreggiamento, in gran parte cristalline. Le forme glaciali sono meno evidenti nelle grandi valli (bassa Isère, Durance, ecc.), nelle catene prealpine, dove gli adattamenti alla struttura dominano il paesaggio, e anche nelle Alpi di Provenza, dove l'estensione glaciale fu relativamente limitata. Nei Pirenei, il modellamento glaciale è spesso assai considerevole, soprattutto nei Pirenei centrali; ma le accumulazioni dei lobi pedemontani, espandendosi sulla regione perimetrale, rappresentano una parte importante soltanto nel paese dei Gaves e dell'Alta Garonna (altipiano di Lannemezan, morene di Montréjeau). Nel Giura si ebbero piccoli ghiacciai locali; ma tutta la sua parte meridionale fu coperta dai ghiacciai alpini, i quali vi lasciarono depositi morenici, che mutarono del tutto la fisionomia del suolo calcare. Il Massiccio Centrale ebbe pur esso i suoi ghiacciai, che incappucciarono le alte cime vulcaniche del Cantal e dei Monts Dore, discendendo fino ai bacini di Neussargues e di Aurillac, dove deposero le loro morene, allargando le valli e modellando piccoli circhi sulle vette. I Vosgi furono ricoperti d'una vera calotta glaciale, che si suddivise in lunghe lingue nelle valli lorenesi, depositando morene sparse sugli altipiani d'arenarie a sud d'Épinal, e sbarrando a più riprese la Mosella.
Coste. - Il contorno delle coste francesi, che costituiscono la metà delle frontiere dello stato, si fissò naturalmente durante il Quaternario. La formazione del Passo di Calais sembra non sia anteriore ai primi periodi glaciali; e lo stesso può dirsi della separazione delle Isole Normanne dal Cotentin. I meandri della Senna, che continuano nettamente sotto le acque dell'estuario, quelli del Trieux in Bretagna e quelli dell'Aulne, che mostrano lo stesso fenomeno, indicano un movimento positivo del mare, la cui importanza è confermata dagli scandagli, che hanno rivelato le alluvioni quaternarie fino a 30 m. almeno di profondità. In seguito, il mare continuò la sua opera di ragguagliamento, interrotta da un'ultima trasgressione di data storica, nella pianura di Fiandra e nell'estuario della Somma, che continua sotto i nostri occhi. Le sporgenze del litorale, formate di Cretacico e specialmente di creta, dal Passo di Calais fino al Cotentin, furono facilmente erose e le scarpate a muraglia (falaises), indietreggiando rapidamente, diedero origine alle coste rettilinee caratteristiche della Normandia e della Piccardia, con le loro valleuses o valli sospese. Dietro i cordoni litorali, gli estuari si colmarono rapidamente, eccetto quello della Senna, dove Rouen si conserva come porto di mare, mentre Abbeville sulla Somma non può più ricevere se non piccole imbarcazioni, che risalgono per un canale.
Nel Massiccio Armoricano i tronchi inferiori delle vallate furono invasi per effetto della trasgressione, e si mutarono in estuarî angusti e ramificati, sul tipo delle rias spagnole; in corrispondenza ai banchi di rocce dure si formò uno sciame di piccole isole. Nessun litorale è più frastagliato che quello del Cotentin, della Bretagna e della Vandea; tuttavia il lavoro di regolarizzazione del mare ha cominciato a far sentire qua e là i suoi effetti. Sulla costa occidentale del Cotentin, in fondo alla Baia del Mont Saint-Michel, e sulla costa meridionale della Bretagna, parecchi cordoni litorali sbarrano un certo numero di baie e di estuarî. A sud della Vandea, un antico golfo corrispondente a una depressione del rilievo continentale, al contatto con il rivestimento secondario del massiccio antico, formò il Marais poitevin, dove alcune arginature, iniziate nel Medioevo e proseguite fino al sec. XIX, affrettarono la riconquista sul mare, creando una piccola Olanda. Più lungi, le isole di Ré e Oléron proteggono alcune sporgenze in relazione con rilievi calcari, che s'innalzano appena al disopra dei flutti e sono in parte coperte di dune. A sud della foce della Gironda, comincia la costa delle Lande, orlata per 200 km. da alte dune, che sbarrano le valli e le mutano in stagni d'acqua dolce, con un pelo d'acqua che è 10 m. al disopra del vicino mare. Soltanto la Baia d'Arcachon resta aperta per effetto delle correnti di marea. Il contorno regolarmente rettilineo del litorale non è tuttavia dovuto solo all'accumulazione: il mare rode quasi ovunque il continente, facendo indietreggiare il cordone litorale e scoprendo sotto le dune la torba.
Il litorale mediterraneo presenta due tipi affatto diversi a E. e a O. del delta del Rodano: da una parte è dirupato, roccioso, accidentato da penisole e da baie e contornato da isole; dall'altra è piano, uniforme, con grandi lagune, dietro cordoni litorali ricoperti di dune. Tuttavia, sia dall'una sia dall'altra parte, gli effetti del movimento positivo recente sono meno visibili che sul litorale oceanico. In Provenza, le stesse Alpi e i loro ultimi contrafforti s'immergono nelle acque del Mediterraneo con sì ripidi pendii, che il mare non può avanzare di molto; inoltre recenti movimenti del suolo hanno fatto emergere in certi punti qualche delta, come quello del Varo presso Nizza. Le alluvioni non hanno tardato a colmare alcuni golfi, come quello dell'Argens e la pianura di Hyères; e una delle isole è stata riattaccata al continente, formando la penisola di Giens. Ma la corrente litorale trasporta la maggior parte delle alluvioni dalla parte della Linguadoca. I detriti delle Alpi e quelli dei Pirenei dànno tale abbondanza di alluvioni, che la regolarizzazione del cordone litorale è perfetta; dietro a questi cordoni litorali che si appoggiano ad antiche isole calcari, come a Cette e a Narbona, o vulcaniche, come ad Agde e a Leucate, si allunga una fila di lagune quasi continua, interrotta solo dalla grande pianura dell'Aude.
Clima. - La varietà dei climi in Francia dipende dalla situazione geografica con fronte sull'Oceano e sul Mediterraneo, dall'estensione del territorio fino al Reno, ossia fino ai confini dell'Europa centrale, e dal rilievo del suolo.
Temperatura. - Il tracciato delle isoterme indica chiaramente la spartizione tra gl'influssi oceanici e quelli continentali. D'inverno, esse si orientano da N. a S. e seguono anche i contorni del litorale del Massiccio Armoricano. Brest ha la stessa media di gennaio che Biarritz e Marsiglia, mentre Strasburgo è più fredda di 8°. Sulle coste della Manica e dell'Atlantico la primavera è in ritardo e le estati sono temperate: a Brest la media di luglio è inferiore di 4° a quella di Strasburgo. In conclusione, l'escursione annuale è di 12° più forte nell'Alsazia che nella Bretagna. Le isoterme annuali indicano un certo influsso del clima oceanico, poiché generalmente sono orientate da NO. a SE.; ma la loro caratteristica più notevole è lo stringersi sulle coste della Provenza e della Linguadoca, segnando un vantaggio assai notevole del litorale mediterraneo. Le località più calde della Francia sono Nizza e i suoi dintorni, con più di 8° in gennaio e più di 15° di media annuale, e la pianura del Rossiglione, con 7° in gennaio e 14°,5 di media annuale. Il rilievo del suolo è causa di variazioni locali nella distribuzione delle temperature. Il Massiccio Centrale, essendo quasi tutto al disopra di 500 m., ha una media annuale inferiore a 6°, un inverno di lunga durata, simile a quelli dell'Alsazia, ed estati altrettanto fresche quanto quelle della Bretagna. Lo stesso si può dire dei Vosgi meridionali. I bacini chiusi come la Limagne hanno un regime più continentale: inverni più freddi di quello che comporterebbe l'altitudine, con inversioni di temperature. Tali caratteri del clima di montagna si accentuano nelle Alpi.
Precipitazioni. - La distribuzione delle piogge è in stretta relazione con il rilievo, ma il loro regime segna nettamente gl'influssi continentali e marittimi, e anche più i caratteri particolari del clima mediterraneo. Tutte le depressioni corrispondono a minimi pluviometrici, di cui il più notevole è a Colmar in Alsazia e il più esteso è nel Bacino Parigino (v. carta a p. 883). È da segnalarsi inoltre la siccità della Limagne e del corridoio del Rodano fino alla pianura della Saona. Le coste sono generalmente più piovose che l'interno soprattutto quando presentano un certo rilievo: il litorale piano delle Lande riceve considerevoli piogge solamente dove è dominato dai Pirenei; anzi appunto là si notano i più forti totali medî che si abbiano in Francia. I colli della Bretagna e della Normandia, che non oltrepassano i 400 m., bastano a condensare precipitazioni superiori a 1200 mm.; e nel Massiccio Centrale i punti più elevati non sono quelli che ricevono piogge più abbondanti. Il Limosino, direttamente esposto ai venti di O., accoglie sull'Altipiano di Millevaches la stessa quantità d'acqua che l'Alvernia. Una località particolarmente piovosa è il margine delle Cevenne verso l'Aigoual, dove si rovesciano a un tempo le piogge atlantiche e le piogge mediterranee e dove si sono riscontrate le più forti precipitazioni che siano state raccolte in un sol giorno (Joyeuse, 797 mm. il 9 ottobre 1927). Il litorale mediterraneo non soffre affatto della siccità che gli si attribuisce di solito. Marsiglia riceve tant'acqua, quanta ne riceve Parigi; Nizza ne riceve assai di più (750 mm.); soltanto, le piogge vi cadono sotto forma di acquazzoni, rari in ogni stagione e rarissimi in estate. Il regime pluviometrico dominante in Francia è intermedio tra il regime oceanico e il regime continentale. La curva delle medie mensili a Parigi non presenta alcun minimo accentuato e ha due deboli massimi in estate e in inverno. Soltanto sulle coste si nota il vero regime oceanico, con il suo massimo molto forte in autunno (Brest 30%); mentre il regime continentale, con il massimo d'estate, comincia a delinearsi nell'est del Bacino Parigino, e appare assai netto in Alsazia e nel bacino della Saona. Nel Bacino d'Aquitania il regime è assolutamente oceanico sulle coste e tende al regime mediterraneo verso l'interno, senza, peraltro, presentare in alcun punto una vera siccità estiva. A Tolosa, il massimo è in primavera (maggio, giugno) e i mesi più asciutti sono luglio e dicembre. Il regime mediterraneo domina su tutto il litorale della Linguadoca e in Provenza, con i massimi d'autunno e di primavera e con siccità d'estate assai accentuata. Marsiglia in tre mesi (giugno-agosto) riceve appena il 9% del totale annuo; e spesso passano luglio e agosto, senza che cada una goccia d'acqua. Questo regime regna pure nella valle del Rodano fino a Montélimar, nelle valli delle Alpi fino a Sisteron sulla Durance, ed è pure sensibile sulle vette vicine.
I venti e la pressione atmosferica. - I venti e le variazioni della pressione atmosferica meglio d'ogni altro fenomeno spiegano tutti i caratteri del regime termico e del regime delle piogge. La Francia è soggetta all'influsso dei cicloni a traiettoria mediterranea e all'influsso di quelli a traiettoria più settentrionale; e questi ultimi vi si fanno sentire specialmente allorché passano per l'Inghilterra e per il Mare del Nord, causando le grandi piogge che cadono sul Massiccio Armoricano e sul Bacino Parigino, spazzati dai venti di O. e di SO., i quali portano seco grossi annuvolamenti. Ad essi si deve il predominio assoluto dei venti del quadrante occidentale in tutto il nord della Francia. I venti di E. si fanno sentire, o per l'avanzarsi dei cicloni atlantici, o per lo stabilirsi d'un anticiclone sull'Europa centrale. Nel primo caso sono di breve durata; venendo da SE. l'aria è generalmente asciutta e calda, e nell'estate la temperatura sale rapidamente insieme con l'umidità assoluta, facendo passare qualche ora penosa a Parigi e talvolta anche sulla costa. Il vento di E. anticiclonico dura più a lungo, ed è caldo d'estate e freddo d'inverno. Dipendono sempre da regime anticiclonico i colpi di freddo che si registrano nelle regioni orientali (Alsazia e valle della Saona fino a Lione), i quali possono far abbassare il termometro fino a −10° e anche a −15°; essi, più rari a Parigi, vi sono tanto più sensibili. Il Bacino di Aquitania non è direttamente soggetto, come il nord della Francia, all'influsso delle depressioni atlantiche, il che spiega il carattere relativamente continentale del suo clima; gl'influssi oceanici sono limitati alla costa onde Tolosa ha inverni relativamente rigidi, data la sua latitudine. Tuttavia avviene abbastanza spesso che un ciclone satellite accompagni, al sud, una depressione atlantica, la cui traiettoria passa per l'Inghilterra; in tal caso la parte meridionale e orientale dell'Aquitania è soggetta a venti di E. e di SE., che dall'influsso dei Pirenei e del sud del Massiccio Centrale sono resi particolarmente secchi e violenti: si tratta dell'autan di Tolosa e del Pays Castrais. Il ciclone, avanzando, passa sull'Aquitania stessa, e di solito giunge al Mediterraneo; allora i venti balzano a O. e si producono sovente grandi rovesci d'acqua, accompagnati da tempeste. Questo susseguirsi di fatti è frequente in primavera, e vale a spiegare il massimo delle piogge di questa stagione.
Sul litorale mediterraneo della Francia, i venti dominanti sono lievi brezze a componente settentrionale, le quali dànno ragione della purezza del cielo e della rarità delle piogge. La stabilità dell'atmosfera è turbata soltanto in primavera e in autunno dal passaggio di cicloni, che provengono, gli uni dall'Atlantico passando per l'Aquitania, gli altri dal Marocco passando per le coste della Spagna. Tali depressioni si dirigono per lo più verso il Golfo di Genova, e il loro passaggio provoca un richiamo d'aria proveniente dal nord, risultandone un vento abbastanza veloce per dare una impressione di freddo e talvolta anche abbastanza violento per ostacolare le comunicazioni: questo vento, che spazza le nubi e prosciuga le pianure, è il mistral. Sulle coste della Provenza e della Linguadoca generalmente piove a causa di un vento di SE., noto sotto il nome di marin, umido e caldo.
Tipi di clima. - Riassumendo, si possono distinguere in Francia alcuni tipi di clima, i cui limiti peraltro sono spesso indeterminati. Il clima oceanico, che si potrebbe chiamare bretone, è caratterizzato da una debole escursione termica, inverno mite, primavera tardiva, estate relativamente fresca, piogge frequenti, abbondanti in tutte le stagioni, ma con massimo in autunno. Si limita a una frangia piuttosto ristretta a S., che si allarga a N., fino a coprire quasi tutto il bacino armoricano, e si restringe di nuovo a nord della Senna.
Il clima di transizione, che si potrebbe chiamare parigino, è caratterizzato da una maggiore escursione termica, da geli più frequenti e anche da colpi di freddo, assai rari però, nell'inverno, e da un regime di piogge che si mantengono uguali durante tutto l'anno. Si estende press'a poco a tutto il Bacino Parigino. Poi, passa insensibilmente a un clima accennante al tipo continentale, che si riscontra nella Lorena, nell'Alsazia e nel Bacino della Saona, con inverni aspri, nevicate assai frequenti, che sulle alture delle côtes della Mosa rimangono sul terreno per oltre un mese. Le estati vi sono calde, con piogge temporalesche; e il cielo vi è più facilmente sereno d'inverno, quando non è velato da nebbie, come avviene non di rado nelle valli. Si può distinguere altresì un clima aquitanico, esistente presso a poco in tutto il Bacino d'Aquitania, eccettuata la frangia litorale: è caratterizzato da estati già abbastanza calde, primavere precoci e piovose, inverni meno miti che nella regione mediterranea e non esenti da nevicate e da colpi di freddo.
Il clima mediterraneo prevale, con i suoi caratteri tipici (inverni tepidi, primavere piovose, estati calde e molto asciutte), in tutta la pianura della Linguadoca e nel Rossiglione, nella Bassa Provenza e nella valle del Rodano fino a Montélimar.
L'influsso del rilievo permette pure di distinguere una vera regione climatica tipica corrispondente al Massiccio Centrale, più piovosa che le pianure vicine, più fredda durante l'inverno, con un manto di neve che ricopre per lungo tempo il suolo, ma soprattutto più fresca durante l'estate.
Le Alpi stanno anche più a sé: la varietà delle condizioni del clima vi è determinata da un rilievo pieno di contrasti, il quale presenta altitudini che giungono fino alla zona delle nevi perpetue. L'originalità delle Alpi francesi dipende dall'orientazione del loro asse principale, allungato da N. a S., invece che da E. a O., come in Svizzera e in Austria. Poiché le maggiori altitudini sono al N., c'è un contrasto notevolissimo tra le Alpi della Savoia e del Delfinato e le Alpi di Provenza: le prime sono assai più fredde, con piogge e nevi più copiose, e l'isoterma invernale di 5° vi è a 1300 circa (Monte Bianco), ossia 500 m. più in basso che nelle Alpi Marittime; d'estate, la differenza tende a scomparire nelle parti più elevate, ma è sempre molto forte nelle valli, risalendo fino a Digne l'isoterma di 20°. Le precipitazioni nelle Prealpi della Savoia e del Delfinato sono in media da metri 1 a 2,50, mentre in quelle di Provenza raramente oltrepassano gli 800 mm. Anche il loro regime è diverso al nord e al sud, contrapponendosi il massimo d'estate al minimo della stagione calda. Tutto sta a indicare due dominî diversi del clima di montagna, separati press'a poco da una linea che passa per i colli del Rousset e di Luz-de-la-Croix-Haute in Vercors, poi per il Massiccio del Devoluy e il Col Bayard. L'alta Durance (Ubaye) per il suo clima è già dentro la cerchia degli influssi mediterranei. Lo stesso contrasto si nota nei Pirenei tra la parte orientale, fino alle sorgenti dell'Ariège, e le parti centrale e occidentale: contrasto così forte, da aver fatto pensare a Strabone che la catena fosse orientata non da E. a O. ma da S. a N. Lo specchio sopra riportato dà gli elementi del clima d'un certo numero di stazioni tipiche dei differenti climi francesi.
Acque continentali. - La Francia deve al suo clima e al suo rilievo, se è bagnata da un gran numero di fiumi, e se possiede quasi in ogni parte gli elementi necessarî all'agricoltura. La concentrazione in un piccolo numero di grandi bacini fluviali è favorevole allo scolo: e i 4/5 del suo territorio sono prosciugati dal Reno, dalla Senna, dalla Loira, dalla Garonna e dal Rodano. Se si calcola per le stazioni principali l'indice d'aridità annua (P : T + 10), si vede che dappertutto, fuorché nella regione mediterranea, esso è superiore a 20, che è il valore caratteristico dei paesi dove l'acqua può mancare. Il coefficiente di deflusso medio per il nord della Francia può calcolarsi al 30%, cioè quasi un terzo delle piogge cadute è portato via dai fiumi. La varietà degli affioramenti di terreni ora permeabili e ora impermeabili moltiplica le falde aquifere e le sorgenti, che nel Bacino Parigino raramente si prosciugano.
Benché abbia temperature più alte, il mezzogiorno della Francia presenta, almeno per i grandi fiumi, coefficienti di scolo spesso più elevati che quelli del nord (Rodano 50%, Isère 72, Garonna 45). Invero, il rilievo più accidentato rende più rapido lo scolo, i terreni impermeabili predominano nel Massiccio Centrale, le piogge sono per lo più torrenziali, e finalmente la neve rappresenta la parte principale nell'alimentazione delle sorgenti dei fiumi. Le riserve d'acque sotterranee, invece, sono meno copiose e più soggette a prosciugarsi nel sud che nel nord, eccetto il caso di calcari abbastanza spessi per poter immagazzinare profondamente acque che sfuggono all'evaporazione e che ricompaiono poi sotto forma di poderose sorgenti, come la "Fontaine de Vaucluse".
L'insieme degl'influssi locali produce parecchi tipi di regime fluviale. Il regime sequaniano è quello dei fiumi di pianura e di collina, i quali, alimentati quasi esclusivamente dalle piogge che cadono press'a poco uguali durante tutto l'anno, scorrono con acque più alte nella stagione fredda, allorché l'evaporazione è minore, ed è venuta meno un'altra causa di deficit, con l'arrestarsi della vegetazione e con le acque più basse nella stagione calda (agosto-settembre): la differenza di livello è più o meno accentuata, secondo l'importanza delle riserve sotterranee, importanza che dipende dall'estensione dei terreni permeabili.
Il regime ligeriano è quello dei fiumi di media montagna, che hanno le sorgenti tra 500 e 1500 m. (Loira e affluenti, Mosella, alta Mosa, Doubs, ecc.). Dall'altezza dipendono due fatti: scolo più rapido su forti pendii e nevicate invernali che rimangono sul terreno fino alla primavera, la quale diventa pertanto la stagione delle acque alte, mentre vi sono due periodi di magra: l'estate e l'inverno. La curva della portata mensile è sempre piuttosto accidentata.
Il regime alpino è quello dei corsi d'acqua che discendono dalle alte Alpi (Rodano, Isère, Durance). La conservazione delle precipitazioni sotto forma di neve vi dura anche più a lungo, e i ghiacciai, dal canto loro, vi rappresentano serbatoi inesauribili. In ogni parte la portata aumenta con le temperature e raggiunge il suo massimo nell'estate, pur essendovi piene improvvise al principio o alla fine dell'inverno, allorché cadono piogge abbastanza tepide per far fondere la neve. Frequenti sono gli sbalzi della portata, e tanto più bruschi, quanto più forti sono le pendenze.
Il regime mediterraneo è quello dei corsi d'acqua che discendono dalle Cevenne e di tutti quelli della Bassa Provenza. La siccità dell'estate li riduce spesso a un sottile filo d'acqua, appena visibile in un ampio letto di ciottoli o di sabbia, mentre le piogge primaverili e autunnali vi determinano terribili piene.
Vediamo ora come sono disposti i bacini fluviali, rimandando per i principali tra essi alle singole voci. Nel nord della Francia, regione di colline e di medie montagne erciniane, le acque si riuniscono in tre grandi bacini fluviali: quello del Reno (con i suoi affluenti alsaziani Ill e Lauter e con la Mosella); quello della Senna con tutti i suoi affluenti: Marna, Oise, Epte, Aube, Yonne, Loing; quello della Mosa, la cui situazione speciale e la mancanza quasi assoluta di affluenti dipendono dalle catture fatte a suo danno dai vicini. Alcuni bacini secondarî hanno conservato la loro individualità: la Schelda scola l'estremità occidentale del massiccio dell'Ardenne e le colline dell'Artois; la Somma, le cui sorgenti sono separate da una leggera soglia dall'Oise, con la quale un tempo dovette avere più stretta relazione, raccoglie le acque di una gran parte della Piccardia; un'altra porzione è invece scolata da piccoli fiumi paralleli al suo corso: la Béthune, che raccoglie le acque del paese di Bray; l'Authie e la Canche, che discendono dalla vetta dell'Artois.
Il Massiccio Armoricano ha conservato una rete idrografica indipendente dovunque, fuorché nella parte di sud-est, dove la Loira ha attirato a sé le acque del Maine e del Perche, che le sono portate dalla Mayenne, dalla Sarthe e dal Loir, riuniti ad Angers per formare la Maine, come pure la maggior parte delle acque della Vandea (Sèvre, Nantaise).
Dalle colline di Normandia scendono al nord numerosi fiumicelli dal corso rapido: la Touque, che percorre il paese d'Auge; la Dives; l'Orne, il cui corso inferiore canalizzato ha dato origine al porto di Caen.
Alla baia della Senna affluiscono quasi tutte le acque del Cotentin (Douve) e una parte di quelle delle colline di Normandia (Vire). La Bretagna ha solo due fiumi di qualche importanza: la Vilaine, che raccoglie le acque nel bacino di Rennes e, traversate con una gola le creste d'arenaria armoricana, dopo Redon sbocca in un estuario colmato: è un fiume di tipo sequaniano, dalle acque nere, e con una pendenza abbastanza forte, da rendere necessarie le chiuse alla navigazione; l'Aulne, che sbocca nella rada di Brest, corre anche più spesso incassato ed è facilmente gonfiato dalle piogge che cadono sulle vette dei monti d'Arrée o della Montagne Noire. Tutti gli altri fiumi bretoni prosciugano soltanto bacini poco estesi, pur terminando in estuarî risaliti dalla marea, dopo un corso inferiore invaso da una trasgressione marina recente.
Il Massiccio Centrale dà origine alla Loira, che, per la lunghezza del suo corso, è il maggior fiume della Francia, e che raccoglie le acque anche di una parte del Bacino Parigino e del Massiccio Armoricano.
Il Bacino d'Aquitania è quasi tutto scolato dalla Garonna; ma il fascio dei Gaves, che discende dai Pirenei occidentali, ha conservata la propria indipendenza, concentrandosi nell'arteria dell'Adour. La grande pianura sabbiosa delle Lande non è traversata che da brevi e magri fiumi, il più importante dei quali è la Leyre, che sbocca nel Golfo d'Arcachon. Il gran solco depresso, che si estende tra il margine del Massiccio Centrale da un lato, le Alpi e il Giura dall'altro, ha naturalmente servito da collettore alle acque; e il Rodano, con il suo grande affluente Saona, prosciuga le regioni più diverse per il rilievo, per il clima e per il regime dei fiumi che ne discendono. Ad esso sono sfuggiti solamente alcuni fiumi che discendono dalle Cevenne: la Vidourle, l'Hérault e l'Orb, che sono veri torrenti mediterranei; e alcuni fiumi della bassa Provenza: l'Huveaune che irriga i prati vicino a Marsiglia; l'Argens, con le acque arrossate dalle marne permiche, che segue la grande depressione marginale dei Maures, fino alla baia di Fréjus; il Loup, che attraverso fantastiche gole va a sboccare presso Cannes; e, notevole fra tutti, il Varo, fiume torrenziale, alpino e mediterraneo a un tempo.
Anche i Pirenei orientali hanno facilmente conservato l'indipendenza della loro idrografia. Il Têt e il Tech ne scendono con corso rapido e bagnano la pianura del Rossiglione, dove il fondersi delle nevi di primavera fa sì che riescano assai utili per l'irrigazione. L'Aude ha un corso più complicato traverso le catene calcari, dove s'incassa in gole strane fino alla soglia di Carcassona, donde volge a est verso Narbona: è un fiume di montagna, dal regime capriccioso, con piene primaverili e specie autunnali.
Vegetazione. - La vegetazione del suolo della Francia comprende elementi antichi ed altri emigrati più recenti. Il periodo glaciale distrusse la flora soltanto su metà circa delle Alpi e del Giura, che furono ricoperti di ghiacci, e sulle più alte vette del Massiccio Centrale, dei Vosgi e dei Pirenei. Senza dubbio, il raffreddamento che l'accompagnò fece rifluire verso il sud un gran numero di specie, le quali in seguito poterono riprendere il loro cammino verso il nord. Della vegetazione che si adattò al clima più freddo e umido sono rimasti alcuni avanzi, tanto sulle vette delle Alpi, quanto nelle lande e torbiere del nord-ovest della Francia, quali: Viola palustris, Vaccinium vitis idaea, Andromeda polifolia, ecc.
Il periodo di clima relativamente più caldo e più asciutto, di cui si hanno prove indiscutibili nell'Europa Centrale (optimum post glaciale) e che dovette farsi sentire anche in Francia, vale a spiegare le stazioni superstiti di piante di steppa, delle quali si hanno esempî sui terreni più aridi: savarts della Champagne, causses del Massiccio Centrale; e così pure si spiegano le piante con affinità mediterranee, che si osservano in certe valli riparate delle Alpi ed anche in certe località dell'Ovest. Tali accantonamenti di specie xerotermiche sono da ricercarsi specialmente sui calcari e sui pendii esposti a mezzogiorno. L'Astragalus monspessulanus, che risale il corridoio del Rodano fino alla Bresse, si nota altresì sui calcari del Berry e sui versanti cretacei della valle della Bassa Senna.
Presentemente, la maggior parte del territorio francese è compresa nel dominio della flora atlantica, caratterizzata dalla quercia peduncolata (Quercus pedunculata), essenza predominante delle foreste, associata al faggio (Fagus silvatica) nelle colline e nelle regioni più umide, al carpino (Carpinus betulus) e all'olmo (Ulmus campestris) nei luoghi più asciutti. Solo la regione mediterranea e i monti sopra i 500 metri (Vosgi, Massiccio Centrale, Giura, Alpi e Pirenei) rimangono esclusi da tale dominio, che, allo stato naturale, presenterebbe quasi dappertutto l'aspetto forestale.
Le rovine della Corte dei conti, lasciate in abbandono per una trentina d'anni nel cuore di Parigi, erano già invase da una flora forestale, la quale è stata studiata. Tuttavia certi terreni asciutti e quasi privi di suolo vegetale sono considerati, anche nel nord della Francia, assai difficili ad imboschire: tali sono la creta, quando non è ricoperta d'argilla silicea, e i banchi più duri del calcare grossolano eocene, che affiora su versanti a ripido pendio. Per più secoli, i savarts della Champagne Pouilleuse furono utilizzati soltanto per il pascolo o per la caccia; l'occhio vi scorgeva unicamente zolle erbose e, in macchie sparse qua e là, graminacee xerofile (Nardus stricta) con un piccolo carice (Carex humilis), alcune fanerogame come Coronilla minima, Phyteuma orbiculare, boschetti di susini selvatici (Prunus spinosa), cornioli (Cornus sanguinea), ginepri (Juniperus communis). Ma su una gran parte di questi savarts fin dai primi anni del sec. XIX si cominciarono a piantare pini, che ne hanno mutato interamente l'aspetto (Pinus silvestris e P. austriaca). Un'associazione simile si osserva sui versanti dirupati dei meandri incassati della Senna, plasmati nella creta di Normandia e nelle balze calcari del Vexin, dove fu studiata dall'Allorge (Juniperus communis, Sesleria caerulea, Prunus spinosa, Prunus mahaleb, Crateaegus monogyna, Genista tinctoria, Daphne laureola, ecc.).
Una gran parte dei terreni fangosi del bacino parigino, presentemente coperto di ricche colture di cereali, dovette avere un rivestimento non molto denso di querce, con radure che furono allargate dall'uomo. Sarebbe difficile stabilire se le specie erbacee con affinità orientali, che vi si notano, siano avanzi del periodo xerotermico o vi si siano, invece, introdotte favorite dal dissodamento.
La foresta di faggi, che è più comune nel nord e sulle colline piuttosto alte dell'est del Bacino Parigino (Coste della Mosa e della Mosella, primi contrafforti dei Vosgi), è più povera di sottobosco che il querceto, nel quale i nocciuoli, i sorbi (Sorbus aucuparia), i bossi (Buxus sempervirens), le rose selvatiche ecc. appaiono spesso al margine delle radure con tappeto erbaceo. Le alluvioni umide delle valli in origine dovettero essere occupate quasi dappertutto da ontani (Alnus glutinosa) e da prati talvolta paludosi con giunchi e carici, che l'uomo spesso trasformò in terreni coltivati o in prati da falciare. La flora acquatica, invece, non poté esser mutata; e le rive degli stagni sono generalmente contornate da una cintura di cannucce (Phragmites communis). Il loro colmarsi determinò un succedersi d'associazioni, che furono studiate dall'Allorge e da altri: lo scirpeto prende il posto del fragmiteto con Scirpus lacustris, Glyceria aquatica, Sparganium ramosum, Typha latifolia, Carex riparia; in seguito comparvero salici e ontani e, da ultimo, le betulle. Le regioni del litorale atlantico, soprattutto il Massiccio Armoricano, presentano un aspetto particolare, dovuto all'umidità del clima e del suolo impermeabile, all'estrema rarità del calcare e, fino a un certo punto, all'influsso dell'uomo. Le parti elevate delle colline, specialmente le creste di quarziti e le cupole granitiche, sono spesso rivestite da un'associazione di ginestrone (Sarothamnus scoparius), di giunchi (Ulex europea) e di eriche (Calluna vulgaris), tra i quali crescono alcune graminacee xerofile. Essi costituiscono ciò che comunemente si chiama la Lande. Nelle depressioni mal prosciugate la landa va perdendo le sue caratteristiche; la comparsa dell'Erica tetralix indica un terreno più umido, e il moltiplicarsi degli sfagni e dei muschi, infine, mette capo alla torbiera. Nella Bretagna, nella Vandea e nella Bassa Normandia, ci sono casi indubitati d'estensione delle lande in seguito al dissodamento di foreste o all'abbandono di colture; ma i luoghi elevati, che sono battuti dai venti e che hanno un suolo siliceo, probabilmente non sono mai stati ricoperti che di magri boschi di querce e di pini, inframezzati da macchie di giunchi e di eriche. Esistono torbiere anche nel Bacino Parigino, in certe valli o depressioni umide (valle della Somma in Piccardia, palude di Saint-Gond ed altre depressioni nella pianura della Champagne).
Oltre che per la distesa delle lande, la maggior parte del Massiccio Armoricano è notevole per una più forte percentuale di specie atlantiche; e siccome tali specie si osservano anche, più o meno, in tutto il bacino della Loira, il Flahault è stato indotto a distinguere un settore armorico-ligeriano. Tuttavia, allorché si passa a sud della Loira inferiore dalla Vandea e dal Poitou, ci si trova di fronte a nuove specie. Certamente bisogna distinguere un settore aquitaniano comprendente tutto il bacino di Aquitania, caratterizzato da una mescolanza di specie atlantiche con specie mediterranee emigrate passando per la soglia di Naurouze. La pianura sabbiosa delle lande di Guascogna, stendendosi dietro alle dune litorali, forma una regione piuttosto tipica, che allo stato naturale è coperta di pini, di lande con ginestre e brughiere intersecate da paludi torbose, che mantengono nella sabbia la formazione d'una crosta ferruginosa (alios). Può darsi che, col diboscamento, l'uomo abbia contribuito a rendere la loro mobilità alle sabbie immobilizzate, ma è certo che fin dal secolo XIX egli ha rimboscato immense estensioni regolarmente coltivate.
Su una striscia litorale alquanto ristretta, l'influsso oceanico si palesa coll'estendersi delle specie meridionali, favorite dal tepore degli autunni e dall'assoluta mancanza di geli. Così, il leccio (Quercus ilex) che s'incontra sino alla foce della Loira, insieme coi cisti e coi corbezzoli (Arbutus), forma fitti boschi nelle depressioni della Guascogna riparate dalle dune. Nell'isola di Noirmontier, poi, si coltiva la mimosa. Nel resto dell'Aquitania, hanno generalmente il sopravvento gl'influssi atlantici, così che le piante mediterranee appaiono soltanto nelle stazioni asciutte; e i calcari terziarî, che formano piccoli causses nel Ninervese e nel Castrese, portano lavande, Phyllirea ed anche lecci, con un aspetto che ricorda la garrigue, parola usata negli altipiani dei Causses del Quercy, come pure nei Ségalas del Rouergue granitico.
La vera linea di confine del dominio mediterraneo, ad ovest, non oltrepassa Carcassona; essa risale a nord, seguendo il Rodano fin presso Montélimar, racchiude tutta la bassa Provenza, compresa la Durance, fin presso Sisteron, e il Varo fino a Puget Théniers. Le associazioni vegetali caratteristiche sono le foreste di sugheri (Quercus suber) e di pini (Pinus maritima e P. halepensis) coi loro sottoboschi d'arbusti xerofili, spesso spinosi e profumati: grande erica bianca (Erica arborea), lauri varî, corbezzoli (Arbutus), cisti (specialmente Cistus monspeliensis), Phyllirea ecc. Sui terreni troppo poveri o diboscati il sottobosco esiste solo sotto forma di maquis.
In generale, i terreni calcari non sono capaci di nutrire neppure il maquis; essi sono il dominio della garrigue, specie di landa, il cui elemento essenziale è quella piccola quercia (Quercus coccifera), che in provenzale è detta garrus; non vi crescono che magri boschetti di bossi e ciuffi di graminacee xerofile. La presenza di rade foreste di lecci in certi punti degli altipiani calcari sous-cevenols avvalora l'ipotesi che la garrigue sia in gran parte un effetto del diboscamento. Sui terreni alluvionali, profondi e umidi, si notano nel dominio mediterraneo fitte foreste con alberi dalle foglie caduche (Quercus pedunculata, Fraxinus ornus, ecc.) e numerose liane. Senza dubbio, il diboscamento ha modificato assai i caratteri della vegetazione della regione mediterranea; la coltura della vite vi rappresenta una parte importante, e quella dell'olivo si può considerare assolutamente caratteristica.
Nel dominio mediterraneo francese, il Flahault distingue tre settori: uno occidentale (Rossiglione, Narbonese), dove sono assai numerose (58) le specie iberiche, tra le quali Sarothammus catalaunicus, Cistus populifolius, Astragalus narbonensis; uno centrale (bassa Linguadoca e pianura del basso Rodano), che è meno ricco e meno mediterraneo, a motivo dei venti freddi (mistral) e nel quale mancano sia le specie iberiche, sia le italiche; uno (Provenza marittima) a est di Marsiglia, il più tipicamente mediterraneo, con specie italiche in buon numero (85), principalmente col pino d'Aleppo, che contende il primo posto al leccio.
La flora orofila presenta caratteri abbastanza costanti nei varî monti della Francia: dappertutto c'è un ripiano forestale subalpino, caratterizzato dalla mescolanza del faggio e dell'abete; sulle vette abbastanza alte si stendono prati o lande alpine: il limite della foresta ha potuto essere abbassato dall'uomo, ma in generale è più basso nei massicci meno elevati (Vosgi, Massiccio Centrale), e nelle catene molto estese, come le Alpi, può essere 700 metri più in basso sulle catene esterne rispetto alle alte catene interne. Tale contrasto ha un'importanza anche maggiore che quello dovuto alla diversità delle latitudini, come si vede in questo prospetto:
Ciascuno dei diversi massicci montuosi ha caratteri floristici speciali. I Vosgi silicei differiscono interamente dal Giura calcare, sebbene dall'una e dall'altra parte il ripiano delle conifere sia molto simile. Soprattutto, il Giura meridionale offre una notevole percentuale di specie con affinità mediterranee, mentre in tutti gli altipiani del Giura si scorgono per lo più affinità con l'Europa centrale.
Il Massiccio Centrale si distingue per la complessità della sua flora, offrendo a sud-ovest affinità coi Pirenei e a sud-est affinità con le Alpi; gli altipiani aridi dei Causses hanno residui del dominio delle steppe dell'Europa Centrale (Adonis vernalis) e le Cevenne sui loro declivî inferiori hanno una certa impronta mediterranea. Le Prealpi della Savoia differiscono assai dalle Prealpi della Provenza, dove la vegetazione mediterranea sale fin oltre i 1000 metri; e lo stesso contrasto esiste fra i Pirenei occidentali, che hanno flora atlantica, e i Pirenei orientali, dove l'influsso mediterraneo si fa sentire fino ad altezze che si avvicinano ai 2000 m. e dove il ripiano forestale superiore presenta boschi di conifere speciali (Pinus uncinata).
Fauna. - Come la flora, la fauna francese è stata profondamente modificata dai mutamenti recenti del clima. Nell'epoca mousteriana-aurignaciana (ultima fase del periodo glaciale) vivevano grandi mandre di mammut, di rinoceronti dal pelo lungo, di cavalli, il bue muschiato, il Bos primigenius, il bisonte, lo stambecco (Capra ibex), il camoscio (Rupicapra), la marmotta, l'orso, il leone, la iena delle caverne; la renna era ancora rara. Dopo la regressione del ghiacciaio wurmiano (da 10 a 20.000 anni prima della nostra epoca), predominavano gli animali della steppa fredda, la renna e l'antilope saiga, che giunsero fino ai Pirenei, la lepre delle nevi, i lemming, gli spermofili, i gerboa, il ghiottone, la volpe polare. La civetta delle nevi e la pernice di monte vivevano sul suolo della Francia, e il tricheco frequentava le sue coste.
In seguito, il clima, prima assai umido (torbiere), divenne temperato ed anche più caldo che ai nostri giorni (epoca della quercia, 5000 anni e 2000 anni circa prima della nostra epoca). Il mammut si estinse; alcune specie si ritirarono nel nord dell'Europa; altre, rimanendo sul posto, si adattarono alla vita della foresta: cervo, alce, cavallo, cinghiale, bue e qualche animale delle steppe (come l'hamster), il camoscio, lo stambecco delle Alpi, la marmotta, la lepre bianca delle Alpi (Lepus varronis), l'orso, la martora e la lince. A fenomeni simili andò soggetta la fauna acquatica: si possono considerare come residui glaciali tutte le specie stenoterme con habitat discontinuo, che non possono vivere se non nell'acqua fredda e si riproducono nell'inverno, come i coregoni dei grandi laghi alpini e una moltitudine d'Invertebrati.
D'altra parte, un'immigrazione proveniente da paesi non soggetti alla glaciazione (Mezzogiorno e costa atlantica di sud-ovest) avvenne nelle epoche d'optimum termico e nelle regioni soleggiate e asciutte lasciò residui con distribuzione discontinua: una viverra, la genetta, proveniente dalla Spagna, si propagò nella Francia occidentale ad ovest della Loira e salì a nord, giungendo talvolta fino in Normandia; il ramarro, (Lacerta viridis), che s'incontra nelle stazioni isolate della valle del Reno, al pari della mantide religiosa, giunse fino alla regione normanna (è comunissima a Jersey); l'Helix pisana, forma mediterranea, per le dune litoranee giunse fino a Calais (1911) e a Dunkerque (1922).
Dominio marittimo. - La Francia, coi suoi tre mari dagli aspetti diversi del litorale, il Mediterraneo, la Manica e l'Atlantico, ha la fauna marittima più ricca e più varia di tutta l'Europa. La fauna mediterranea, nettamente distinta dalle altre due, comprende molte specie particolari di Pesci, di Molluschi, di Celenterati, ecc., che sono, almeno in parte, residui dell'epoca neogenica; vi si pesca il tonno (Orcynus thynnus), stenotermo d'acqua calda e salata, la sardina, l'acciuga, il corallo, le spugne. Sebbene la fauna della Manica-Atlantico sia tutta uniforme, a sud-ovest si nota tuttavia la presenza d'un certo numero di forme mediterranee (fauna lusitanica). Le pesche principali sono: quella del merluzzo affine al nasello, nel golfo di Guascogna; quella della sardina, pesce stenotermo d'acque temperate, il cui limite nord è la Bretagna; quella dell'aringa, nell'est della Manica. Nella zona costiera, fino al limite dell'altipiano continentale, si fa la pesca con reti per i fondi sabbiosi, e nella zona intercotidale, che rimane scoperta a bassa marea, si fa la pesca a mano e l'allevamento delle ostriche e delle arselle.
Dominio salmastro. - Comprende: 1. gli estuarî dei grandi corsi di acqua; gli stagni litorali delle coste della Provenza e della Linguadoca; le saline, i canali che sboccano in mare. La fauna, ricca d'individui e povera di specie, è una mescolanza di specie marine e di specie d'acqua dolce molto eurialine; alcune forme, come il gamberello Palaemonetes varians, l'isopode, Sphaeroma rugicauda, e l'anellide, Nereis diversicolor, vi trovano il loro optimum vitale. 2. gli stagni salsi continentali (tipo Lorena), formati da fondi di saline o da sorgenti naturali in comunicazione coi depositi triassici di salgemma. La fauna, piuttosto povera, non può provenire che dalle acque dolci continue; vi si notano tuttavia coleotteri proprî delle spiagge marittime, l'Artemia salina delle saline, la cui presenza non è facile a spiegarsi.
Dominio d'acqua dolce. - Su un centinaio di specie europee di Pesci d'acqua dolce, la Francia ne possiede 46 (non compresi i potamotochi che entrano nei fiumi soltanto per deporvi le uova); la loro distribuzione è assai diversa da quella degli animali terrestri, poiché nelle regioni orientale e nordica si osservano molte specie che non esistono nei bacini della Garonna e dell'Adour e che probabilmente esse hanno ricevuto dall'Europa Centrale (bacino del Reno e del Danubio); così la sandra (Lucioperca sandra) non vive che nella Saona e nel Doubs, lo Zingel asper non vive che nel Rodano e nella Saona; l'Acerina cernua nel sec. XIX è passata per i canali in più parti dei bacini della Senna e della Loira, il Misgurnus fossilis, il carassio (Carassius carassius), il rodeo (Rhodeus amarus) non vanno al di là del nord-est o del bacino della Senna. Già abbiamo parlato dei residui glaciali, quali, ad es., i coregoni. In alcuni casi si nota l'influsso del popolamento marino; il salmone, Salmo salar, d'acqua fredda, manca nel Mediterraneo e quindi anche nei bacini fluviali che sboccano in quel mare. Il Blennius fluviatilis, unico rappresentante d'acqua dolce d'un genere marino litorale che s'incontra nel sud e in Corsica, giunge evidentemente dal Mediterraneo, così come l'Atherina mochon, che ha risalito il canale del Mezzogiorno fino a Tolosa. Si sono acclimate quattro specie degli Stati Uniti: il persico-sole, Eupomotis gibbosus, introdotto nel 1886 e che estende la sua area nel sud-ovest e nel centro, passando da un bacino all'altro per i canali; il Micropterus salmoides, che non si allontana dai dintorni di Redon (Bretagna); l'Ameiurus nebulosus, importato verso il 1875 e che ora è assai comune nelle acque a corso lento e calde.
Dominio terrestre. - Bisogna innanzi tutto tener distinte le regioni montuose: le Alpi, il Giura e i Vosgi, i Pirenei ed anche le Cevenne e il Massiccio Centrale, che possiedono un gran numero di specie proprie, di cui alcune rappresentano avanzi glaciali, mentre altre sono endemiche della montagna: orso, marmotta, camoscio, stambecco, il Sorex alpinus, Salamandra atra, numerosissimi insetti, ecc. La maggior parte del territorio, regione piana o montuosa, non è facile a suddividersi: certamente, qualora si studii la fauna da nord a sud, si constaterà nel sud la presenza di specie che sono assai rare, disseminate o mancanti nel nord; e lo stesso avviene, sebbene con minore frequenza, qualora si proceda da est ad ovest; ma, con tutto ciò, non esistono separazioni ben definite. Per quasi tutti i Vertebrati terrestri e gl'Insetti, si può parlare all'ingrosso d'una regione meridionale, il cui tipo estremo è costituito dal lembo mediterraneo; essa è separata dalla regione settentrionale per mezzo di una striscia intermedia, il cui centro si può fissare al 46° di lat. nord. Tale regione che corrisponde su per giù al bacino del Rodano e della Garonna, risale a O. lungo l'Atlantico fino alla foce della Loira e oltre, ed è caratterizzata specialmente dai suoi Rettili (Gecko, Psammodromus, Chalcides, Lacerta ocellata, Caelopeltis monspessulana, Coronella girondica, Coluber longissimus), da alcuni Batraci, come Pelobates cultripes e Triton marmoratus, da alcuni Molluschi, come parmacelle, Zonites algirius della zona dell'olivo da moltissimi Insetti, dalle Scolopendre e dagli Scorpioni.
Il resto della Francia, al disopra del 46° parallelo, costituisce la regione settentrionale, bacino della Loira, della Senna, della Somma, della Mosa e della Mosella. Sebbene le differenze tra la parte continentale e la parte oceanica siano troppo irregolari per permettere una divisione netta, si può tuttavia osservare che il ghiro (Myoxus glis) e il moscardino (Muscardinus avellanarius) non esistono nel nord-ovest, così come il Pelobates fuscus, il Bombinator pachypus e la grande farfalla notturna Saturnia pyri, mentre il Pelodytes punctatus e la Rana agilis non esistono nel nord-est. C'è specialmente nella zona marittima un certo numero di molluschi, che poi non s'incontrano nell'est. Molti animali meridionali penetrano più o meno nella regione nordica, ossia fino all'estremità ovest, lungo il lembo marittimo (Pelobates cultripes, Phasmes della Loira Inferiore), potendo quindi risalire di là le valli dei grandi fiumi, ossia fino all'estremità est (avanzi xerotermi: Lacerta viridis nell'Alsazia, Lacerta muralis nella Lorena). La foresta di Fontainebleau è nota come estremo punto di penetrazione della fauna meridionale (Tropidonotus viperinus).
La fauna terrestre, con le sue regioni montuose, meridionale e nordica, e con la zona marittima, è relativamente ricca, possedendo più d'un terzo dei Mammiferi d'Europa; le mancano soltanto le forme assolutamente meridionali, spinte in Spagna e in Italia dal raffreddamento glaciale (sciacallo, istrice, ecc.), le forme assolutamente nordiche, scomparse all'epoca del riscaldamento postglaciale (lemming, renna, ghiottone) e le specie steppiche e desertiche dell'Europa orientale (spermofili, gerbilli, gerboa, spalaci, ecc.). Delle 91 specie europee di Rettili, un terzo (29) è francese; dei 43 Batraci d'Europa, la Francia ne possiede più che metà (22); e quanto a tutti gli ordini d'Insetti, i 4/5 dei generi europei e la metà delle specie s'incontrano in quel paese. Mancano, invece, i Rettili proprî del sud e dell'est dell'Europa: i Galeodes della Spagna e i granchi d'acqua dolce dell'Italia.
L'uomo esercitò la propria azione sulla fauna, facendo scomparire un certo numero di specie, il cui habitat era già stato ridotto dall'estendersi delle colture. L'ultimo orso d'Alsazia fu ucciso verso il 1760 presso Munster, e l'ultima lince fu uccisa nel 1863 presso Nizza; non ci sono più che pochi lupi, sparsi nel Poitou e nel Limosino; il castoro, che un tempo viveva in tante località e che nel sec. XVII era ancora abbondante in Alsazia, ora esiste solo in piccole colonie sul Basso Rodano e sul Gardon.
Dominio sotterraneo. - Nelle acque sotterranee della Francia non ci sono né pesci, né batraci; e le grotte più ricche di fauna cavernicola sono distribuite sui contorni calcari dei tre grandi massicci montuosi: Pirenei, Massiccio Centrale e Cevenne, Alpi. I Pirenei hanno una fauna d'antica origine, che ha dovuto penetrare nelle grotte prima del glaciale e dopo di esso (Speonomus, Aphaenops, Typhloblaniulus); le Cevenne possiedono un gran numero di tipi particolari (Sphaeromides), e così pure le Alpi (Luvalius). Le grotte del Giura (Caecosphaeroma) sono fredde e povere, e quelle del nord sono anche più povere; esse racchiudono soprattutto forme comuni (Asellus, Niphargus).
Dominio dell'influsso umano. - L'uomo ha fatto sorgere attorno a sé un vero centro di fauna speciale; le foreste assestate e le colture installate su terreni dissodati hanno offerto ricovero e nutrimento a specie steppiche, a rosicanti, a piccoli carnivori e ad uccelli, che, adattandosi alle nuove condizioni di vita, hanno attirato un'infinità di piccoli fitofagi, soprattutto insetti, i quali spesso abbandonate le piante spontanee che li nutrivano, hanno attaccato le specie coltivate o introdotte da altri paesi (Phylloxera). Le case, le cantine e le serre albergano non solo specie aborigene, che trovano in esse un ambiente favorevole, ma anche un certo numero di specie d'origine lontana, che involontariamente l'uomo trasporta seco da secoli, così che non si conosce la loro origine (blatte termiti, tignole, parassiti). Nelle case del nord s'incontrano varie specie, che nel Mezzogiorno vivono allo stato libero (nei forni, la Thermobia domestica, d'origine mediterranea, il grillo domestico dell'Asia o dell'Africa).
Caratteri etnici della popolazione. - La Francia può essere citata quale esempio d'uno stato, nel quale la popolazione presenta un notevole carattere d'unità nazionale, nonostante la diversità degli elementi che hanno contribuito a formarla. Varie cause spiegano tale condizione di cose: anzitutto, l'antichità dell'unità politica territoriale; poi, la posizione geografica della Francia, che, pur essendo contigua all'Europa centrale, fa parte dell'Europa occidentale e peninsulare, dove i grandi movimenti dei popoli originarî dell'Asia giunsero relativamente attenuati.
È vero che l'antropologia rivela in Francia taluni contrasti, ma gli scrittori non sono affatto d'accordo su una classificazione dei tipi fisici; e, in ogni caso, si tratta semplicemente di una tendenza al predominare di alcuni caratteri in alcune regioni.
Secondo Deniker, quasi tutto il nord della Francia mostra l'incrocio di una razza sub-nordica, dolicocefala e bionda, con una razza che egli chiama sub-adriatica, bruna e brachicefala. La razza subnordica presenta i caratteri attenuati della razza nordica tipica (alta statura, capelli biondi ondulati, occhi chiari generalmente azzurri, testa allungata e naso diritto), ben nota nella Danimarca e nella Scandinavia, e di cui le invasioni dei Normanni hanno lasciato tracce tanto all'estremità del Cotentin, quanto nel Pays de Caux. La razza sub-adriatica presenta i caratteri attenuati della razza detta adriatica o dinarica, che è fortemente brachicefala con occhi scuri e colorito piuttosto bruno. La parte meridionale del Massiccio Centrale (Cevenne e Causses), una parte delle Alpi (Savoia e Delfinato) e dei Pirenei (Ariège) offrono un tipo, che è stato chiamato cévenol, tarchiato, di bassa statura (m. 1,63), con cranio e faccia tondeggianti, capelli bruni, occhi bruno chiari o scuri: sarebbe l'Homo alpinus. Deniker distingue altresì in Francia due razze brune non brachicefale. La prima, che presenta affinità con la Spagna, è stata riconosciuta nell'ovest del Massiccio Centrale (Limosino), nel Périgord e nel Poitou: è di bassa statura (m. 1,61), con testa assai allungata (rapporto cefalico 73-76), capelli talvolta inanellati, occhi molto scuri; essa equivarrebbe alla "stirpe mediterranea" del Sergi. L'altra, con affinità piuttosto italica, esiste non solo nella Provenza e nella Linguadoca, ma anche nei Pirenei occidentali e centrali e sulla Loira: è di statura un po' superiore alla media, piuttosto mesocefala, con occhi scuri. In complesso, si può dire che i tipi biondi e dolicocefali tendono a predominare nel nord della Francia, e i tipi bruni, mesocefali o brachicefali, nel sud. Per giungere a intendere il significato delle differenze più lievi, occorrerebbe poter distinguere gli strati successivi delle popolazioni che si sono sovrapposte e mescolate.
Disgraziatamente, la storia del popolamento della Francia è nota soltanto all'incirca dall'epoca celtica. I nuovi elementi che cominciano ad apparire da quei tempi sono, senza eccezione, Arî legati da stretti vincoli di parentela; non vi sono Finno-ugri (Attila e i suoi Unni furono ricacciati nella battaglia dei Campi Catalaunici); non Semiti (gli Arabi non fecero che una comparsa assai breve in Aquitania, dove furono sconfitti da Carlo Martello); e neppure Slavi; ma vi sono unicamente Latini e Germani. E questa pure è, senza dubbio, una delle ragioni che valgono a spiegare l'unità nazionale francese. Degli elementi anteriori ai Celti, non si conoscono di nome che gl'Iberi e i Liguri, di cui forse rimangono tracce nel centro e nel sud della Francia, tra quelle popolazioni brune, dagli occhi scuri e dalla statura piccola o media. Gli stessi Celti dovevano già essere un incrocio di stirpi diverse, ma pare che fra essi predominassero le stature alte e i capelli biondi. Venuti dal nord-est o dall'est per la via del Danubio, da tre o quattro secoli almeno essi si erano stabiliti tra il Reno e la Garonna, allorché Giulio Cesare conquistò la Gallia. E sembra che anche a quei tempi esistesse il contrasto constatato ai nostri giorni tra il nord biondo e il sud bruno, contrasto che in seguito doveva necessariamente accentuarsi, per l'introduzione di nuovi elementi mediterranei al sud e di nuovi elementi biondi al nord, e forse anche per la conservazione di antichi elementi (come il tipo cévenol nelle montagne). L'influsso romano rafforzò l'elemento meridionale nella Provenza e nel Narbonese, e le invasioni barbariche fecero affluire in quantità considerevole i tipi del nord nei paesi della Senna, della Mosella e del Reno; ma, in realtà, tra i barbari soltanto i Germani arrivarono veramente numerosi e presero stabile dimora. Alcune tribù germaniche, e segnatamente quella dei Franchi, stabilitasi sul Basso Reno fin dal sec. I a. C., avevano già avuto contatti con la civiltà latina, che, insieme con la lingua, s'era imposta a tutta la Gallia; ed è da ritenersi che al tempo di Clodoveo tanto la composizione della popolazione della Francia quanto le condizioni della lingua fossero definitivamente fissate.
I linguaggi in uso in Francia (v. più oltre, pagina 964 segg.), oltre alla lingua comune, che è dappertutto il francese letterario, sono per 9/10 dialetti neolatini. Tra i Germani, soltanto gli Alemanni conservarono il loro linguaggio e l'imposero in quasi tutta l'Alsazia e nel nord-est della Lorena. Il dialetto alsaziano si parla anche oggi in tutto il versante orientale dei Vosgi, eccettuate le valli che hanno più facili comunicazioni con il versante lorenese, come quella di Sainte-Marie. Nella Lorena il confine del francese è segnato da una linea che passa per il Monte Donon e per Sarrebourg, continua a NO. fino ad Albestroff, volge a O. per Bensdorf lungo alcuni km., indi riprende la direzione di NO. fino alla Mosella, che attraversa un po' a sud di Thionville, e termina alla frontiera del Lussemburgo, presso Ottange. Come si vede, al momento dell'annessione del 1871 essa lasciava in territorio tedesco buona parte della Lorena di lingua francese. La Bretagna (v.) è l'unica regione della Francia che conservi tracce della lingua celtica; ciò è dovuto in gran parte alla sua condizione di penisola e alla difficoltà delle sue relazioni con la Gallia latinizzata, e in parte anche alle immigrazioni relativamente recenti di popolazioni celtiche, venute per mare dalla Cornovaglia e dall'Irlanda. Il bretone (v. celti: Lingue) è parlato solamente nelle campagne della Bretagna a O. d'una linea press'a poco in direzione N.-S., la quale parte da Saint-Quay sulla costa settentrionale a O. di Saint-Brieuc e termina circa alla foce della Vilaine sulla costa meridionale, passando per Plouagat, Corlay, Mur, Rohan ed Elven presso Vannes. Il catalano (v. catalogna: Lingua) si parla, insieme con il francese, nell'antico paese del Rossiglione: pianura di Perpignano e bacino montuoso del Têt e della Tech, fino alla frontiera spagnola e all'Andorra. Il francese, invece, è la lingua della valle d'Aran, regione delle sorgenti della Garonna, che appartiene politicamente alla Spagna. È da notarsi, infine, in una piccola parte del sud-ovest della Francia, il perdurare di una lingua che sta assolutamente a sé: il basco (v. baschi, Lingua), parlato dagli abitanti del dipartimento dei Bassi Pirenei, a sud del Gave d'Oloron e del basso Adour fino alla frontiera spagnola e anche al di là.
Le diversità di lingua, che, fatta eccezione per il basco e per il bretone, sono generalmente poco importanti, rappresentano una parte affatto secondaria nella vita nazionale. Si dovrebbe attribuire maggiore importanza alle diversità di temperamento, le quali forse dipendono più dall'ambiente che dalla natura degli incroci etnici. Vi sono in Francia un nord e un mezzogiorno nettamente distinti: da una parte, più lentezza, più gravità, più disciplina; dall'altra, più vivacità, più gaiezza, più individualismo. Si potrebbe altresì fare una distinzione di alcuni temperamenti provinciali; ma da varî secoli la capitale attrae a sé tutte le energie.
Da ultimo, è da segnalarsi un altro elemento di diversità: la religione. Il cattolicesimo e il protestantesimo si contesero la Francia per un centinaio d'anni, con lotte sanguinose; nel secolo XVII la monarchia assoluta riconobbe il cattolicesimo quale religione di stato. Gli sforzi fatti per sradicare il protestantesimo, mentre ebbero per effetto l'allontanamento di alcuni tra i migliori elementi della popolazione dal centro e dal mezzodì del paese, non riuscirono a togliere di mezzo il dualismo religioso in quelle regioni. Presentemente, il cattolicesimo è la religione di tutto il nord della Francia; il protestantesimo, invece, ha una diffusione notevole soltanto nell'Aquitania e nella Linguadoca, predominando di rado nelle campagne ed essendo la religione di gran parte della borghesia delle città, soprattutto a Tolosa, a Montpellier, a Nîmes, ecc. In nessun punto della Francia gli ebrei formano, come nell'Europa centrale e orientale, gruppi notevoli e isolati; essi sono abbastanza numerosi solo nelle grandi città, principalmente a Parigi.
Demografia. - Nel 1926, la Francia aveva una popolazione di 40.743.851 ab. (74 per kmq.), venendo, in Europa, dopo la Russia (100 milioni), la Germania (62 milioni), la Gran Bretagna (47 milioni) ed essendo pari all'Italia; per la densità, è di molto superata dal Belgio (255 ab. per kmq.), dall'Olanda (176), dall'Inghilterra (150) e dall'Italia (124). Il censimento dell'8 marzo 1931 ha dato una popolazione di 41.834.923 ab:, cioè, in media, 76 ab. per kmq. Alla fine del sec. XVI la Francia aveva già 20 milioni di ab.; due secoli più tardi (1815) ne aveva 30 milioni; e giunse più presto che tutti gli altri stati europei al massimo aumento della popolazione, perché più presto conseguì la sua unità e salì al più alto grado della sua potenza. D'altra parte, essa non subì nella stessa misura che l'Inghilterra, la Germania e il Belgio l'impulso industriale, che determina necessariamente un accrescimento della popolazione; ma rimase più agricola e rurale, così che, durante il sec. XIX, ebbe un aumento relativamente lento, passando dai 30 milioni del 1815 a 36 nel 1851 e a 38 nel 1900.
La demografia della Francia registra a un tempo una diminuzione delle nascite e una diminuzione delle morti, la seconda più considerevole che la prima. Tra il 1801 e il 1810, si avevano ancora 33 nascite per 1000 ab.; nel decennio successivo la cifra passò a 31,8, e la discesa continuò fin verso la metà del secolo; quindi ci fu una sosta: i decennî 1851-60, 1861-70, 1871-80 diedero rispettivamente 26,3, 26,3, 25,4; ma quasi subito dopo la discesa si fece di nuovo rapida: nel periodo 1901-09 le nascite furono solamente del 20,7, nel quadriennio 1921-25 del 19,3‰ e scesero ancora nel triennio 1926-29 (18,2). Se i mezzi adottati per favorire l'aumento delle nascite non diedero risultati notevoli, la lotta contro la mortalità (organizzazione dell'igiene, fondazione di numerosi ospedali, distruzione di abitazioni malsane) produsse, invece, mirabili effetti. Nei periodi 1877-86, 1896-1905, 1906-1913 il numero dei decessi per 1000 ab. discese da 22,5 a 20,4 e a 18,6. E il miglioramento continuò dopo la guerra: 17,2 nel periodo 1921-25; 16,8 nel periodo 1928.
La lieve eccedenza delle nascite non sarebbe bastata a portare la popolazione a 40 milioni, senza l'introduzione d'elementi dall'estero. Il numero degli stranieri esistenti in Francia, che alla metà del secolo scorso era di 380.000, a ogni censimento risultò sempre maggiore: nel 1906, esso era di 1.046.905, nel 1911, di 1.159.835; nel 1921, di 1.417.000; nel 1926, di 2.498.230. Se, dopo le perdite cagionate dalla guerra (che si fanno salire a 1.500.000), gli ultimi censimenti segnano un aumento della popolazione, esso va attribuito all'aumentare degli stranieri. Il dipartimento della Senna, con Parigi, è quello che ne ha il maggior numero (423.784, ossia 1/10 della popolazione); seguono i dipartimenti di frontiera del nord-est (Pas-de-Calais, 153.175 e Nord, 233.026) e quello della Seine-et-Oise (83.940). Nel mezzogiorno, per la presenza di Marsiglia, le Bocche del Rodano hanno 180.118 stranieri, quasi il 20% della popolazione; le Alpi Marittime ne hanno 140.640, ossia il 35%.
Il movimento della popolazione presenta differenze locali. Come in tutti gli altri paesi d'Europa, c'è un contrasto fra le regioni agricole, che si vanno spopolando, e le regioni industriali e i centri urbani, che sono in regolare aumento. Fino alla metà del sec. XIX, la popolazione francese fu soprattutto rurale; dopo il 1850, a ogni censimento le regioni agricole diedero un minor numero di abitanti. Tra il 1881 e il 1921, in 18 dipartimenti tutti i cantoni, fuorché uno, segnarono una discesa; essi furono: i paesi d'alta montagna (Basse Alpi, Alte Alpi, Alti Pirenei, Ariège), il Bacino d'Aquitania (Lot, Gers, Tarn-et-Garonne, Lot-et-Garonne), il Massiccio Centrale (Creuse, Corrèze, Alta Loira, Ardèche) e gli altipiani calcari dell'est (Mosa, Alta Saona). Nelle regioni industriali, invece, aumentò il numero degli abitanti: nel dipartimento minerario del Pas-de-Calais, il circondario di Béthune passò da 135.943 ab. nel 1850 a 402.521 nel 1911; l'aumento della popolazione procedette di pari passo con la produzione del carbon fossile (812.000 tonn. nel 1861, 20.637.000 tonn. nel 1911). Lo sfruttamento di ricche miniere di ferro, dopo il 1890, ha prodotta una vera rivoluzione nella Lorena, la quale era rimasta per lungo tempo agricola, con una densità di appena 40 o 50 ab. per kmq. e con tendenza allo spopolamento: in pochi anni, dal 1891 al 1906, la popolazione vi si è triplicata. Le grandi città hanno guadagnato assai per tale spostamento di popolazione: Parigi con i suoi dintorni contiene 1/10 della popolazione della Francia; Marsiglia e Lione superano i 500.000 abitanti; diciassette città raggiungono e oltrepassano i 100.000 abitanti.
Suddivisioni storiche e amministrative. - Sotto l'antico regime le grandi provincie francesi, entrate successivamente a far parte del dominio reale, con le loro tradizioni, con i loro privilegi e con la loro amministrazione provinciale e locale, presentavano un singolare ammassamento di circoscrizioni militari, finanziarie e giudiziarie. L'assemblea costituente fin dal principio della Rivoluzione (1790) si affrettò a spazzar via tutto il passato: abolì le istituzioni tradizionali, governi militari, generalità, parlamenti, podesterie, siniscalcati, e creò nuove ripartizioni: il dipartimento, il distretto o circondario (arrondissement), il comune. Le considerazioni geografiche non entrarono per nulla nella nuova suddivisione in dipartimenti. Le antiche provincie (Normandia, Bretagna, Guienna, Linguadoca, Provenza, Delfinato, ecc.) furono arbitrariamente smembrate in frammenti d'una superficie dai 5000 ai 7000 kmq., con confini assolutamente artificiali. Alle nuove suddivisioni amministrative furono imposti nomi derivati, o dalla loro posizione rispetto al mare (Manica, Côtes-du-Nord, Pas-de-Calais), o da un fiume che le attraversa (Lot, Dordogna, Ariège, Hérault, Doubs, Mosa, Mosella, Oise, Senna, ecc.) o da monti che ne costituiscono il rilievo (Vosgi, Giura, Cantal, Puy-de-Dôme, Alte Alpi, Basse Alpi, Alti Pirenei, Bassi Pirenei). Lo sviluppo delle vie di comunicazione ha reso troppo piccoli i dipartimenti francesi, e ha dimostrato la necessità, se non di ritornare alle antiche provincie, di raggruppare almeno gli 89 dipartimenti in 15 0 20 grandi regioni; ma queste aspirazioni, denominate dei régionalistes, non sono state finora esaudite che con raggruppamenti economici (camere di commercio).
Densità e distribuzione della popolazione. - La densità media della popolazione francese, 74 ab. per kmq. (1926), è il risultato di valori molto diversi. Varie sono le cause di tali diversità, ma in ogni caso possiamo riferirci a certi principî generali. Le maggiori densità si riscontrano nelle regioni urbane e industriali, nelle quali soltanto si nota un accrescimento costante. Le densità medie sono proprie delle regioni rurali più fertili e specialmente di quelle dove una volta esisteva qualche industria (tessiture casalinghe, piccola metallurgia, lavorazione del legno, ecc.): in tali regioni è cessato l'aumento della popolazione agricola, e la diminuzione spesso è dovuta alla scomparsa delle industrie rurali. La coltura dei cereali, anche nelle pianure fertili, porta seco una densità di popolazione relativamente debole, di molto inferiore alla media della Francia: ciò si nota soprattutto nella Beauce. La coltura della vite, invece, porta sempre seco densità relativamente forti (côtes della Sciampagna, Costa d'Oro borgognona e anche pianura della bassa Linguadoca); e lo stesso può dirsi per le colture degli ortaggi e delle primizie (valle del Rodano, Bretagna, ecc.). Pur non potendosi stabilire la massima che esista una relazione costante tra il valore dei terreni e la densità della popolazione, tuttavia i paesi delle piccole proprietà sono quasi sempre più popolati che quelli delle grandi proprietà. Le densità minime si riscontrano nelle regioni forestali, che possono avere una certa estensione anche nelle pianure (parte orientale del Bacino Parigino, lande di Guascogna), ma che in generale occupano una superficie maggiore sui monti (Alpi, Giura, Vosgi); e si riscontrano altresì nelle regioni dal suolo scoperto, ma assolutamente sterile (savarts della Champagne). Non occorre dire che la zona alpina nelle parti più elevate è spopolata e la zona subalpina è in gran parte poco abitata.
Le densità più alte (v. la carta) si trovano nel nord della Francia e specialmente nei dipartimenti confinanti con il Belgio: Nord (341), Pas-de-Calais (174). La presenza del più importante bacino carbonifero francese, dando origine a varie industrie, ha determinato l'intenso affittirsi della popolazione in questa zona ma il popolamento vi era assai notevole anche prima, per il fatto che, anteriormente al secolo XIX, un'agricoltura razionale già vi si accoppiava ad alcune industrie diffuse nelle campagne. Un'altra macchia scura contrassegna nella carta la bassa Normandia (Senna Inferiore, 140); anche qui si tratta di antiche industrie rurali (tessili), che ora si sono concentrate attorno ad alcune città, Rouen, Elboeuf, ecc.: la presenza di due tra i maggiori porti della Francia (Le Havre e Rouen) ne favorisce l'attività. I dintorni di Parigi hanno, ben s'intende, un popolamento assai denso, e la macchia s'estende sempre più, risalendo la valle dell'Oise fino a Creil. L'Alsazia è da lungo tempo una regione molto popolata; nonostante l'esistenza di grandi foreste, la media del dipartimento del Basso Reno giunge a 191 ab. per kmq.; ma a piè dei Vosgi si ha la densità massima (250 e 300 abitanti per kmq.) a motivo dei vigneti e del gran numero di piccoli centri industriali; tale zona si prolunga per la Porta di Borgogna verso la Franca Contea, in tutta la regione cotoniera e metallurgica di Belfort e di Montbéliard, fin verso Besançon. La Bretagna, benché abbia un suolo generalmente piuttosto povero, è una delle regioni più popolate; ma le forti densità sono tutte confinate sul litorale (200 e in qualche punto 250 ab. per kmq.), dove sono i migliori terreni, con colture di primizie, e quasi tutte le città (porti da pesca o porti commerciali). Il centro e il mezzogiorno della Francia presentano rarissime zone a forte densità; alcune di esse sono dovute alla presenza di bacini carboniferi, i quali, pur essendo meno importanti che quelli del nord, hanno determinato lo sviluppo della grande industria (Le Creusot, Saint-Étienne). Nell'Aquitania, la valle della Garonna, a motivo della sua fertilità e della sua funzione di via commerciale, contiene numerose città e grossi villaggi, che si dedicano a ricche colture: vigneti, alberi da frutto e primizie: la densità vi è quindi notevole. Anche la pianura vitifera della bassa Linguadoca ha una densità superiore alla media (100). Il corridoio Saona-Rodano, sebbene di grande importanza commerciale, non è tutto molto popolato: quivi la più estesa macchia scura della carta è quella dovuta alla presenza di Lione, che si riallaccia all'altra del bacino carbonifero di Saint-Étienne, e che, a motivo delle antiche industrie sparse qua e là in questa regione, si addentra nel basso Delfinato, giungendo quindi al Grésivaudan, l'unica delle grandi valli alpine che abbia densità superiori a 100 ab. Un'altra regione con forte densità e con aumento costante di popolazione è la pianura irrigata del Comtat (Avignone, Cavaillon, ecc.). I dintorni di Marsiglia e di Nizza presentano le ultime zone a intenso popolamento.
Le regioni con densità più debole non mancano neppure nel nord della Francia: la Champagne Pouilleuse con i suoi savarts è spopolatissima (meno di 20 ab. per kmq.), e gli elevati altipiani borgognoni (Châtillonnais, altipiano di Langres), rivestiti di grandi foreste, hanno deboli densità, che vanno diminuendo continuamente, essendo del tutto scomparsa l'industria del ferro, fonte un tempo di una certa prosperità. Questa zona va a congiungersi alle grandi foreste della Lorena. Il Massiccio Centrale è pochissimo popolato al disopra dei 700 e degli 800 m. (alto Limosino, alto Cantal, Margeride e Aubrac, alto Velay, alto Vivarais). Nell'Aquitania, le Lande della Guascogna sono sempre state quasi un deserto. Lo sfruttamento razionale delle pinete ha arricchito i rari villaggi, senza recare un aumento notevole della popolazione (Lande, 28 ab. per kmq.). Le Alpi non sono così deserte, come farebbero pensare le loro altezze.
La maggior parte delle ampie valli della Savoia e del Delfinato presenta zone con densità superiori alla media della Francia, le quali si spingono innanzi tra le solitudini della zona subalpina superiore e della stessa zona alpina. Invece le Alpi di Provenza sono quasi del tutto abbandonate dagli uomini: il diboscamento ha rovinato il terreno sui pendii: in un secolo, la popolazione relativa di alcuni distretti si è ridotta alla metà, giungendo a meno di 10 ab. per kmq.
Habitat rurale. - Nelle campagne francesi esistono due tipi di habitat: habitat agglomerato nei villaggi e habitat sparso. Il primo predomina in tutto il NE. della Francia, l'altro in tutto l'O.: se ne può tracciare la linea di delimitazione, partendo dal Pays de Bray, attraversando la Senna a monte di Rouen, lasciando a ovest la Perche e passando la Loira tra Orléans e Blois.
Da varie cause può aver tratto origine tale diversità di popolamento. In ogni modo è da notarsi che le case coloniche isolate e i piccoli aggregati di case si trovano in prevalenza nelle regioni oceaniche, con clima più umido e suolo generalmente impermeabile, e con grande copia di sorgenti e di ruscelli (Massiccio Armoricano e regioni argillose vicine); mentre i villaggi si trovano sugli altipiani calcari dell'Isola di Francia, sulle crete della Piccardia e della Champagne e sulle côtes della Lorena, dove spesso si devono scavare profondi pozzi per assicurarsi la provvista d'acqua. Tuttavia nel Bacino Parigino ci sono valli abbastanza umide e sorgenti dovute all'affioramento di strati impermeabili.
Senza dubbio l'habitat sparso e l'habitat agglomerato corrispondono a condizioni affatto diverse d'utilizzazione del suolo. Per lo meno fin dall'epoca gallo-romana, nei villaggi della parte orientale e centrale del Bacino Parigino è in uso l'avvicendamento triennale, con i terreni coltivati suddivisi in soles e con l'obbligo fatto a tutti di osservare la rotazione; non ci sono appezzamenti chiusi, ma campi aperti, che presentano il tipico aspetto della plaine; la coltura dei cereali occupa il primo posto e l'allevamento si faceva un tempo sui pascoli comunali. Nel Massiccio Armoricano, invece, specialmente in Bretagna, la casa colonica isolata è posta in mezzo alle sue terre, il cui trattamento è libero da ogni obbligo; gli appezzamenti sono chiusi, e le stesse strade sono fiancheggiate da rialti di terra con alberi, onde l'aspetto caratteristico del bocage. Anticamente ogni masseria produceva tutto ciò che le era necessario: cereali, ortaggi, polli e bestiame; quest'ultimo viene fatto pascolare da ciascuno nel proprio prato recinto. Mentre la piccola proprietà del contadino si formò per tempo nelle regioni delle plaines, la grande proprietà dominò e domina ancora in parte nelle regioni del bocage. Le consuetudini etniche, allegate da alcuni per spiegare le diversità dell'habitat rurale, può darsi che non vi siano state estranee. L'habitat agglomerato forse si diffuse nell'ovest in seguito alle invasioni germaniche. Così è noto che in Lorena ci fu tendenza alla concentrazione nei periodi più agitati nel Medioevo; mentre i periodi tranquilli per lo più fecero sorgere nelle regioni d'habitat agglomerato vaste fattorie in mezzo a grandi proprietà, di cui concentravano e organizzavano liberamente la coltivazione; così avviene nel centro del Bacino Parigino (Beauce, Brie).
Nel Massiccio Centrale predomina generalmente l'aspetto del bocage, eccettuate alcune pianure interne, come la Limagne. Ma accanto alle case coloniche isolate si trovano, in tutte le regioni abbastanza popolate, dei villaggi, i quali spesso accolgono oltre i ⅔ della popolazione del comune. Le case sparse sono in prevalenza sulle alture. Anche nell'Aquitania predomina l'aspetto del bocage nella molassa argillo-sabbiosa; ma c'è sempre un nucleo di villaggi agglomerati. La concentrazione, poi, predomina nelle parti più ricche (valle della Garonna). Nelle Alpi la regola è costituita dall'agglomerazione, benché si tratti per lo più di piccoli gruppi di case: le case isolate che si vedono sparse sui versanti sono abitazioni temporanee, occupate nei mesi estivi. Tutta la Francia mediterranea è un paese di villaggi (bassa Provenza e Linguadoca), dove l'influsso dell'ambiente si fa sentire insieme con quello della razza.
Habitat urbano. - La proporzione della popolazione urbana in Francia è assai debole (40%), se paragonata a quella dei paesi dove negli ultimi tempi l'industria ha occupato il primo posto nell'attività nazionale (Germania 64%, Gran Bretagna 68%), o a quella di paesi sorti da poco, come gli Stati Uniti (75%) e l'Australia (80%). Ma il numero delle città è assai grande, come deve essere in un paese d'antica civiltà. Rimandando per le città più importanti agli articoli ad esse dedicati, si indicano qui i principî generali che regolano la loro ripartizione: essa dipende dalle condizioni geografiche, ma non si può negare che lo sviluppo più o meno rapido di certi centri è stato determinato soprattutto dalle circostanze storiche.
Anche nella distribuzione delle città il rilievo ha una parte importante. Sui monti non ci sono grandi centri: l'unica città che nelle Alpi giunga ad avere 100.000 abitanti è Grenoble, posta a un crocicchio di profonde valli, ampiamente aperte sul paese antistante; quanto a Chambéry e ad Annecy, esse sono già città di pianura. Nel Massiccio Centrale, le città sono situate al margine del blocco montuoso in contatto con i bacini interni (Clermont-Ferrand, Aurillac), oppure ai piedi delle Cevenne (Le Vigan, Alais, Largentière, ecc.). Un succedersi di città, Pau, Tarbes, Foise, ecc., segna il contatto dei Pirenei con la pianura d'Aquitania: è una conferma della legge della frequenza delle città ai punti di contatto di regioni diverse, della quale si hanno numerosi esempî nelle regioni che sono di pianura e di collina insieme (città di mercato). Tali centri urbani sono tra quelli di maggiore antichità e durata, essendovene più d'uno che risale all'epoca celtica o all'epoca gallo-romana.
Le grandi valli, che sono vie naturali di comunicazione, e le antiche strade dell'epoca romana, sono sedi di città, di cui le più importanti occupano crocicchi dovuti all'opera dell'uomo o della natura. Un punto di facile passaggio su un gran corso d'acqua può essere una località favorevole; le città-ponti sono altresì citta-crocicchi, e la valle del Rodano ne presenta molteplici esempî. Il fiume che scorre tra rive sabbiose viene attraversato più agevolmente là dove si restringe, aprendosi la via fra qualche sporgenza del Massiccio Centrale; e ad ogni restringimento corrisponde una città: Montélimar, Valenza, Tournon, Vienna, Lione. Il passaggio di un fiume attraverso una linea di rilievo può anche dare origine a un incrociarsi di strade: così le côtes del Bacino Parigino centrale sono fiancheggiate da strade, mentre altre le attraversano nei punti dove si apre una breccia. A tali circostanze si deve appunto l'ubicazione di Nancy e di Toul; e Digione deve la propria importanza al passaggio aperto dalla valle dell'Ouche attraverso la Costa d'Oro. Accanto a questi casi, nei quali la natura ha determinato il crocicchio, altri ve ne sono in cui maggiore è l'iniziativa dell'uomo. Reims è un crocicchio antichissimo, non determinato, come quello di Épernay, dal passaggio d'un fiume attraverso la côte della Champagne. Un esempio dell'allineamento d'antiche città lungo grandi vallate è offerto dalla serie delle città della Garonna: Tolosa, Agen, Moissac, Marmande, La Réole, ecc.
Le città-porti costituiscono un caso speciale. La loro importanza dipende dal carattere del litorale e da quello del paese retrostante. Sulla costa dell'Atlantico, ciascuno dei grandi estuarî ha i suoi due porti, l'uno alla foce, l'altro all'ultimo punto cui giunge la marea (Le Havre e Rouen sulla Senna, Saint-Nazaire e Nantes sulla Loira, Pauillac e Bordeaux sulla Gironda); ma non sempre ambedue i porti hanno dato origine a una città: per lo più le vicende storiche hanno favorito il porto più antico e più lontano dal mare. Le coste a rias della Bretagna abbondano di porti naturali, di cui non pochi hanno determinato il sorgere di città (Saint-Malo, Saint-Brieuc, Brest, Quimper, Vannes, Lorient). Si è già accennato al gran numero dei porti naturali e delle antiche città che si ha lungo la costa rocciosa della Provenza e al loro piccolo numero sulla costa bassa della Linguadoca.
In breve, la scelta della posizione dipende da considerazioni commerciali. Molte tuttavia delle antiche città sono state città forti, sorte su alture facili a difendersi. E ubicazioni di tal genere si riscontrano, non solo in montagna, ma anche nelle regioni di collina e di pianura. Nelle Alpi, Briançon è posta su uno sbarramento glaciale; nel Giura, la vecchia Besançon occupava l'istmo d'un meandro incassato del Doubs. Così pure a un meandro incassato si deve la posizione forte di Semur nel Morvan. Similmente le collinette, contrassegni degli altipiani e delle côtes calcaree del Bacino Parigino, sono state occupate da città forti: tale è la posizione di Laon nell'Aisne e quella di Sancerre in riva alla Loira. In tempo di pace, queste città forti vanno soggette a intristire, eccetto che non si estendano nella pianura, verso le vie di comunicazione che passano ai loro piedi.
Si può affermare che l'importanza attuale delle città dipende dal posto che esse occupano nell'industria e dalla loro posizione rispetto alle grandi vie del traffico moderno, specialmente rispetto alle linee ferroviarie. Alençon era una città più importante di Le Mans, prima che la grande linea Parigi-Brest passasse per questo piccolo mercato, il quale è divenuto poi un crocicchio, dove si sono sviluppate parecchie industrie. Tra le numerose città antiche, nel sec. XIX ebbero un considerevole accrescimento quelle ch'erano situate in mezzo o vicino a bacini carboniferi; il che spiega il grande affittirsi delle città nella Francia settentrionale. Il solo bacino carbonifero del nord ne ha fatte sorgere moltissime assai vicine l'una all'altra: Lilla, Roubaix, Tourcoing, Armentieres, Lens, e, poco lungi, Douai, Arras, Cambrai. Lo sviluppo della metallurgia lorenese ha dato nuova vita a vecchie città, come Nancy, e ne ha fatto sorgere altre presso il bacino ferrifero di Briey. Al contrario, numerose antiche città di mercato, sorte al punto di contatto di regioni naturali diverse, si sono viste in pericolo, soprattutto in montagna (Alpi, Massiccio Centrale).
La ripartizione delle grandi città francesi che superano i 100.000 abitanti è di per sé abbastanza significativa: più di due terzi di esse si trovano nel nord della Francia; un terzo soltanto è al disotto del parallelo di Parigi. Eccettuati i porti (Bordeaux, Marsiglia, Nizza), tutta la parte meridionale della Francia, ch'è povera di carbon fossile, non ha che due grandi città con una popolazione superiore ai 100.000 abitanti: Lione e Saint-Étienne.
La funzione amministrativa ha avuto una parte notevole nell'accrescimento delle città francesi: durante il sec. XIX la maggior parte dei capoluoghi di dipartimento ha raddoppiato la propria popolazione, ma ve ne sono tuttavia alcuni che menano una vita stentata (Pontivy, La Roche-sur-Yon). Le condizioni economiche hanno in ogni caso il sopravvento.
Migrazioni. - Nonostante la stabilità della popolazione francese, sono da segnalarsi migrazioni che hanno modificato e continuano a modificare lievemente la distribuzione degli aggruppamenti.
Assai prima che si sviluppassero le moderne vie di comunicazione, i paesi relativamente poveri e troppo popolati inviavano un certo numero d'immigranti stagionali nelle terre ricche di prodotti agricoli e soprattutto nei centri urbani. I principali punti di partenza dell'immigrazione interna sono: le Alpi, specialmente la Savoia; i Pirenei, specialmente i Pirenei dell'Ariège; il Massiccio Centrale, specialmente l'Alvernia e il Limosino; e, infine, la Bretagna. Il punto di maggiore attrazione è, da lungo tempo, Parigi. Per lo meno fin dal secolo XVII vi si notano gli Alverniati, acquaioli e negozianti di carbone; i Savoiardi, facchini e spazzacamini; i Bretoni, servitori. Di solito, nei mesi d'inverno i montanari scendevano nelle grandi città, avviandosi per lo più verso la capitale; ma molto spesso accadeva loro di soggiornarvi parecchi anni e talvolta anche di porvi stabile dimora. Le ferrovie hanno fatto sì che un maggior numero di montanari si fermassero definitivamente nelle città; a Parigi più che altrove sono numerosi i Savoiardi, gli Alverniati, i Limosini e i Bretoni. Non di rado l'immigrato, dopo aver fatta fortuna, ritorna al suo paese, dove si fa costruire una casa, ch'egli abita solo nei mesi estivi: in tal modo, certi miseri villaggi dell'Alto Limosino o delle Alpi hanno assunto improvvisamente un aspetto di agiatezza.
Lo spopolamento delle campagne nel SO. della Francia vi ha richiamato un'immigrazione di contadini bretoni e vandeani, i quali si sono stabiliti specialmente nell'Aquitania meridionale. Dopo la guerra, parecchi profughi della zona invasa sono rimasti anch'essi in queste campagne; e non pochi Bretoni, fatti venire nella Beauce e nei dintorni di Parigi quali mietitori, tendono a fissarvisi stabilmente in qualità di fittavoli. Sono eccezionali i casi in cui la migrazione interna attenua le differenze di densità: di solito essa le accentua, accelerando lo spopolamento delle regioni povere (montagne) e accrescendo i centri urbani.
Gli scambî di popolazione con l'estero non hanno in Francia la stessa intensità e lo stesso carattere che hanno nei paesi ad essa vicini, poiché sono relativamente limitati, e l'immigrazione supera di molto l'emigrazione: e sembra che sia avvenuto sempre così, da varî secoli. Invero, l'attrazione esercitata dalla Francia è continuata anche dopo che questa ha perduto il primato politico e artistico; e l'affluire degli stranieri è andato aumentando nel sec. XX: il loro numero, che nel 1906 sorpassava il milione, appare di 2 milioni e mezzo nel 1926 (v. anche sopra nel paragrafo: Demografia).
Nei dipartimenti del SE. e nella zona mineraria della Lorena da lungo tempo la mano d'opera è fornita in gran parte dall'Italia; mentre il gran porto di Marsiglia attrae una popolazione fluttuante di oltre 100.000 individui, soprattutto operai, e le miniere di ferro del bacino di Briey, quando se ne cominciò lo sfruttamento, furono messe in valore da operai stranieri e specialmente italiani. Così alcuni centri industriali sviluppatisi in questi ultimi tempi nelle Alpi, per l'utilizzazione di cascate, attirano gli operai italiani: a Bellegarde (Ain) essi si trattengono soltanto durante l'estate, allorché la maggior portata d'acqua del Rodano vale ad azionare le turbine. Da poco in qua si è iniziata altresì l'immigrazione italiana agricola verso le campagne spopolate della Francia sud-orientale; e questa volta non si tratta già di operai che giungano per trattenersi una stagione, ma d'intere famiglie che si stabiliscono definitivamente nel paese, prendendo in affitto e talvolta anche acquistando poderi da altri abbandonati.
Conviene dare qui alcuni dati in particolare sull'immigrazione italiana in Francia, la quale non è solo notevole per l'intensità, ma anche per la forte percentuale degli emigranti italiani, che fissano nella vicina nazione stabile dimora. Il censimento degl'Italiani residenti all'estero, eseguito alla metà del 1927, diede come residenti in Francia 962.593 Italiani (su un totale di 1.267.841 Italiani residenti nei varî paesi europei). La rilevazione numerica del 1871 aveva dato, come residenti in Francia 83.300 Italiani: dunque in poco più di un cinquantennio si ebbe lo straordinario aumento del 1055%. Aumento che non fu naturalmente né continuo, né regolare, in relazione a varî fattori, interessanti l'una o l'altra, o ambedue le nazioni, e del quale i dati ufficiali che si posseggono non possono dare un'idea che in linee molto generali (soprattutto per il periodo 1911-1927, durante il quale si combatté la guerra mondiale). La rilevazione del 1881 dava come residenti in Francia 240.733 Italiani; quella del 1891, 295.741; quella del 1901, 292.000; quella del 1911, 419.234. Dei 962.593 Italiani residenti in Francia alla metà del 1927, 657.839 erano maschi e 304.754 femmine. I distretti consolari che segnalarono un maggior numero di Italiani furono quelli di Parigi (160.000), Marsiglia (152.000), Nizza (140 .000), Lione (128.400), Tolosa (69.500), Nancy (69.000), Chambéry (65.000). Le città francesi nelle quali risiedevano i maggiori nuclei di Italiani erano: Parigi (110.000), Marsiglia (100.000), Nizza (60.000), Lione (40.000), Cannes (14.000), Antibes (10.000): ma tutte queste cifre vanno intese con larga approssimazione, dati i continui spostamenti degli emigranti italiani fra una regione e l'altra. Dallo stesso censimento del 1927 risultarono esistenti in Francia 38 scuole primarie private italiane con 3021 alunni; si pubblicavano 9 periodici in lingua italiana (6 settimanali). Nel 1930 si diressero in Francia 167.191 Italiani (111.252 nel 1926, 56.783 nel 1927, 49.351 nel 1928, 51.001 nel 1929).
In tutta la regione vinifera del S. e del SO. si fa assegnamento sugli Spagnoli per il periodo della vendemmia; ma da una ventina d'anni molti di essi si stabiliscono definitivamente nella Bassa Linguadoca e nell'Aquitania, da principio come operai rurali e poi come fittavoli. Tra i paesi vicini alla Francia, i quali, come ben s'intende, le forniscono il maggior numero d'immigranti, si deve menzionare anche il Belgio. La comunanza non solo della lingua ma anche dei costumi con le popolazione del nord ha da lungo tempo favorito gli scambî: ogni giorno la frontiera è varcata da operai belgi che si recano a lavorare nelle miniere e nelle officine francesi; mentre la mano d'opera agricola belga è pure assai ricercata nelle zone a grande coltura di cereali, al momento dei lavori più pesanti e soprattutto per la mietitura del grano e per la raccolta delle barbabietole. Dopo la guerra, molti profughi belgi non hanno più fatto ritorno in patria, anzi ve ne sono stati di quelli che, con le loro famiglie, si sono stabiliti sul suolo francese in qualità di fittavoli, e hanno adirittura acquistato terreni nell'alta Normandia (specialmente nel dipartimento della Senna Inferiore), nella Beauce e persino nell'Aquitania.
Tra i paesi lontani, la Polonia fornisce il maggior numero di immigranti: operai rurali, che talvolta aspirano a diventare fittavoli nelle campagne del nord e del centro, e minatori che trovano lavoro principalmente nella Lorena. Dal 1918 si va determinando una corrente che proviene dalla Cecoslovacchia.
Giova tener presente che nel numero elevato degli stranieri segnalato dai censimenti in Francia, un terzo circa è costituito da ospiti di passaggio, tra i quali figurano cittadini di tutti i grandi stati, soprattutto Inglesi e Americani degli Stati Uniti, che sono stati attirati dagli affari o che viaggiano per diporto. Una percentuale più forte (forse il 50%) comprende i visitatori che si trattengono una stagione, che ritornano si può dire tutti gli anni, e che sono operai agricoli o industriali. Infine, un certo numero è formato da coloro che, dopo essersi stabiliti definitivamente in Francia con la loro famiglia, o dopo essersene creata una, per matrimonio contratto nel paese, domandano la naturalizzazione. Essi sono principalmente Italiani e Belgi, che in tal modo vanno ad accrescere la popolazione francese, soprattutto nei centri urbani.
Sebbene la Francia non possa annoverarsi tra i paesi d'emigrazione, in talune delle sue regioni c'è da molto tempo una tendenza alle migrazioni temporanee, la quale ha sospinto al di là delle frontiere un certo numero di Francesi. Fin dal sec. XVI fu notata la presenza di montanari delle Alpi francesi, non solo a Parigi e a Lione, ma anche nelle città dell'Italia settentrionale e nella Spagna dove per lo più erano facchini. Così alcuni nativi dell'Ubaye si sono recati al Messico come negozianti in articoli di moda, e ora occupano un quartiere nella città; essi rimpatriano, dopo aver fatto fortuna, e si fabbricano sontuose abitazioni in mezzo a villaggi che prima erano poveri.
Il permanere della popolazione francese nel Canada portò seco fino al sec. XIX un movimento d'emigrazione non molto importante, alimentato quasi unicamente da famiglie campagnole, un tempo agiate, recatesi in cerca di fortuna nelle pianure seminate a grano del Manitoba.
Ben più importante, s'intende, è la corrente d'emigrazione diretta verso le colonie francesi. Durante il sec. XIX l'Algeria e la Tunisia hanno ricevuto un forte contingente di coloni francesi, non pochi dei quali sopraggiunti in folla dall'Alsazia e dalla Lorena, annesse dalla Germania nel 1871. Nell'Africa settentrionale presentemente ci sono circa 800.000 coloni francesi provenienti da tutte le parti del paese. Il movimento di emigrazione, rallentato attualmente, non è tuttavia cessato del tutto. Le altre colonie francesi hanno un clima che non permette ai Bianchi di stabilirvisi definitivamente; i coloni vi sono poco numerosi e vi soggiornano con il desiderio continuo di rimpatriare, non appena abbiano fatto fortuna; i funzionarî, poi, non vi rimangono più di 3 anni consecutivi. L'argomento sarà trattato a parte negli articoli dedicati alle singole colonie.
Condizioni economiche.
Prodotti del suolo. - La Francia è sempre stata ed è anche oggi una regione più agricola che industriale. Sebbene rispetto alla popolazione totale i contadini diventino sempre meno numerosi (75% nel 1850, 38,3% nel 1926), soltanto un decimo della superficie del paese non è coltivato. La proprietà fondiaria è molto suddivisa: i proprietarî coltivano essi stessi il 60% dell'area messa a coltura, lasciando ai fittavoli il 27% e ai coloni il 13%. I piccoli appezzamenti costituiscono dunque la regola generale: si potrebbero far salire a 2 milioni e mezzo le proprietà minori di 1 ettaro e fissare a ettari 8,65 l'estensione media dei poderi.
I cereali occupano il primo posto, nonostante l'aumento dei terreni dedicati alla produzione dei foraggi. Nel 1913 essi occupavano 13.428.325 ha.; nel 1923 (con l'Alsazia e la Lorena) ne occupavano soltanto 11.350.990 ha., con una diminuzione di oltre due milioni di ettari (più del 16%). Il solo grano copriva una superficie che era del 20% inferiore a quella del 1913; invece, i terreni riservati alla coltura delle piante da foraggio, ai prati temporanei, prati naturali, pascoli per il bestiame da ingrasso passavano da 10.250.128 ettari del 1913 a 11.314.430 ha. nel 1923, con un aumento di oltre il 10%; mutamento la cui causa va ricercata nel rialzo del prezzo del bestiame e dei suoi prodotti, più forte che quello del prezzo dei cereali, specialmente del grano, e anche nella necessità, per parte degli agricoltori, di ridurre al minimo l'impiego della mano d'opera. Dal 1923 a oggi la superficie data a cereali è rimasta pressoché stazionaria (11.109.750 ha. nel 1929).
Fra tutti i prodotti dell'agricoltura francese, il più importante è il frumento, che occupa circa il 50% della superficie coltivata a cereali. In nessun paese d'Europa, eccetto che in Italia, si dedica al grano sì grande estensione di terreno. Questa pianta richiede un suolo ricco di calce e di acido fosforico e un clima temperato, con piogge primaverili, condizioni offerte da molte regioni della Francia: le pianure della Beauce, della Brie e delle Fiandre, l'altipiano piccardo, la soglia del Poitou, il Bacino d'Aquitania, i corridoi alluvionali della Provenza. Dal sec. XIX a oggi il quantitativo è più che raddoppiato, anzi nelle annate migliori triplicato dai 25-30 milioni di q. del 1815, la produzione è salita a 65-90 milioni (76,5 milioni di q. nel 1928; 91,7 nel 1929; 62,9 nel 1930); tuttavia i rendimenti medî per ettaro (da 12 a 17 q.) non sono molto elevati. Dopo la guerra il quantitativo di grano non basta più al consumo: nel 1928 la Francia ha importato 10,2 milioni di q. di grano, nel 1929, 14, 1 milioni, nel 1930, 10,4 milioni. A ogni modo, essa è ai primi posti fra i grandi paesi produttori.
L'interessamento per la coltura del frumento non fa sì che si trascurino gli altri cereali. L'avena occupa vaste estensioni nel NO., nell'O. e nel SO.: la sua coltura comprende circa 3,5 milioni di ettari, la sua produzione si aggira sui 45-55 milioni di quintali (49 milioni nel 1928; 54 nel 1929; 44 nel 1930), con un rendimento medio per ha. da 13 a oltre 15 q. Il granturco, che ha bisogno di umidità e di caldo, riesce bene soltanto nella zona della Bresse, nelle reculées del Giura e soprattutto nella regione costituita da molassa del Bacino Aquitano. I raccolti del 1929 e del 1930 diedero rispettivamente 4.739.000 e 5.594.000 q. Il grano saraceno, la segale e l'orzo, meno esigenti del granturco e del frumento, crescono bene nella Bretagna e nel Massiccio Centrale (plateau des Ségalas). Negli ultimi raccolti il grano saraceno ha dato da 3,5 a 4 milioni di quintali; la segala, su una superficie di 770-790.000 ha., ha dato da 7,5 a 9 milioni di q. (rendimento medio da 9,5 a 12 milioni di q.); l'orzo, su una superficie di 700-750.000 ha., ha dato 10-12 milioni di q. (14-17 q. per ha.).
Tra le colture alimentari, subito dopo i cereali è da ricordare la patata, che serve di nutrimento, non soltanto agli uomini, ma anche agli animali domestici e fornisce all'industria la fecola e l'alcool. Essa si adatta a svariati tipi di suolo e prospera ugualmente in climi diversi: viene coltivata in tutti i dipartimenti, su una superficie che giungeva a 900.000 ha. nel 1846, era di oltre 1.400.000 nel 1886, di 1.500.000 nel 1913, di 1.416.000 nel 1930. Nel 1913 il rendimento medio fu di 88 q. per ha., e la produzione totale di 136 milioni di q. Presentemente le annate meno favorevoli dànno una produzione superiore a 100 milioni di q. (112.639.500 q. nel 1928, 162.517.600 q. nel 1929, 134.289.970 q. nel 1930), mentre il rendimento, nelle annate migliori, supera i 100 quintali (115,6 nel 1929).
Per lungo tempo i legumi e i frutti, che erano oggetto di un traffico limitato, occuparono un posto di secondo ordine tra i prodotti agricoli; ma, fin dal sec. XIX, le cose sono mutate radicalmente. Intere regioni si sono specializzate nella coltura di tali prodotti, organizzandone la vendita. Oggi, attorno alle grandi città e nelle zone favorite da un suolo fertile, da acqua abbondante e da un certo grado di calore, si coltivano su larga scala legumi e primizie. La valle del Rodano, con le pianure irrigate della Contea e della Petite Crau, le huertas del Rossiglione, le valli del Lot e della Garonna, i dintorni di Brive, le côtes della Bretagna (paese di Léon), i dintorni di Parigi, la valle della Somma (orti dei dintorni di Amiens) sono diventati centri di orticoltura, i quali dànno un prodotto grezzo per ettari, che non può essere eguagliato da quello di alcun'altra coltura, fatta eccezione per la vite. Nel periodo tra il 1910 e il 1914, la media delle esportazioni dei frutti freschi giunse a 121.200 tonn. e quella delle esportazioni dei legumi freschi a 64.436 tonn.; per il solo dipartimento di Valchiusa si calcola a sette milioni di franchi il valore dei prodotti della frutticoltura e dell'orticoltura (fagioli, meloni, carciofi, piselli). I principali clienti stranieri sono l'Inghilterra, la Germania, la Svizzera e il Belgio.
Pochi paesi posseggono tanta varietà di frutti, quanta ne possiede la Francia: fragole della Bretagna, pere e mele delle regioni occidentali, prugne dell'Agenais, olive della Linguadoca e della Provenza, castagne del Massiccio Centrale (Vivarais e Limosino), arance e limoni della Costa Azzurra, ciliege e marasche dei Vosgi. Ma speciale menzione meritano il melo da sidro, che è l'albero delle regioni umide, e l'olivo, che è l'albero delle regioni mediterranee. I dipartimenti nei quali è più sviluppata la coltura del melo da sidro sono quelli della Bretagna (Ille-et-Vilaine, Morbihan e Côtes-du-Nord) e quelli della Normandia (Manica, Calvados, Orne). Essendo la produzione media totale del sidro di 15 milioni di hl. (nel 1928 se ne produssero 13,8 milioni di hl.; nel 1929, annata molto favorevole, ben 23 milioni di hl.) quantità superiore al consumo del paese, la Francia ne esporta nei paesi marittimi di là dalla Manica e dal Mare del Nord. L'olivo nella Linguadoca si ritira dinnanzi alla vite, come sulle spiagge della Provenza e della Costa Azzurra cede il posto alle colture dei fiori (rose, garofani, mimose), che sono di maggiore rendimento. Tuttavia si producono annualmente più di 400.000 q. di olive (435.320 q. nel 1928-1929, 487.700 nel 1929-30, 409.880 nel 1930-31), che dànno da 70 a 85.000 q. di olio.
La Francia occupa il primo posto tra i paesi produttori di vino di tutto il mondo. La vite vi prospera in numerosi dipartimenti fino a una linea limite che si potrebbe tracciare da Saint-Nazaire a Mézières per Parigi. A motivo dell'umidità eccessiva, manca in Bretagna, in Normandia e in Piccardia, mentre il suo dominio preferito è la regione mediterranea e principalmente il Rossiglione e la Bassa Linguadoca, dove prospera nei terreni più diversi: nelle sabbie delle pianure, nei calcari delle côtes e nelle antiche paludi. Nel Bordolese ne è resa agevole la coltivazione dal clima, dal calore sufficiente e dall'umidità moderata; e nelle altre parti del paese se ne ricavano buoni prodotti nei declivî bene orientati rispetto al sole: cresta dell'Isola di Francia, côtes lorenesi, valli alsaziane, altipiani borgognoni, margine orientale del Massiccio Centrale, reculées del Giura, valle della Loira. La produzione del vino varia assai da un'annata all'altra: nel 1875, essa salì a 85 milioni di hl. con una superficie di 2.250.000 ha.; durante la crisi della fillossera, nel 1889, discese a 25 milioni; nel 1900, dopo la ricostituzione dei vigneti, risalì a 67 milioni; e in seguito si mantenne tra i 40 e i 65 milioni per una superficie di circa 1.500.000 ettari. Il rendimento medio per ettaro è da 30 a oltre 40 hl., ma ci sono vigneti che ne dànno persino 300. I tre dipartimenti della Bassa Linguadoca (Hérault, Aude, Gard) da soli dànno metà della produzione francese; la produzione è più bassa in quelle regioni (Bordolese, Champagne, Borgogna, Beaujolais) che dànno "vini di qualità" di fama mondiale. Poiché il consumo interno è press'a poco di 45 milioni di hl. (1 hl. circa per abitante), il vino viene esportato in quantità considerevole.
Lo specchietto seguente dà la produzione del vino per una serie di anni:
Di tutte le piante industriali, la più importante è la barbabietola da zucchero, che viene coltivata su larga scala specialmente nelle pianure settentrionali (Nord, Pas-de-Calais), nelle terre a loess dell'altipiano piccardo, nella zona centrale del Bacino Parigino (Aisne, Oise, Seine-et-Marne, Seine-et-Oise), dove sono riunite tutte le condizioni favorevoli alla sua coltura: suolo fertile, calore medio, piogge abbondanti. L'impiego della barbabietola per la fabbricazione dello zucchero data soltanto dai primi anni del sec. XIX, ossia dal tempo del Blocco continentale. Da allora in poi, tale coltura ha prosperato sempre più, soprattutto in seguito alla soppressione della schiavitù, la quale rese meno remunerativa la coltivazione della canna da zucchero nelle Antille. Tra i paesi che sono grandi produttori di barbabietole, nel 1914, la Francia, con 210.000 ha., occupava il quarto posto. La maggior parte della regione messa a tale coltura essendo situata in zona di operazioni, la coltura stessa si ridusse nel 1914-15 a 93.432 ha., nel 1917-18 a 65.763 ha., nel 1918-19 a 54.690 ha. Dopo il 1919 si lavorò per accelerare la ricostituzione dell'industria dello zucchero (v. più avanti il capitolo industria), per cui nel 1919-20 la barbabietola occupò 61.940 ha., nel 1922-1923, 123.406 ha., nel 1924-25, 214.000 ha.; attualmente la superficie coltivata a barbabietola si svolge sui 240-250.000 ha., con una produzione di 50-60 milioni di quintali.
Nel 1913 la Francia diede appena la centesima parte della produzione mondiale del lino: 190.000 q. di lino in fibra su 17.000 ha. coltivati, segnando una forte diminuzione rispetto al cinquantennio precedente (nel 1865, 600.000 q. di lino in fibra su 40.000 ha.). Lo stato però ha cercato di aiutare questa coltura assegnando dei premî a coloro che la esercitano. Così la superficie coltivata a lino ha avuto negli ultimi anni un nuovo incremento, come mostra il seguente prospetto:
La coltura della canapa, che trova le migliori condizioni di suolo e di clima (terreni ricchi, calori temperati) nelle regioni dell'ovest, e prospera soprattutto nell'Angiò, nel Maine, nella Turenna, nella Bassa Bretagna, nel Poitou e nella Saintonge, dalla metà del sec. XIX a oggi si è ristretta straordinariamente, come mostra lo specchietto seguente:
Negli anni 1928, 1929 e 1930 la produzione fu rispettivamente di 37.720, 53.680 e 47.330 q. di canapa in fibra.
La coltura dei semi oleosi (colza, papavero e rapa) è pure in decadenza, specialmente per la scomparsa dell'illuminazione a olio. Nel 1882 essa occupava 137.000 ha.; oggi supera di poco i 20.000 ettari.
Il tabacco, il cui commercio è monopolio dello stato, si coltiva, con l'autorizzazione e sotto la sorveglianza dello stato stesso, in 33 dipartimenti, principalmente nel sud-ovest (Lot-et-Garonne, Dordogna, Gironda). Grazie ai concimi chimici, il rendimento delle piantagioni è molto più elevato nelle regioni settentrionali che in quelle meridionali. La produzione, che si mantiene fra i 230 e i 285.000 quintali (nel 1927, 287.490 q. su 15.660 ha.; nel 1928, 227.080 q. su 15.430 ha.; nel 1929, 285.330 q. su 14.820 ha.), è lontana dal bastare al consumo, il quale è superiore ai 530.000 quintali.
Diventando sempre più comune l'uso della birra, si fanno sempre più numerosi i terreni a luppolo, tra i quali i migliori sono quelli dell'Alsazia, della Lorena, del Nord e della Borgogna: nel 1928 se ne raccolsero 41.260 q.; nel 1929, 62.490 q.; nel 1930, 29.425 quintali.
Allevamento del bestiame. - In passato l'allevamento si faceva soltanto nei prati naturali e nei pascoli di montagna, i quali coprono una superficie di circa 5 milioni di ettari; ma acquistò maggiore importanza per l'estendersi dei prati artificiali (trifoglio, erba medica, ecc.), la cui superficie aumentò del 28% dal 1892 al 1909, continuando ad aumentare dopo il 1918. È da notare che la zona dei foraggi artificiali coincide con quella dei cereali (pianure del Nord, della Brie e della Beauce).
Nella seconda metà del secolo scorso, il bestiame francese, fatta eccezione per gli asini, i muli e le pecore, fu sempre in aumento. Assai diminuito negli anni della guerra, esso si ricostituisce lentamente (come mostra il prospetto che segue) benché ora le circostanze gli siano in tutto favorevoli (aumento dei terreni lasciati a prato naturale, ritorno alle produzioni d'anteguerra per le radici, le barbabietole e le polpe, residui delle fabbriche di zucchero e di alcool).
I cavalli si allevano nei terreni impermeabili e con clima umido: nell'Ovest (Bretagna, Normandia, Maine, Perche), nel Nord (Boulonnais, Fiandre, Hainaut), nell'Est (Ardenne e Champagne Humide), nel centro (Morvan, Nivernese, Charolais, Alvernia, Limosino), nel sud-ovest (Landes e paese di Tarbes). L'allevamento dei bovini richiede pingui pascoli, e si esercita in regioni a clima piovoso, sui terreni impermeabili o sui terreni vulcanici degli altipiani basaltici e nelle montagne (Bretagna, Normandia, Limosino, Charolais, altipiani basaltici del Cantal, del Giura, Pirenei, Alpi).
Il bestiame minuto (ovini) si contenta delle erbe corte che crescono sui terreni calcarei, permeabili (Champagne Pouilleuse, Grandi e Piccoli Causses) o nelle regioni dal clima mediterraneo (Linguadoca e Provenza). In alcune regioni gli ovini vengono allevati in greggi transumanti, che durante l'estate sono mandati sui monti (Alpi, Pirenei, Massiccio Centrale), e al cominciare dell'autunno sono ricondotti nelle valli e nelle pianure, dove passano il resto dell'anno nelle stalle. Nei paesi dove si allevano gli ovini, e specialmente nelle Prealpi francesi meridionali, è avvenuta una vera rivoluzione allorché si sono sviluppate le vie di comunicazione, le quali hanno permesso d'introdurre i concimi chimici e di creare in ogni parte, con l'aiuto dell'irrigazione, prati artificiali. Ora si tende ad abolire la transumanza e a tenere le greggi nelle vicinanze dei villaggi, anche l'estate. Esse non sono più allevate per la lana, ma per le carni; e, d'altra parte, lo sviluppo dei prati artificiali porta con sé la diminuzione del numero degli ovini e l'aumento dei bovini.
La latteria, per la sua stessa natura, è limitata alle zone ricche di pascoli. La produzione totale annua del latte di vacca, che nel 1913 si calcolava di 128 milioni di hl., dopo un periodo di crisi poté lentamente salire fino a circa 122 milioni nel 1926. Tra i dipartimenti grandi produttori, vengono primi l'Ille-et-Vilaine e il Nord, con 4.500.000 hl. per ciascuno. Una parte del latte viene trasformata in varî prodotti (burro e formaggi). Per tradizione, in passato, il latte veniva per lo più trasformato alla fattoria; ora gli stabilimenti per il trattamento industriale del latte crescono di numero, o piuttosto allargano ogni giorno più la cerchia d'approvvigionamento, con il migliorare dei mezzi di trasporto. La Normandia con la regione d'Isigny, la Bretagna, le Charentes, il Poitou e le Fiandre sono sempre in prima linea per la produzione del burro: nel 1926 questa assorbì nell'intera Francia oltre 41 milioni e mezzo di hl. di latte, vale a dire il 34% della produzione totale. La Francia il paese dei formaggi; e ogni regione possiede il suo prodotto locale (Cantal, Roquefort, Brie, Camembert). I più diffusi vengono fabbricati principalmente nelle fromageries industrielles (società, stabilimenti privati). La cooperazione ha preso un grande slancio nei dipartimenti del Giura, della Savoia e dell'Alta Savoia; invero, mentre il solo Giura ha 400 società cooperative, nell'Alta Savoia ve ne sono 425, le quali fabbricano 12 milioni di kg. di formaggio gruyère all'anno. Nel 1925 si adoperarono per la fabbricazione di formaggi quasi 18 milioni di hl. di latte di vacca, oltre 1 milione di hl. di latte di capra e oltre 700.000 hl. di latte di pecora. Per il Roquefort, che deve le sue speciali qualità alle cantine naturali in cui viene fatto fermentare, si adoperano i 430.000 hl. di latte che si ricavano dalle pecore della regione dei Causses (produzione media: 7 milioni di kg.).
Foreste. - Nel 1913 le foreste coprivano una superficie di 9.890.000 ha., cioè un po' più che la sesta parte del territorio francese; e la superficie, lungi dall'essere in diminuzione, era aumentata in un secolo di oltre un milione di ettari. Le foreste francesi hanno sofferto i danni della guerra (166.000 ha. distrutti, sui 652.855 della zona di operazioni), ma la restituzione dell'Alsazia e della Lorena ne ha apportati 440.000 ha: nel 1929 i boschi e foreste occupavano infatti un'area di circa 10 milioni e mezzo di ha. Lo stato, i dipartimenti, i comuni, certe pubbliche istituzioni e circa 85.000 proprietarî, possiedono i ¾ delle foreste della Francia. Tali foreste sono distribuite in modo assai ineguale: la grande pianura dell'ovest e tutte le terre la cui altezza è inferiore ai 200 m., le quali costituiscono più che la metà dell'intera superficie e contengono i ⅔ della popolazione, non hanno che ⅓ delle foreste, pur essendovi compresi i 978.000 ha. della Guascogna; invece le regioni al disopra dei 500 m. (monti del centro e della periferia) ne possiedono la maggior parte. I grandi sistemi montuosi, nonostante gli eccessivi diboscamenti, hanno conservato zone boschive molto importanti: le foreste della Grande-Chartreuse e del Vercors nelle Alpi, le foreste di Mercoire e d'Aubrac nel Massiccio Centrale, la foresta di Quillan nei Pirenei. Il Bacino Parigino è discretamente ricco di foreste, che si sviluppano sui terreni sabbiosi o su le côtes calcaree della parte orientale (foreste di Compiègne, di Villers-Cotterets, di Fontainebleau, foresta di Haye tra Nancy e Toul, foreste dell'Argonne). A queste antiche foreste sono da aggiungere le pinete create recentemente nei terreni infecondi: crete della Champagne Pouilleuse, argille della Sologne, sabbie delle Landes.
Prima della guerra la produzione totale del legname era calcolata di 25 milioni di mc. (7 milioni di mc. di legname da costruzione e 18 milioni di legna da ardere); l'Alsazia e la Lorena davano 650.000 metri cubi di legname da costruzione e 1.366.000 di legna da ardere. La produzione francese di legname non è sufficiente per il consumo; e se ne deve importare dalle regioni settentrionali dell'Europa e dalle colonie francesi. Oltre i combustibili e i materiali da costruzione, la Francia ricava dalle sue foreste il sughero, nei Maures, nell'Esterel e negli Albères, e la resina (pinete delle Landes), che, con la trementina, rende più di un mezzo miliardo l'anno. Le cartiere impiegano 640.000 tonn. di pasta di legno, di cui solo 180.000 prodotti in Francia: provengono specialmente dall'Isère, dalla Charente, dalla Dordogna, dai Vosgi e dalla regione parigina.
Pesca. - La pesca, specie quella marittima, dà un forte contributo all'alimentazione nazionale. La pesca fluviale, esercitata nei corsi d'acqua e negli stagni della Sologne e della Dombes, dà lucci, trote, anguille, ecc., ma in quantità relativamente piccola. La pesca marittima viene esercitata in alto mare o sulle coste. La pesca d'alto mare o pêche hauturière ha carattere industriale: viene fatta da imprese bene organizzate, con grandi capitali. Battelli a vapore con grande autonomia vanno sostituendo ogni giorno più le imbarcazioni a vela: essi partono dai grandi porti, per andare a pescare, durante l'inverno, i merluzzi nel nord dell'Atlantico (Terranova, Islanda), e, tra il luglio e l'ottobre, le aringhe nel Mare del Nord.
La pesca sulle coste è un'impresa privata, generalmente individuale, esercitata sempre più per mezzo di battelli a vapore dai patrons pêcheurs: pesca delle aringhe nel Mare del Nord e nella Manica, delle sardine nell'Atlantico e nel Golfo di Guascogna, dei tonni e degli sgombri nel Mediterraneo. La pesca tende a raccogliersi intorno ad alcuni centri, che si sono creati un attrezzamento perfezionato per la conservazione e per la spedizione del pesce: Boulogne, il primo porto di pescatori, non solo della Francia, ma anche del continente, dove la pesca nel 1920 diede quasi 70.000 tonn. di pesce, per un valore di 120 milioni di franchi, un sesto circa di tutto il pesce raccolto in Francia; Lorient, con un attrezzamento assolutamente moderno; la R0chelle, Arcachon. Ormai, per quanto concerne la pesca i piccoli porti disseminati lungo tutto il litorale hanno perduto qualsiasi importanza.
La pesca ha fatto sorgere l'industria della conservazione e della salagione del pesce; la preparazione di conserve di sardine si esercita specialmente sul litorale bretone, fra Brest e Nantes, soprattutto a Douarnenez e a Concarneau. L'allevamento delle ostriche a Cancale, a Marennes, ad Arcachon, e altrove è una fonte di guadagno per le popolazioni marittime; tra Dunkerque e Saint-Jean-de-Luz vi sono una quarantina di tali centri.
Miniere e industrie. - In Francia, l'industria si sviluppa sempre più, senza per altro esercitarvi una funzione così importante come in Inghilterra e in Germania; la percentuale della sua popolazione industriale e urbana è passata dal 25% nel 1850, al 42% nel 1911, al 46,4 nel 1921. Il sottosuolo francese non è privo di materie prime: il carbone vi si estrae in quantità quasi sufficiente per il consumo delle officine; in seguito all'annessione del bacino minerario della Lorena, la Francia è diventata il paese europeo più ricco di ferro; essa possiede altresì abbondanti riserve di carbone bianco. Costretta a importare la maggior parte delle materie prime occorrenti all'industria tessile (lino, canapa, lana), supplisce a questo difetto mercé l'abilità e il gusto dei suoi industriali, dei suoi artigiani e dei suoi operai e dà anche prodotti di lusso all'esportazione.
Carbone. - Pur rimanendo lontana dalla produzione di carbone dell'Inghilterra (circa 250 milioni di tonn.) e della Germania (circa 150 milioni), la Francia è tra gli stati europei che lo producono in maggiore quantità: 51.365.000 tonn. nel 1928, 53.736.000 nel 1929, 53.884.000 tonn. nel 1930. I suoi bacini carboniferi coprono 550.000 ha., e sono distribuiti in varî gruppi: una serie di piccoli bacini si trova sul margine del Massiccio Centrale (Alès, Bessège, Saint-Étienne, Le Creusot, Commentry, Aubin, Decazeville, Carmaux, Graissessac); nel Nord, in continuazione del bacino carbonifero belga, si trovano i bacini del Nord (Anzin-Valenciennes) e del Pas-de-Calais (Lens, Béthune, Liévin), molto più importanti per l'estensione, per la potenza delle riserve e per il valore della produzione che rappresenta più che la metà del totale. L'estrazione del carbon fossile cominciò in Francia al tempo del Colbert e progredì lentamente: nel 1789 dalle miniere francesi non si ricavava neppure la centesima parte del quantitativo di prodotto che esse dànno attualmente. Durante il sec. XIX la produzione aumentò gradualmente: fu di 1.940.000 tonn. nel 1820, di 3.000.000 tonn. nel 1840, di 8.300.000 tonn. nel 1860, di 19.300.000 tonn. nel 1880, di 33.400.000 tonn. nel 1910, di 40.800.000 tonn. nel 1913. Prima della guerra la sola regione del Nord produceva il 66% del carbon fossile francese. Durante la guerra la cifra della produzione si abbassò fortemente: nel 1915 fu di 18.855.000 tonn.; nel 1916 di 20.540.000 tonn., nel 1918, di 26.259.000 tonn. Essa si elevò poi notevolmente a cominciare dal 1921, con il ricostituirsi delle miniere invase e con il ritorno allo stato normale di quelle non invase: nel 1924 aveva già raggiunto 44 milioni di tonn., nel 1926 superava i 51 milioni di tonn. Alla produzione francese si deve aggiungere la produzione delle miniere della Sarre, che con il trattato di Versailles è stata assegnata alla Francia per 15 anni. Tale produzione nel 1929 fu di 13.579.000 tonn. In pochi anni, dunque, la Francia ha ristabilita la sua situazione rispetto al carbon fossile; ma la produzione è sempre inferiore al consumo (di 23 milioni di tonn.).
Minerali di ferro. - La Francia, con i suoi 50 milioni di tonn. di minerali di ferro, occupa il secondo posto tra i grandi paesi produttori, venendo dopo gli Stati Uniti (70 milioni di tonn.) e lasciando a gran distanza l'Inghilterra, la Svezia e la Germania. L'estrazione dei minerali di ferro è sempre stata ed è tuttora più intensa nella parte lorenese delle Marches de l'Est. Essa data dal Medioevo, ma non fece progressi notevoli prima del sec. XIX. Alla vigilia della guerra del 1870, la vicinanza delle miniere di carbone della Sarre incoraggiò l'industria del ferro. L'estrazione del minerale di fianco alle collinette e agli scoscendimenti delle côtes della Mosella, al limite superiore del Lias, si estese da Nancy a Longwy: è noto che gli affioramenti della minette lorenese determinarono il tracciato della frontiera del 1871. Di là da tale frontiera, imposta dalla Germania, i proprietarî di ferriere francesi scoprirono, profondo sotto gli strati giurassici dell'altipiano di Briey, un ricco bacino di minerali di ferro, il quale nel 1913 diede 17 milioni di tonnellate.
Fino al 1907 la Francia non produceva minerali di ferro sufficienti per il suo consumo e doveva acquistarne principalmente in Germania, nel Belgio e in Spagna; in quell'anno, per la prima volta, l'esportazione dei minerali francesi fu superiore all'importazione dei minerali stranieri. Le operazioni militari degli anni 1914-18 fecero diminuire enormemente la produzione; ma in compenso il ritorno alla Francia delle regioni annesse dalla Germania nel 1871, ha aumentato del 100% le possibilità dell'estrazione. I giacimenti lorenesi, che da soli rappresentano il 95% della produzione totale francese, diedero nel 1928: il bacino di Metz-Thionville, 20.404.000 tonn.; il bacino di Longwy-Briey, oltre 25.000.000 di tonn.; il bacino di Nancy, circa un milione di tonn.; nello stesso anno i bacini secondarî produssero: il bacino di Normandia, 1.300.000 tonn.; il bacino d'Angiò e Bretagna, circa 650.000 tonn.; il bacino dei Pirenei, 180.000 tonn. La produzione francese di minerali di ferro si è rapidamente accresciuta negli ultimi anni: dai 28,9 milioni di tonnellate del 1924 è salita a 35,7 nel 1925, a 39,4 nel 1926, a 45,4 nel 1927, a 49,0 nel 1928, a 50,5 nel 1929; nel 1930 la produzione è stata di 48,4 milioni di tonn. di minerale.
Altri minerali. - La produzione francese di minerali di rame può dirsi di nessun conto: 12.000 tonn. per un consumo di 100.000. Il piombo prodotto in Francia si ricava principalmente dalle miniere di Pontpéan (Ille-et-Vilaine) e di Pontgibaud (Puy-de-Dôme) e una certa quantità è data dai dipartimenti della Lozère, delle Alte Alpi, dell'Aveyron e della Corsica. La produzione totale, alquanto oscillante da un anno all'altro (11.800 tonn. nel 1927; 24.500 nel 1928; 12.100 nel 1929; 19.200 nel 1930), è in ogni caso lungi dal bastare al consumo delle officine dedicate alla metallurgia del piombo, soprattutto di quelle di Coueron (Ille-et-Vilaine) e di Noyelles-Godault (Pas-de-Calais). Il deficit è colmato da importazioni provenienti dal Belgio, dall'Inghilterra, dal Messico e dalla Germania. Le miniere di Malines (Gard) e delle Bormettes (Varo) possiedono i principali centri d'estrazione dei minerali di zinco (la produzione totale francese di minerali di zinco ha raggiunto nel 1928 le 92.000 tonnellate). Il minerale è lavorato nelle officine di Viviez (Aveyron), d'Auby (Nord) e di Noyelles-Godault. La produzione francese di minerali di stagno è senza alcuna importanza, le miniere dell'Allier e della Creuse ne dànno appena qualche tonnellata, e lo stagno viene poi lavorato nelle officine di Dives e di Harfleur. Su una produzione mondiale di circa 28.000 tonn. d'antimonio, le officine dell'Alvernia, della Mayenne e della Vandea ne forniscono 2250 tonnellate. Nel 1913 due paesi soltanto erano importanti produttori di bauxite: gli Stati Uniti (213.000 tonn.) e la Francia (309 mila tonn.). Dopo il 1919 la produzione e il consumo francese si sono sviluppati fortemente e recentemente la Francia è di nuovo al primo posto nel mondo per la produzione di questo minerale, che essa dà in quantità superiore alle 500.000 tonn. (597.800 nel 1928, 643.000 nel 1929, 538.300 nel 1930). Similmente fece progressi la metallurgia dell'alluminio: tra il 1913 e il 1925 la produzione francese salì da 13.500 a 18.400 tonn. ed è continuata ad aumentare negli anni seguenti: 25.000 tonn. nel 1927, 26.400 nel 1928, 29.000 nel 1929. Le officine della Savoia forniscono il 64% e quelle delle Alte Alpi il 19% della produzione totale. La Francia è assai ricca di sale. Nel 1924, che può considerarsi un anno normale, le miniere di salgemma dell'est (Lorena, Giura) diedero 878.000 tonn. e quelle del SO. (Landes, Bassi Pirenei, Alta Garonna) 57.000, vale a dire un totale di 935.000 tonn.; le saline diedero 415.000 tonn., di cui 355.000 prodotte dai sei dipartimenti del Mediterraneo e 60.000 dai dipartimenti dell'Atlantico. Nell'ultimo triennio la produzione totale del sale ha oscillato fra 930.000 e 1.150.000 tonn. (1928, 1.148.000 tonn.; 1929, 931.000 tonn.; 1930, 1.004.000 tonn.). Prima della guerra non esisteva un'industria francese della potassa: allora la Germania era il solo grande paese produttore. Ma dopo il 1918, con il ritorno dell'Alsazia e quindi dei giacimenti della foresta di Nonnenbruch (a nord di Mulhouse), la Francia trovò nel suo sottosuolo non solo tutta la potassa che le occorreva, ma anche una quantità sufficiente per fare all'estero una forte concorrenza all'industria tedesca: la produzione delle miniere alsaziane salì a 2.619.000 tonn. nel 1928. Il consumo si è generalizzato nel nord, dove, per la coltura intensiva della barbabietola, gli agricoltori sono costretti a usare grandi quantità di concimi potassici, come nelle regioni coltivate a vigneti e in quelle degli orti (dipartimento di Valchiusa). Nell'insieme il consumo medio di potasssa è relativamente debole e inferiore a quello dell'Olanda, del Belgio e della Germania.
Industrie chimiche. - Qualora si aggiungano al sale e alla potassa le piriti di ferro (Saint-Bel, Rodano) e i fosfati dell'Africa settentrionale e della Piccardia, si vedrà che la Francia possiede nel sottosuolo suo e delle colonie tutte le materie prime che facilitano lo sviluppo delle industrie chimiche. Le fabbriche di Rouen, di Marsiglia e di Parigi producono perfosfati. La Francia occupa il terzo posto, dopo gli Stati Uniti e la Germania, per la produzione dell'acido solforico. La regione carbonifera del Nord, il distretto di Parigi (Saint-Denis), quello di Lione (Saint-Fons) e quello di Marsiglia (l'Estaque), producono grandi quantità d'acido cloridrico e d'acido azotico. L'industria della soda ha preso un grande sviluppo, specialmente nel Saulnois lorenese e nella regione mediterranea (le saline di Giraud e di Sorgues), dove prosperano importanti fabbriche di carbonato di soda. Il complesso delle industrie chimiche occupava, nel 1921, 190.460 individui; dal 1914 al 1929 la loro importanza nel commercio generale della Francia fu più che triplicata, avendo portato le loro importazioni da 300.000 a 870.000 tonn. e le loro esportazioni da 741.000 a 2.800.000 tonn.
Combustibili. - Alla Francia occorrono annualmente 1.600.000 tonn. di combustibili liquidi, di cui 250.000 di nafta; tra poco gliene occorreranno circa 2 milioni di tonn. Quasi tutto il suo petrolio viene importato dagli Stati Uniti, dalla Polonia e dalla Romania: la produzione francese di petrolio (proveniente per la quasi totalità dalle miniere di Pechelbronn in Alsazia) si è aggirata negli ultimi tre anni sulle 80.000 tonn. (81.000 nel 1928, 83.000 nel 1929, 82.000 nel 1930).
Materiali da costruzione. - La Francia ne possiede una grande varietà; essi alimentano importanti industrie: marmi dei Pirenei (Saint-Béat), ardesie di Trélazé (Angers) e dell'Ardenne, granito di Bretagna, del Massiccio Centrale e dei Vosgi, arenaria dei Vosgi, lava o pietra di Volvic (Alvernia), pietra da taglio della regione parigina (Château-Landon, Chantilly, Saint-Leu), pietra molare della Brie (La Ferté-sous-Jouarre). Tra le industrie che lavorano i prodotti delle cave sono notevoli quella del cemento e quella della calce idraulica: nel 1928 la produzione del cemento salì a tonnellate 4.240.000, quella della calce a 2.253.000 tonn.; ma i quantitativi prodotti, per quanto di anno in anno presentino un costante aumento, non bastano a coprire il consumo interno.
Gli avvenimenti della guerra e del dopoguerra valgono a spiegare le grandi variazioni della produzione francese dell'acciaio, che sono mostrate dal prospetto seguente:
Vengono prima le regioni dell'Est, e l'Alsazia e Lorena; seguono il Nord, il Centro e l'Ovest.
La regione dell'Est è il gran centro della siderurgia francese; e nella maggior parte dei suoi bacini ferriferi ci sono installazioni complete (alti forni, fabbriche d'acciaio, laminatoi, ecc.). Essa provvede materie prime metalliche a tutte le altre regioni, ed è la sola che produca metallo greggio in quantità maggiore di quella impiegata dalle proprie industrie di trasfomiazione. La regione del Nord ha molto combustibile e poco minerale. Dalle sue officine, che dànno il 32% dei prodotti finiti francesi (Fives-Lilla, Valenciennes), escono pezzi lavorati, materiale ferroviario, macchine e armi; Maubeuge e Jeumont fabbricano materiale elettrico. La regione dell'Ovest diventa sempre più importante: esistono alti forni nelle regioni normanne di Rouen e di Caen, e sono sorte grandi officine nella Bassa Loira, a Trignac e a Nantes. Dalle officine del Centro (Le Creusot, Saint-Étienne e Alès) esce il 16% dei prodotti finiti francesi; Le Creusot, fortemente attrezzata, fabbrica, si può dire, tutti i prodotti della metallurgia e della costruzione meccanica: materiale per le miniere, per gli stabilimenti industriali e per l'artiglieria; macchine per la lavorazione dei metalli; motori a combustione interna; macchine agricole; materiale rotabile. Oltre questi grandi gruppi, il gruppo dell'Ardenne da Sedan a Givet si è specializzato nella fabbricazione dei chiodi, nelle minuterie e nella trafila; il gruppo Montbéliard Belfort nelle costruzioni meccaniche, nel materiale ferroviario, nelle biciclette e nelle automobili, nelle macchine da scrivere; il gruppo del Giura, nell'orologeria (Besançon, Morez). Ci sono cantieri navali a La Seyne e a La Ciotat, a Bordeaux e a Saint-Nazaire, a Le Havre.
L'industria automobilistica, sorta in Francia nel sec. XIX, ha preso uno sviluppo straordinario negli ultimi 20 anni. Nel 1914 le automobili che circolavano in Francia erano 107.355; si costruivano automobili in 48 stabilimenti che occupavano 38.000 operai. L'aumento della produzione verificatosi dopo la guerra si deve al grande aumento del numero degli autoveicoli circolanti nelle città e sulle strade di campagna: questi nel 1920 erano 232.250; il loro numero era più che triplicato nel 1925 (747.950) e superò il milione nel 1929 (1.292.390). Nel 1925 dei 747.950 autoveicoli circolanti in Francia, questa ne produceva oltre 200.000; ne esportava 54.675. I due grandi centri di produzione sono Parigi e Lione. Nella regione parigina ci sono stabilimenti con una superficie di ben 600 a 700.000 mq. che dànno lavoro da 20 a 30.000 operai. L'industria automobilistica è stata ed è tuttora causa di progressi nel dominio della meccanica, della chimica (sintesi dei carburati) e dell'utilizzazione intensiva di certi prodotti, come il caucciù (officine di Clermont-Ferrand).
Industria tessile. - L'industria tessile è la più antica delle industrie francesi, e tra esse occupa tuttora il primo posto. In passato aveva carattere familiare e rurale, essendo esercitata nelle regioni dove si coltivavano il lino e la canapa e dove si allevavano le pecore; ma ben presto avvenne una prima concentrazione: l'industria emigrò dalle campagne nelle città, e s'installò in piccoli laboratorî, dove, sotto la direzione d'un maître, lavoravano i membri di una corporazione. Ai tempi di Enrico IV e di Colbert, accanto alla corporazione comparve la grande manifattura (seterie di Lione, di Tours, e di Nîmes; panni d'Abbeville; velluti d'Amiens; tappezzerie dei Gobelins). Due secoli più tardi l'industria tessile subì una nuova trasformazione: la meccanica sostituì quasi dappertutto il lavoro a mano; l'attrezzamento, perfezionandosi, divenne più complicato; e si fecero venire da fuori le materie prime: ne seguì un'altra concentrazione dell'industria nelle regioni dove le materie prime giungevano con maggiore facilità e più sollecitamente, dove la forza motrice (carbon fossile o carbone bianco) era più abbondante. Nondimeno in certe zone della vecchia Francia la piccola industria continua a esistere sotto forma rurale; i prodotti dei piccoli centri vengono inviati a un grande mercato: Lione è giunta a concentrare le seterie di tutta una regione economica, e Troyes è divenuta la metropoli della produzione di berretti di tutta la Champagne. Nel 1926 si calcolavano a 2 milioni gli operai impiegati nell'industria tessile; cifra pari a circa un terzo degli operai francesi.
Con le sue 2100 macchine per pettinare la lana, con i suoi 3.000.000 di fusi per filarla (pettinata e cardata), con i suoi 65.000 telai per tesserla, la Francia rappresenta il 14% dell'industria laniera mondiale. La sua produzione di lana greggia (35.000 tonn. annue) è ora, come già prima della guerra, molto inferiore al consumo, e perciò essa riceve dall'Australia, dall'Argentina e dall'Inghilterra un'enorme quantità di materie prime, che si calcola a 288.032 tonn.: la Francia viene terza, tra i paesi consumatori di lana di tutto il mondo. L'industria laniera, assai antica, che per lungo tempo ebbe sede nelle località dove si allevavano le pecore, prospera ora in nuovi centri. La regione nella quale è più sviluppata è il Nord: Roubaix, Tourcoing e Fourmies, Amiens e Abbeville, possiedono la metà dei telai da tessitore; ad esse seguono i gruppi dell'Ardenne (Sedan) e della Champagne (Reims), della Normandia (Elbeuf e Louviers), della Guienna e della Linguadoca (Mazamet, dove è concentrata in parte l'industria della separazione della lana dalla pelle).
La produzione dell'industria serica che si accentra intorno a Lione rappresenta i 2/3 della produzione francese: nel 1925 era calcolata a 12.000 tonn. di tessuti, per un valore complessivo di 4 miliardi e 300 milioni di franchi, valore che nel 1926 salì a 5 miliardi e 482 milioni. Nel 1926 la Francia produsse 3.099.224 kg. di bozzoli, quantità non sufficiente per il suo consumo di seta greggia: perciò in quello stesso anno la Francia dovette importare 64.405 q. di sete gregge e 2119 q. di bozzoli; ma queste materie prime non furono utilizzate tutte in Francia: Lione è diventata un mercato mondiale, dove si riforniscono l'Europa e gli Stati Uniti (esportazioni: 3676 q. di sete gregge e 866 q. di bozzoli). L'industria della seta comprende varie operazioni: annaspamento, torcitura, filatura e tessitura. La filatura si fa in 175 filande (Gard, Ardèche, Valchiusa, Drôme, Hérault). Per la tessitura, il primato spetta a Lione, che produce, come si è detto, i 2/3 delle seterie francesi; seguono: Saint-Ètienne, grande produttrice di fettucce; Tarare, per la produzione dei berretti.
Nelle altre regioni, Troyes è molto importante per i berretti e Calais per i pizzi. Le esportazioni francesi di seterie dànno o a cifre più alte che alla vigilia della guerra: nell'anno 1926 si giunse a una somma complessiva di 6 miliardi e 214 milioni di franchi, pari a oltre il 14% del totale delle esportazioni.
Tutto il cotone che si consuma in Francia proviene dall'estero: in grandissima parte dagli Stati Uniti, poi dall'Egitto, dall'India Britannica, ecc. Prima della guerra, nei grandi centri - l'Est coi Vosgi, il Nord (Lilla, Roubaix, Tourcoing) e la Normandia (Rouen) - la Francia disponeva di 7.500.000 fusi per la filatura del cotone; ora essa non soltanto ha ricostituito il suo attrezzamento di prima della guerra, ma l'ha anche superato di molto, mercé la ricostituzione delle regioni devastate e il contributo portato dall'Alsazia. Nel 1931 disponeva di 10.350.000 fusi; i telai erano 200.000 nel 1930; la produzione dei filati di cotone passò da 1.970.000 quintali nel 1913 a 3.250.000 q. nel periodo 1926-29.
Anche per l'industria liniera la Francia è costretta a importare la maggior parte della materia prima. L'attrezzamento per la lavorazione del lino conta 500.000 fusi. Lilla, che possiede 52 dei 90 stabilimenti francesi, è il più grande centro di tale industria, e vi si fabbricano stoffe d'ogni genere. Ad essa seguono: Tourcoing, che produce tappeti di filo di lino; Amiens (biancheria da tavola), Cambrai e Valenciennes (tele fini); la Normandia e i Vosgi (tele).
Quanto all'industria della canapa, la Francia acquista quasi tutta la materia prima all'estero e specialmente in Italia. Le principali fabbriche di cordami sono ad Angers, a Parigi, a Marsiglia e a Le Havre.
Strade. - Durante la dominazione romana, se si eccettui la via più antica, l'Aurelia-Domiziana, che, per il litorale mediterraneo, metteva in comunicazione l'Italia con la Spagna, il tracciato generale si accostava assai alle direzioni principali dei fiumi. Grandi vie collegavano Lione, la metropoli delle Gallie, alle Alpi e all'Italia, ai Pirenei e alla Spagna, oppure erano dirette verso le foci della Garonna, della Charente, della Loira, della Senna, e verso il Reno e la Germania. Nel sec. XVIII le strade regie, costruite dagl'Intendenti, stesero "una specie di tela di ragno" tutto attorno a Parigi: il sistema, esente da qualsiasi considerazione d'indole geografica, fu il risultato artificiale della politica e della storia: "un tipo di accentramento". E le stesse direttive furono seguite più tardi nella costruzione delle strade ferrate che collegarono la capitale a ciascuna delle grandi città della periferia.
Se durante tutto il sec. XVIII si costruì una rete di strade postali interprovinciali, nel sec. XIX crebbero di numero le vie vicinali e nell'ultimo trentennio di esso la rete stradale aumentò del 40%. Nel 1930 vi erano in Francia oltre 66.000 km. di strade nazionali, cioè costruite e mantenute dallo stato; 9.000 km. di strade dipartimentali, cioè appartenenti ai dipartimenti e a loro carico; 560.000 km. di vie vicinali, cioè appartenenti ai comuni, costruite e mantenute con i fondi provenienti dai bilanci comunali e dipartimentali e con sovvenzioni per parte dello stato. La circolazione sulle strade fu in lieve diminuzione, allorché entrò in servizio la rete ferroviaria, ma ritornò ben presto normale. Le automobili hanno dato nuova vita alle strade francesi, che sono fra le meglio tenute d'Europa. Nelle regioni di turismo (Alpi, Costa Azzurra, Pirenei, Massiccio Centrale, Bretagna, Vosgi, Giura) l'autostrada è un complemento della ferrovia; e nelle altre regioni l'automobile rende al traffico servigi sempre più grandi, come si rileva dal prospetto:
Il tonnellaggio totale trasportato sulle strade francesi è dunque aumentato in vent'anni dal 22 al 23% e la trazione meccanica è passata dal 3% a oltre il 50%. Il movimento dei trasporti di viaggiatori e di merci sulle grandi strade si calcola a miliardi di tonnellate chilometriche ed è in via di accrescimento rapido e continuo. Nel 1928 il numero medio quotidiano dei veicoli a trazione meccanica circolanti sulle strade nazionali (esclusa la circolazione nell'interno delle città) era di circa 280, quello delle biciclette di 113, quello dei veicoli a trazione animale di 55.
Ferrovie. - La Francia dispone d'una rete di strade ferrate della lunghezza di 60.000 km., di cui 42.000 di strade d'interesse generale e 18.000 di strade d'interesse locale (spesso a scartamento ridotto), esercite da varie società, sovvenzionate dai dipartimenti. La costruzione di questa rete ha richiesto più di mezzo secolo. La prima linea, entrata in esercizio alla fine della Restaurazione, fu quella fra Saint-Ètienne e Andrézieux (1828). Nel 1842 non esistevano che 500 km. di ferrovie. Le nove grandi linee partenti da Parigi furono costruite dal 1843 al 1859, e con esse la lunghezza delle strade salì a 16.000 km.; infine, dal 1859 a oggi, sotto il regime delle convenzioni fra lo stato e le grandi società, il totale delle linee in esercizio è giunto a 42.000 km. Nel tempo stesso sono aumentati in modo straordinario il tonnellaggio dei treni, la potenza delle macchine, il numero dei viaggiatori e il peso delle merci trasportate. I viaggiatori, che nel 1841 erano 6 milioni, salirono a 165 milioni nel 1880 e a 460 milioni nel 1906. Dopo la guerra le reti ferroviarie hanno dovuto ricostituire le loro installazioni e i loro materiali; e oggi che l'opera di ricostruzione è compiuta si sono fatti progressi anche rispetto al 1913, come appare dalle cifre seguenti:
Le strade ferrate d'interesse generale sono ripartite in sette reti: Stato, Nord, Est, Parigi-Lione-Mediterraneo, Mezzogiorno, Orléans, Alsazia-Lorena, cinque delle quali hanno a Parigi la loro sede e le grandi stazioni di partenza e d'arrivo; la società del Mezzogiorno ha la sua sede amministrativa a Bordeaux e la rete alsaziana-lorenese a Strasburgo.
Tutte le linee importanti convergono a ventaglio in direzione di Parigi; ma se tale disposizione ha avuto effetti favorevoli per la capitale, li ha avuti meno favorevoli per le varie regioni, a motivo della difficoltà di portarsi da un'estremità all'altra del territorio, senza passare per Parigi. Si deve notare tuttavia che sono state introdotte modificazioni al tracciato generale: grandi centri industriali (Lilla, Nancy), grosse agglomerazioni (Lione) e porti importanti (Bordeaux, Marsiglia) hanno attirato a sé le strade ferrate; e accordi diretti tra le società hanno fatto sì che si creassero treni rapidi, i quali, senza passare per Parigi, collegano tra loro grandi centri (Calais-Basilea o Marsiglia, Bordeaux-Lione-Ginevra, Bordeaux- Sète-Marsiglia-Nizza).
Di tutte le reti francesi quella del Nord (3865 km.) è la più densa a causa delle condizioni favorevoli del rilievo e della ricchezza agricola e industriale delle regioni percorse. Le sue linee internazionali agevolano le relazioni tra la Francia, l'Inghilterra, il Belgio, i Paesi Bassi, la Germania, l'Europa orientale; esse hanno tutte un traffico superiore a 2.000.000 di tonn. La rete dell'Est (5072 km.) è una densa rete continentale, che serve la Champagne agricola e la Lorena industriale; le sue linee internazionali mettono in comunicazione Parigi con la Germania e con l'Europa centrale. Accanto a un traffico predominante ovest-est (linea Parigi-Strasburgo) vi è un traffico che aumenta sempre più in senso perpendicolare al primo, per le linee Reims-Belfort-Basilea; Reims-Digione. La rete Parigi-Lione-Mediterraneo (10.190 km.) mette in comunicazione la Francia con la Svizzera e con l'Italia, e, per Marsiglia, con le colonie dell'Africa settentrionale e dell'Asia. Scarso è il traffico delle linee che attraversano il Giura e le Alpi, fatta eccezione per la linea Lione-Ginevra, nella quale è superiore a 1.500.000 tonn. Ma la Parigi-Marsiglia è veramente la linea di grande traffico, tanto che si deve persino deviare una parte della merce sulla linea del Borbonese e sulla linea Lione-Nîmes. La rete del Mezzogiorno non è molto densa (lunghezza delle ferrovie 4989 km.); il grande traffico circola sulla linea Sète-Bordeaux che è l'arteria principale della rete; tuttavia la ricchezza delle Landes determina un forte traffico sulla linea tra Bordeaux e la Spagna. La rete Parigi-Orléans (8479 km.) ha un traffico meno importante delle prime tre accennate, per il fatto ch'essa serve regioni quasi puramente agricole: sulla linea principale della rete, Parigi-Orléans-Bordeaux, la cifra di 2 milioni di tonn. è oltrepassata soltanto sui tronchi Parigi-Orléans e Angoulême-Bordeaux. La rete dello stato, che viene subito dopo la Parigi-Lione-Mediterraneo per la lunghezza chilometrica (9325 km.), è la rete della Francia marittima occidentale. Mentre il traffico delle merci può dirsi veramente intenso solo sulla linea Parigi-Rouen-Le Havre, il trasporto dei viaggiatori vi è più attivo che su qualsiasi altra rete (stazioni balneari della Normandia e della Bretagna, comunicazioni con l'America). Le ferrovie dell'Alsazia e della Lorena (2344 km.) rivelano un'intensa circolazione dalla Svizzera verso il Lussemburgo e il Belgio (Basilea-Strasburgo, Metz-Lussemburgo-Ostenda).
La trazione sulle varie reti non è sempre a vapore: la maggior parte delle società tende, anzi, ad attuare un vasto programma d'elettrificazione (v. sopra: Carbone bianco). Nel 1926 le linee elettrificate rappresentavano: per la rete del Mezzogiorno 759 km. (Dax-Tolosa e ramificazioni verso le stazioni termali dei Pirenei, Bordeaux-Hendaye); per l'Orléans, 232 km. (Parigi-Vierzon); per la rete dello stato, 47 km. (linee del distretto di Parigi); per la Parigi-Lione-Mediterraneo, i percorsi sulla linea Chambéry-Modane.
Vie d'acqua. - I fiumi, sebbene alcuni di essi abbiano un regime irregolare, rappresentarono fino al sec. XIX una parte importante nel trasporto delle materie gregge. Fin dall'epoca di Enrico IV si cominciò a integrarli con canali; e alla vigilia della Rivoluzione la Francia possedeva già il Canale del Mezzogiorno, il Canale di Piccardia e la rete molto estesa dei canali fiamminghi. Nel 1800 c'erano poco meno di 1000 km. di canali; ai quali la Restaurazione e la Monarchia di luglio aggiunsero quasi altri 3000 km. Già nel 1847 1.800.000 tonn. km. di merci d'ogni genere venivano trasportate per via d'acqua. La comparsa delle ferrovie dapprima fece diminuire il traffico fluviale, che nel 1870 discese a 1.400.000 tonn. km.; ma la circolazione si andò in seguito sviluppando su tutte le vie di comunicazione, e un miliardo speso tra il 1870 e il 1900 portò la lunghezza della rete navigabile (fiumi e canali) da 11.260 a 12.150 km. Il traffico per via d'acqua fu quadruplicato. Essendo tale traffico quasi interamente concentrato nella parte del territorio compresa a nord di una linea congiungente Le Havre a Lione e soprattutto nella regione di NE., durante la guerra fu specialmente danneggiato dall'invasione (1036 km. di vie distrutte). Ma l'opera di ricostruzione è oggi quasi ultimata, e, con il ritorno dell'Alsazia-Lorena alla Francia, lo sviluppo delle vie navigabili francesi è giunto a 17.400 chilometri, di cui 5248 per i canali.
I canali appartengono a tre gruppi distinti: 1. canali marittimi, che hanno l'ufficio di rendere più agevole l'accesso ai porti situati su estuarî: appartengono a questo gruppo il Canale di Tancarville, il quale permette alle chiatte e alle navi di medio tonnellaggio di giungere direttamente a Rouen; il Canale di Caen; il Canale della Bassa Loira, il quale fa di Saint-Nazaire l'avamporto di Nantes; 2. canali laterali, che costituiscono veri fiumi artificiali, paralleli ai corsi d'acqua non utilizzabili: canali laterali alla Garonna, alla Loira, alla Mosa, all'Alta Senna, alla Somma; 3. canali di collegamento, che, attraverso un lieve rialzo, congiungono, per mezzo di chiuse, corsi d'acqua navigabili o canali vicini: poco numerosi nell'Ovest, nel Sud (Canale del Mezzogiorno, prolungato fino al Rodano) e nel centro (canali del centro, del Berry e del Nivernese), essi sono concentrati nel N. e nell'E., dove sono le miniere di carbone, di ferro e di potassa, le grandi officine e le cave, che possono fornire alle chiatte merci gregge.
Il prospetto che segue mostra la parte che spetta a ciascuna regione nel tonnellaggio totale delle vie navigabili (fiumi e canali) per l'anno 1925:
La regione del Nord e quella di Parigi occupano il primo posto nel movimento generale di navigazione interna, perché hanno un gran numero di fiumi navigabili e di canali. Parigi è il porto fluviale più attivo di tutta la Francia, con un movimento di 13.400.000 tonn. nel 1926. Viene subito dopo Strasburgo, posto al termine della navigazione sul Reno, con 3.578.593 tonn., che può aumentare il proprio tonnellaggio con la costruzione d'un canale laterale al Reno e con la trasformazione dei canali della Marna e del Rodano. Il grande sviluppo industriale del Creusot spiega in gran parte i 3 milioni di tonn. delle vie navigabili del centro.
La rete delle vie navigabili sarà ulteriormente sviluppata, essendo già in costruzione nuove vie: il Canale del Nord, il canale da Montbéliard all'Alta Saona, il grande canale d'Alsazia, il canale da Marsiglia al Rodano (s'è inaugurata di recente la galleria del Rove, lunga 7 km.). Inoltre si pensa alla costruzione d'un canale di collegamento tra la Dordogna e i canali del Berry.
Marina mercantile. - Le guerre di Religione, dei Trent'anni, con la Spagna avevano annientato la marina francese, già vitale. Quando il Colbert prese il potere la stazza della marina era 80.000 tonn. (quelle della Hansa e dell'Inghilterra stazzavano 100.000 tonn. ciascuna; quella olandese 560.000); il ministro curò la marina emanando l'ordinanza de commerce del 1673, quella famosa sur la Marine del 1681, creò l'inscription maritime; diede anche vita - ma con capitale insufficiente - alle grandi compagnie che, dopo il 1672, ebbero tempi difficili eccetto quella delle Indie Orientali. Alla morte del Colbert già il naviglio francese era di 150-200 mila tonn. Il sistema di Law diede nuovo impulso al commercio marittimo e alla marina che nel 1789 contava tonn. 750.000 (metà di quella inglese); dopo la decadenza dovuta alla Rivoluzione la flotta, nel 1868, aveva già raggiunto un milione di tonn. Essa, che nel 1914 era costituita da 2.498.485 tonn. lorde (con un aumento di oltre il 60% sulle cifre relative al 1870) perdette, per cause belliche, tonn. 921.636 nel periodo 10 agosto 1914-31 dicembre 1918 (il 37,65% del suo tonnellaggio globale). Tali perdite (che ascendono a tonn. 1.128.792 qualora vi si comprendano Vuelle subite per causa di mare) furono compensate con nuovi acquisti e costruzioni, oltre al sequestro di navi ex-nemiche, cosicché il tonnellaggio si era elevato, subito dopo la guerra a tonn. 3.800.000 per ridiscendere gradualmente al 30 giugno 1931 (Lloyd's Register, 1931-32) a 1653 navi per tonn. 3.566.227, di cui 1521 navi per tonn. 3.513.179 a propulsione meccanica. Come nel 1914, la marina francese occupa il 60 posto fra le marine mondiali venendo, anche ora, dopo l'Inghilterra, gli Stati Uniti, la Germania, il Giappone, la Norvegia. Quanto a chalutiers ed altri pescherecci la Francia occupa il 2° posto, con 123.794 tonn. contro 403.000 dell'Inghilterra; ma quanto a cisterne scende al 7° posto con 35 unità per tonn. 205.222; e nei riguardi del cargo-boat medio (6-8000 tonn.) passa all'8° posto mentre per le motonavi è al 10° con 60 navi per tonn. 179.548.
La flotta è alquanto invecchiata; comprende soltanto il 32% di navi inferiori a 10 anni di età contro il 44% per l'Inghilterra e il 49% per la Germania. È da notare poi che scarsissima è l'importanza della marina velica: 132 navi per tonn. 53.048. La marina francese ha costituito (provvedimenti di Luigi XI nel 1482; decreti di Fouquet nel 1659; politica protettiva colbertiana) ottimo campo d'azione e d'esperimento per il protezionismo marittimo, la cui idea direttrice, sino al Secondo Impero, consisteva nell'organizzazione - a vantaggio degli armamenti nazionali - d'un monopolio assoluto o relativo per il trasporto merci da o per la metropoli. A questo concetto si è ispirato l'Acte de navigation del 1793, il quale sanciva l'esclusione del pavillon tiers (mediante il divieto d'importazione in Francia di merci straniere su navi straniere e l'imposizione di speciali diritti de tonnage sulle navi di bandiera estera che importassero in Francia merci del proprio paese). La legge di dogana del 28 aprile 1816 tolse il divieto, ma rafforzò la protezione mediante l'istituzione di surtaxes de pavillon o diritti doganali supplementari su tutte le merci importate in Francia da navi di bandiera estera, basati sulla stazza, in misura molto più elevata di quelle francesi. Inoltre, i trasporti tra la Francia e le colonie o possedimenti erano esclusivamente riservati alla bandiera francese. Tali misure provocarono rappresaglie da parte delle marine colpite, cosicché il sistema fu attenuato mediante la clausola di reciprocità inserita in diversi trattati internazionali. Leggi successive abolirono patti e soprattasse; ma il regime di libertà non giovò alla bandiera francese, la cui percentuale nel movimento dei porti nazionali diminuì subito dal 39, 16% nel 1864 al 34,77% nel 1869. Si decise quindi di tornare alla protezione con premî di navigazione (proporzionati alla stazza netta e ad ogni 1000 miglia percorse) alle navi addette al lungo corso, e di costruzione, istituiti dalla legge 29 gennaio 1881. La legge 30 gennaio 1893 mantenne questi ultimi ed estese i primi - nella misura di 2/3 - alle navi addette al cabotaggio internazionale. Il regime dei premî ebbe risultati deleterî per ragioni ovvie; si vide, difatti, svilupparsi la navigazione in zavorra con l'unico scopo di lucrare una massa soddisfacente di premî. La percentuale della bandiera nazionale sul movimento dei porti francesi discese a 29,5% nel periodo 1893-1901. Si giunse allora alla legge 7 aprile 1902, che sostituiva i premî con un compenso commisurato ai giorni effettivi di armamento e alle tonnellate di stazza lorda. Ma la percentuale della bandiera francese cadeva sempre: a 24.96% nel 1907. Nuova legge, quindi, del 19 aprile 1906, che riorganizzò il sistema su basi nuove, concedendo i premî anche all'armatore sulla base: a) dei giorni di armamento effettivo; b) dell'effettivo percorso medio giornaliero (per non incoraggiare le soste in porto); c) del trasporto di una determinata quantità di merce in proporzione alla stazza (per evitare la navigazione in zavorra). La legge, spirata nel 1918, non è stata più rinnovata..
La Francia, durante la guerra, creò una flotta di stato, liquidata con legge 9 agosto 1921, perché aveva un deficit di quasi un milione di franchi al giorno. Dopo la guerra si tornò al sistema delle sovvenzioni (iniziato nel 1827; servizio mensile Bordeaux-Vera Cruz) dando ad esse un carattere più ardito. Difatti, poco importanti sono ora le convenzioni per le quali l'erario assume una responsabilità limitata: con la Générale Transatlantique, per i servizî su New York e le Indie Occidentali, e con altre compagnie per i servizî sull'Algeria e la Tunisia. Per le altre convenzioni invece esso assume una responsabilità illimitata per le perdite d'esercizio: a) Services contractuels des Messageries maritimes: Levante, Estremo Oriente, Madagascar, Australia, Nuova Caledonia; deficit rifuso dallo stato nel 1930, milioni 114; b) Sud Atlantique: Sud America, deficit 35 milioni; c) Fraissinet: servizî sulla Corsica; deficit 15.300.000.
Il sistema protezionista francese è completato mediante: a) il credito marittimo (leggi 1° agosto 1928 e 10 agosto 1929). Il Crédit foncier de France è autorizzato a concedere all'armamento nazionale (entro il limite massimo di un miliardo di franchi da erogare in cinque anni) mutui che possono essere commisurati all'85% del valore della nave da costruire. L'interesse è tenuto basso mediante contributi dello stato; b) esenzioni fiscali sugli acquisti di navi all'estero o di materiali navali (legge 10 agosto 1929), c) sussidî alle navi-cisterna di non più di 15 anni (legge 11 gennaio 1925); d) riserva del cabotaggio fra la metropoli e l'Algeria.
La marina mercantile francese è poco bene attrezzata sotto il punto di vista delle navi da carico, per limitarci alle unità fra 6000-8000 tonn., essa viene all'8° posto; possiede però grandi transatlantici, specialmente nel Nord e Sud America; Île de France, Paris, Atlantique (nonché il Super Île de France da 70.000 tonn., in costruzione) e ha inoltre vasto campo d'azione per una rete di linee regolari, sovvenzionate e libere, che collegano alla Francia tutti i mercati mondiali eccetto l'Unione Sudafricana, le Indie Olandesi, l'India Britannica. Varie cause peraltro ne diminuiscono l'efficienza. Uno degli ostacoli che più intralciano lo sviluppo della marina è costituito dal problema degli equipaggi, i quali nel 1914 comprendevano 98.790 persone mentre oggi sono saliti a 140.000, in conseguenza anche della stretta applicazione della legge delle otto ore, che le altre marine hanno quasi unanimemente rifiutato.
I cantieri sono 16 con 84 scali e la loro potenzialità annua è di 400.000 tonnellate, mentre non ne costruiscono in media che 100.000. È questa la causa del maggior costo della costruzione, in confronto ai cantieri esteri. L'amministrazione centrale della marina mercantile è stata recentemente affidata al Ministère de la marine marchande.
Industria aeronautica. - La Francia intende dare all'aviazione uno sviluppo sempre maggiore, in modo che l'industria aeronautica possa divenire una delle più importanti anche nel campo dell'esportazione. Le ditte costruttrici d'apparecchi che registrano un'attività media mensile rilevante sono: Bréguet, Blériot, Dewoitine, Farman, Nieuport, Potez, Lioré et Olivier, Loire, Gourdou Leseurre, in continuo progresso. L'impulso all'industria aeronautica francese nel campo dell'esportazione tende a fornire materiale aeronautico alle nazioni che non ne producono (Iugoslavia, Grecia, Polonia, ecc.). I motori per velivoli vengono in massima parte costruiti da ditte automobilistiche, fra le quali più attive sono: Renault, Hispano-Suiza, Lorraine, Gnome-Rhône e Salmson.
Aviazione civile. - Nei riguardi della politica aerea commerciale, la Francia ha stabilito di costituire tre grandi reti aeree:1. rete continentale per il collegamento con le capitali d'Europa; 2. rete d'Oriente per i servizî aerei verso l'Oriente e l'Estremo Oriente; 3. rete d'Occidente per le linee che da Marsiglia si prolungheranno verso il Congo e Madagascar, Marocco, Africa occidentale e America Meridionale.
Il traffico aereo è affidato alle seguenti società e linee relative: 1. AirUnion: a) Parigi-Londra (375 km.); b) Parigi-Lione-Marsiglia (730 km.); c) Marsiglia-Tunisi-Bona (1293 km.); d) Lione-Ginevra (113 km.); e) Cherbourg-Basilea (735 km.). - 2. Compagnie générale aeropostale: a) Francia-America Meridionale (13.985 km.): Tolosa-Barcellona-Alicante-Tangeri-Rabat-Casablanca-Agadir-Cap Juby-Villa Cisneros-Port Étienne-Saint Louis-Dakar-Porto Praya-Noronha-Natal-Recife-Maccio-Bahia-Caravellas-Victoria-Rio de Janeiro-Santos-Florianopolis-Porto Alegre-Pelotas-Montevideo-Buenos Aires-Mendoza-Santiago. La traversata dell'Atlantico, da Dakar a Natal è effettuata per mezzo di esploratori; b) Francia-Marocco (2555 km.): Bordeaux-Tolosa-Marsiglia-Barcellona e Tolosa-Barcellona-Alicante-Tangeri-Rabat-Casablanca; c) Parigi-Madrid, via Biarritz (1200 km.); d) Marsiglia-Algeri (803 km.). - 3. Compagnie internationale de navigation aérienne: a) Parigi-Costantinopoli e diramazioni (4119 Km.): Parigi-Strasburgo-Praga-Vienna-Budapest-Belgrado-Bucarest e Costantinopoli. Diramazioni: Belgrado-Sofia-Costantinopoli; Praga-Varsavia; b) Parigi-Deauville (180 km.); c) Cherbourg-Basilea (735 Km.) gestita in comune con l'Air Union. - 4. Société générale de transports aériens: a) Parigi-Bruxelles-Amsterdam (460 km.); b) Parigi-Berlino (888 km., via Colonia); c) Parigi-Sarrebruck-Francoforte-Berlino (985 km.); d) Colonia-Amburgo-Copenaghen-Malmö (670 km., in coincidenza con la linea Parigi-Berlino). - 5. Compagnie air Orient: a) Marsiglia-Beirut-Baghdād (4099 km.): Marsiglia-Napoli-Corfù-Atene-Castelrosso-Beirut-Damasco-Baghdād; b) Bangkok-Saigon (830 km.). - 6. Société de transports aériens rapides: a) Parigi-Ginevra (450 km.); b) Parigi-Berck (183 km.); c) Parigi-Deauville (180 km.); d) Parigi-Lympne (283 km.).
Basi aeree. - Le basi aeree più importanti della Francia sono: Ajaccio (idroscalo civile e militare; area d'ammaramento m. 1500 × illimitato; i piccola officina; 1 campo d'atterramento a Campo dell'oro, di m. 1500 × × 1250); Ambérieu (aeroporto civile e doganale; area d'atterramento m. 900 × 600; 1 hangar di m. 80 × 30; 1 piccola officina); Antibes (idroscalo; area d'ammaramento m. 600 × 600, hangars; officina); Berre (idroscalo militare; area d'ammaramento: tutto lo stagno di Berre; hangars); Chalon-sur-Saône (aeroporto privato; area m. 1800 × 800; hangars; officina); Chartres (aeroscalo per dirigibili; area m. 1000 × 800; hangars); Digione-Longvic (aeroporto militare, civile e doganale; area m. 1900 × 800; officina); Fréjus-Saint-Raphaël (aeroporto e idroscalo militare; area m. 800 × 400; hangars); Lione-Bron (aeroporto misto; area m. 1200 × 950; hangars, officina); Lione-La Valbonne (aeroporto militare; area m. 1100 × 800); Marsiglia-Marignano (aeroporto e idroscalo misto; area d'atterramento m. 1000 × 1100; area d'ammaramento m. 5000 × 5000; hangars di m. 33 × 42; officina); Metz-Frescaty (aeroporto militare; area m. 1300 × 1000; hangars); Montpellier l'Or (aeroporto privato; area m. 750 × 600; hangars, officina); Nîmes-Courbessac (aeroporto civile; area m. 600 × 700; hangar; officina); Nizza-La Californie (aeroporto privato; area m. 740 × 180; hangar); Parigi-Le Bourget-Dugny (aeroporto misto; area m. 1800 × 1200; officina e macchine per piloti di passaggio; officine private delle compagnie di navigazione aerea; faro aereo di 80 km. di portata; altro faro di 40 km.; varî hangars di m. 50 d'apertura, 36 di profondità e 15 d'altezza); Pau-Pont Long (aeroporto militare; area m. 800 × 500; hangars); Perpignano-La Salanque (idroscalo e campo di fortuna; area d'ammaramento m. 1200 × 1000; area d'atterramento m. 33 x 42; hangar; officina); PerpignanoLlabanère (aeroporto civile; area m. 550 x600; hangars; officina); Reims (aeroporto militare; area m. 650 × 1350; hangars); Romorantin-Pruniers (aeroporto militare; area m. 800 × 800; hangars); Saint-Inglevert (aeroporto civile e doganale; area m. 900 × 600; hangars di m. 34 × 30,50; officina); Strasburgo-Entzheim (aeroporto mercantile; area m. 900 × 700; hangars di m. 30 × 33; officina per apparecchi di passaggio, gestita dalla Compagnie internationale de navigation aérienne); Tolosa-Montaudran (aeroporto privato della Compagnie générale aéropostale; area m. 800 × 250; faro di 80 km: di portata; hangars; officine); Tolosa-Francazals (aeroporto civile; area m. 600 × 600; hangars di m. 34 × 30; officina).
Commercio con l'estero. - Il commercio estero della Francia si fa per 1/3 soltanto attraverso le frontiere terrestri, servendosi delle strade, dei canali e delle ferrovie, e per 2/3 per la via di mare.
Movimento commerciale. - Dopo un magnifico impulso alla metà del secolo scorso, il commercio estero francese parve rimanere stagnante dal 1872 al 1902, essendo i suoi progressi trascurabili di fronte a quelli dell'Inghilterra, della Germania e degli Stati Uniti. Nel 1902 furono registrati 8 miliardi (Stati Uniti: 11 miliardi; Germania: 13; Inghilterra: 21); ma in seguito si ebbe un nuovo impulso (11 miliardi nel 1907, 13 nel 1910, più di 15 nel 1913). Le ripercussioni della guerra e del dopoguerra si valutano confrontando tra loro due periodi eguali avanti e dopo il 1914:
Prima della guerra, la bilancia commerciale era passiva, e l'eccedenza delle importazioni sulle esportazioni oscillava tra 1 miliardo e 1 miliardo e mezzo di franchi; il passivo aumentò al principio del 1915 e giunse al massimo nel 1919-20; ma nel 1921 si ebbe una reazione, per la quale la situazione ritornò press'a poco normale. Nel 1924 poi avvenne un fatto di grande importanza, che non si era ripetuto dopo il 1905: l'eccedenza delle esportazioni sulle importazioni. È evidente che quando si vogliono confrontare la bilancia del commercio estero del 1913 e quella del 1924, si deve tenere conto del mutato valore del denaro e quindi convertire il franco-carta del 1924 in franco-oro.
Se invece delle importazioni e delle esportazioni si consideri il tonnellaggio, si noterà che dal 1913 al 1924, tolto il periodo di crisi, c'è un progresso più accentuato quanto alle importazioni:
Tali cifre non debbono destare meraviglia, poiché la Francia, sebbene sia un paese produttore di ferro e di potassa, si distingue per gli acquisti di materie prime e per le vendite di articoli di lusso, che hanno un peso il più delle volte ridotto. Negli ultimi anni, l'abbassamento del potere d'acquisto della moneta francese ha portato con sé una diminuzione delle importazioni (47.428.000 nel 1925, 45.813.000 nel 1926). Quanto alle esportazioni, in peso sono aumentate di oltre un terzo sul 1913 (30 milioni di tonn. nel 1925; 32 milioni nel 1926). Le esportazioni di oggetti fabbricati sono aumentate nella proporzione straordinaria del 110%.
Commercio d'importazione. - Nel 1926 era così ripartito:
Da questo prospetto risultano tre fatti: l'importazione francese ha un carattere nettamente industriale, poiché la Francia acquista all'estero la maggior parte delle materie prime che vengono trasformate nei suoi stabilimenti; la Francia, pur essendo un paese soprattutto agricolo, importa una quantità di prodotti alimentari comuni, per sostituire quelli di qualità superiore che da essa vengono esportati; infine, l'industria francese non basta ai bisogni del consumo d'articoli manufatti.
Gli Stati Uniti occupano ora il 1° posto, mentre erano al 3° nel 1913, perché dopo la guerra là si sono stabiliti i grandi mercati di cotone, di grano, di stagno e di caucciù; sebbene l'Inghilterra non sia più al primo posto, la Francia è la migliore cliente del carbon fossile britannico e acquista in Inghilterra macchine, tessuti, acciaio filato, e anche certi prodotti che passano per i magazzini di deposito inglesi (lane, iuta, caucciù, pelli). Il maggior tributo che la Francia paga all'estero è costituito dalle materie tessili: cotone degli Stati Uniti, dell'Egitto, dell'India Inglese; lane dell'Australia e dell'Argentina; seta della Cina, del Giappone e dell'Italia; seguono il carbon fossile, gli olî minerali e i prodotti delle industrie meccaniche.
Commercio d'esportazione. - Nel 1926 era così ripartito:
Le esportazioni, come le importazioni, hanno un carattere nettamente industriale: la Francia vende all'estero principalmente articoli manufatti e materie prime (di cui 11 milioni di tonnellate di minerali di ferro).
Rispetto alle esportazioni, i paesi stranieri hanno ripreso il posto del 1913: a capo di tutti è l'Inghilterra, seguita dal Belgio, dalla Germania, dagli Stati Uniti, dalla Svizzera e dall'Italia.
La Francia agricola vende all'Inghilterra industriale i prodotti della sua agricoltura (vini, burro, formaggi, legumi, fiori, frutta); ma le vende anche varî articoli fabbricati, provenienti dalle sue industrie di lusso (vestiti, seterie, guanti, automobili). Tra i prodotti francesi esportati, gli articoli tessili hanno un'importanza grandissima: i filati, i tessuti e gli oggetti d'abbigliamento rappresentano un totale di 16 miliardi di franchi, ossia quasi il 28% del valore complessivo delle vendite francesi all'estero; dopo i prodotti dell'industria tessile vengono i prodotti dell'industria meccanica (2 miliardi e mezzo per le automobili), della metallurgia (2 miliardi e mezzo per il ferro e l'acciaio) e dell'industria chimica.
Bibl.: Carte: La Francia è stata il primo paese a possedere una carta topografica basata sulla triangolazione e su misure geodetiche, la celebre Carte géométrique de France alla scala 1:86.400 in 182 fogli, dovuta a Cesare Francesco Cassini e a suo figlio Giacomo Domenico e ultimata proprio all'inizio della Rivoluzione. Tra il 1818 e il 1878 fu pubblicata poi, a cura del Service Géographique de l'Armée, una carta alla scala 1:80.000 in 273 fogli; nel 1896 venne iniziata la pubblicazione di una carta alla scala 1:100.000 (Carte de la France dressée par le service vicinal) e nel 1897, una alla scala 1:50.000. Assai bella è la Carte de France alla scala 1:200.000 in 82 fogli.
Opere generali: P. Vidal de la Blache, Tableau géographique de la France, Parigi 1899; E. de Martonne, Les régions géographiques de la France, Parigi 1921; J. Brunhes, Géographie humaine de la France, voll. 2, Parigi 1920-1926; P. Joanne, Dict. géogr. et admin. de la France, voll. 7, Parigi 1890-1905.
Per il rilievo e la geologia v.: G. Vasseur e C. Carez, Carte géologique de la France à l'échelle de 1 : 500.000e (1885-1886); Carte géologique de la France au 1 : 1.000.000e (1889; 2ª ed. 1905); Carte géologique de la France au 1 : 80.000e; C. Barre, L'architecture du sol de la France, Parigi 1903; A. De Lapparent, Géologie du Bassin Parisien, Parigi s. a.; A. De Launay, Géologie de la France, Parigi 1920; P. Lemoine, Géologie du Bassin Parisien, Parigi 1921; E. De Martonne, Traité de géographie physique, II, Parigi 1926; H. Baulig, Le Plateau central de la France et sa bordure méditerranéenne, étude morphologique, Parigi 1928; G. Chabot, Les Plateaux du Jura central, étude morphogénique, Parigi 1928; E. Chaput, Recherches sur les terrasses alluviales de la Loire, in Annales de l'Univ. de Lyon, 1917; id., Recherches sur les terrasses alluviales de la Seine, in Bull. du Service de la carte géolog., Parigi 1924, n. 153. Consultare per le numerose monografie regionali la collezione degli Annales de Géographie e quelle dei Bulletins du Service de la carte géologique de France. V. inoltre: J. Gosselet, L'Ardenne, in Mém. de la Carte géolog. de France, 1888; G. Bleicher, Les Vosges, Parigi 1890; H. Baulig, Question de morphologie vosgienne et rhénane, in Ann. de Géogr., XXXI, 1922; C. Passerat, Les plaines du Poitou, Parigi 1910; A. Vacher, Le Berry, Parigi 1909; A. Briquet, La pénéplaine du Nord de la France, in Ann. de Géogr., XVII, 1908; L. A. Fabre, Le sol de la Gascogne, in La Géogr., 1905; G. Dollfus, Relations entre la structure géologique du Bassin de Paris et son hydrographie, in Ann. de Géogr., IX, 1900; G. Vergez-Tricom, Le relief des environs de Paris, in Ann. de Géogr., XXXII, 1924; E. De Martonne, La pénéplaine et les côtes bretonnes, in Ann. de Géogr., XV, 1906; E. De Margerie, Le Jura, I, Bibliographie sommaire, Parigi 1922; J. B. Martin, Le Jura méridional, étude de géographie physique spécialement appliquée au Bugey, in Rev. de Géogr., 1911; R. Blanchard, Les Alpes françaises, Parigi 1924 (vedere anche sulle Alpi francesi la collezione dei Travaux de l'Institut de Géographie alpine, pubbl. da R. Blanchard, che ha come seguito la Revue alpine, Grenoble; J. Deprat, Étude analytique du relief de la Corse, in Rev. Géogr. (1908); E. De Margerie e G. Schrader, Aperçu de la structure géol. des Pyrénées, in Ann. du Club Alpin franç., 1891; J. Roussel, Étude statigr. des Pyrénées, Parigi 1893; N. Dubois, Le quaternaire du Nord de la France, Lilla 1928.
In particolare per le coste v.: J. Girard, Les rivages de la France (Manche et Océan), Parigi 1885; E. De Martonne, Le développement des côtes bretonnes et leur étude morphologique, in Trav. du lavoratoire de Géogr. de l'Univ. de Rennes, n. 1; id., La pénéplaine et les côtes bretonnes, in Ann. de Géogr., XV, 1906; G. Kunholtz-Lordat, Topographie du littoral du Golfe de Lyon, in Ann. de Géogr., XXXIII, 1924; P. Buffault, Les grands étangs littoraux de Gascogne, in Bull. géogr. histor. et descr., XXI, 1906; J.-A. Hautreux, La côte des Landes de Gascogne, Bordeaux 1905.
Per il clima v.: A. Angot, Études sur le climat de la France, températures, in Ann. Bur. central météorologique, Parigi 1902, 1905, 1907; id., Régime pluviométrique de la France, in Ann. de Géogr., 1917, 1919, 1920; G. Bigourdan, Climat de la France, Parigi 1916 segg.; E. Bénévent, Le climat des Alpes françaises, in Mém. Office nat. météorologique, Parigi 1926; M. Sorre, Le climat du golfe du Lion, Montpellier 1905.
Sull'idrografia cfr.: M. Champion, Les inondations en France, voll. 6, Parigi 1858-1865; E. Belgrand, La Seine, régime de la pluie, des sources, des eaux courantes, Parigi 1873; E. Imbeaux, La Durance, régime, crues et inondations, Parigi 1892; P. Mougin, Les torrents de la Savoie, Grenoble 1914; A. Vacher, Fleuves et rivières de France, étude sur les documents réunis par l'administration des ponts et chaussées, Parigi 1908; A. Delebecque, Atlas des lacs français, Parigi 1893; M. Pardé, Le régime du Rhône, voll. 2, Grenoble 1925.
Per la vegetazione v.: Ch. Flahault, La flore et la végétation de la France, introduzione alla Flore di H. Coste, Parigi 1901; P. Allorge, Les associations végétales du Vexin français, Nemours 1922; J. Braun-Blanquet, L'origine et le développement des flores dans le Massif central de la France, Zurigo 1923; J. Laurent, Végétation de la Champagne crayeuse, Parigi 1921; M. Sorre, Les Pyrénées méditerranéennes, étude de géographie biologique, Parigi 1913; A. Luquet, Essai sur la géographie botanique de l'Auvergne, Parigi 1926; H. Gaussen, Végétation de la moitié orientale des Pyrénées, Parigi 1926; A. Magnin, Végétation de la région lyonnaise, Lione 1886.
Per la fauna v.: R. Perrier, La faune de la France illustrée, Parigi 1923 segg.; E. Trouessart, Faune des mammifères d'Europe, Berlino 1910; id., Catal. des oiseaux d'Europe, Parigi 1912; É. Moreau, Hist. naturelle des poissons de France, Parigi 1881; L. Roule, Les poissons d'eau douce de la France, Parigi 1925; H. Fischer, Man. de Conchyliologie, Parigi 1914; P. De Beauchamp, Les Grèves de Roscoff, Parigi 1915; R. Jeannel, Faune caver. de la France, Parigi 1926.
Per i caratteri etnici v.: J. Deniker, Races et peuples de la terre, 2ª ed., Parigi 1925; R. Collignon, Anthropologie du Sud-Ouest de la France, in Bull. Soc. Anthropol., 1893 segg.; J. Déchelette, Manuel d'Archéol. préhistorique, ecc., Parigi 1908, I; A. Bertrand e S. Reinach, Nos origines, 2ª ed., Parigi 1889 segg.; G. Dottin, Les Celtes, Parigi 1925; L. Gallois, Les limites linguistiques du Français, in Ann. de Géogr., X, 1901; C. Jullian, Hist. de la Gaule, Parigi 1908 segg.
Per la densità e ripartizione della popolazione, migrazioni, demografia, v.: E. Levasseur, La population française, voll. 3, Parigi 1889-1892; A. Waltz, Le problème de la population fraçaise. Natalité, mortalité, immigration, Parigi 1924; A. Demangeon e M. Matruchot, Les variations de la population de la France de 1881 à 1921, in Ann. de Géogr., XXXV, 1926; M. Zimmermann, La population de la France d'après le recensement du 7 mars 1926, in Ann. de Géogr., XXXVI, 1927; A. De Foville, Enquête sur les conditions de l'habitation en France, voll. 2, Parigi 1894-99; A. Demangeon, L'habitation rurale en France, in Ann. de Géogr., XXIX, 1920; id., La géographie de l'habitat rural, in Ann. de Géogr., XXXVI, 1927; G. Mauco, Les étrangers dans les campagnes françaises, in Ann. de Géogr., XXXV, 1926; M. Paon, L'immigration en France, Parigi 1927; C. Robert-Müller e A. Allix, Un type d'émigration alpine, les colporteurs de l'Oisans, in Rev. de Géogr. Alpine, XI, 1923; A. Siegfried, Tableau politique de la France de l'Ouest, Parigi 1913.
Per la parte economica e in particolare per i prodotti del suolo v.: E. Risler, Géologie agricole, voll. 4, Parigi 1884-1897; Walter, La France d'aujourd'hui, agriculture, industrie, commerce, Parigi 1927; E. Flour de St. Genis, La propriété rurale en France, Parigi 1902; H. Baudrillart, Les populations agricoles de la France, Parigi 1888 segg.; A. Demangeon, La Picardie, Parigi 1908; R. Blanchard, La Flandre, Parigi 1906; J. Sion, Les paysans de la Normandie orientale, Parigi 1910; Ph. Arbos, La vie pastorale dans les Alpes françaises, Parigi 1923; R. Musset, L'élevage du cheval en France, Parigi 1917; C. Vallaux, La Basse Bretagne, étude de géographie humaine, Parigi 1907; J. Du Plessis de Grenedan, Géographie agricole de la France, Parigi 1903. V. inoltre i numerosi studî regionali negli Annales de Géogr., Parigi 1892 segg.; poi: L. Daubrée, Statistique et Atlas des forêts de France, Parigi 1912-13; M. Foncin, Culture et commerce des primeurs sur la Côte d'azur, in Ann. de Géogr., XXV, 1916; A. Demangeon, L'approvisionement de Paris en fruits et en légumes, in Ann. de Géogr., XXXVII, 1928; L. Joubin, Carte des mollusques comestibles des côtes de France, in Ann. de Géogr., 1908; E. Dardel, La pêche maritime à Boulogne, in Ann. de Géogr., XXXII, 1923; C. Robert-Müller, Le nouveau port de l'Orient, ibid.; F. Sabde, La vie de pêche littorale entre Agde et Aigues-Mortes, in Ann. de Géogr., XXIII-XXIV, 1914; G. Reverseau, Les industries laitières dans les Charentes, in Ann. de Géogr., XXXIV, 1925; Ministère de l'Agriculture, Statistique agricole de la France (annuale).
Per le miniere e le industrie v.: Min. du commerce, Rapport général de l'industrie française; sa situation, son avenir, voll. 3, Parigi 1919; R. Muller, Le charbon. Nos besoins et certains moyens d'y satisfaire, 1917; J. Levainville, L'industrie du fer en France, Parigi 1922; H. Cavaillès, La houille blanche, Parigi 1923; H. Charpentier, Le pétrole en France. Son origine. Sa découverte, in Revue de l'industrie minérale, 1925; Dix ans d'efforts scientifiques, industriels et coloniaux, 1914-1924, voll. 2; Chimie et industrie, Parigi 1918 segg.; A. Pawlowski, L'industrie textile française, Parigi 1925; M. Zimmermann, La production et l'industrie du lin en France, in Ann. de Géogr., XXX, 1921; P. de Rousiers, Les grandes industries modernes. L'industrie houillère. L'industrie pétrolière. L'industrie hydroélectrique, Parigi 1924; G. Arnaud, Le développement de l'industrie chimique en France, in Ann. de Géogr., XXXIV, 1925; V.-E. Ardouin-Dumazet, Voyage en France, Parigi 1893 segg., oltre 80 voll., con numerose ristampe; V. Cambon, La France au travail, III: Bordeaux-Toulouse-Marseille-Nice, Parigi 1923; A. Herubel, De Dunkerque à St. Nazaire, 2ª ed., Parigi 1912; P. Clerget, Les industries de la soie en France, Parigi 1925; A. Demangeon, Répartition de l'industrie du fer en France en 1789, in Ann. de Géogr., XXX, 1921; Comité des Forges de France, La Sidérurgie française, 1864-1913, Parigi 1920; R. Blanchard, L'ind. de la papeterie dans le S. E. de la France, in Rev. de Géogr. alpine, 1926; Min. des Trav. publics, Statistique de l'Ind. minerale et des appareils à vapeur en France et en Algérie (annuale); P. Massonson, Les Bouches du Rhône, L'Industrie, Marsiglia 1925.
Per il commercio, vie, strade ferrate, canali, porti, marina mercantile, commercio esterno, v.: P. Vidal de la Blache, Routes et chemins de France, in Bull. de Géogr. histor. et descriptive, 1902; P. Leon, Fleuves, canaux et chemins de fer, Parigi 1903; A. Picard, Traité des chemins de fer, voll. 4, Parigi 1887; Min. des Trav. publics, Ports maritimes de la France, voll. 13, 1894 seg.; Statistique de la navigation intérieure, Min. des Trav. publics (annuale); Guide officiel de la navigation intérieure, Parigi 1925; la collezione Les grands ports français, Parigi 1921 segg.; G. Arnaud, Le port de Strasbourg, Parigi 1921; E. Colin, Le port de Paris, Parigi 1921; Construction et outillage des ports français, in Journ. de la marine marchande, numero speciale, 1925; C. Lenthéric, Côtes et ports français de la Manche, Parigi 1906; E. J. Robin, Le port de Marseille, in Rev. économ., 1922; J. Levainville, Rouen, I, Parigi 1913; R. Blanchard, Grenoble, Parigi 1912; L. Roux, La marine marchande, Parigi 1923; H. Mazel, The french merchant marine, in Effects of the war upon the french economic life, Oxford 1923; Government aid to merchant shipping, Washington 1925; Gallois, Site et croissance de Lyon, in Ann. de Géogr., 1925; Statistique générale de la France (annuale); Direction générale des douanes, Tableau général du commerce et de la navigation (annuale); G. Michon, Les conventions maritimes postales devant le parlement français, Parigi 1929; G. Candace, La marine marchande française, Parigi 1930; De Vries, Heutiger Protektionismus in der Weltschiffahrt, Berlino 1930.
Dominî coloniali.
L'impero coloniale francese, coi suoi 10,6 milioni di kmq. di superficie e i suoi 56 milioni di abitanti (esclusi i mandati), viene per importanza dopo quello britannico (per la formazione e i successivi sviluppi di esso, v. colonizzazione, e più sotto: Storia). La Francia ha dominî coloniali in tutte le parti del mondo extraeuropee; quelli di maggiore importanza sono in Africa (9,8 milioni di kmq. e 34 milioni di ab.) e in Asia (700 mila kmq., 21 milioni di ab.); i possedimenti d'America e d'Oceania hanno rispettivamente 91.000 e 23.800 kmq. e 555.000 e 90.000 ab. Alla Francia, inoltre, dopo la guerra mondiale del 1914-1918, fu affidato il mandato (revocabile) su alcuni territorî africani (parte del Camerun e del Togo, già colonie germaniche: complessivamente 483.800 kmq. e quasi 3 milioni di ab.) e asiatici (Siria e Libano: 200.000 kmq., 2,8 milioni di ab.).
Data la grande diversità delle condizioni naturali, antropiche, economiche, politiche dei varî paesi che compongono l'impero coloniale francese, essi sono governati in varia forma, e quindi assai diverse sono le loro relazioni con la Francia. Si possono distinguere: a) le colonie parlamentari, che hanno, cioè, una rappresentanza nel parlamento francese; tali sono l'Algeria, il Sénégal, La Riunione, la Cocincina, l'India Francese, la Guiana, la Guadalupa e la Martinica; l'Algeria, peraltro, viene considerata come pane integrale della Francia; b) le colonie non parlamentari (colonie dell'Africa Occidentale Francese, meno il Sénégal, e dell'Africa Equatoriale Francese, Somalia Francese, Madagascar, Nuova Caledonia, ecc.); c) i protettorati, paesi che conservano istituzioni locali sotto il controllo del governo francese (Tunisia, Marocco, Tonchino, Annam, Cambogia, Laos); d) i condominî: le Nuove Ebridi (Oceania), territorio di condominio anglo-francese, con eguali diritti di residenza, protezione e commercio per i sudditi di ambedue le nazioni; e) i mandati, affidati alla Francia dalla Società delle Nazioni, i quali sono revocabili e quindi possono essere considerati come facenti parte dell'impero coloniale francese solo provvisoriamente. Con i mandati, le dipendenze francesi avrebbero 11.370.000 kmq. di superficie e oltre 61 milioni di abitanti complessivamente.
A differenza della Gran Bretagna, che ha possedimenti importanti così nella zona temperata come in quella tropicale, la Francia ha le sue maggiori dipendenze coloniali nella zona tropicale o subtropicale; e tropicali e subtropicali sono quindi i prodotti agricoli ch'essa può ricavarne. I paesi dell'Africa settentrionale producono vino, cereali, olio d'olivo, tabacco, mandorle, legumi, sughero, alfa; l'Africa Occidentale ed Equatoriale, arachidi, olio e noci di palma, cacao, cotone, caucciù, gomma arabica, legname; il Madagascar produce vainiglia e caffè; La Riunione, zucchero e rhum; l'Indocina, riso, caucciù e droghe; la Siria, cotone; le Antille dànno zucchero, caffè, cacao e vainiglia. L'allevamento del bestiame è fiorente in tutta l'Africa settentrionale, nel Madagascar, nell'Africa Occidentale Francese e in Siria (dov'è notevole pure l'allevamento del baco da seta), e la Francia ne esporta animali vivi, lana e pelli. Molto importanti sono pure le ricchezze minerarie: si estraggono minerali di ferro in Tunisia e Algeria, di zinco nell'Indocina e nell'Algeria, di rame nell'Africa Equatoriale, di oro nella Guiana e nel Madagascar, di nichel, cobalto e antimonio nella Nuova Caledonia, grafite nel Madagascar, carbone nell'Indocina. Per alcuni dei prodotti ora enumerati, alcuni dominî francesi sono ai primi posti nella produzione mondiale: l'Indocina per il riso, i paesi dell'Africa settentrionale per l'olio d'olivo e per i fosfati, e l'Algeria anche per il vino, l'Africa Occidentale per le arachidi e le noci e l'olio di palma, la Nuova Caledonia per il nichel, il Madagascar per la grafite.
I commerci tra la madrepatria e le sue dipendenze coloniali sono attivissimi; la Francia, infatti, nel 1929 ha assorbito circa l'80% del valore delle importazioni dell'Algeria e il 70% delle esportazioni; la percentuale è stata rispettivamente del 65 e del 54 per la Tunisia, del 50 e del 20 per l'Indocina, del 45 e del 40 per l'Africa Equatoriȧle, ecc. La Francia esporta dalle sue dipendenze le materie prime necessarie alle sue industrie, e vi importa soprattutto prodotti manifatturati. Molto attivi sono pure gli scambî tra i varî dominî, specialmente africani (tra Marocco, Algeria e Tunisia e tra questi e l'Africa Occidentale ed Equatoriale). L'importanza di alcune dipendenze non è solamente economica, bensì anche politica: quelle dell'Africa settentrionale, ad esempio, hanno assicurato alla Francia il dominio della costa del Mediterraneo opposta alla costa francese; la Somalia Francese, dove sbocca la ferrovia di Addis Abeba, serve come base di penetrazione in Etiopia.
La penuria di uomini impedisce alla Francia di sfruttare appieno, a vantaggio dell'economia mondiale, il suo grande impero coloniale, le cui necessità, d'altronde, contribuiscono in misura notevole ad aggravare la già grave situazione demografica del territorio nazionale. Non trascurabile è, infatti, il numero dei Francesi metropolitani inviati nelle colonie come militari e funzionarî civili, e di emigranti nelle colonie, specialmente francesi. E da ricordare il fatto che la Francia, sempre a causa della penuria di uomini nel territorio nazionale, ha armato un grande esercito coloniale, che è stato largamente utilizzato anche in Europa durante e dopo la guerra mondiale.
Ordinamento dello stato.
Ordinamento politico. - Il regime repubblicano fu inaugurato in Francia, sia pure provvisoriamente, il 31 agosto 1871, secondo il piano di costituzione che prese il nome di chi ebbe a emendarlo, Charles Rivet. Il 24 e 25 febbraio 1875 si promulgarono le leggi, dette costituzionali, riguardanti il riconoscimento ufficiale della repubblica, l'organizzazione dei pubblici poteri e l'istituzione di una seconda Camera, cioè d'un Senato, accanto all'Assemblea nazionale; e il 16 luglio fu promulgata la legge che definiva i rapporti dei pubblici poteri. Le leggi costituzionali, se pure in parte modificate con disposizioni legislative del 22 luglio 1879 e del 1° agosto 1884, sono quelle che attualmente reggono la Francia. La legge del 25 febbraio dispone all'art. 1 che il potere legislativo sia esercitato da due assemblee: la Camera dei deputati e il Senato. All'art. 2, che il presidente della repubblica, eletto a maggioranza assoluta dei suffragi del Senato e della Camera riuniti in assemblea nazionale, sia nominato per sette anni e abbia il diritto di essere rieleggibile. Il presidente della repubblica (art. 3) ha l'iniziativa delle leggi in concorrenza con i membri delle due camere e promulga le leggi quando sono approvate da quei consessi. Ha diritto di grazia e dispone delle forze armate. Può (art. 5), su parere conforme del Senato, sciogliere la Camera dei deputati prima che essa abbia compiuto il suo mandato. Non può dichiarare la guerra senza il consenso delle due camere. I ministri, il cui numero, specialmente durante la guerra e il periodo immediatamente successivo, è stato più volte cambiato, sono responsabili dinnanzi alle camere della politica generale del governo. Chi è incaricato di formare un nuovo gabinetto ne sceglie i componenti d'accordo col presidente della repubblica. Secondo la legge del 24 febbraio 1875, modificata in parte con quella dal 2 agosto successivo, il Senato ha, in concorrenza con la Camera dei deputati, l'iniziativa e la formazione delle leggi, ad eccezione di quelle di finanza che devono in primo luogo essere presentate e votate dalla Camera dei deputati. In pratica, il Senato francese ha fatto poco uso di questo suo diritto d'iniziativa, limitandosi a esercitare un veto sui progetti di legge votati dalla Camera dei deputati. Il Senato può essere costituito in alta Corte di giustizia per giudicare sia il presidente della repubblica, sia i ministri. Il Senato si compone di 314 membri eletti per nove anni fra i cittadini che abbiano compiuto il quarantesimo anno d'età, rinnovabili per un terzo ogni tre anni; essi sono eletti da uno speciale collegio elettorale, costituito in ogni dipartimento dei deputati, consiglieri generali, consiglieri di circondario, e dai delegati senatoriali eletti dai consigli municipali (da 1 a 24, secondo il numero dei consiglieri; Parigi ne elegge 30). La legge del 24 febbraio 1875 disponeva che 75 senatori fossero eletti a vita; fu modificata nel 1884, nel senso che a ogni decesso si procedesse alla elezione per la durata di nove anni. La Camera dei deputati è eletta per quattro anni; per essere eletto, il candidato deve aver superato il venticinquesimo anno d'età. La sua elezione avviene con lo scrutinio di circondario a suffragio diretto e universale. Non può essere membro della Camera chi non abbia soddisfatto alle prescrizioni della legge militare concernente il servizio attivo. Sono elettori i cittadini dai 21 anni d'età. Il numero dei deputati è di 612 (1 ogni 100.000 ab.). Alcune colonie hanno il diritto di eleggere un certo numero di senatori (Algeria 3, Guadalupa 1, India francese1, Martinica 1, La Riunione 1) e di deputati (Algeria 6, Guadalupa, Martinica, La Riunione 2 per ciascuna, India Francese, Guiana, Cocincina e Sénégal, 1 per ciascuna). Il Consiglio di stato, che fu istituito da Napoleone I, si compone di consiglieri, di maîtres des requêtes e di uditori.
Ordinamento amministrativo. - Il governo locale si divide in 90 dipartimenti (incluso il territorio di Belfort). Dal 1881 i tre dipartimenti dell'Algeria fanno parte del governo locale. Il dipartimento si suddivide in circondarî (arrondissements: 279), il circondario in cantoni (3024) e il cantone in comuni (37.981). Il dipartimento ha personalità civile, e può acquistare, vendere, ereditare, contrarre prestiti. Il potere esecutivo è nelle mani del prefetto, nominato dal ministro dell'Interno; l'assemblea deliberante è il Consiglio generale, eletto con suffragio universale (un consigliere per ogni cantone), il quale vota un bilancio alimentato da rendite mobiliari e immobiliari e dedicato ai lavori stradali, alla pubblica assistenza e all'istruzione. Il consiglio stesso ripartisce tra i circondarî le imposte dirette dovute al dipartimento. Fungono da tribunali amministrativi i consigli di prefettura (in numero di 23, in modo che ognuno ha giurisdizione su parecchi dipartimenti, tranne quello della Senna) i cui membri non sono eletti, ma nominati.
Il circondario non ha personalità civile, e non possiede beni né bilancio. Il potere esecutivo è nelle mani del sottoprefetto, nominato dal ministro dell'Interno; l'assemblea deliberante è il consiglio di circondario, eletto con suffragio universale e incaricato di ripartire tra i comuni le imposte dirette che spettano al circondario. Il cantone, che comprende un certo numero di comuni, è semplicemente una circoscrizione giudiziaria ed elettorale per la nomina dei consiglieri generali.
Il comune, che è la vera cellula amministrativa, di solito è costituito da un villaggio e dal suo territorio; il potere esecutivo vi è esercitato da un sindaco (maire) e da uno a dodici assessori (adjoints), con l'eccezione di Parigi (v. appresso) e di Lione che ne ha 17; l'assemblea deliberante è un consiglio municipale, i cui membri (non meno di 10 e non più di 36) sono eletti per 4 anni, con suffragio universale diretto. Il comune, come il dipartimento, ha personalità civile, e dispone di un bilancio che è alimentato dalle rendite dei suoi beni mobili e immobili, dai dazî e dai centesimi addizionali prelevati dalle imposte dirette spettanti allo stato, e che deve servire alla costruzione di scuole e di strade e alla pubblica assistenza. Si tratta, insomma, d'una piccola repubblica, la quale si amministra da sé e provvede alla propria vita economica. Soltanto il comune di Parigi ha un'organizzazione speciale. Esso è suddiviso in 20 circondarî, comprendenti ciascuno quattro quartieri, e in ciascun circondario un sindaco e tre assessori, nominati dal presidente della repubblica, sono incaricati di tutte le operazioni dello stato civile, delle opere di pubblica assistenza e d'igiene e della sorveglianza sulle scuole. Gli 80 rappresentanti dei quartieri parigini, eletti con suffragio universale, formano il consiglio municipale, il quale vota e amministra il bilancio della città di Parigi. Il presidente del consiglio municipale non ha alcun potere effettivo, essendo le funzioni esecutive riservate al prefetto della Senna e al prefetto di polizia, entrambi nominati dal ministro dell'Interno. Il resto del dipartimento della Senna è diviso in due circondarî e 22 cantoni; gli 80 consiglieri municipali di Parigi, più i 22 consiglieri dei cantoni formano il consiglio generale del dipartimento.
Ordinamento giudiziario. - La giustizia è amministrata da giudici di pace, nei capoluogi di cantone e da Corti d'assise nei dipartimenti, assistite da 12 giurati. Vi sono poi 26 Corti d'appello, e una Corte di cassazione a Parigi. I giudici sono nominati dal presidente della repubblica. Possono essere revocati da una decisione della Corte di cassazione, costituita in Consiglio superiore.
Culti. - La religione di gran lunga predominante in Francia è la cattolica. A grande distanza da essa vengono le varie confessioni di protestanti, l'insieme dei quali raggiunge circa 1.000.000, con i centri più importanti a Parigi, nelle Cévennes, a Montbéliard, ecc., e specialmente in Alsazia (circa 250.000); seguono quindi gl'israeliti, sparsi un po' dappertutto, ma particolarmente nei centri commerciali, e sommano circa a 200.000 (nella sola Parigi circa 140.000). I musulmani, provenienti per lo più dai possedimenti francesi nell'Africa settentrionale, sono in numero relativamente molto scarso.
Per la legge del 9 dicembre 1905 la Chiesa è separata dallo Stato, perciò questo si disinteressa di ogni forma di culto né ha un bilancio per il culto; tuttavia permette le Associations cultuelles, istituite a cura dei seguaci dei singoli culti per organizzare e sovvenzionare i culti stessi. All'atto di separazione fra Chiesa e Stato, gli edifici destinati a culto (chiese, ecc.) e gli annessi furono devoluti alle dette Associations; con successiva legge del 2 gennaio 1907 fu stabilito che, in mancanza delle Associations, tali edifici continuassero a rimanere per uso dei ministri e praticanti dei rispettivi culti, ma dopo un atto amministrativo redatto dal prefetto nei casi di edifici appartenenti ai dipartimenti o allo stato, ovvero redatto dal sindaco nei casi di edifici dei comuni. Gli ecclesiastici di età superiore ai 45 anni e con più di 25 anni di ministero dovevano ricevere dallo stato, all'atto della separazione, una pensione, e gli altri che non raggiungevano tali estremi avevano diritto ad una gratificazione per 8 anni. Quanto agli ordini e comunità religiose, già prima, con la legge sulle associazioni del 1° luglio 1901, era stato stabilito che le associazioni religiose dovevano essere autorizzate dallo stato, e che nessun ordine monastico poteva essere autorizzato senza una legge particolare al singolo caso. Queste disposizioni, tuttavia, non vennero estese dopo la guerra mondiale ai dipartimenti della Mosella, del Basso e dell'Alto Reno, cioè all'AlsaziaLorena gia appartenuta alla Germania: per questi dipartimenti è in vigore un regime speciale. Come pure, nonostante la legge di separazione, la Francia ha attualmente un suo ambasciatore straordinario e plenipotenziario a Roma presso la S. Sede.
Vi sono diciassette arcivescovati cattolici: Aix, con 6 diocesi suffraganee; Albi, con 4; Auch, con 3; Avignone, con 4; Besançon, con 4; Bordeaux, con 6; Bourges, con 5; Cambrai, con z; Chambéry, con 3; Lione, con 5; Parigi, con 5; Reims, con 4; Rennes, con 3; Rouen, con 4; Sens, con 3; Tolosa, con 3; Tours, con 4.; vi sono inoltre le diocesi di Metz e di Strasburgo immediatamente soggette alla S. Sede. In tutto sono 17 arcivescovati e 72 vescovati; a questi sono da aggiungere, nelle varie colonie e possedimenti francesi, 3 arcivescovati, 5 vescovati, 24 vicariati apostolici e 6 prefetture apostoliche.
I vescovi sono nominati dalla S. Sede, senza alcun beneplacito dello Stato, e da essi unicamente dipendono i parroci. Le spese di culto ricadono sui fedeli, che contribuiscono secondo norme piuttosto complicate, ma in maniera del tutto privata e indipendente dallo stato. Tuttavia la condizione giuridica del culto e delle associazioni cattoliche, specialmente dopo la guerra mondiale, si è fatta molto più favorevole ad esse. La legge contro le congregazioni religiose spesso non è applicata, oppure viene elusa: parecchi istituti d'educazione sono in realtà tenuti da congregazioni, pur essendone nominalmente a capo persone estranee. All'estero poi, e specialmente in luoghi di missione o di penetrazione, la Francia ha sempre favorito l'attività delle proprie congregazioni e di altri istituti cattolici. Il clero secolare francese è piuttosto deficiente di numero: delle circa 36.000 parrocchie quasi una quarta parte è senza titolare; tuttavia in questi ultimi tempi è segnalata un'affluenza molto maggiore nei seminari ecclesiastici. Prima della legge del 1° luglio 1901, esistevano in Francia 910 associazioni riconosciute, e 753 non riconosciute; le case religiose erano 19.514, con 30.136 uomini e 129.492 donne. I cattolici francesi mantengono anche, a proprie spese, cinque università o istituti superiori di cultura: a Parigi (con facoltà di teologia, legge, ecc.), ad Angers (teologia, legge, lettere, ecc.), a Lilla (teologia, legge, medicina, lettere, ecc.), Tolosa (teologia, lettere, ecc.), e a Lione (teologia, legge, lettere, ecc.); inoltre la facoltà cattolica di teologia all'università di Strasburgo.
I protestanti francesi dopo la legge di separazione costituirono le proprie Associations cultuelles, raggruppandosi ulteriormente secondo le varie tendenze: quella ortodossa costituì l'Union des Églises réformées évangéliques, con facoltà teologica a Montpellier (ivi trasportata nel 1919 da Montauban); la tendenza liberale costituì l'tnion des Églises réformées. Accanto a queste sono da ricordarsi: l'Union des eglises évangéliques libres, che comprende una cinquantina di comunità; la Fédération protestante, che include comunità di varie confessioni (luterane, metodiste, battiste); l'Église de la Confession d'Augsbourg, prettamente luterana che comprende comunità dell'Alsazia, di Montbéliard, di Parigi e Nizza.
Gl'israeliti costituirono parimente le proprie Associations cultuelles, a capo delle quali sta un Consistoire Central formato di 52 membri e presieduto dal rabbino maggiore di Francia. Le associazioni dipendenti dal Consistoire sono, in Francia e Algeria, circa 75. In Alsazia-Lorena (Metz, Strasburgo, Colmar) è rimasta, anche dopo l'annessione alla Francia, l'antica organizzazione, con tre concistori dipartimentali dipendenti dai rispettivi rabbini maggiori: questi sono stipendiati dal governo. Parigi è sede di una École rabbinique per la formazione dei rabbini.
Forze armate. - Esercito. - Sino dal Medioevo l'esercito "regio", composto in prevalenza di mercenarî, arruolati dapprima temporaneamente, indi permanentemente dal sovrano, sorse accanto e, con l'evo moderno, si sostituì all'antico esercito "feudale". Scoppiata la Rivoluzione e fatti eguali i cittadini di fronte allo Stato, si ricorse alla coscrizione, attuata con la leva in massa del 1793, poi regolata con la legge Jourdan del 1798, donde trassero vita i numerosi e vittoriosi eserciti dell'epoca rivoluzionaria e imperiale. Più tardi, l'obbligatorietà del servizio militare venne praticamente attenuata dal dannoso principio delle "sostituzioni" e delle "esonerazioni"; il che, unitamente all'inadeguata costituzione d'un esercito di seconda linea, contribuì non poco alle sconfitte del 1870-71 e indusse la Francia a modellare in parte il proprio ordinamento su quello prussiano (leggi 1873, 1889, 1905, 1913). L'odierno esercito di pace ha (secondo le leggi militari 1927-28) lo scopo fondamentale di generare l'esercito di guerra, mobilitandolo e fornendogli parte dei quadri, istruendo i contingenti con successive chiamate, proteggendone la mobilitazione e la radunata; in via subordinata, deve provvedere all'occupazione dei possedimenti d'oltremare, all'eventuale rinforzo di tale occupazione, e a concorrere (eccezionalmente) al mantenimento dell'ordine pubblico. Esso assolve ai suoi compiti mediante l'istruzione premilitare, militare, postmilitare dei cittadini, ed è protetto, per quanto concerne mobilitazione e copertura, da una sviluppata organizzazione difensiva delle frontiere.
La Francia è oggi la potenza d'Europa che sopporta le più gravi spese militari, considerate sia in senso assoluto, sia in rapporto col numero degli abitanti o con le spese totali del bilancio dello stato.
Il presidente della repubblica dispone delle forze armate. Il ministro della guerra esercita comando ed amministrazione dell'esercito, coadiuvato dallo Stato Maggiore e dal Consiglio superiore di guerra. Il generale vice-presidente del Consiglio superiore di guerra ha funzioni d'ispettore generale dell'esercito ed è designato per il comando dell'esercito in guerra. Il territorio è diviso in 20 "regioni" (una è l'Algeria). Il comando territoriale (organizzazione territoriale) è separato da quello delle truppe (forze permanenti); le due funzioni si cumulano solo nel comando di regione.
L'organizzazione territoriale assicura: il reclutamento, la preparazione militare (pre e post), la mobilitazione, il funzionamento dei servizî. Ne fanno parte: organi di comando e Stati Maggiori, uffici di reclutamento, organi di preparazione militare, centri di mobilitazione, scuole e organi di studio, stabilimenti e servizî territoriali. Il comando delle truppe concerne: addestramento, impiego, amministrazione interna, igiene, stato e avanzamento del personale.
L'esercito si distingue in metropolitano (unità francesi e nordafricane) e coloniale (unità composte, ad eccezione degli ufficiali e di parte dei militari di carriera, di indigeni dei possedimenti d'oltremare, esclusi quelli nord-africani). Esso comprende: corpo degli ufficiali generali; truppe (fanteria, metropolitana e coloniale; cavalleria; artiglieria, metropolitana e coloniale; genio); servizî (generali e speciali); gendarmeria.
Le truppe sono raggruppate in grandi unità (33 divisioni di fanteria e 5 di cavalleria), o fanno parte di unità non indivisionate ovvero di riserve generali; nelle colonie sono ripartite in sei gruppi (Indocina, Africa occidentale, Africa orientale, Antille, Pacifico, Congo). La divisione di fanteria è la grande unità base dell'ordinamento; ne esiste almeno una (di fanteria o alpina) in ogni regione del territorio; si compone di 3 a 4 reggimenti di fanteria e 1 reggimento di artiglieria (la divisione alpina di 2 reggimenti di fanteria alpina, 2 mezze brigate di cacciatori delle Alpi, 2 reggimenti d'artiglieria). La divisione di cavalleria è composta di 2 a 3 brigate, ognuna di 2 reggimenti di cavalleria, 1 gruppo di automitragliatrici, 1 reggimento d'artiglieria, 1 battaglione di dragoni autoportati).
L'arma di fanteria comprende: a) fanteria metropolitana: 96 reggimenti: fanteria, zuavi, tiragliatori, legione straniera, zappatori-pompieri; 21 battaglioni cacciatori a piedi; 2 battaglioni di fanteria leggiera d'Africa (reparti di disciplina); 11 reggimenti carri armati (10 leggieri, 1 pesante); 6 compagnie sahariane; b) fanteria coloniale: 38 reggimenti: fanteria coloniale; tiragliatori senegalesi, malgasci, indocinesi; misto di fanteria coloniale e indocinese; 12 battaglioni autonomi; 4 compagnie autonome. L'arma di cavalleria comprende 44 reggimenti: corazzieri, dragoni, cacciatori a cavallo, spahis, ussari; 18 squadroni di automitragliatrici; 5 battaglioni di dragoni autoportati. L'artiglieria comprende: a) artiglieria metropolitana: 66 reggimenti: divisionali, a cavallo, pesanti ippomobili, portati, controaerei, a piedi, da montagna, pesanti su rotaie, divisionali nord-africani, pesanti ippomobili, portato nord-africano; b) artiglieria coloniale: 12 reggimenti: senegalesi, malgasci, indocinesi; 1 gruppo autonomo; 1 batteria autonoma. L'arma del genio comprende: 11 reggimenti: genio, zappatori, ferrovieri, telegrafisti e radiotelegrafisti; 7 battaglioni autonomi nord-africani. Le unità di cavalleria, artiglieria e genio sono largamente motorizzate. I corpi delle varie armi comprendono normalmente reparti d'istruzione (reclute e istruttori) e di manovra (anziani); eccezionalmente, reparti quadro (alcuni ufficiali e militari di carriera).
Il reggimento di fanteria metropolitana consta di 1 Stato Maggiore, i compagnia comando, 1 compagnia mezzi di accompagnamento e di collegamento; 3 battaglioni (ognuno su 3 compagnie fucilieri-volteggiatori e i compagnia mitragliatrici); in totale: 50 ufficiali e 1600 uomini di truppa (reggimento normale), 60 ufficiali e 2300 uomini di truppa (reggimento rinforzato), 3 cannoni da 37 mm., 6 mortai d'accompagnamento, 36 mitragliatrici pesanti, 81 fucili mitragliatrici pesanti, 81 fucili mitragliatori, 81 fucili con tromboncino, oltre fucili, moschetti e pistole. Il reggimento di cavalleria si compone di 1 squadrone comando, 4 squadroni, 1 gruppo mitragliatrici; in totale 28 ufficiali, 800 uomini di tmppa, 780 quadrupedi, 8 mitragliatrici pesanti, 24 fucili mitragliatori, oltre moschetti e sciabole. Il reggimento d'artiglieria divisionale comprende 3 gruppi di 2 batterie leggiere e 2 gruppi di 2 batterie pesanti; in totale 42 ufficiali, 950 uomini di truppa, 630 quadrupedi (reggimento normale), 47 ufficiali, 1550 uomini di truppa, 1220 quadrupedi (reggimento rinforzato), 24 cannoni da 75 modello 1897, 16 obici da 155 C. modello 1917.
I servizî sono: generali (Stato Maggiore; controllo amministrativo) e speciali (artiglieria; genio; intendenza; sanità; istruzione fisica; giustizia militare; polveri; scuole militari; territoriali dell'Africa del Nord e Levante).
La gendarmeria assicura l'ordine pubblico e l'esecuzione delle leggi e comprende: la gendarmeria dell'interno (i legione per ogni regione, più 3 legioni speciali: in totale 23 legioni); la guardia repubblicana (i legione speciale per la sicurezza di Parigi); la guardia repubblicana mobile (10 gruppi, 34 compagnie e 92 plotoni mobili), per compiti di sicurezza e varî, tra i quali il concorso all'istruzione premilitare; la gendarmeria d'Africa, con compiti e ordinamento analoghi a quelli della gendarmeria dell'interno. Forza complessiva circa: 40.000 uomini.
Il reclutamento ha come caratteristiche essenziali: l'estensione massima dell'applicazione dell'obbligo generale e personale al servizio militare; la brevità della ferma; il reclutamento di un numero rilevante di militari di carriera; l'istruzione periodica delle riserve, tassativamente determinata da leggi. Sono esenti dal servizio i soli inabili fisicamente in modo assoluto; anche di questi è però previsto l'impiego in particolari servizî in caso di guerra. Gl'indegni sono variamente incorporati, tranne i condannati alle pene più gravi, i quali però sono posti a disposizione dei ministeri della Guerra e delle Colonie per impieghi d'interesse militare. La durata dell'obbligo di servizio è di 28 anni: 1 nell'esercito attivo, 3 nella disponibilità, 16 nella 1ª riserva, 8 nella 2ª riserva. La ferma è unica, di 12 mesi (sussidiata dalla preparazione premilitare). I contingenti sono incorporati nel 21° anno d'età, in due frazioni semestrali. I militari in congedo sono richiamati alle armi: per un periodo di tre settimane durante la disponibilità; per due periodi (uno di 3, uno di 2 a 3 settimane) durante la 1ª riserva; per esercitazioni speciali, di durata complessiva non superiore a sette giorni, durante la 2ª riserva. Il reclutamento dei militari di carriera è favorito con varie provvidenze economiche. Alla coscrizione sono sottoposti, per l'esercito metropolitano, oltre i cittadini francesi, gli Algerini (ferma 2 anni) ed i Tunisini (ferma 3 anni), in base a leggi speciali; rispetto alla popolazione indigena, essi forniscono militari in proporzione corrispondente all'incirca a quella della madrepatria. I Marocchini sono incorporati per arruolamenti volontari. Per l'esercito coloniale sono reclutati, prevalentemente con la coscrizione (ferme da 3 a 4 anni) Senegalesi, Malgasci, Somali, Indocinesi.
Marina militare. - La marina militare nazionale francese ha avuto si può dire il suo fondatore nel Colbert (v.). L'opera riformatrice del Colbert fu continuata con alterne vicende dai successori, i quali però non sempre compresero l'importanza che la marina avrebbe potuto assumere nelle secolari competizioni con l'Inghilterra, cosicché si può dire che in massima la marina andò decadendo fino a ricevere un gravissimo colpo durante le guerre napoleoniche (Abukir, Trafalgar). Nel sec. XIX la marina francese fu a poco a poco rimessa in efficienza, giungendo talvolta a rivaleggiare con quella inglese; ma soggetta spesso a influenze politiche o male indirizzata, non seguì nel suo sviluppo una linea razionale ben definita.
Durante la guerra europea la marina francese scrisse pagine di gloria ai Dardanelli e fu prevalentemente occupata nel Mediterraneo, senza avere l'occasione di misurarsi col nemico in battaglia. Reparti navali francesi (cacciatorpediniere e sommergibili), posti alla dipendenza del Comando italiano, concorsero alla guerra in Adriatico. Nell'immediato dopoguerra la marina francese, contemporaneamente all'accordo di Washington, studiava una legge navale che doveva in un primo tempo contemplare le costruzioni fino al 1930 e che fu in seguito prolungata fino al 1935. Per tale epoca la Francia, come ha recentemente dichiarato a Londra (1931) intende avere una marina di 824.000 tonnellate, costituita in massima da naviglio nuovo, omogeneo, razionalmente studiato.
Nel 1932 la marina francese conta: Corazzate (tonnellaggio autorizzato a Washington 175.000 tonn.): Lorraine, Provence, Bretagne, varate nel 1913, da 23.500 tonn. e 21 nodi, armate con 10/343; Paris, Courbet, Jean Bart, varate nel 1911-12, da 23.500 tonn. e 21 nodi, armate con 12/305; Diderot, Condorcet, Voltaire, varate nel 1909, da 18.900 tonn. e 20 nodi, armate con 4/305 e 12/240; Incrociatori corazzati: 1, in progetto, da 32.000 tonn.; 2, Ernest Renan e Waldeck-Rousseau, varati nel 1906 e 1908, da 13.644 e 14.100 tonn. e 23 nodi, armati con 6/305; Incrociatori leggieri: 6 da 7000 tonn., in costruzione, armati con 9/155; 7, impostati dal 1925 in poi: Duquesne, Tourville, Suffren, Colbert, Foch, Dupleix, Algerie, di cui l'ultimo (1931) non varato, da 10.160 tonn. e 33 nodi, armati con 8/203; 3 varati nel 1923-24 (Primauguet, Lamotte Piquet, Duguay-Trouin), da 8000 tonn. e 33 nodi, armati con 8/155; 1, Jeanne d'Arc, varato nel 1930, da 6500 tonn. e 25 nodi, armato con 8/155, adibito come nave-scuola; 4, ex-tedeschi e austriaci, varati nel 1910-15, da 3500-6200 tonn. e 23-26 nodi, armati con cannoni da 100 e 150. Navi portaerei: 2, Béarn varata nel 1920, da 22.500 tonn. e 21 nodi capace di 40 apparecchi; Commandant Teste, varata nel 1929, da 11.500 tonn. e 20 nodi. Conduttori di flottiglia: 31, di cui 7 ancora in costruzione (1931), distinti in genere col nome di uccelli rapaci, di belve, di noti ammiragli e di antiche fregate, varati dal 1923 in poi, da 2480-2690 tonn. e 36-39 nodi; armati con 5/130 i primi sei e 5/140 tutti gli altri; 1 ex-tedesco, varato nel 1917, da 2100 tonn. e 31 nodi, armato con 4/150. Cacciatorpediniere: 1, sperimentale, in costruzione; 26, varati tra il 1924 e il 1929, da 1500-1800 tonn. e 33-35 nodi, armati con 4/130; 33 antiquati, varati tra il 1911 e il 1917, tra le 700-1200 tonn. e da 27-32 nodi, con armamenti varî. Incrociatori sommergibili: 1, Surcouf, varato nel 1929, da 3200-4300 tonn. e 18/10 nodi, armato con 2/203 e 10 tubi di lancio da 550. Sommergibili di 1ª classe: 40, di cui gli ultimi 12 ancora in costruzione (1930), varati tra il 1924 e il 1929; i primi 9 da 1150/1400 tonn. e tutti gli altri da 1560/2080 tonn., 18,5/10 nodi, armati in media con 10 tubi di lancio da 550 e 1 cannone da 100; 15 antiquati, tra cui varî ex-tedeschi, varati tra il 1913 e il 1918, da 850-1100 tonn., meno l'Halbronn (ex U. 139), da 2000-3000 tonn. Sommergibili di 2ª classe: 31, di cui 8 in costruzione (1930), varati tra il 1925 e il 1931, da 630-770 e 13,5-9,5 nodi, armati con 7-8 tubi di lancio da 550; 13 antiquati, varati nel 1914-20, da 300-500 e 700-900 tonn., armati con 4-10 tubi di lancio. Sommergibili posamine: 6, varati nel 1928-29, da 760-950 tonn. e 12-9 nodi, armati con 4 tubi da 550 e 32 torpedini; 4 antiquati, varati tra il 1916 e il 1922, da 650-820 e 900-1300 tonn. Posamine: 1, E. Bertin, in costruzione, da 5800 tonn., armato con 6/140; 1, Pluton, varato nel 1930, da 5300 tonn. e 30 nodi, armato con 4/138. Inoltre la marina francese ha un certo numero di dragamine, cannoniere (tra cui le più importanti sono le nuove 15 da 2000 tonn. e 15 nodi, destinate alle colonie) e unità ausiliarie.
Basi navali principali sono Tolone, Biserta, Brest, Cherbourg. Gli effettivi della marina francese sono di 3600 ufficiali, 9800 sottufficiali e 43.500 sottocapi e comuni.
Aeronautica militare. - Dal settembre 1928 fu costituito in Francia il Ministero dell'aria, dal quale dipendono l'aeronautica militare e quella civile. Le forze aeree dell'aviazione terrestre (1800 apparecchi oltre le riserve) dipendono dalla direzione generale delle forze aeree di terra e sono raggruppate in forze metropolitane, forze del bacino mediterraneo e forze delle colonie. Le prime comprendono 3 divisioni aeree e un raggruppamento di aviazione da bombardamento. La 1ª divisione aerea è formata da 2 brigate con un totale di 4 reggimenti d'aviazione. La 2ª divisione aerea comprende una brigata con 1 reggimento d'aviazione. La 3ª comprende 2 brigate con 3 reggimenti d'aviazione e un gruppo formante corpo. Il raggruppamento dell'aviazione da bombardamento comprende 2 brigate con 4 reggimenti d'aviazione. Da ogni divisione aerea dipendono anche 2 battaglioni aerostieri. Le unità dislocate nel bacino mediterraneo comprendono 2 reggimenti d'aviazione dislocati rispettivamente in Siria e nel Marocco e 4 gruppi d'aviazione dei quali 3 in Algeria e 1 in Tunisia. Le forze dislocate nelle colonie comprendono 8 squadriglie, delle quali 2 dislocate nell'Africa occidentale francese, 1 nell'Africa orientale e 4 nell'Indocina.
Le forze aeree di mare (180 apparecchi) dipendono dalla direzione generale delle forze aeree di mare e i reparti sono dislocati in quattro regioni marittime: 1ª con capoluogo Cherbourg, 2ª Brest, 3ª Tolone, 4ª Biserta. Inoltre l'aviazione marittima dispone di una nave portaerei e di una nave trasporto. La forza complessiva dell'aeronautica militare francese è di circa 40.000 uomini, dei quali 5000 naviganti (3500 piloti e 1500 specializzati).
Ordinamento scolastico. - L'insegnamento è stato organizzato in Francia negli anni che seguirono la Rivoluzione del 1789. Nel 1790 il Talleyrand propose d'istituire una scuola primaria in ogni comune. Il progetto fu approvato, ma il continuo susseguirsi di guerre ne rese impossibile l'esecuzione. La legge 11 fiorile dell'anno X provvide all'insegnamento secondario istituendo un liceo in ogni distretto di Corte d'appello. Nel 1808 infine fu organizzato l'insegnamento superiore, suddiviso in cinque facoltà. Solo nel 1850 la libertà d'insegnamento fu riconosciuta, e cominciò ad organizzarsi la scuola cattolica. Con la legge del 28 marzo 1882 l'insegnamento primario divenne obbligatorio e completamente gratuito.
Una nuova organizzazione data dal 1926. Si è unificato l'insegnamento impartito nelle classi inferiori dei licei e nelle scuole private. Gl'insegnanti distaccati nei licei e sottoposti al controllo degl'ispettori per le scuole primarie hanno preso il posto dei professori speciali. Un severo esame di passaggio elimina dall'insegnamento secondario all'inizio della sesta e della quinta gli alunni insufficientemente preparati. Questi sono indirizzati allora verso l'insegnamento primario superiore o verso le scuole tecniche e professionali. La gratuità dell'istruzione si è estesa alle classi inferiori dei licei.
Analogamente importanti modificazioni sono state apportate ai programmi degli studî nei licei. Per la legge del 1902 l'insegnamento del latino era obbligatorio soltanto fino alla seconda. Compiuto il primo corso di studî gli alunni potevano scegliere fra quattro sezioni (latino-greco; latino-lingue moderne; latino-scienze; scienze-lingue moderne). Attualmente l'insegnamento scientifico è stato esteso e reso uniforme nelle diverse sezioni: il greco è facoltativo;. il latino è obbligatorio soltanto nella prima ed è sostituito nella seconda da un'altra lingua moderna. Dopo il primo baccalaureato gli alunni possono scegliere tra la filosofia e la matematica.
L'insegnamento superiore infine è stato profondamente modificato con la legge di L. Liard del 10 luglio 1896. Si è sviluppata la scuola normale superiore per la preparazione dei professori. Dei corsi sono stati istituiti dovunque per gli studenti stranieri con esami speciali alla fine di essi. Il numero degl'istituti elettrotecnici e delle scuole d'arti e mestieri si è notevolmente accresciuto.
Finanze. - Già nel 1914 la tassazione inadeguata, il deficit del bilancio e le preoccupazioni del debito fluttuante avrebbero richiesto l'adozione di misure drastiche, nonostante la forza finanziaria del paese. Sopraggiunse la guerra con le sue molte esigenze economiche, cui le entrate normali di bilancio (sensibilmente ridotte in seguito all'invasione e al diminuito gettito dell'imposta sui terreni, che era una delle principali fonti di entrata del bilancio prebellico) non potevano certo far fronte, nonostante l'introduzione di nuovi tributi e l'aggravamento di quelli esistenti. L'enorme deficit, che nel periodo 1914-1919 si valuta complessivamente a 188 miliardi, fu coperto con anticipazioni della Banca di Francia allo stato; col contrarre prestiti a lungo termine all'interno e all'estero, e in gran parte con il ricavo dei Bons de la défence nationale che furono emessi nel settembre 1914 e la cui circolazione, a fine guerra, raggiungeva i 60 miliardi. Né l'equilibrio del bilancio poté ristabilirsi negli anni successivi, in cui si imposero ingenti spese per la ricostruzione delle terre invase; l'istituzione anzi, nel 1920, di uno speciale budget des dépenses recouvrables (in cui le spese stesse e le pensioni di guerra venivano idealmente compensate con le riparazioni che la Germania avrebbe dovuto pagare) ritardò l'adozione di provvedimenti atti a fronteggiare la situazione, e fu causa non ultima della crisi finanziaria.
Le richieste di credito alla Banca di Francia e ai privati da parte dello stato non potevano quindi diminuire, la situazione della tesoreria alla scadenza era sempre più imbarazzante, e il volume della circolazione cresceva di giorno in giorno insieme con l'aumento dei prezzi e dei cambî. Fu solo nel marzo 1924, in seguito alla prima grave crisi del cambio, che si cominciò a preparare l'equilibrio del bilancio, e si procedé alla fusione del bilancio delle spese ricuperabili (che negli anni 1920-25 avevano raggiunto la cifra complessiva di circa 75 miliardi) con quello generale dello stato (che dal 1922 era tornato a essere unico, in seguito alla riunione del bilancio ordinario, di quello straordinario di guerra e di quello dell'Alsazia e Lorena), si ridusse il limite dei prestiti di ricostruzione a tre miliardi, e si elevarono le aliquote di molti tributi.
La continua svalutazione del franco neutralizzò però ben presto l'effetto di queste riforme, e il governo si vide costretto, in seguito anche alla prolungata carenza della Germania, a indebitarsi ancor più con la Banca di Francia e ad aumentare i biglietti in circolazione per far fronte alle scadenze e alle necessità correnti (la circolazione, da 43 miliardi nel 1925 passò infatti a 54 nel giugno 1926, e le anticipazioni allo stato corrispettivamente da 32 a 36 miliardi). Sopraggiunse nel luglio 1926 una seconda crisi del cambio, ben più grave che nel 1924, per l'azione combinata contro il franco della speculazione straniera e soprattutto di quella interna. Bisognava anzitutto ristabilire la fiducia e il gabinetto di R. Poincaré cominciò col non ricorrere a nuovi anticipi dell'Istituto di emissione per far fronte alle scadenze del 31 luglio. Per assicurare i possessori di franchi della sua ferma intenzione di non più ricorrervi, era necessario però equilibrare il bilancio e alleggerire i gravosi impegni a breve termine della tesoreria (il debito fluttuante superava allora i 90 miliardi). Il 3 agosto fu votata perciò una Loi de salut che creò nuove risorse fiscali, dirette e indirette, e autorizzò il governo a provvedere per decreto, entro tre anni, a tutte le economie compatibili con il buon andamento dei servizî pubblici; ne seguì una serie di riforme politiche, giudiziarie e amministrative, da cui l'economia della Francia risultò consolidata e ringiovanita. Il 10 agosto fu istituita poi una Cassa autonoma di gestione dei buoni della difesa nazionale e di ammortamento del debito pubblico (che entrò in funzione il 10 ottobre), dotata di importanti entrate, valutate a sei miliardi annui (prodotto netto del monopolio dei tabacchi, provento della nuova tassa complementare sui primi trasferimenti di immobili merci e avviamento, annualità fisse ed eventuali eccedenze di bilancio, ecc., oltre al saldo attivo della precedente cassa di ammortamento), con la funzione precipua di preparare la graduale riduzione del debito fluttuante. Contemporaneamente, con legge 7 agosto, fu dato uno statuto legale all'intervento della Banca di Francia sul mercato dei cambî, e la Banca fu autorizzata ad acquistare oro e divise estere, e ad emettere in corrispettivo biglietti non compresi nel totale ufficiale della circolazione, per cui il limite legale della circolazione fu in sostanza abolito. Il 27 settembre la Banca fu poi autorizzata ad acquistare a premio monete nazionali d'oro e d'argento, e il 18 ottobre organizzò un servizio vero e proprio di cambio. In breve le sue disponibilità d'oro e di divise estere esigibili a vista all'interno, e all'estero, furono tali da darle l'assoluta padronanza del mercato, tanto che il 23 dicembre decise di acquistare e vendere a un tasso determinato, che variò in seguito entro limiti ridotti.
La fiducia si ristabilì gradualmente, aumentò il gettito tributario e diminuì la circolazione, per il rimborso alla Banca di parte delle sue anticipazioni, le domande di rimborso dei buoni a breve termine furono superate dalle nuove sottoscrizioni, si allentò la tensione dei cambî, e alla fuga dei capitali successe un rimpatrio accelerato e anche un afflusso di capitale straniero. Il rovesciamento della situazione implicava però il pericolo di un troppo rapido e forte rialzo del franco e la Banca provvide a mantenerlo entro limiti normali; per evitare inoltre che l'abbondanza del credito producesse lo stesso effetto di un'inflazione reale, si cercò di riassorbire quest'inflazione potenziale con investimenti a termine più o meno lungo; i crediti aperti dalla Banca ai venditori di cambî, si diressero alle banche di deposito, le cui aumentate disponibilità affluirono a loro volta, sotto forma di depositi a breve termine, al tesoro, che se ne servì per estinguere in parte il suo debito verso la Banca. Con una sapiente operazione finanziaria si giunse così a quella stabilizzazione di fatto del franco, che il 24 giugno 1928 ottenne poi la sua sanzione legale. L'opera di risanamento in così breve tempo compiuta, fu poi tenacemente continuata, nei riguardi sia del bilancio sia della circolazione monetaria, e la politica di consolidamento, di conversione e di ammortamento del debito pubblico costantemente seguita, contribuì a rafforzare il credito del paese. Profonde modificazioni ha subito però la situazione della Francia dal 1930, in connessione con la crisi mondiale. L'esodo di capitali stranieri e il rallentamento degli scambî con l'estero hanno causato infatti gravi difficoltà nel campo monetario, mentre per il diminuito gettito delle imposte e per gli eccezionali stanziamenti di sussidî ai disoccupati l'esercizio 1930-31 si è chiuso con un disavanzo di oltre 2,6 miliardi e si calcola che il bilancio 1931-32, ancora più aggravato dall'applicazione della moratoria Hoover, per cui sono venuti meno i pagamenti tedeschi, darà luogo a un deficit di oltre 4,7 miliardi; né si possono fare previsioni migliori per l'esercizio 1° aprile-31 dicembre 1932. L'adozione di rigorose misure di risanamento è però in corso, e varî inasprimenti fiscali sono già stati votati dal parlamento (16 luglio 1932). Contemporaneamente, per fronteggiare la critica situazione del tesoro, le cui disponibilità presso la banca sono assai ridotte e che aveva quasi raggiunto il limite fissato all'emissione di buoni, il governo ha ottenuto, fra l'altro, l'autorizzazione a una nuova emissione per 2 miliardi.
Bilanci e debito pubblico. - I bilanci di previsione votati per gli ultimi esercizî (per il particolare funzionamento del sistema finanziario francese i consuntivi vengono approvati con enorme ritardo) dànno in milioni di franchi:
Le entrate provengono quasi esclusivamente da risorse fiscali sia indirette sia dirette; queste ultime, che nell'anteguerra avevano minima importanza, presentano invece negli ultimi anni particolare sviluppo, in seguito soprattutto all'introduzione (1916) dell'imposta generale sul reddito; fra le prime hanno speciale rilievo la tassa sugli affari, istituita nel 1920, il gettito delle dogane e le tasse di bollo o di registro. I maggiori capitoli di spesa sono quelli per il servizio del debito pubblico e per la difesa nazionale.
Il debito pubblico interno, al 31 marzo 1931, ammontava a 283 miliardi di franchi, di cui 228 a lungo termine, 15,9 a breve termine e 39,1 di debito fluttuante. Il debito pubblico estero è costituito dai debiti di guerra con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna (consolidati rispettivamente nel giugno 1925 e nel luglio 1926 in 4025 milioni di dollari e 600 milioni di sterline, da rimborsarsi in 62 annualità progressive, che, scontate al 5%, rappresentano in media un valore attuale di 1681 milioni di dollari e di 227 milioni di sterline), che al 31 marzo 1931 erano di 3865 milioni di dollari e di 759 milioni di sterline; e dai debiti commerciali con gli Stati Uniti e l'Argentina che, alla stessa data, ammontavano a 182,6 milioni di dollari e 5,7 milioni di pesos.
Moneta e banche. - Per la legge del giugno 1928, che stabilizzò il franco e lo riportò su base aurea, l'unità monetaria è di 65,5 milligrammi di oro a 900/1000 di fino e il suo rapporto con la sterlina è fissato a 124,2. Per la stessa legge la Banca di Francia, che ha fin dal 1848 il monopolio dell'emissione (privilegio prorogatole il 20 dicembre 1918 per 25 anni), ha l'obbligo di convertire in oro su domanda i suoi biglietti e di tenere una riserva aurea di almeno il 35% del totale dei biglietti in circolazione e dei crediti a vista. Al 12 febbraio 1932 i biglietti in circolazione ammontavano a 83.289 milioni di franchi e la riserva era di 73.034 milioni.
Le principali banche sono il Crédit foncier de France (fondato nel 1852), il Crédit Lyonnais (fondato nel 1863), la Société Générale (fondata nel 1864), le Comptoir National d'Escompte de Paris, la Banque de Paris et des Pays Bas, la Banque Nationale de Crédit.
Bibl.: F. Marsal, Encycl. de Banque et de Bourse, Parigi 1928; R. Poincaré, La restauration financière de la France, Parigi 1928; Boll. Parl., Roma 1928, II, p. 291 segg.; 1929, I, p. 489 segg.; 1930, I, p. 385 segg.; 1931, II, p. 197 segg.; G. Lachapelle, Les batailles du franc, Parigi 1928; G. Ramon, Hist. de la Banque de France, 2ª ed., Parigi 1929; Società delle Nazioni, Memorandum sur le commerce intern. et sur les balances des payements 1927-29, II, Ginevra 1931.
Preistoria.
Vi sono pochi paesi nel mondo che offrano una tale importanza per la preistoria come quelli, che, bagnati dall'Oceano Atlantico, dalla Manica e dal Mare del Nord, si stendono all'ovest del continente europeo, fra i Pirenei, le Alpi e il corso medio e inferiore del Reno. La diversità delle formazioni geologiche fa sì che nelle alluvioni dei fiumi, nelle dune e nei depositi delle caverne, dappertutto, siano state trovate tracce del soggiorno dell'uomo quaternario. Non è quindi da meravigliarsi, se gli studî preistorici abbiano avuto origine proprio in Francia, verso il principio del sec. XIX, con le esplorazioni fatte da J. Boucher de Perthes nelle antiche alluvioni della Somma. Fino all'età del ferro, la classificazione cronologica, ora universalmente adottata per l'Europa occidentale, è basata sulle constatazioni fatte nei giacimenti francesi: Chelles (v. chelléana, civiltà), Saint-Acheul (v. acheuleana, civiltà), Levallois (v. levalloisiana, civiltà), Le Moustier (v. mousteriana, civiltà), Aurignac (v. aurignaciana, civiltà), Solutré (v. Solutreana, civiltà), La Madeleine (v. magdaleniana, civiltà), Mas-d'Azil (v. aziliana, civiltà), la Fère-en-Tardenois (tardenoisiana, civiltà), e in Aquitania, dove sono rappresentate in misura più abbondante le culture del paleolitico superiore e l'arte veramente insigne dei cacciatori dell'età della renna.
La Francia del Quaternario rientra nell'immensa regione che si stende sull'India, sull'Asia Minore, sull'Europa occidentale, sull'Africa orientale meridionale e occidentale, e ha attraversato varie fasi di civiltà abbastanza affini fra loro. In Europa le Alpi e il Reno costituirono nei tempi antichi una barriera fra una regione occidentale (Spagna, Italia, Francia, Inghilterra) e un'altra più orientale. Durante l'età della renna, la Francia viene a far parte di una regione atlantica, collegata per mezzo dell'Europa centrale con la Siberia e in rapporti piuttosto lontani col gruppo Mediterraneo.
Paleolitico antico e medio. - È soprattutto sui territorî francesi che sono meglio rappresentati i due gruppi d'industria della pietra scheggiata e bifacciale delle due fasi principali del Paleolitico.
Nel nord, a Saint-Acheul e a Le Havre (Senna Inferiore), si trovano importanti giacimenti clactoniani, che si possono riscontrare a Curzon (Drôme), dove sono associati a una fauna calda, e si sovrappongono al riempimento del fondo nella grotta dell'Osservatorio (Monaco). Strati fortemente impregnati della tecnica clactoniana, ma più spesso caratterizzati da una tecnica mousteriana iniziale, esistono sotto i livelli con amigdaloidi (coups-depoing) tardi degli strati profondi di Combe-Capelle e della Micoque (Dordogna), della Rochette e di La Quina (Charente). Nel Belgio le stazioni mesviniane si avvicinano a quelle di Clacton (Gran Bretagna). Nei depositi di ghiaia di Saint-Acheul esiste ancora un'industria molto arcaica caratterizzata da strumenti amigdaloidi appena abbozzati a grosse schegge. Questi utensili prechelléani si ritrovano a Chalosse (Landes) alla base delle crete quaternarie e in prossimità del senoniano siliceo. Le industrie chelléo-acheuleane appariscono in Francia soprattutto nelle alluvioni pleistoceniche, sfruttate come cave di sabbia o di ghiaia. Le grandi amigdale acheuleane sono state pure raccolte alla superficie sugli altipiani occupati dalle tribù del Quaternario, in un'epoca in cui essi emergevano sopra al livello delle massime piene.
Questi oggetti "a doppia faccia" sono relativamente rari nei depositi di riempimento delle caverne. Lo chelléano è nettamente localizzato nelle vallate della Somma (Abbeville, Saint-Acheul, ecc.) e della Senna, sopra tutto nella regione di Parigi (Chelles, Bois-Colombes, La Garenne-Colombes, Gennevilliers, Billancourt, Courbevoie, Arcueil (Senna), Moru (Oise), Cergy (Seine-et-Oise). Le scoperte fatte nel centro e nel mezzogiorno sono ancora poco numerose; si possono segnalare un tipico giacimento a Tilloux (Charente), altri a Abilly (Vienna) e a Marignac (Gironda). La maggior parte di queste stazioni hanno fornito oggetti bifacciali acheuleani. L'area di estensione di queste industrie è molto più vasta. Ai gruppi della Somme e della Senna si collegano quelli della Normandia, con le stazioni dei dintorni di Rouen e di Le Havre, dell'Oise e della Seine-et-Marne. Le scoperte proseguono verso oriente, nella Saône-et-Loire fino alla Lorena. Il gruppo della Francia centrale è rappresentato dalle stazioni di Bergerac (Dordogna), Chez-Pourret dell'altipiano di Bassaler (Corrèze), di Saint-Amand-de Gave e di Tilloux (Charente); verso il Sud si trova ancora l'acheuleano a Marignac (Gironda), Roqueville, Infernet, Fonsorbes, Cambernard e Saint-Clar (Alta Garonna). A La Micoque (Les Eyzies, Dordogna) si colgono gli ultimi limiti dell'industria francese "a due facce", le cui fasi hanno seguito una evoluzione parallela a quella delle industrie della pietra scheggiata.
La zona di dispersione delle tribù mousteriane è molto estesa: stazioni all'aperto di Saint-Acheul, Montières, Sailly-Laurette, Liercourt, ecc. e nelle vallate della Cure e dell'Yonne (grotta del Trilobite, a Arcy-surCure); nel Giura a Villère-Versure; in Alsazia-Lorena ad Achenheim, Burbach, presso Sarre-Union (Basso Reno), nei dintorni di Colmar, ad Altkirch, Dingsheim, Mommenheim presso Strasburgo. Nel sud, a Grimaldi, i depositi inferiori contengono una fauna di clima caldo associata all'industria mousteriana. Nel sud-est il riparo sotto roccia di Olha ha fornito nello strato superiore raschiatoi e cuspidi che ricordano certi pezzi dei livelli inferiori di Grimaldi. Il mousteriano di tradizione acheule-ana è rappresentato in abbondanza nelle regioni della Francia centrale. Nella Dordogna grotte numerose hanno fornito strati d'industria mousteriana sottoposti a strati del paleolitico superiore. Le stazioni più caratteristiche sono state trovate a Le Moustier, a La Ferrassie, a Laussel, a Combe-Capelle, a Pech-de-l'Azé, a Couze, a Tabaterie, a Sergeac, a Abri Audi, nel dipartimento della Dordogna; alla Chapelle-aux-Saints e a Chez-Rose nel Corrèze; al Pis-de-la-Vache, nel Lot; a Neschers, nel Puy-de-Dôme. Nella Charente, accanto all'importante stazione di La Quina, bisogna citare ancora quelle del Placard, di La Chaise, di Marignac, di Tilloux e di Montgaudier. Verso il sud-est il mousteriano è stato ancora riscontrato nella grotta di Bize, presso Montpellier e a La Bouïchéta, nell'Ariège.
Nel Belgio i giacimenti all'aperto e le caverne hanno fornito industrie che corrispondono alle scoperte fatte nel territorio francese. Gli orizzonti chelléani con fauna di clima caldo non vi sono ancora rappresentati, ma l'industria mesviniana di Spiennes, nel Hainaut, s'avvicina al clactoniano, e le civiltà dell'acheuleano e specie del mousteriano sono state scoperte a Spy e a La Naulette, alla confluenza della Mosa e della Lesse, a Montaigle, a Hastières, a Goyer, a Fond-de-Forêt, a Huccorgne, ecc.
Paleolitico superiore. - La ripartizione del paleolitico superiore mostra i popoli cacciatori, che occupavano allora i nostri territorî, in perpetuo movimento. Un buon numero di stazioni, come le grotte e i ripari sotto roccia di Lespugue (Alta Garonna) sono state abitate solo temporaneamente: sono delle stazioni di caccia. D'altra parte la vita nelle caverne dei Pirenei era per lo meno limitata all'inverno. La distribuzione geografica di certi motivi decorativi nelle armi e negli utensili, la scoperta di conchiglie marine trasportate a distanze considerevoli, permettono di formarsi un'idea della portata di questi spostamenti stagionali. La storia dell'occupazione di queste stazioni è scritta nei loro strati archeologici, che, come a Isturitz (Bassi Pirenei), si sovrappongono a cominciare dal mousteriano fino agli ultimi tempi del paleolitico superiore. Queste grotte, abitazioni e officine, differiscono dalle caverne con accesso spesso estremamente difficile, decorate di pitture e d'incisioni rupestri, che sono forse santuarî regionali (p. es. Niaux, Les Trois-Frères, Montespan, nell'Ariège).
La distribuzione delle stazioni umane del Paleolitico superiore comprende i seguenti gruppi:
1. Le vallate che scendono dai Pirenei offrono un insieme di stazioni, che hanno caratteri comuni con quelle della Spagna, nel territorio dei Cantabri: Arudy, Isturitz (Bassi Pirenei); Aurensan, Gargas, Lorthet, Lourdes (Alti Pirenei); Aurignac, Gourdan, gruppo di Lespugue, Marsoulas, Tarté (Alta Garonna); Enlène, Massat, Mas-d'Azil, Niaux, La Vache, Le Portel, Tuc d'Audoubert, Les Trois-Frères, Les Églises, Bédeilhac, Monstespan (Ariège). Con questo territorio dei Pirenei si collegano le stazioni dei dipartimenti delle Landes (Brassempouy e Sordes) e del Narbonese (La Crouzade, Aude).
2. A sud dell'altipiano centrale, l'altipiano calcareo (causses) e i fianchi fortemente incassati dei fiumi sono perforati da grotte e da ripari naturali che a volte formano veri villaggi di trogloditi: Le Bruniquel (Tarnet-Garonne); Cabrerets, Coumba del Bouïtou, Font-Robert, Font-Ives, Lacoste, Noailles (Corrèze); Lacave,. Pis-de-la-Vache, Reilhac (Lot). A questo gruppo bisogna aggiungerne un altro, a nord di questo stesso altipiano centrale, nei dipartimenti della Vienna, della Charente e dell'Indre, che formano il ponte di passaggio con le stazioni dell'est: La Goulaine, Solutré, Volgu (Saône-et-Loire), La Bonne-Femme, Châteaucreux-sur-Suran, La Colombière, La Grande-Baille, Sous-Sac (Ain), Bobache (Drôme); Le Figuier (Ardèche). Attraverso le vallate del Rodano e dell'Ain, attraverso il Giura (Arlay, Balme-d'Epy, Mesnay), e l'alta Marna (Farincourt, Loire, Roche-Plate) ci si riunisce con le stazioni dell'Alsazia (Achenheim, Hochfelden, Sierenz, Lingolsheim, Holzheim, Oberlag), della Svizzera e dell'Europa centrale; attraverso la vallata della Garonna (Pair-non-Pair) con le stazioni della regione pirenaica.
3. Il gruppo del Périgord forma un intenso focolaio di civiltà, principalmente nel periodo magdaleniano, lungo queste vallate, fiancheggiate da alti dirupi perforati da un gran numero di grotte e di ripari sotto roccia: La Mouthe, Fond-de Gaume, Les Combarelles, La Madeleine, Laugerie alta e bassa, Les Eyzies; Mairie de Teyjat, La Calévie, Bernifal, La Crozeà-Gontran, Le Cap-Blanc, Commarque, Daire, Chancelade, La Gravette, Limeuil, Abri Mège, la vallata della Rebière, Le Ruth, Bourdeilles, per non citare che i più celebri. Nel dipartimento dell'Allier, il giacimento di Châtelperron ha fornito i prototipi della lama a dorso spianato, che caratterizza l'aurignaciano secondo. Il solutreano di La Salpêtrière, nel Gard, ricollega le stazioni francesi ai depositi contemporanei del nord della Spagna.
4. Nel nord le scoperte sono sporadiche: sono stazioni all'aperto e alcuni ripari sotto roccia nella vallata della Somme. L'occupazione delle grotte nel Belgio è stata di breve durata (Le Coléoptère, a Juzaine; Furfoz, Goyer, Spy, Trou de Châleux, Trou Magrite, ecc.).
5. Infine le stazioni del litorale provenzale e ligure, fra le quali i Balzi Rossi (Baoussé-Roussé), Grimaldi e l'Osservatorio sono le più importanti, formano un gruppo indipendente, nel quale lo sviluppo della civiltà non ha proceduto come nel rimanente territorio francese.
Dal punto di vista della distribuzione delle industrie si osserva che l'aurignaciano si stende sopra tutto nel centro, mentre il solutreano è rappresentato soprattutto nel sud-ovest. Le regioni pirenaiche e il Périgord sono i centri principali della civiltà magdaleniana.
Mesolitico. - Le civiltà di questo periodo sono pure molto bene rappresentate nelle regioni francesi. L'aziliano si trova nell'Ariège (Mas-d'Azil, Montfort, ecc.), nell'Alta Garonna (Lespugue, ecc.), nell'Aude, negli Alti Pirenei (Lourdes, Lorthet), nel Lot, nella Dordogna (La Madeleine, Le Soucy, Laugerie, Longueroche), nelle Landes (Sordes), nella Vienna (Chaffaud) e nella Drôme (Bobache). Nelle regioni settentrionali, le industrie microlitiche del tardenoisiano coprono vasti territorî nella Normandia, nel Vexin e nell'Artois. Esse arrivano fino al corso inferiore della Loira all'ovest, fino alla Lorena all'est. Nel sud-ovest il giacimento di Ilbarritz, presso Biarritz (Bassi Pirenei), ha dato delle tracce strettamente affini all'asturiano cantabrico.
Neolitico ed eneolitico. - L'area di dispersione delle civiltà azilo-tardenoisiane rappresenta in Francia l'arrivo dei primi nuclei di popoli mediterranei, così come i campignani (v. campignana, civiltà) riflettono il primo avvicinarsi dei neolitici tagliatori di selce, nelle regioni settentrionali e centrali (Senna Inferiore, Oise, Seine-et-Oise, Marna, Somma, Eure, Calvados, Sarthe, Loir-et-Cher, Indre-et-Loire, Loiret, Vienna, Charente, Dordogna).
Contrariamente a ciò che si nota per tutto il paleolitico, la Francia non fu, nell'età neolitica e in quella del bronzo, un focolare di civiltà: all'opposto, essa ha subito in quelle età l'influsso delle più diverse culture: migrazioni e correnti di civiltà vi hanno trovato il loro punto di arrivo o vi sono passate; vi si riscontrano fenomeni la cui origine conviene cercare altrove. È così che a oriente i villaggi lacustri non sono che il prolungamento delle palafitte della Svizzera, e che le grotte sepolcrali del mezzogiorno debbono essere logicamente riconnesse con quelle della penisola iberica. La Francia non costituisce in questi periodi che una provincia, con aspetti tuttavia abbastanza diversi, nell'insieme delle civiltà dell'Europa neolitica.
Tre grandi regioni, il mezzogiorno, la pianura settentrionale e la Bretagna, mostrano, allo stato attuale delle nostre conoscenze, di avere soprattutto esercitato un'azione notevole. Fra questi territorî appaiono gruppi secondarî, localizzati in paesi meno favoriti dalla natura o ancora meno conosciuti dal punto di vista archeologico. Altri sembrano collegati con gruppi etnici stranieri.
La più antica civiltà neolitica è rappresentata dal grande gruppo delle grotte con depositi funerarî del sud-est, che si estende dal dipartimento dell'Aube a quello delle Alpi Marittime. Le grotte della regione di Narbona (Aude), di Bédeilhac, Fontanet, Niaux e Sabar (Ariège), del MontSarge (Aveyron), di Montouliers (Hérault), delle Baumes-Chaudes, di Puignadoire. (Lozère), Saint-Martin e Baumes-de-Bails (Alpi Marittime) rappresentano il gruppo più antico di questa fase del neolitico finale.
In piena età eneolitica nella stessa regione si manifesta una nuova civiltà che durerà fino al primo periodo dell'età del bronzo. Già la suppellettile delle grotte di Saint-Vérédème (Gard), di Sartanette (Bocche del Rodano), di Balmo del Carrat (Aude), di Bas-Moulins (Monaco), de l'Homme-Mort e di Cabra (Lozère) testimoniano l'arrivo di popolazioni che hanno portato con sé i megaliti pirenaico-catalani. Questa nuova civiltà pirenaica coesiste per un certo tempo con quella delle grotte sepolcrali, ma la sua influenza su questo gruppo permane assai debole. Essa è caratterizzata dai monumenti funerarî megalitici, i cui oggetti sono identici a quelli raccolti nelle sepolture di tipo pirenaico al di là dei Pirenei. Dalla distribuzione geografica sul territorio della Francia delle stazioni che le appartengono, è logico dedurre l'origine straniera dei nuovi arrivati che sono scesi sul versante settentrionale della catena attraverso i passaggi situati alle due estremità di essa. A occidente, il gruppo della Halliade occupa i dipartimenti del Gers, degli Alti Pirenei (Puy-Mayou, Marque-Dessvs, Deux-Menhirs) e dei Bassi Pirenei (Tailhan, Pontac), ma la sua estensione è abbastanza limitata. Non è lo stesso a oriente, dove le popolazioni venute dagli Albères e dalla Catalogna si stendono attraverso il Rossiglione verso l'Aude, la costa del Mediterraneo e le Cevenne (Hérault, Lozère, Aveyron), raggiungono il Rodano (Gard, Bocche del Rodano), poi, attraverso l'Ardèche (grotta di Lanoi), fanno sentire la loro influenza fino nei territorî alpini (grotte di Savigny, Savoia).
Nella pianura settentrionale, dove, dopo il campignano, si è sviluppata la civiltà detta del selce, si fa sentire, in pieno eneolitico, l'influenza pirenaica. Il gruppo più importante è costituito dalle altées coperte delle valli della Senna e dell'Oise, con le quali bisogna ricollegare le grotte artificiali scavate nella valle della Marna. I dipartimenti della Charente e delle Deux-Sèvres segnano i limiti occidentali della loro espansione: tuttavia esse hanno spinto qualche propaggine fino nell'Alta Vienna.
Fuori della sfera di azione di questa civiltà-pirenaica, la Bretagna forma un gruppo a parte, autonomo, che si estende sui dipartimenti del Finistère, del Morbihan e su una parte di quello della Loira inferiore. L'influsso delle culture del vaso campaniforme portoghese e spagnolo ha rappresentato una parte importante nello sviluppo della civiltà del gruppo bretone.
Alla periferia delle zone occupate da questi gruppi maggiori si estendono aree dai contorni mal definiti, nei quali si manifestano l'azione e la reazione delle culture del selce e dei megaliti pirenaici. Le ciste di Frau du Breton e di Frau de Crozals (Tarn-et-Garonne), le gallerie coperte di Fargues (Lot-et-Garonne), la grotta funeraria di Villehonneur (Charente) hanno fornito un materiale archeologico che tende a provare l'esistenza, al principio dell'età del bronzo, di un'espansione della civiltà pirenaica verso l'area occupata dai megaliti bretoni. Il confine fra le due grandi civiltà del mezzogiorno e del settentrione, passa per i dipartimenti della Charente, dell'Alta Vienna, e della Dordogna, che, al pari di quello della Gironda, hanno subito l'influsso delle officine di selce del Grand-Pressigny.
A oriente, se le stazioni fortificate della Mosella sembrano dipendere dalla civiltà del bicchiere a campana, i villaggi di Saint-Loup e di Louvarèse (Isère), il campo di Chassey (Saône-et-Loire) si ricollegano piuttosto con il gruppo pirenaico. Certi caratteri permettono altresì di riconoscere in quest'ultima stazione un'influenza della civiltà della regione della Senna-Oise-Marna. Infine in Lorena, come del resto in tutti i territorî della Francia orientale, appaiono alcuni tipi industriali (asce da combattimento) originarî dell'Europa centrale.
In queste regioni si costituirono zone che altro non sono che nuclei occupati da popolazioni venute dai paesi limitrofi. Le palafitte dei laghi di Clairvaux, Châlain (Giura) e di Annecy (Alta Savoia) sono strettamente legate con i villaggi lacustri della Svizzera; i sepolcri di Fontaine-le-Puits (Savoia) e di Champcella (Alte Alpi) corrispondono alle tombe a fossa dell'Italia settentrionale e agli Hockergräber svizzeri.
Età del bronzo. - Durante l'età del bronzo, tre correnti principali hanno esercitato la loro azione sul territorio della Francia, e hanno dato origine a tre grandi provincie archeologiche: quella sud-orientale in stretto contatto con la Svizzera occidentale e l'Italia settentrionale; quella occidentale che continua a subire gl'influssi della Penisola iberica; quella dei territorî orientali rivolti verso la valle del Reno e la Germania meridionale. In generale non sembra che le stazioni neolitiche siano state abbandonate: si riscontra al contrario una continuità di occupazione (campo di Chassey, Saone-et-Loire; Le Fort-Harrouard, Eure-et-Loir).
Nel primo periodo dell'età del bronzo si possono distinguere cinque raggruppamenti principali, corrispondenti a una doppia corrente commerciale: il gruppo orientale della Savoia e del Giura (Fontaine-le-Puits, Savoia); il gruppo delle Cevenne, con propaggini verso la Provenza (La Liquisse, Aveyron; Durfort, Gard); il gruppo della Gironda (Cabut, Gironda; Singleyrac, Dordogna); il gruppo bretone, che si estende sui dipartimenti del Finistère, delle Côtes-du-Nord, del Morbihan, e anche sulla Normandia; il gruppo nord-orientale, dal dipartimento dell'Allier fino in Lorena, attraverso la Franca Contea.
Nel Giura alcuni tumuli possono essere attribuiti al secondo periodo dell'età del bronzo (campi e tombe di Mesnay, presso Arbois). Nel terzo periodo del bronzo, come in Germania, i tumuli si moltiplicano e la loro area di distribuzione si allarga. I territorî orientali, Lorena, Borgogna e Franca Contea, sono chiamati a esercitare una parte preponderante. I sepolcri (Courtavant, Aube) rassomigliano perfettamente a quelli della riva sinistra del Reno e gli oggetti di suppellettile offrono le maggiori analogie con quelli raccolti nelle tombe della Germania. Nel quarto periodo, i tumuli guadagnano ancora terreno; verso mezzogiorno essi giungono fino nel dipartimento della Lozère (La Roche-Rousse); verso settentrione raggiungono l'Alta Marna. Nella stessa epoca, si conoscono egualmente cimiteri a incinerazione, che non sono dei tumuli (Pougues-les-Eaux, Arthel, Nièvre; Dompierre, Allier), cioè cimiteri a tombe piane (Urnenfelder). I due gruppi di necropoli corrispondono a due gruppi di popolazioni. I tumuli rappresentano in Francia l'espansione dei Celti, i campi di urne quella degli elementi stranieri in marcia verso occidente, venuti da più lontano che i Celti, dato che diffusero in Francia la ceramica del tipo di Lusazia (H. Hubert), piuttosto che quella dei popoli di razza alpina, i quali, con la loro unione con gli uomini dei tumuli, avrebbero invece formato, nella Gemiania orientale, i Celti (E. Rademacher). Alla fine dell'età del bronzo, l'area di espansione di un tipo di arma, le spade a linguette, che copre e limita a occidente e a mezzogiorno l'area di espansione dei tumuli (regione di Parigi, Cher, Vézère, Valchiusa, Drôme e Varo) si deve considerare come un indice del progresso dei Celti.
Per i giacimenti relativi all'età del ferro v. Gallica civiltà.
Bibl.: G. et A. de Mortillet, Le Préhistorique. Origine et antiquité de l'homme, 3ª ed., Parigi 1900; J. Déchelette, Manuel d'arch. préhist., celtique et gallo-romaine, I e II, Parigi 1908; H. Obermaier, El hombre fósil, 2ª ed., Madrid 1924; M. C. Burkit, Prehistory, A study of early cultures in Europe and the Mediterranean Bassin, 2ª ed., Cambridge 1925; G. Goury, Origine et évolution de l'homme, Précis d'arch. préhist., Parigi 1927; H. Breuil, Les subdivisions du paléolitique supérieur et leur signification, in Congr. Intern. Préh., Ginevra 1912, I, p. 165 e segg.; id., La Préhistoire, Parigi 1929; R. Lantier, Ausgrabungen und neue Funde in Frankreich aus der Zeit von 1915 bis 1930, in Deutsch. Arch. Inst. Röm.-Germ. Komm., XX, Francoforte s. M. 1930, p. 77 segg.; J. Fraipont, La Belgique préhist. et protohist., in Bull. de l'Acad. roy. Belgique (classe di scienze), Bruxelles 1901; Baron de Loë, Musées royaux du Cinquantenaire. Belgique ancienne. Catalogue descriptif et raisonné. I. Les Âges de la Pierre, Bruxelles 1928; E. Rahir, Vingt-cinq années de recherches, de fouilles, de restaurations et de reconstitutions, Bruxelles 1928; P. Bosch Gimpera e J. de C. Serra Rafols, in Ebert, Reallexikon d. Vorgeschichte, s. v. Frankreich (Neolithikum); E. Rademacher, ibid., s. v., Frankreich (Bronzezeit), Kelten; N. Åberg, Studien öfver den yngre stenåldern i Norden och Västeuropa (Studî sull'età della pietra più recente nel Nord e nell'Europa occidentale), Norrköping 1912; H. Breuil, La question de l'hiatus entre le Paléolithique et le Néolithique, in L'Anthropologie, 1921, pp. 349-354; P. Bosch Gimpera e J. de C. Serra Rafols, Études sur le Néolithique et l'Enéolithique de la France, in Revue anthropologique, 1925-1927; P. Bosch Gimpera e L. Pericot, Les civilisations de la Peninsule ibérique, ecc., in L'Anthropologie, 1925, p. 409-452; P. Bosch Gimpera, La migration des types hispaniques à l'Enéolithique, ecc., in Revue archéologique, 1925, II, pp. 191-209; H. Hubert, Les Celtes, I, Parigi 1932.
Storia.
Gli scavi, che hanno messo in luce forse il più ricco, vario e importante complesso di materiale preistorico e protostorico esistente in Europa (v. sopra, pp. 913-917; e gallica, civiltà), inoltre le notizie fornite da fonti classiche e i dati desunti dall'indagine linguistica, ecc., hanno permesso di ricostruire, almeno nelle linee generali, le vicende della civiltà nel territorio che, invaso dai Celti (v.) a partire dal sec. VII a. C., entrò a poco a poco nella sfera d'influenza di Roma; e, con la fondazione di Aquae Sextiae (122 a. C.) e l'organizzazione della Provincia per eccellenza (Gallia Narbonese, Provenza; 118 a. C.), indi con le campagne di Cesare (v.) (dal 58 al 51 a. C.), passò sotto la diretta dominazione dei Romani, assorbendone in larga misura lingua e civiltà (v. gallia).
Più volte, nel corso dei secoli III e IV a. C., il dominio romano fu minacciato dalle invasioni germaniche, specie dei Franchi, come spesso le legioni della Gallia sostennero pretendenti, talvolta vittoriosi, all'Impero; finché, nel sec. V, quel dominio venne ridotto praticamente a nulla o poco più, in seguito allo stanziamento, a sud dei Visigoti, a est dei Burgundî, e, a nord, dei Franchi Salî.
La Francia sotto i Merovingi (481-715). - La storia della Francia moderna incomincia nel 482, quando, morto il re Childerico, il governo dei Franchi Salî di Tournai passò al giovane Clodoveo. Le imprese guerresche del re merovingio trasformarono l'aspetto politico della Gallia romana e diedero inizio a una nuova epoca storica.
Negli ultimi decennî di vita dell'impero d'occidente la Gallia aveva perduto l'unità politica e morale datale dalla conquista e dalla civilizzazione romana. Le vecchie tendenze centrifughe erano state ravvivate dalla comparsa dei popoli germanici invasori, che avevano creato stati romano-barbarici nei varî bacini fluviali. Dalla Loira ai Pirenei, i Visigoti; nella valle del Rodano i Burgundî; dal Doubs alla Mosella, gli Alemanni; dalla Mosella alle Ardenne, i Franchi Ripuarî; dal Reno inferiore alla Schelda, alla Somme, i Franchi Salî. Attorno a Soissons, una larga ma indefinibile zona rimane fedele ai generali imperiali: Egidio, che nel 463 trionfa sui Visigoti a Orléans, poi il conte Paolo, poi Siagrio figlio di Egidio. I varî raggruppamenti barbarici si ammantano di paludamenti alla romana, ma non riescono a essere stati, a essere organismi stabili. Fra tutti, i Visigoti paiono forse avere forze tali da imporre il predominio in Gallia; ma la conquista della Spagna li costringe a sparpagliarsi in territorî troppo vasti; e alla morte di re Enrico nel 485 si rende necessaria una politica di raccoglimento, anzi di rinunzia a occuparsi di quanto succede a nord della Loira. È la fortuna dei Franchi Salî di Tournai: davanti alle piccole ma compatte forze di Clodoveo, i Romani di Soissons si sciolgono e i barbari diventano padroni della vasta estensione di territori percorsi dalla Senna e dai suoi affluenti (486-487). Forse solo lentamente poté avvenire l'occupazione del paese a sud della Senna sino alla Loira. Negli anni seguenti Clodoveo, riuscì, con una serie d'interventi, a unificare il suo popolo. L'intervento nelle regioni della Gallia profondamente romanizzate e cristianizzate determinò Clodoveo al passaggio alla religione dei vinti. In tal modo si costituì uno stato tipico, né romano né germanico, in cui romani e barbari furono sul piede della quasi perfetta uguaglianza; e la configurazione politica della Gallia fu trasformata di colpo. La monarchia franca stendentesi dalla Loira al Reno minacciava ora la monarchia visigota meridionale e la conversione dava a Clodoveo un motivo di superiorità sui rivali ariani di Tolosa e di Digione.
Clodoveo non osò dapprima attaccare i Visigoti: si accontentò d'intervenire nelle lotte della famiglia reale di Borgogna (501). Ma poi, con l'appoggio delle popolazioni romane e dei Borgognoni poté pensare al grande conflitto decisivo. A Vouillé (presso Poitiers) i Visigoti furono sgominati (507). La Gallia apparteneva ora ai Franchi; i Visigoti poterono conservare la piccola striscia della Settimania. Quando Clodoveo morì nel 511, lasciava una Gallia monocentrica. Le manchevolezze dell'opera di Clodoveo furono corrette dai figli suoi. Lo sforzo guerresco franco si svolse ora nella valle del Rodano, in cui vivacchiava il regno di Borgogna. Nel 523 la Borgogna fu invasa e occupata, salvo la zona provenzale in cui s'installarono i Goti di Teodorico. Una reazione borgognona ricacciò per qualche anno ì Franchi, ma nel 532 le valli della Saona e del Rodano caddero definitivamente in possesso dei Franchi. La caduta del regno ostrogoto in Italia negli anni seguenti permise l'annessione anche della Provenza al regno merovingico. Così i Franchi giungevano al Mediterraneo romano, non come alleati o vassalli di Roma, ma come conquistatori. La Settimania fu però tenacemente contesa dai Visigoti di Toledo, invece i Franchi poterono espandersi nell'alto Reno.
La storia della Francia moderna vede dunque ai suoi albori l'esistenza di un vasto stato monarchico dilagante dalla valle del Reno per tutta la Gallia romana sino ai Pirenei. Politica unificatrice della Gallia? Regno di Francia? Concezioni estranee alla mente dei Merovingi: conquistare e fare bottino, ecco più propriamente il programma barbarico, più semplice e più grossolano, ma anche più proficuo, del programma conciliatore di Ataulfo e di Teodorico. Nessuna pregiudiziale di rispetto per istituzioni romane. La volontà del re merovingio è il solo elemento che sorregge l'edificio della conquista franca. Tutti uguali i sudditi, di qualsiasi regione, di qualsiasi origine. Alla monarchia aderiscono così l'episcopato come l'aristocrazia senatoriale; di tutti la monarchia trae ugualmente profitto per le sue guerre, per il suo sviluppo inconscio, perché nel sec. VI la Francia era un caos di elementi rozzi e scomposti, era una forza sociale e politica in divenire.
Francia per gli scrittori romani del sec. III e IV era stata la zona sulla destra del Reno abitata dalle varie tribù franche. Nel sec. VI, dopo le conquiste di Clodoveo si dice Francia il paese a nord della Loira e poi la regione renana. Tutte le regioni invece su cui dominano i re dei Franchi, in cui domina il diritto pubblico franco è il regnum Francorum. Può essere che veramente Clodoveo abbia avuto ad honorem il consolato, ma nella sostanza i Franchi ignoravano che cosa volesse dire nel diritto l'impero e non pensarono a identificare il loro re nel magistrato che rappresentava la respublica. I Merovingi trattano il loro regno come una proprietà privata da dividersi come un patrimonio secondo la legge salica:
Alla morte di Clodoveo, il primogenito Teodorico, ebbe i paesi dei Ripuarî, dei Chatti, dei Chattuarî, degli Alamanni, una porzione del distretto salico a oriente della Schelda, le città di Reims, Châlons-sur-Marne, Clermont, Cahors: il centro suo fu Reims. Clodomiro ebbe Orléans e Tours, Sens e Troyes, parte dell'Aquitania e la Novempopulona; Childeberto il paese dalla Bretagna alla Senna, con Angers, Bourges, Parigi; Clotario Soissons, Noyon, Arras, il paese a destra della Senna sino alla Schelda. Non vi fu collegialità, ma ciascuno fu re del suo territorio, ciascuno fu rex Francorum. Nel 524 Clodomiro morì a Véséronce combattendo coi Borgognoni; i tre fratelli si divisero in parti eguali i suoi territorî. Come Clodoveo era riuscito nelle sue conquiste di Gallia per circostanze esterne più che per vera sua superiorità, così i figli suoi trovarono nelle condizioni generali d'Europa il motivo per tentare conquiste fortunate. Teodorico da Reims guarda di là dal Reno, in Germania, dove i Turingi hanno costruito alla fine del secolo precedente un potente regno fra l'Elba e la selva di Turingia; e verso il 529 assale i Turingi. Respinto, ritornò all'attacco due anni dopo con il fratello Clotario e un rinforzo di Sassoni; i Turingi furono sconfitti sulla riva sinistra dell'Unstrut e il paese fu devastato. Una terza campagna nel 534 eliminò ogni resistenza. Il loro re Hermenfried fu ucciso, la vedova Amalaberga, una gota di Ravenna, si rifugiò presso re Teodato; Radegonda, figlia del re turingio Bertario, diventò la sposa di re Clotario. Tutto il paese fra il Meno e la Selva di Turingia (poi Franconia) fu annesso al regno dei Franchi. A sud le relazioni coi Visigoti non potevano conservarsi buone; dopo la morte di Clodoveo un tentativo goto di riprendere i territorî perduti a Vouillé, non mancò. Ma verso il 530 Childeberto entrò nella Settimania e batté i Goti a Narbona; nel 534 le operazioni furono condotte dal figlio di Clotario, Guntario. Allora furono occupate Béziers, Die, Cabrières, Rodez, Lodève. Più tardi, nel 541, Childeberto e Clotario attraversarono i Pirenei, presero Pamplona e posero l'assedio a Saragozza, ma dovettero indietreggiare.
Più importante è l'attività svolta dai successori di Clodoveo in Italia. Per molti anni Clodoveo era parso entrare nel sistema politico di Teodorico. Questi aveva poi cercato di collegare Borgognoni e Turingi contro l'invadenza franca; aveva protetto i Visigoti, aveva cercato d'impedire ai Franchi l'occupazione dei paesi fra il Rodano e le Alpi. Il crollo del regno ostrogoto e la guerra con l'Impero offrirono la possibilità ai Franchi di mettere piede nella penisola. Così Giustiniano come Teodato fecero proposte ai re franchi per averli alleati. Vitige offrì la cessione della Provenza e dell'Alamannia; e Teodeberto, figlio e successore di Teodorico, nel 538 inviò un corpo di 10.000 borgognoni ad appoggiare Maia nell'esercito di Milano: la città fu presa e saccheggiata, la popolazione portata via schiava. L'anno dopo Teodeberto discese in persona con grande esercito nella valle del Po, apparentemente per appoggiare i Goti. In realtà pensava a conquiste per sé: assalì e sgominò un esercito goto, respinse gl'imperiali, conquistò e rovinò Genova, entrò nell'Emilia, finché le malattie scoppiate nell'esercito lo costrinsero a indietreggiare. L'Italia occidentale però rimase occupata da presidî franchi; a Vitige assediato da Belisario in Ravenna, Teodeberto offrì grandi aiuti, se avesse acconsentito a dividere con lui la penisola. Dopo il trionfo dell'Impero, il re franco si accostò agl'imperiali; scoppiata la sollevazione gota, Teodeberto trasse profitto dell'anarchia che vi era in Italia per rioccupare gran parte della pianura padana, d'intesa con il capo dei Goti ribelli, Baduila. I due re stipularono un accordo per il quale finché durasse lo stato di guerra, gli uni e gli altri rimanevano in possesso di quanto avevano. Ma il re franco voleva sfruttare i Goti, non aiutarli e rifiutò ogni vera alleanza con Baduila. Teodeberto alleatosi coi Gepidi e con i Longobardi pensava alla conquista dell'Oriente.
Il figlio Teodebaldo, successo fanciullo al padre nel 548, non seppe difendere i possessi d'Italia dalla riconquista di Narsete. Imprudentemente i suoi rappresentanti in Italia cercavano di appoggiare i Goti nei loro tentativi contro l'impero; ma la spedizione di Leutari e Butilino nel 553 non giunse più a tempo per salvare i seguaci di Teia. I due comandanti franchi riuscirono ad attraversare tutta la penisola da nord a sud; Leutari dopo essersi caricato di bottino nell'Apulia e nella Calabria, ritornò a nord, con l'esercito decimato dalle malattie; Butilino, spintosi attraverso alla Lucania e al Bruzio sino allo stretto di Messina, fu completamente sconfitto da Narsete sul Volturno. I Franchi per il momento conservarono il possesso della valle padana; ma nel 553 i presidî franchi furono respinti da Narsete e tutta l'Italia ritornò all'Impero. Così finì con un insuccesso definitivo questo tentativo d'installarsi in Italia. Complessivamente lo stato di Clodoveo si era accresciuto della Borgogna, della Provenza, della Rezia, della Turingia: qualche volta nella fantasia dei figli di Clodoveo balenava il sogno di creare un grande impero, forse più sul tipo di quello unnico di Attila, anziché su quello romano. Morto Childeberto nel 558 ed essendo già scomparso Teodebaldo, figlio di Teodeberto, nel 555, Clotario riunì tutti i possessi dei Franchi nelle sue mani. Il regnum Francorum riebbe la sua unità, ma per poco: nel 561 Clotario scompariva, e i figli si ripartirono col solito criterio patrimoniale le provincie. Cariberto ebbe tutto l'occidente della Gallia, da Rouen a Bordeaux, con centro Parigi; Gontrano ebbe la Borgogna e la valle della Loira, con capitale Orléans; Sigeberto la regione della Mosa e del Reno ed i paesi germanici; Chilperico i paesi franchi del nord-ovest, con Soissons, Arras, Cambrai. Nel 567 Cariberto morì e i fratelli si divisero le sue terre; Parigi rimase proprietà comune.
Solo esteriormente avevano unità politica i vasti territorî che Clodoveo e i suoi figli avevano ridotto alla sovranità dei Franchi. Di fronte alle vecchie popolazioni romane o romanizzate, vi erano i varî nuclei germanici, gli uni già mascherati da una vernice romana, gli altri ancora vicini al carattere originario. L'alleanza stretta da Clodoveo con l'episcopato cristiano non solo facilitò al re l'opera di romanizzazione, ma diede poi allo stato una certa unità spirituale. Clodoveo dimostrò abilità nel favorire le chiese con costruzioni e con doni; proclamò di volere la guerra coi Visigoti in difesa dell'ortodossia contro l'eresia ariana. Nel 511 si riunì a Orléans un concilio sotto la direzione dello stesso re. Il re franco compariva già come il protettore della chiesa francese, utilizzandola come sistema di governo politico. Anzi si può dire che la chiesa merovingia fosse rigidamente alle dipendenze del principe, mentre aveva una certa indipendenza rispetto al papato romano. Solo l'episcopato delle provincie meridionali appare in relazioni regolari col papato; il vicariato di Arles sfuma durante il sec. VI e il papa o si rivolge direttamente ai vescovi o usa come intermediario il re. I concilî nazionali, ai quali intervengono tutti i vescovi del regno, sono istituti politici più che religiosi: il re li convoca, li consulta. Poco si discute di cose dogmatiche. Perché i paesi franchi sono cristiani solo di nome: la religione è concepita come una rete di superstizioni grossolane. Perché la lotta contro il politeismo complesso dei residui celtici, germanici, romani è aspra: le popolazioni hanno l'abitudine dei vecchi santuarî, dei luoghi consacrati dalla devozione degli avi e occorre che i nuovi riti cristiani si addentellino con quelli pagani prima di sostituirli. Ma intanto il cristianesimo ricupera le regioni e sedi episcopali renane. Nel 614 ricompare Colonia come arcivescovato; così ricompaiono Treviri, Metz, Toul, Verdun; Arras e Cambrai sono fuse in una sola sede.
L'episcopato domina la chiesa e la società: le popolazioni si raccolgono attorno ai vescovi, anziché attorno ai funzionarî regi. Il vescovo è di diritto nominato dal clero e dal popolo, ma in realtà troppo spesso il re interviene non ad approvare, ma a imporre come vescovo chi ha denaro da sborsare. Nel sec. VI l'episcopato è inevitabilmknte privilegio della vecchia aristocrazia gallo-romana; ma col tempo i re cercarono di sostituirvi elementi franchi. Il vescovo protegge nelle guerre e nelle calamità le popolazioni cittadine, le difende presso il re, distribuisce vettovaglie, spesso ripara le mura, si oppone alle violenze dei Franchi e dei loro conti, impone il rispetto del diritto d'asilo. La legge salica assegna al vescovo un guidrigildo nove volte superiore a quello dell'uomo libero semplice, mentre il funzionario regio ha solo un guidrigildo triplo. Terrore desta invece nelle popolazioni il conte, cioè il rappresentante regio che estorce i tributi con la violenza, che perseguita, che incrudelisce. I sudditi si piegano solo davanti alle armi. Si ribellano anche. Così nel 532 nell'Alvernia scoppiò una grande sollevazione diretta da un patrizio di famiglia gallo-romana, Arcadio. Più tardi, sempre nell'Alvernia, si ebbe un'altra insurrezione contro Clotario, per opera di un suo stesso figlio Cramno.
I re merovingi sono veramente un cattivo esempio per le loro popolazioni. La corte dei re merovingi è girovaga: ogni re si trasferisce di villa in villa col suo corteo di cortigiani e di servi e coi forzieri in cui si accumulano i tesori. Come Clodoveo, così i suoi figli e nipoti hanno mogli e concubine: l'assassinio e la perfidia s'intrecciano con la lussuria. Chilperico di Soissons ripudia la moglie perché lo domina la vile fante, diventata sua concubina, Fredegonda, la quale riesce anche a fare uccidere la spagnola Gabwintha, sposata da Chilperico. E segue un periodo di lotte fratricide, di orrori, di barbarie appena credibili (v. fradegonda) che finisce solo nel 612, quando Clotario II raccoglie di nuovo nelle sue mani tutti gli stati Franchi, dopo aver massacrato i figli di Teoderico (613).
In questo periodo di lotte fratricide la dinastia si era inflitta inconsapevolmente un colpo mortale. I dignitarî, che circondarono i varî principi e ne accarezzarono le passioni ed i capricci, sfruttarono la situazione. Le guerre civili crearono la potenza della nuova aristocrazia in cui si unirono gli elementi gallo-romani con gli elementi germanici. Così le guerre dinastiche ebbero importanza capitale nella storia del popolo. Conseguenza non di contrasti etnici o regionali, ma di passioni di principi, crearono o rafforzarono una classe aristocratica arbitra dei principi; crearono nuclei regionali d'interessi, Austrasia, Borgogna, Neustria, nei quali si polarizza la vita politica dei Franchi nei due secoli seguenti.
L'aristocrazia merovingia è formata da dignitarî di corte, da funzionarî amministrativi, conti governatori di città. Il re sceglie i suoi funzionarî secondo la stima personale in una piccola cerchia di cortigiani, gli antrustioni, legati da un giuramento speciale. Tutti quelli che servono il re formano una classe speciale, i leudi del re, ricchi delle terre che provengono così dal malo uso delle loro cariche come dalla buona volontà regia. Nei funzionarî rivive la volontà assoluta del re; essi infatti formano gruppi d'interessi ai quali i re debbono aderire e dai quali sono spinti. Il trionfo di Clotario II fu anche il trionfo dell'aristocrazia, seppur non ancora definitivo. Definitiva invece era la rottura esistente fra le tre masse territoriali: Neustria, Austrasia, Borgogna. Abituate ad avere particolari amministrazioni, organizzazioni burocratiche corrispondenti agl'interessi delle aristocrazie regionali, non potevano più vivere fuse insieme. Garnieri fu maestro di palazzo in Borgogna, Radon in Austrasia, Landri in Neustria. Il maestro di palazzo ormai era il capo dell'amministrazione. E anche alla chiesa dovette fare Clotario gravi concessioni. L'editto del 614 proclamava la libertà delle elezioni, estendeva la competenza dei tribunali ecclesiastici, prometteva di non prendere sotto la protezione regia nessun ecclesiastico senza il consenso del vescovo.
Le guerre civili fermarono notevolmente la forza di espansione della monarchia franca. Non mancarono fra il 560 e il 610 le guerre di confine con i Bretoni, con i Baschi dei Pirenei, con i Visigoti di Settimania, ma senza un esito ben netto e favorevole. E poiché i Longobardi subito dopo la loro comparsa in Italia avevano cercato di occupare la valle del Rodano, così si decise di riconoscere l'esistenza dei re longobardi di Pavia, purché pagassero tributi e lasciassero ai Franchi la linea spartiacque delle Alpi occidentali.
Clotario II regnò dal 613 al 629 con la massima tranquillità. Per tenere calma l'Austrasia, che conservava le tendenze separatiste, nel 622 aveva inviato il figlio Dagoberto come re speciale di quella regione. Così Dagoberto dovette a sua volta dare l'Austrasia già nel 632 al figlio Sigeberto, organizzando a Metz uno speciale governo, e nel 633 stabilì che in caso di sua morte, a Sigeberto spettassero l'Austrasia e a Clodoveo, secondogenito, la Neustria e la Borgogna. L'Aquitania era stata ceduta al fratello del re, Cariberto, in regno a parte, a vita. E due re fanciulli ebbero i Franchi alla morte di Dagoberto nel 639. Morto Sigeberto III nel 656, il fratello Clodoveo II riunì i due regni, ma nel 657 morì, lasciando tre figli, dei quali prima regnò Clotario III, poi dal 673 Teodorico III, mentre il terzo fratello Childerico II fu mandato in Austrasia. La monarchia era in continua progressiva decomposizione. Ma intanto si era formata la magistratura del maggiordomato.
I re merovingi avevano conquistato, ma non avevano creato né un sistema di governo, né un'amministrazione, lasciando che le vecchie istituzioni, dove esistevano, vivessero. Consideravano il sistema tributario romano come uno strumento per fare denari. Clotario I elevò il tributo a un terzo del reddito, Teodeberto vi obbligò i Franchi, Chilperico abolì le esenzioni e rifece il catasto. Ma i tributi non furono dai re considerati come una partecipazione dei sudditi alla vita economica dello stato; invece di essere un obbligo statale, diventarono una rapina. Così tutto il sec. VI e il VII sono pieni della lotta tra chi cerca di sfuggire al tributo e il re che cerca di aggravarlo. I vescovi si oppongono alle esazioni e strappano esenzioni per chiese e monasteri. Poi i merovingi lasciarono cadere il sistema tributario e si trovarono in una situazione finanziaria penosa: necessità di provvedere col bottino di guerra, con i tributi dei popoli vinti, con le confische. Le popolazioni cercavano di sfuggire alla giustizia dei conti, arbitraria e corrotta. Quello che trionfa è il tribunale episcopale, come riconosce Clotario II nell'editto del 614.
La monarchia merovingia può anche essere forte e potente, ma la forza non sta nelle istituzioni, bensì nel pugno dei re. Così i funzionarî provinciali merovingi incutono terrore con la violenza, non perché rappresentino un sistema politico. I conti hanno nelle loro mani tutti i poteri statali, raccolgono i tributi, radunano gli uomini liberi; nessuno li controlla. Il re li può revocare, ma solo per il modo più o meno zelante con cui lo servono. Del resto le guerre civili hanno creato una classe di funzionarî che si trasmettono con un'appena velata ereditarietà la loro carica.
Nulla di più tipico per comprendere la monarchia merovingia che osservare una spedizione militare del sec. VI o VII. Tutti i sudditi debbono presentarsi alla convocazione regia o eribanno: a marzo il re li chiama, per il Campo di marzo, che più tardi sarà Campo di maggio. Tutti gli uomini liberi obbediscono all'ordine del conte che marcia alla testa degli uomini della circoscrizione: nessuna differenza tra Franchi, Germani, Gallo-Romani. Ciascuno pensa al proprio equipaggiamento; al vettovagliamento provvederà il saccheggio. E gli eserciti franchi non sono a disposizione del re, se questi non ha l'energia per imporsi ai conti.
Nessuno crede alla forza della legge, alla superiorità dello stato: neppure i conti, neppure il re. Tutti hanno fiducia solo nella forza delle armi, tutti ricorrono alla protezione di uno più potente. È il fenomeno più tipico della disgregazione dell'organizzazione civile nei confini dello stato merovingio. La società si complica di un nuovo tessuto vivente, formato da queste relazioni che il bisogno e la paura impongono. Il protettore si chiama senior, signore; il protetto si dice leudo, vasso: quegli offre protezione, questi promette l'aiuto delle sue forze. Relazioni temporanee o vitalizie che presto diventano ereditarie nelle famiglie. Concessioni di terre da coltivare e da godere legano più strettamente le due parti. Serve il re chi ha ottenuto da lui un beneficio, chi si è legato con la commendatio. Il re non ha funzionarî e sudditi se non di nome, in pratica ha ai suoi ordini quelli che hanno ricevuto i beneficia.
La monarchia esce dalle guerre civili affranta e incapace di un'azione vigorosa. Fortunatamente nessun nemico minaccia gravemente questa accozzaglia di popoli che è lo stato franco. Ma i Franchi cessano di essere temuti in Europa. I Bretoni respingono con le armi i tentativi di sottometterli. Gli Avari nel 562 si avanzano in Turingia; nel 597 occorre versare loro tributo per ottenere che si ritirino. Gli Slavi minacciano il regno franco nell'età di Dagoberto, che vinto una prima volta, un'altra volta non osa venire a battaglia. E la Turingia ricupera l'indipendenza. Persino i Baschi nel 637 tagliarono a pezzi nelle loro vallate una colonna mandata da Dagoberto a imporre capi e tributi. Anche l'Aquitania diventa uno stato autonomo; Bavari e Alamanni si creano proprî duchi. Il regnum Francorum di Dagoberto o, peggio ancora, di cinquant'anni dopo, ha l'aspetto di uno stato in sfacelo.
Fortunatamente vi erano delle forze vive nella vecchia Gallia, sfruttata e rovinata dai Merovingi. L'avvenire del regno franco non era tanto nelle città gallo-romane quanto nelle campagne. Il commercio aveva cercato di conservare i suoi capisaldi cittadini, nonostante le guerre e le conquiste franche: i porti mediterranei continuavano nelle relazioni con gli emporî orientali, come la via del Danubio portava pur sempre nell'occidente i prodotti dell'arte barbarico-bizantina. Ma i mercati sono in buona parte stranieri. Le città stremenzite dimostrano di avere scarsa vitalità; trionfa invece la campagna, perché nella semplificazione di tutta la vita la sola ricchezza sicura è la terra. L'arrivo dei Franchi nelle regioni gallo-romane nulla aveva a questo riguardo rinnovato; i barbari però avevano dovuto presto inchinarsi a questa sola ricchezza, e per loro merito lentamente vennero richiamate alla produzione molte terre già abbandonate, specialmente a nord della Loira. Nel sec. VII gli elementi franchi e quelli gallo-romani si sono fusi in una sola classe potente, che domina economicamente perché ha la proprietà delle terre; politicamente perché dal suo seno escono tutti i funzionarî dei re, essendo il servizio regio diventato esclusivo privilegio delle famiglie aristocratiche.
Fu fortuna per il regno dei Franchi che l'aristocrazia, a un tempo burocratica e fondiaria, anziché premere disordinatamente sulla corte trovasse una direzione nel maestro di palazzo, il vecchio maior domus, diventato prima capo di tutta l'amministrazione palatina e poi capo del governo. A lui toccò praticamente di rappresentare il re presso quanti passavano sotto il mundebundio regio. L'aristocrazia franca crede d'imporsi alla monarchia ottenendo la designazione a maestro di palazzo di uno dei suoi. Così la storia del regno franco è all'interno, da Dagoberto in poi, la storia dei maestri di palazzo. Già Clotario II ha preso impegno di non deporre i maestri di palazzo messi nei tre stati di Austrasia, Neustria e Borgogna. Nel 627, morto il maggiordomo Warnachaire, il re per liberarsi del figlio, dovette farlo uccidere in un agguato. Morto Dagoberto, in Neustria governa il maggiordomo Ega; in Austrasia Pipino, che ha sostituito Ansegiselo; a Ega succede Arkinoald, a Pipino, prima Ottone e poi Grimoaldo. Nel 656, morto Sigeberto III, il maggiordomo Grimoaldo cerca di sostituire al figlio ed erede di Sigeberto il proprio figlio Childeberto, ma non riesce di fronte alla resistenza dei grandi. Sotto Clotario III governa per venticinque anni Ebroino unico maggiordomo, che però deve concedere all'Austrasia un re a sé, Childerico II, con Wulfoaldo quale maggiordomo. Nel 673, morto Clotario III, Ebroino fa re Teodorico III, altro figlio di Clodoveo II. Childerico II non esita a chiudere in monastero il suo maggiordomo, vescovo di Autun, Léger.
Ma Childerico II muore vittima della sua illusione; Ebroino ritorna al potere e sostiene Teodorico III, re ormai soltanto nominale. Leudesio, per un momento maggiordomo di palazzo in Neustria e Borgogna, è accecato e condannato a morte. Ebroino è padrone assoluto: elimina quanti gli sono ostili, installa negli uffici solo i partigiani sicuri. Nel 681 Ebroino a sua volta è assassinato da un grande neustriano; gli succede Waraton e poi Gislemar e quindi Bertrario. Nominalmente il re di Neustria, il solito Teodorico III, è anche re in Austrasia; anzi i Neustriani vincono ripetutamente gli avversarî nel tentativo di sottrarsi all'egemonia. Ma in pratica l'Austrasia è raccolta intorno a Pipino II, che si dice duca e che uccisi gli assassini del padre, si è impadronito dei loro beni, distribuendoli ai proprî seguaci; da lui si rifugiano i grandi Neustriani, cacciati da Ebroino e dai maggiordomi di Neustria. Di una divisione fra i Neustriani approfittò poi Pipino per entrare in guerra; gli Austrasiani vinsero a Tertry (Somme) nel 687. E ora l'Austrasia dominò il regno; Pipino II lavora in Neustria a crearsi una clientela di gente a lui legata e sorveglia il paese con amici sicuri. I re Merovingi si susseguono: a Teodorico III, Clodoveo III (690-694), poi Childeberto III (694-711), poi Dagoberto III... Sono i così detti rois fainéants: li vediamo muoversi frequentemente, continuano a disporre delle loro terre, vivono tra gli affari. Di diritto, se non di fatto, sono ancora i capi dello stato; per il popolo sono sempre i re Franchi. Ma presso di essi vi è il rappresentante di Pipino II, prima Roberto, poi lo stesso figlio di Pipino, Grimoaldo, poi il nipote Teodoaldo. In Austrasia poi la loro autorità sfuma: là il vero padrone è Pipino, il duca dei Franchi, che usa nel governo mano ferrea e ristabilisce la pace. La morte di Pipino nel 714 parve determinare la crisi del maggiordomato e della monarchia. I figli di Pipino erano premorti, rimanevano solo dei nipoti. La Neustria fu presa dal delirio di liberarsi dal giogo austrasico: Ragenfried è il nuovo maggiordomo che i Grandi neustriani acclamano e che invade l'Austrasia con il re Chilperico II. La riscossa dell'Austrasia non tarda grazie a Carlo (Carlo Martello), il bastardo di Pipino II, che batte i Neustriani ad Amblève e a Vincy, ottiene il riconoscimento della vedova di Pipino e domina definitivamente Austrasia e Neustria. Gli Aquitani, che avevano ospitato Chilperico II, furono solo nel 719 vinti a Soissons; Carlo riconosce Chilperico II come re fittizio e dopo la sua morte, il figlio Teodorico IV. Il regno dei Franchi è di nuovo riunito nelle mani di Carlo Martello. Inco. mincia l'età della ricostruzione interna e di una nuova egemonia sull'Europa occidentale.
La Francia sotto i Carolingi (7I5-987). - Carlo Martello dopo le vittorie sui Neustriani e gli Austrasiani ribelli governò la Francia merovingica col titolo di maggiordomo. Sebbene ancora vi fossero i re merovingi, Carlo fu ora riconosciuto come capo dello stato. Egli esercitava le attribuzioni giudiziarie della monarchia, nominava i conti, i vescovi, disponeva delle terre regie ed ecclesiastiche. Nelle sue mani si ricomponeva l'unità dello stato franco, ed egli abbatté tutti i tentativi di organizzazione locale autonoma.
La crisi della monarchia merovingia aveva permesso infatti a certe regioni dell'antica Gallia di rimanere a parte o di ricuperare l'indipendenza. Così era successo dell'Aquitania, della Settimania visigotica e della Bretagna. L'Aquitania, rifugio di quanti tramassero ribellioni ai re neustriani, aveva cercato di ricuperare l'indipendenza dopo il 670 e il duca Lupo aveva organizzato nel bacino della Garonna un vasto stato indipendente. Il figlio Eude aveva avuto da Ragenfried di Neustria, alla morte di Pipino II, la promessa di essere riconosciuto come re d'Aquitania e perciò aiutò i Neustriani contro gli Austrasiani a Soissons. Contro la minaccia di Carlo, gli Aquitani ricorsero per aiuto agli Arabi di Spagna, che negli anni precedenti al 720 si erano sostituiti al regno visigoto di Toledo. Nel 720 poi gli Arabi avevano attraversato i Pirenei occupando la Settimania visigota e Narbona, l'anno dopo anche Tolosa. E Odo (Eude) d'Aquitania finì per venire ad accordi con un capo ribelle, Othman. Intanto le colonne arabo-berbere dilagavano nel sud della Francia; saccheggiavano la Provenza; infilata la valle del Rodano, la risalivano sino ad Autun. Poi per punire l'accordo fra Eude e Othman, il governatore della Spagna penetrò con grandi forze in Aquitania. Eude fu vinto, Bordeaux fu presa e saccheggiata e il nemico si affacciò alla valle della Loira. Carlo Martello accorse ora a respingere la minaccia che puntava al cuore della Francia. Presso Poitiers gli Arabi furono respinti (17 ottobre 732). Ma i Franchi non trassero dalla rapida ritirata dei nemici tutti i frutti possibili, ché si arrestarono a saccheggiare il campo arabo; e d'altra parte gli Arabi si rafforzarono in Settimania e in Provenza dove ancora nel 732 occupavano Arles e Avignone, di là partendo per nuove devastazioni in Aquitania e in Borgogna. Carlo Martello ripetutamente tornò a guerreggiare: nel 737 apparve sotto Avignone, la conquistò, sconfisse gli Arabi a Narbona, occupò Béziers, Maguelonne, Nîmes. Nel 739 un esercito longobardo accorse in Provenza in soccorso di Carlo e partecipò alla conquista di Marsiglia. Ma gli Arabi rimasero in Settimania. Carlo riuscì più facilmente alla morte del duca Eude, nel 735, a imporre la supremazia franca al nuovo duca Hunald; ma fu necessaria una spedizione militare e l'occupazione di Bordeaux. La difesa dei possedimenti meridionali dei Franchi s'intreccia con quella dei territorî d'oltre Reno, con i Frisoni, i Sassoni e gli Svevi che furono costretti a riconoscere il primato franco.
Alla morte di Carlo, nel 741, non vi era presso i Franchi alcun re. Teodorico IV era morto nel 737. La famiglia merovingia sembrava estinta, nessuno era stato chiamato a succedere a Teodorico. Carlo aveva datato i suoi documenti "dalla morte di re Teodorico" e aveva governato col titolo di maggiordomo. Ai suoi due figli Pipino e Carlomanno aveva assegnate le regioni da governare come maggiordomi: a Carlomanno l'Austrasia; a Pipino, la Borgogna e la Neustria. L'Aquitania pare fosse dipendenza comune. I due nuovi maggiordomi furono riconosciuti dall'aristocrazia franca. Nel 745 però i due governatori dovettero giudicare prudente ristabilire la monarchia: fu rintracciato un merovingio e messo sul trono (Chilperico III), per giustificare l'autorità dei maggiordomi. Nella famiglia dei maggiordomi vi erano dei dissensi: un figlio illegittimo di Carlo, Grippone, non contento del piccolo territorio assegnatogli da governare, si ribellò. Frattanto Hiltrude, sorella dei due maggiordomi, sposava Odilone duca di Baviera, zio di Swanahild, madre di Grippone, e si proclamava indipendente; movimenti d'indipendenza ricominciavano presso gli Alamanni e gli Aquitani. I due fratelli energicamente repressero le insurrezioni. L'opera di unificazione si perfezionò ancora, quando nel 747 Carlomanno si ritirò, lasciando solo Pipino. Questi, uscito trionfatore da un'altra ventata d'insurrezioni, decise di assumere la corona regia. Nel 751 avvenne la proclamazione a re di Pipino e il suo riconoscimento da parte dei grandi. I Carolingi sostituirono i Merovingi nel momento dell'estrema urgenza.
Il rispetto delle tradizioni, la necessità di creare una giustificazione alla nuova dignità regia, condusse Pipino a ricercare l'approvazione e la benedizione di papa Zaccaria. In questo momento s'inizia un periodo nuovo nella storia dei Franchi. Mentre prima vi erano state nella politica estera solo guerre e conquiste, ora si ha come fondamentale l'alleanza della nuova dinastia con il papato romano, desideroso a sua volta di aiuto per liberarsi dalla stretta fra i Longobardi e i Bizantini. Questa alleanza fece sì che papa Stefano II si recasse nel 753 alla corte di Pipino, per consacrare lui e i figli suoi col sacro crisma, sì da dare alla nuova dinastia un carattere sacerdotale, sacro, superiore a quello di tutti i Franchi. D'altra parte nel 754 ebbe luogo la prima spedizione franca in Italia per costringere i Longobardi ad abbandonare quelle terre di diritto imperiale che formarono il primo nucleo del potere temporale. Interessi dinastici portarono adunque i Carolingi nel groviglio degli avvenimenti italiani, sebbene nell'aristocrazia franca si pensasse piuttosto alla ripresa dell'espansione in Germania. Ma assunta la protezione del papato romano e imposto un tributo annuo alla piccola monarchia longobarda, fu necessario dare alla politica italiana il massimo sviluppo. D'altra parte occorreva togliere ai Bavari un sostegno nei Longobardi. Pipino dopo le due campagne del 754 e 756 aveva cercato di dominare in Italia, rispettandovi l'esistenza del regno longobardo. Il figlio, Carlomagno, nel 773-774 personalmente scese in Italia, abbatté la monarchia longobarda e recatosi a Roma riconfermò la donazione paterna ai papi.
I due regni di Pipino il Breve e di Carlomagno, a parte questo intervento italiano che doveva avere presto sviluppi grandiosi, ci rappresentano un gigantesco sforzo per risolvere problemi che l'età precedente aveva lasciato sospesi. Anzitutto respinsero finalmente gli Arabi dalla Settimania; si portarono colpi energici all'autonomismo aquitano sicché nel 768 quando Pipino venne a morte, l'Aquitania era già in via di riordinamento a mezzo di conti e funzionarî franchi. La necessità di difendere il confine meridionale condusse Carlomagno a una serie di operazioni militari a sud dei Pirenei, in modo da occupare la regione fra i Pirenei e l'Ebro organizzandovi un governo militare detto della Marca ispanica. Più aspro fu trovare una soluzione alla situazione d'oltre Reno. Già Pipino aveva diretto delle spedizioni per ricacciare i Sassoni. Carlomagno volle raggiungere una soluzione definitiva sottoponendo tutte le tribù sassoni. Occorsero circa tre decennî di aspre guerre, ché d'altra parte bisognava assicurare il confine dell'Elba contro le tribù slave irrompenti da oriente; Carlo dovette perciò abbattere l'impero degli Avari, annidati nella regione ungherese, e organizzare fra il Danubio e le Alpi occidentali un baluardo contro i barbari d'Oriente nella cosiddetta Marca d'Oriente (Austria).
Alla fine del sec. VIII il regno dei Franchi aveva un'estensione enorme: dilagava dalla vecchia Gallia romana sino a dominare totalmente la regione germanica e l'italica, parzialmente l'iberica. L'elemento franco aveva sopportato, se non esclusivamente, certo in gran parte, il peso di tutte queste guerre. Apparentemente non fu sentito l'aggravio derivatone, perché l'aristocrazia ecclesiastica e militare fu al pari della dinastia dominata dalle concezioni imperialistiche, diffusesi per i rapporti con l'Italia romana e sotto l'impressione delle grandi conquiste. Queste concezioni finirono per trionfare con l'appoggio del papato che speculava sulla ricostruzione di un impero cristiano occidentale. Così nell'anno 800 Carlomagno diventò imperatore romano, coonestando con tale dignità sia le conquiste, sia la pretesa di dominare l'occidente in difesa del cristianesimo contro gl'infedeli, gl'idolatri, gli eretici.
Queste concezioni imperialistiche non erano però in contrasto con le concezioni particolariste che rimanevano nella tradizione franca. Impero romano sì, ma al servizio del popolo franco che si considerava come il padrone dell'impero: e Carlomagno mentre pur si diceva imperatore, continuò a usare il titolo di rex Francorum. Inoltre Carlo continuò a conservare il suo vecchio centro di Aquisgrana e l'abito nazionale. Nessuna concessione fu fatta alle teorie romane: a un'assemblea franca affidò Carlo il riconoscimento del suo successore; ignorò per l'incoronazione di Ludovico i diritti papali e il precedente dell'anno 800, e, senza curarsi della dignità imperiale, nell'anno 806 procedette alla ripartizione dei suoi stati, col vecchio criterio di Clodoveo e di Clotario.
Francia, regno dei Franchi, impero romano dei Franchi sono tre concezioni politiche che nell'età di Carlomagno e dei suoi immediati successori non riescono né a coincidere, né a distinguersi nettamente. L'Italia rimane perciò al di fuori, con la sua individualità ben marcata: anche Carlomagno si diceva re dei Franchi e dei Longobardi. Invece dalla Schelda all'Ebro tutto il paese è il regno dei Franchi; già pare tenda a confondersi con la Francia. Nell'806, la divisione fatta da Carlo ignora la Francia: Pipino ebbe l'Italia, la Baviera, l'Alamannia; Ludovico, la Borgogna, l'Aquitania, la Guascogna; Carlo, la Francia Austrasica e la Neustria, parte della Borgogna, la Frisia, la Sassonia, la Turingia. Carlo era il primogenito: a lui toccavano i paesi della tradizione franca. Divisione questa che corrispondeva a quella del 781, quando papa Adriano aveva incoronato Pipino re d'Italia, Ludovico re d'Aquitania. Carlo pensava a regolare i rapporti dei tre figli per impedire le guerre civili, ricordando il fratello, lo zio e tutti i merovingi. Unione fraterna e morale, basata sull'integrità del regno franco per il primogenito. Ma sotto Ludovico il Pio si combatté un'aspra battaglia fra i partigiani dell'unità imperiale e i sostenitori della divisione territoriale, che rispettasse l'impero solo come una dignità morale altissima. L'unità imperiale fu proclamata nella partizione dell'817, crollò nel trattato di Verdun dell'843. Lotario ebbe l'Italia, la Provenza, parte della Borgogna, l'Alsazia e i paesi franchi, fra il Reno da una parte e dall'altra la linea della Saona, della Mosa e della Schelda; Carlo ebbe tutti i paesi a occidente della Mosa sino all'Oceano; Ludovico ebbe i paesi a oriente del regno. Divisione che non aveva nessuna base teorica. Non corrispondeva infatti a una distinzione di razze, a un'affermazione di nazioni. L'impero rimase come unità morale, non più come unità territoriale.
Era il trionfo egoistico di tre gruppi aristocratici che trionfavano sulla centralizzazione imperiale, polarizzandosi in paesi diversi. Gli sforzi della Chiesa contro questa tendenza, per ottenere la riconciliazione vera dei principi e salvaguardare la civiltà dai barbari, a nulla servirono. Dal trattato di Verdun alla morte di Carlo il Grosso passano appena quarantacinque anni pieni di lotte fra i tre rami della dinastia carolingia per ricostruire in qualche modo l'impero. Compaiono in scena i nuovi popoli germanici che i Franchi hanno nel sec. VIII chiamato alla civiltà e al cristianesimo; si agitano gl'Italiani a cui troppo facilmente è stata tolta l'organizzazione politica indipendente, il regno longobardo, sostituendolo con un fittizio regno di tipo franco, per l'interesse dei principi della casa carolingia. Naturalmente per ora si tratta solo di lotte per interessi famigliari: nell'848 è l'imperatore Lotario ehe si accorda con Ludovico re di Germania, contro Carlo di Francia; nell'854 lo stesso s'intende col secondo contro il primo. Scomparsi i Carolingi del ramo di Lotario, la lotta si apre fra Carlo di Francia e Ludovico di Germania, sia per la successione degli stati italo-lotaringi sia per l'Impero. Per un momento Carlo il Calvo è re d'Italia e imperatore (875), ma alla sua rapida scomparsa sono i Carolingi di Germania che paiono destinati a unificare ancora una volta l'impero di Carlomagno. Carlo il Grosso, ultimogenito di Ludovico il Germanico, nell'885 è signore di tutti gli stati franchi. Ma nell'888 già scompare e la sua morte serve di definitivo riconoscimento dell'impossibilità pratica di conservare l'unità carolingica.
Durante questo periodo (843-888) il principale rappresentante della vita politica francese è Carlo il Calvo. Il suo regno aveva confini precisi a nord-ovest, a ovest, e a sud: la Manica, l'Oceano, l'Ebro, il Mediterraneo; a oriente invece era diviso dagli stati dei parenti da una linea incerta. È detta questa regione Francia occidentale, come le altre strisce longitudinali (cioè gli stati di Lotario e di Ludovico), sono la Francia media e la Francia orientale. I territorî su cui governa Carlo il Calvo non hanno nulla di omogeneo. Carlo ha da fare ancora con regioni che hanno caratteri proprî e tradizioni autonome. Carlomagno aveva imposto la sua autorità ai Bretoni e mandati in quella regione funzionarî suoi; ma sotto Ludovico il Pio, il conte di Vannes è il bretone Noménoé, che si dice duca dei Bretoni. Carlo il Calvo nell'841 ottiene la sua sottomissione, ma subito dopo deve guerreggiare in Bretagna, è sconfitto (845) e Noménoé non esita a farsi proclamare e consacrare re a Dol (849). Così tutti i tentativi posteriormente fatti da Carlo falliscono; il nuovo duca o re dei Bretoni, Erispoé, è incontrastato signore di Rennes, Nantes, Retz. In Aquitania Carlo il Calvo non riesce a ristabilire l'ordine. Vi sono ancora i partigiani del vero signore Pipino II, in Settimania; e nella marca ispanica si è organizzato uno stato autonomo, sotto Bernardo conte. Carlo il Calvo dapprima si accontenta di ottenere la fedeltà di Pipino e gli abbandona tutta l'Aquitania; ma gli Aquitani acclamano re lo stesso Carlo, poi, contro di lui, il re di Germania, quindi si stringono attorno al figlio di Carlo il Calvo, Carlo il giovane, che pretende a indipendenza. E intanto Carlo il Calvo si vede disputato il regno dal competitore di Germania, padrone di Orléans e di Troyes.
Accordatosi a Coblenza con il fratello di Germania, Carlo si adopra contro il disordine che dilaga. Nell'863 cerca di sottomettere l'Aquitania; morto il figlio Carlo, vi mette come re l'altro figlio Ludovico (867). Dal mare minacciano le bande dei Normanni che nell'859 sono ad Amiens, a Noyon, a Beauvais, mentre altre bande infestano la bassa valle del Rodano. I Bretoni, sotto Salomone che ha ucciso e sostituito Erispoé, continuano nelle loro pretese d'indipendenza. A Bretoni e Normanni il re oppone un energico funzionario, Roberto detto il Forte, che ha il ducato fra la Loira e la Senna. Ma Carlo non riesce a imporre un ordine costante. Borgogna e Aquitania sono in piena anarchia. Poi parve che la Francia occidentale acquistasse un po' di calma: alla morte del nipote Lotario II, il re di Francia, se non può avere tutta la Lorena, ne ha però una parte importante col trattato di Mersen (870): parte dell'Olanda e del Belgio, della Lorena attuale, della Borgogna, del Lionese. Il confine cosi stabilito (Zuiderzee, Utrecht, la Mosa fino a Liegi, l'Omthe, la Mosa a Tusery, la Saona, il Rodano) rimase per molto tempo il limite della Francia regia. Contro i Normanni sorge tutto un sistema di sbarramenti con castelli e ponti fortificati; nell'872 una serie di leggi è promulgata per organizzare il regno. Ma alla morte di Ludovico II, Carlo vuole la dignità imperiale e scende in Italia, sognando la renovatio dell'impero; e, non contento del trionfo italiano, pensa alla conquista di tutta la Lotaringia. Fortunatamente Ludovico il Germanico non riuscì a entrare in Francia: nell'875 i sudditi di Carlo il Calvo fecero maggiore resistenza che non dieci anni prima. Dopo l'877 passano sul trono di Francia Ludovico il Balbo (877-879), Ludovico III, Carlomanno (879-884) e Carlo il Grosso (885-887). I Carolingi scompaiono mentre si aggravano le invasioni normanne; nell'881 i barbari si avanzano fin sotto Reims; nell'885 entrano in Rouen e assediano Parigi. Carlo il Grosso chiamato in soccorso, anziché combattere, tratta coi Normanni e li lascia liberamente saccheggiare. La Francia non aveva più nulla da sperare dall'impero.
La nuova situazione della Francia è rappresentata dalla proclamazione a re di uno dei maggiori feudatarî carolingi, Odo conte di Parigi. Poiché nel seno dell'impero carolingio è nata nel sec. IX la nuova Francia particolarista, aristocratica, feudale. Preoccupati prima dal bisogno di assicurare i confini del regno, poi presi dai sogni imperialisti, i Carolingi non pensarono mai a un'organizzazione amministrativa del loro vasto stato che fosse diversa da quella della tradizione merovingia che li aveva portati al trono. Lo stato continuò ad avere la vecchia base personale: il principe al centro, i conti nelle circoscrizioni provinciali. Sola innovazione fu quella di Carlomagno di regolarizzare ed estendere il sistema merovingico dei missi, delegati straordinarî inviati nelle circoscrizioni a controllare l'opera dei conti e l'esecuzione degli ordini del governo centrale. Quello che invece è caratteristico del regno franco nell'età carolingia è lo sviluppo sempre maggiore del sistema del patronato. Ebroino, Carlo Martello, Pipino e Carlo Magno combattono contro le tendenze feudali. Ma con l'aggravarsi della debolezza dell'autorità statale nel sec. IX, l'aristocrazia acquista potenza. Le divisioni, le guerre civili, le guerre dei Saraceni e dei Normanni costrinsero i re a concedere terre regie e diritti statali ai fedeli e agl'infedeli. La Francia, apparentemente monarchica, diventa durante il sec. IX un mosaico di grandi signorie laiche ed ecclesiastiche. Il potere centrale è impotente ad arrestare lo sfacelo dello stato; in Francia non vi è più la monarchia, ma la signoria. Ludovico il Balbo viene riconosciuto re solo a patto di fare nuove concessioni ai grandi.
Nell'887, avendo bisogno di un re i grandi francesi non pensano a Carlo il Semplice, figlio postumo di Ludovico il Balbo, ma eleggono Odo conte di Parigi e figlio di Roberto il Forte. Suo competitore fu per un momento Guido II di Spoleto incoronato nel marzo dell'888, ma non riuscì a trovare partigiani e favore pubblico. Favore presso i compaesani fedeli alle vecchie tradizioni autonomiste trovò invece il duca d'Aquitania Ramnulfo, che si fece proclamare re. Così Rodolfo, figlio di Corrado conte di Auxerre, nell'888 si fece incoronare re dell'alta Borgogna. In Provenza dall'873 regnava, indipendente, Bosone conte di Vienna; nell'887 gli successe nel regno il figlio Ludovico. Anche la Lorena fu organizzata in regno a sé, sotto Sventeboldo e poi Ludovico il Giovane. Così nella regione francese esistevano, allo sfasciarsi dell'impero carolingio, varî stati monarchici: Provenza, Borgogna, Lorena, Francia. Su tutti esercitava una certa supremazia il re di Germania (Francia orientale) Arnolfo, ancora desideroso di ricostituire l'impero degli avi. La Francia fu anzi sotto l'influsso della Germania per tutto il sec. X. La storia delle regioni francesi fu, nel sec. X dominata dal contrasto fra il ramo superstite dei Carolingi, desiderosi di conservare il regno degli avi, e la famiglia dei conti di Parigi, che dopo avere avuto la corona con Odo cercavano d'impadronirsene definitivamente. Il contrasto fra le due dinastie riceve luce e vita dall'attiv) tà delle grandi famiglie feudali, che attendono a consolidare il possesso dei diritti e dei beni acquistati nell'età precedente.
Odo dopo un momento di fortuna, grazie ai colpi dati ai Normanni, appena conobbe i rovesci, si vide abbandonato dai colleghi feudatarî, che nell'893 incoronarono a Reims il figlio di Ludovico il Balbo, Carlo il Semplice, poi riconosciuto anche dal re di Germania Arnolfo. Guerra civile a cui mette fine un accordo nell'897 e poi la morte di Odo. L'aristocrazia si raccolse attorno a Carlo, che rispettò privilegi e possessi feudali di tutti. Il giovane re pensò a definire la sistemazione creata nell'occidente del regno dalle invasioni normanne. A Saint-Clair-sur-Epte, nel 912, Carlo s'intese con un capo normanno, Rollone, e gli cedette la regione lungo il mare, a destra e a sinistra della Senna, l'attuale Normandia. I Normanni l'avrebbero abitata e colonizzata, come vassalli regi. Rollone si fece battezzare e divenne l'apostolo della trasformazione civile della regione. Altro bel successo della monarchia fu l'occupazione della Lorena alla morte del re Ludovico nel 911; i feudatarî preferirono Carlo di Francia all'altro pretendente, Corrado di Franconia. La Lorena era in questo modo riunita alla vecchia Francia neustrica: Carlo la seppe salvare dai tentativi tedeschi. Ma appunto in quel momento venne meno al re l'appoggio dei feudatarî che acclamarono Roberto di Parigi e poi Raul I duca di Borgogna secondogenito di Roberto. Occorrono sforzi al nuovo re per assicurarsi il potere: ribellioni normanne, invasioni ungare, gl'impediscono di sorvegliare la Lorena dove il partito tedesco nel 925 prevalse definitivamente, sì che il paese poté diventare senza difficoltà un ducato del regno germanico. Magra consolazione fu il riconoscimento teorico da parte di alcuni grandi signori d'Aquitania. Alla sua morte (956) i feudatarî acclamarono re Ludovico, figlio di Carlo il Semplice, detto d'Oltremare. Ma di fronte al giovane re inesperto e senza seguaci vi è il potentissimo conte di Parigi, Ugo. Al più qualche grande appoggia il re per impedire il sopravvento di Ugo. Nel contrasto fra i due partiti chi tiene la bilancia è il re di Germania, Ottone, le cui due sorelle Edvige e Gerberta sposano il duca dei Franchi e il re Ludovico e tengono la Francia nell'orbita del sistema politico germanico. La situazione non muta quando a Ludovico succede il figlio Lotario (954) e a Ugo, il figlio Ugo Capeto. La Francia regia è sotto la sorveglianza di Ottone e per lui del fratello suo, l'arcivescovo di Colonia, Brunone. Ma l'aver voluto riprendere le vecchie pretese francesi sulla Lorena, provoca il malcontento della corte germanica. Così, morto Lotario nel 986 e il figlio Ludovico nel 987, i grandi di Francia riconobbero come re Ugo Capeto, il candidato accetto alla corte imperiale.
Ma Ugo Capeto è re riconosciuto da ben pochi signori, in un territorio ben ristretto. Nel secolo che va dal trattato di Quierzy (Kiersy) all'ascensione di Ugo Capeto in Francia si è instaurata la nuova organizzazione basata sul feudo. Il conte non è più di elezione regia, ma succede automaticamente al padre, prestando l'omaggio che diventa pura formalità. Conti, visconti, vicarî e vescovi si sono impadroniti dell'autorità statale; contee e vescovadi poi si frazionano ancora per favorire le ambizioni o riconoscere le immunità di grandi proprietarî oppure per le necessità delle divisioni fra i varî figli ed eredi. I diritti regi del tributo, del conio, del servizio militare, della giustizia sono passati ai signori.
La Francia feudale (987-11o8). - La dissoluzione feudale del sec. X segna un distacco netto fra la storia del vecchio regno dei Franchi e la storia del nuovo regno di Francia. Merovingi e Carolingi avevano costruito e cercato di sistemare un immenso stato basato sulla piccola piattaforma offerta dal popolo dei Franchi. Ma l'impero carolingio è scomparso e nel polverizzamento feudale è scomparsa tutta la tradizione del vecchio regno. Ora la Francia deve rifarsi, cercando un'altra base: la terra. Così il periodo feudale coincide con una grandiosa opera di dissodamento, che, incominciata nel sec. X, dura sino al XIII. Le popolazioni francesi prima rade e disperse si infittiscono e creano la nuova Francia popolosa e pronta a rivendicare la pretesa eredità di diritti merovingi e carolingi.
Scomparso il regnum Francorum, s'incomincia a parlare di Francia. Mentre il termine di Francia orientale scompare nel sec. X ed è sostituito da quello di Germania, mentre la Lorena perde il nome di Francia mediana, rimane come Francia per eccellenza la Francia occidentale, il regno conteso fra Carolingi e Capetingi. Ma d'altra parte anche questa Francia pare scomparire: Aquitania, Borgogna, Provenza, Normandia, Bretagna. Francia è solo il paese a nord della Senna, la culla della monarchia salica, il rifugio della monarchia alla fine del sec. X: l'Isola di Francia. I re che risiedono a Laon o a Parigi si considerano, è vero, di diritto signori di tutte le terre che si stendono dalla Schelda all'Ebro. Ma la linea della Mosa, della Saona, del Rodano sbarra le pretese regie. Lorena, Borgogna, Provenza sono terre imperiali. I Capetingi per salire al trono con l'approvazione imperiale hanno dovuto riconoscere la dominazione imperiale sulla Lorena. La Borgogna, a cui si è annessa la Provenza per opera di Rodolfo, è dipendenza imperiale e sotto Corrado il Salico diventa un vero annesso imperiale.
Fra la Mosa e i Pirenei, l'Atlantico e il Rodano-Saona si stende il territorio su cui si svolge dal sec. XI al XIV l'azione della monarchia di Parigi. Al principio del sec. XI il regno franco è un mosaico di terre feudali: in esso nulla di preciso, di rigido, né nella situazione territoriale né nella struttura. Il feudo è ancora in continuo divenire, secondo i risultati di eredità, di matrimonî, di guerre: molto influisce la violenza, poco il diritto. I feudi sono di tutte le dimensioni e origini. I conti di Bretagna, i duchi di Guascogna si collegano con le tradizioni dinastiche locali; i duchi di Borgogna, di Aquitania, di Normandia, i conti di Fiandra, di Angiò, di Tolosa sono i successori ed eredi dei funzionarî dello stato carolingio, impadronitisi delle prerogative statali e sovrane. Entità feudale è la monarchia. I Capetingi, sebbene abbiano velleità monarchiche, sono troppo legati alle loro origini feudali per poterle distruggere nelle dinastie feudali limitrofe. Anzi Ugo Capeto e i suoi immediati successori risentono della politica economica rovinosa fatta durante il sec. X per acquistare partigiani e arrivare al regno: una prodiga distribuzione di terre feudali ha ridotto a poco la grande potenza territoriale di Roberto il Forte. Per questo desta poche preoccupazioni nei feudatarî un Ugo Capeto che vuol dirsi re. Ma nel 987 Ugo Capeto conquistava un titolo di grande valore potenziale: tutta una tradizione di grandezza e di potenza, l'eredità morale di Clodoveo e di Carlomagno. Avrebbero potuto i nuovi monarchi far valere questa eredità morale?
Alla fine del sec. X i Capetingi debbono accontentarsi di essere tollerati e di vivere. Ugo Capeto assicura la successione regia nella famiglia, associandosi il figlio Roberto II; e questi a sua volta associa il figlio Ugo e poi Enrico. Massima prudenza di fronte alle vicine dinastie feudali: Roberto II sposa la vedova del conte di Fiandra, poi la ripudia e sposa la vedova del conte di Blois. Un atto di energia è l'occupazione della Borgogna francese (1012-15); ma Roberto la restituisce al mondo feudale, dandola al figlio secondogenito in feudo. Un convegno del re con l'imperatore di Germania, Enrico I (1025), per problemi politici generali; le trattative con i feudatarî italiani (1022-24) per la corona regia d'Italia palesano in Roberto interessi più alti e più spaziosi che non nelle altre caso feudali. In modo speciale i Capetingi pensano alla zona intermedia tra Francia e Impero, cioè alla Lorena. E alla Borgogna, facendo gli ultimi sforzi per affermarvi i diritti della monarchia. Naturalmente le forze sono poche e scarsi sono i risultati: Ugo Capeto regna a Parigi e a Orléans, ha l'Isola di Francia, ha alcune contee della Brie, Beauce, Valois, Beauvaisis. La famiglia reale è ancora dilaniata da lotte civili: Roberto II è aggredito dai figli, questi poi combattono fra di loro e le lotte sono tutte a vantaggio delle dinastie feudali. La monarchia ha un valido appoggio nei Normanni: i duchi di Rouen e i Capetingi si prestano aiuto reciproco; Guglielmo il Conquistatore è aiutato contro i feudatarî ribelli dal re che ha bisogno dell'alleato contro il conte di Blois. Anche i conti di Fiandra, pur avendo motivi d'attrito per territorî discussi con i Capetingi, sono però spinti a stringersi con la monarchia francese dal timore dell'impero. Grande rispetto hanno i re della potenza angioina, che con Folco Nerra d'Angiò (987-1040) combatte con i conti di Bretagna e con i conti di Blois.
La monarchia ha quindi le mosse difficili in questa Francia settentrionale, intricata di feudi potenti capaci di assurgere ciascuno a una posizione di comando. Ma intanto ai re sfugge tutto il resto della Francia, la zona fra la Loira e il Mediterraneo in cui non si parla veramente di Francia, ma di Aquitania. La Loira divide il paese dove si parla francese da quello in cui si parla la lingua occitanica; e l'Aquitania conserva tutte le sue tradizioni separatiste e i suoi principi guardano ai re di Parigi come a pari. A parte si svolge la vita della Bretagna, agitata dal 952 al 1066 da lotte civili, determinate dal desiderio di vari feudatarî di assicurarsi la corona ducale. Anche i Bretoni ignorano la monarchia di Parigi e si considerano nazione a sé. A oriente hanno confinanti i duchi di Normandia e i conti d'Angiò e dalla loro ambizione debbono difendersi.
Nel sec. X attorno ai principali feudatari si muove un nuvolo di feudatarî minori o minimi; nel secolo successivo la situazione politica è peggiore sotto un certo aspetto. Nel sec. X dappertutto un nuvolo di feudatarî, ma esiste ancora, un istituto pubblico che tutto pare abbracciare: la monarchia. Ma lentamente avviene un'opera di concentrazione generale; un certo numero di signori riesce a estendere la propria autorità. Il processo di sviluppo porta alla formazione di stati regionali feudali: ducato di Normandia, di Aquitania, contea di Angiò, ecc. L'ossatura dello stato generale è la dinastia: si cura la successione integra, adottando la primogenitura e abolendo le divisioni. Anche la successione femminile viene eliminata. Ogni barone raccoglie attorno a sé i feudatarî minori della regione che trasforma in suoi dipendenti; si accenna a vere assemblee feudali provinciali, nelle quali il principe compare come il rappresentante di questa unità regionale. Si cerca di organizzare meglio lo stato; di creare un'amministrazione ducale o comitale combattendo gl'istinti anarchici dei piccoli feudatarî, favorendo il clero e le borghesie cittadine. La Francia ritorna policentrica. Anziché affermare le sue pretese di monarca assoluto, il re capetingio si accontenta, di fronte a questa situazione, di essere, riconosciuto o no, il sovrano feudale di tutti i principi vassalli della Francia. Si proclama il diritto del re, supremo signore, all'omaggio di tutti i feudatarî; si lascia ai teorici l'incarico di teorizzare sulla struttura feudale della monarchia. Teorie che poca noia dànno ai feudatarî che appaiono sicuri della loro reale potenza, ma che servono a ricreare un'ideale unità alla Francia feudale. Importante è che la Francia ritorni a sentirsi una, ad ammettere un centro della vita nazionale nella monarchia di Parigi.
La decadenza della monarchia capetingia è massima sotto il regno di Filippo I (1060-1108). Al movimento gregoriano il re è ostile; alla prima crociata non partecipa affatto. A stento riuscì a resistere nel 1087 al duca di Normandia e al re d'Inghilterra uniti per abbatterlo definitivamente. Il suo matrimonio con la contessa d'Angiò, vivendo la moglie dell'uno e il marito dell'altra, gli procurò scomuniche, interdetti e biasimi popolari. Vigoreggiano invece le dinastie provinciali. I conti di Fiandra hanno belle figure quali Baldovino V e Roberto il Gerosolimitano. I duchi di Normandia, dopo avere dal sec. X all'XI dominato l'occidente francese, assurgono alla massima potenza quando Guglielmo il Conquistatore riuscì a diventare nel 1066 re d'Inghilterra; i conti d'Angiò dopo Folco Nerra, hanno magnifici campioni in Goffredo Martello (1040-1060), in Folco V (1109-1129) e in Goffredo il Bello (1129-1151), che abbattono i feudatarî protervi, abbandonano i possessi di Aquitania e dànno allo stato un'organizzazione e un'unità bene equilibrata. In Borgogna i duchi, da Ugo I a Odo I, a Ugo II, si occupano di organizzare il ducato con istituzioni di pace e di giustizia. Il ducato di Aquitania ha principi potenti e famosi in tutta Europa in Guglielmo VIII e in Guglielmo IX; i conti di Tolosa dalla metà del sec. XI sono padroni della Provenza e dominano ampio paese dalla Garonna alle Alpi Marittime, e poiché la potenza dei duchi d'Aquitania chiude loro l'orizzonte dell'interno, si gettano alle spedizioni cristiane di Spagna e di Siria.
Quasi tutti questi grandi principati, in un momento almeno, pare che si atteggino a rappresentanti d'interessi generali francesi. I conti di Fiandra combattono sulla Schelda e sul Reno con l'impero; i duchi di Normandia si gettano alla conquista dell'Inghilterra; i duchi di Aquitania consacrano molte forze alle spedizioni in Castiglia; i conti di Tolosa si consacrano alla politica mediterranea. Ma la loro vita di solito è dominata dagl'interessi ristretti della regione. Ora questa base regionale presto risulterà insufficiente come struttura dello stato feudale locale. I dinasti stessi, abbattendo la feudalità riottosa o trasformandola in un istituto feudale regolare e permanente, inavvedutamente vengono a scalzare le basi della loro potenza. Il favore accordato alle borghesie cittadine aprirà loro speranze più ampie.
Periodo della concentrazione statale. - Al principio del sec. XII la Francia pare avere raggiunto una situazione statica. Le dinastie feudali hanno completamente rotto ogni legame con la monarchia; e i Capetingi dell'Isola di Francia sono ridotti alla minima potenza, a semplice signoria feudale. Tale situazione di equilibrio non è tale però da poter durare a lungo. Se da una parte le regioni francesi sembrano arrivate a una affermazione d'individualità provinciale, dall'altra le dinastie sono spinte dalle ambizioni e dagl'interessi a una politica di paci, di alleanze, di guerre, che crea una rete di rapporti interprovinciali. Presto si manifestano tendenze a una concentrazione attorno a determinati nuclei; qualche dinastia è spinta a capeggiare queste tendenze, affermando una pretesa egemonica. Il sec. XII vede questa polarizzazione di forze provinciali francesi. La zona dove si svolge il contrasto più aspro è la vecchia regione franca fra la Somma e la Loira; gli stati sono quelli di Normandia, di Parigi, di Angiò, di Blois.
Lo stato capetingio esce con Luigi VI (1108-1137) da un periodo d'inerzia e di passività. La dinastia, costretta a concentrarsi in un piccolo territorio, tesaurizza le sue energie e si procura possibilità d'azione amplissima a breve scadenza. Anche Luigi VI, riprendendo qualche tentativo del padre, si diede a una politica di riorganizzazione territoriale: imporre la sua autorità ai vassalli ribelli, riaprire le comunicazioni fra le città del dominio, ristabilire la pace nelle campagne. Lo stato capetingio si dimostrò dopo tre decennî del tutto rinnovato; una forza ristretta, ma vibrante e organica.
Il grande nemico del Capetingio è il Normanno. Guglielmo il Conquistatore nel 1066 aveva creato con la conquista dell'Inghilterra un blocco statale sulle due rive della Manica tale da offuscare il regno di Parigi. Sotto Enrico I (1100-1135) l'unione dei due stati normanni si era rifatta e presto fra i due re che si spartivano la vallata della Senna la lotta era scoppiata. La Normandia concentra tutte le forze feudali contro il regno; questo lavora per rompere l'unione fra Normandia e Inghilterra, istigando contro Enrico I i suoi parenti, ma a stento riesce a tenere testa al nemico. Nel 1127 l'erede della Normandia e dell'Inghilterra, Matilde, sposava l'erede della contea d'Angiò, Goffredo il Bello; anche l'imperatore di Germania Enrico V si alleava con l'Inghilterra, circondando di un cerchio nemico la monarchia capetingia. Ma Luigi VI riunisce le forze dello stato, si stringe al clero e al papato; contro gli attacchi dell'imperatore tedesco avanza sino a Metz e si atteggia a paladino nazionale; e, brillante risposta al re d'Inghilterra, nel 1137 sposa al figlio e successore suo l'unica erede del ducato d'Aquitania, Eleonora figlia di Guglielmo X, che portava in dote al nuovo re di Francia l'Alvernia, il Poitou, il Limosino, il Périgord e la Guascogna. La dinastia capetingia portava i suoi confini ai Pirenei.
Il duello fra il gruppo angioino-normanno e quello capetingio-aquitanico doveva svolgersi inevitabilmente, schierando le forze feudali francesi nei due campi. Luigi VII compromise i risultati ottenuti dal padre: imprudentemente ruppe i buoni rapporti col conte di Champagne, che si strinse in lega con i conti di Fiandra e di Soissons. Più pericoloso ancora fu il ripudio della duchessa Eleonora d'Aquitania: inutili furono gli sforzi per conservare il possesso del grande stato meridionale. Dell'errore del re trasse vantaggio Enrico Plantageneto d'Angiò, affrettandosi a sposare Eleonora; nel 1154 già Enrico diventava re d'Inghilterra e padrone della Normandia, trascinandosi a rimorchio il feudo normanno della Bretagna. Così attorno all'Angiò si stringeva tutta la Francia occidentale, lungo l'Atlantico, dalla Somma ai Pirenei: l'unione con l'Inghilterra dava sicurezza a questo blocco feudale. Principe francese, più che inglese, Enrico considerò l'Angiò come centro della sua attività; credette possibile assorbire gli stati feudali del sud e dell'est, ricacciando a nord i pretensiosi ma deboli re di Parigi. Per trent'anni la politica angioina investe tutta la Francia: Enrico II afferma la sovranità sua sulla Bretagna, respinge dalla Normandia la debole avanzata regia, cerca di imporre la sua signoria sulla contea di Tolosa, si allea con i conti di Savoia, stringe rapporti con l'imperatore di Germania e con il re di Castiglia. Ma tutti gli sforzi per accordare tanti stati regionali erano destinati a fallire. Normanni e Bretoni, Angioini e Guasconi, Limosini e Provenzali erano popoli pieni di vivace vita propria: già negli ultimi suoi anni, Enrico II dovette fare omaggio a queste tendenze regionalistiche, creando dei governi speciali in varie provincie; ma era una soluzione provvisoria. La monarchia di Parigi, dopo avere inconsapevolmente favorito i progetti angioini, trasse giovamento dal successivo fallimento di tutti i tentativi di Enrico II. Nel 1152 Luigi VII raccoglie contro il nemico una lega di feudatarî che si sentono minacciati dalla potenza anglo-normanna; per procurarsi amici sposa una principessa castigliana, più tardi una principessa della casa di Champagne; nel 1159 accorre a Tolosa per impedire che la città cada nelle mani del nemico; cerca accordi con l'imperatore di Germania, dirige la ribellione dei figli d'Enrico II al padre. Così i possessi francesi di Enrico II sono in continuo subbuglio e gli sforzi del signore per organizzarli falliscono, mentre i re di Parigi cominciano a godere di un prestigio altissimo in tutta la Francia.
Varie cause influiscono per determinare questo fenomeno importante e nuovo. Le spedizioni cristiane della feudalità francese in Spagna e in Siria reagiscono inaspettatamente sulla considerazione della monarchia che pure non vi ha partecipato, o vi ha partecipato male con lo stesso Luigi VII. Si risveglia il ricordo delle imprese gloriose dei Merovingi e dei Carolingi; Carlomagno riappare agli occhi delle generazioni francesi del sec. XII attraverso alla esaltazione delle chansons de geste. Il re di Parigi appare come l'erede di tutta questa tradizione gloriosa; la douce France non è più solo il territorio regio, ma tutta la terra su cui ha dominato di già Carlomagno. Sono germi che fruttano rapidamente nell'epoca in cui le autonomie provinciali sono minacciate dalla costituzione dell'impero anglo-normanno. Affiorano le linee della vecchia vita monarchica francese, della vecchia unità regia. In tutta la Francia si sentono nel sec. XII sentimenti di devozione monarchica, di adesione a un'unità francese che non è ancora né politica, né etnica, né linguistica; una unità che pare avere un corpo, il regno, un capo, il re, ma che non ha consistenza sicura. Queste simpatie per la monarchia si manifestano specialmente nella Francia centrale e orientale. Agiscono i segni della ostentata protezione che il re accorda alle chiese. Il soggiorno del papa Alessandro III in Francia, ospite e protetto del re, mentre l'imperatore protegge l'antipapa e il re d'Inghilterra perseguita il clero e fa assassinare Thomas Becket arcivescovo di Canterbury, impressiona le folle.
All'ascensione al trono di Filippo II Augusto (1180) il conflitto fra le due potenze antagonistiche era ancora indeciso. I Plantageneti non avevano potuto distruggere il regno capetingio; questo non era riuscito a sgretolare il blocco anglo-angioino-normanno. Il problema fu risolto dal nuovo re di Francia grazie alla compattezza del suo stato da un lato, alle lotte civili della casa reale d'Inghilterra dall'altro. Filippo II Augusto seppe provvisoriamente accordarsi col re d'Inghilterra nella pace di Gisors, umiliandosi ad accettare la protezione sdegnosa del potente re. Poté allora dissolvere la coalizione dei grandi feudatarî del nord-est, Fiandra, Champagne, Borgogna, Hainaut, Nevers, decisi ad abbattere il re di Parigi, o almeno a rinserrarlo nei suoi vecchi limiti feudali. Ora Filippo Augusto poteva guardare in faccia il nemico d'Inghilterra rimasto inerte davanti al conflitto fra regno e feudalità.
Nel 1187 già scoppiava il conflitto fra i due re. Filippo Augusto aveva preparato l'azione alleandosi con Federico Barbarossa e tessendo intrighi alla corte di Enrico II. L'aspra guerra si sospende per la morte del re d'Inghilterra e per la terza crociata, ma poi riprende violenta; i Francesi hanno terribili avversarî in Riccardo Cuor di Leone e in Giovanni Senza Terra. Nel 1202 Filippo Augusto fa processare dai suoi giudici il re d'Inghilterra Giovanni per aver rifiutato obbedienza al legittimo sovrano feudale - il re di Francia - e lo fa spogliare di tutti i feudi francesi. E subito dopo l'esercito regio invade la Normandia e la conquista; poi il Poitou, l'Angiò, la Turenna, la Bretagna, il Maine passano nelle mani del re. I re d'Inghilterra conservano a pena i possessi di Guascogna. La pace del 1208 segnò la decisione del grande conflitto durato un secolo. L'impero anglo-francese crollava insieme col castello d'una monarchia francese che avesse il suo centro nelle provincie dell'ovest. Il trionfo di Filippo Augusto rappresentava il trionfo della monarchia capetingia di Parigi, il prevalere delle tendenze centripete. Ora nessuno stato feudale esisteva che avesse capacità di contrastare per l'avvenire con la monarchia. Dal principio del sec. XIII la Francia tende nettamente verso l'unificazione.
Il trionfo della monarchia francese coincide con la trasformazione di tutta l'organizzazione sociale dei paesi francesi, con l'affermarsi di nuove tendenze sociali che furono in un certo senso collaboratrici delle tendenze politiche monarchiche, sebbene non sempre coscienti e non sempre cercate. Il feudalismo dopo aver cercato di sfruttare le istituzioni economiche lasciate dalle età precedenti, nel bisogno di organizzarsi e disciplinarsi si era avviato per la via della trasformazione economica e sociale. Il bisogno di provvedere a un più proficuo sfruttamento della terra portò il proprietario feudale ad abbandonare le gravezze più pesanti, di cui soffrivano le popolazioni rurali. Le aspirazioni degli umili trovarono corrispondenza nell'interesse dei signori, che acconsentirono a sviluppare il sistema dei tributi, delle decime, dei diritti fiscali, abbandonando la corvée della vecchia economia chiusa. Il signore che prima era capo, direttore dell'impresa agraria, ora si avvia a essere un semplice se pur formidabile sfruttatore del reddito agrario. Questa grande trasformazione, che s'inizia nel sec. XI e continua quasi silenziosamente nel seguente, non deve essere spiegata né con l'intervento di principî filosofici e religiosi, né con la politica di principi e di governi. La Francia, mediocremente popolata, è costretta a sostituire sistemi di sfruttamento agricolo più razionali e organici a sistemi arbitrarî. Di solito il mutamento è pacifico; meno spesso si hanno movimenti di gruppi e di classi.
Anche la città partecipa del nuovo movimento economico cercando condizioni migliori, tributi più leggieri, possibilità di mutua difesa, di sicurezza nei commerci: mentre nel sec. X il popolo della città è soltanto uno strumento della feudalità, nel secolo successivo già appare ricco di pretese e di forze, sì da spiegare come nel sec. XII si sia avuta l'emancipazione cittadina, l'eliminazione di quanto di arbitrario e di antieconomico vi era nell'organizzazione cittadina stessa. Dal sec. XI al XII il numero dei centri urbani si moltiplica, conseguenza non tanto di un grande accrescimento di popolazione quanto dello sviluppo della colonizzazione rurale. Sorgono per iniziativa ecclesiastica e monastica le "città nuove" (villes neuves, bastides); con privilegi s'invitano gli abitanti ad accorrere; le terre si dividono e si dissodano; il reddito dell'abbazia cresce. Spesso due signori si accordano in uno sfruttamento sociale di terre a spese comuni (pariage); si costruisce l'abitato, le vie si tracciano ad angolo retto con al centro la piazza e il mercato. Gli abitanti accorrono attratti dalle garanzie contro le imposte arbitrarie. Questi centri muniti di franchigie (v. franchigia) formano in Francia la grande maggioranza degli abitati; essi restano sottomessi politicamente al signore. Feudatarî e principi, anche il re, imitano le abbazie nel creare le città nuove, germi di futuri redditi sicuri. Molti centri urbani ottengono nel sec. XII libertà e privilegi che li fanno entrare nel numero delle città nuove o franche. La loro condizione varia secondo il grado delle concessioni loro fatte dal signore; le une hanno privilegi relativi soltanto al tributo, le altre hanno privilegi complessi, e giudiziarî e amministrativi così estesi da avvicinarle alle città libere. Si eliminavano in tal modo abusi di funzionarî rendendo il dominio più redditizio; oppure il signore era spinto dal desiderio di ripopolare la città, o di entrare in gara con un vicino, o di procacciarsi, in caso di guerra, le buone grazie dei sudditi, o di avere in compenso dai sudditi denaro liquido.
La rivoluzione nella situazione cittadina è più radicale nel caso delle città libere, in cui il signore fu spogliato di tutte o di parte delle sue prerogative sovrane per mezzo dell'associazione degli abitanti accordatisi con mutuo giuramento. Questo è il caso del comune propriamente detto, caratteristico della Francia settentrionale e della città consolare della Francia meridionale; non mancano città libere nell'Alsazia e Lorena, nella Franca Contea e in qualche regione del sud-ovest, come Bordeaux e Baiona. Anche in Francia come in Italia l'esistenza di una carta sanzionante la libertà comunale è solo il termine ad quem, senza che si possa stabilire quando e come sia avvenuta l'emancipazione. Di solito è da pensare a un processo di sviluppo che va dal sec. XI al XII; per certi casi si deve già risalire al sec. X. Ogni città rappresenta un fenomeno particolare, un'individualità che agisce per conto suo. Ma certo dovunque vi è il desiderio di reagire contro un'organizzazione che pare superata. E non si può negare che l'esempio abbia avuto un influsso di contagio.
Tutta la vita francese nel sec. XII si trasforma: ma mentre scompare nella vita feudale il sistema delle forze parallele equilibrantisi e prevale il sistema dei legami fra monarchia e feudi, nelle classi borghesi e rurali prevale quello delle colleganze, del mutuo aiuto. Così in campagna il sindacato dei rurali, la federazione dei villaggi, in città l'associazione borghese, la corporazione dei mercati tendono a superare il confine del villaggio, del feudo, dello stato regionale. E le dinastie provinciali che in misura molto ristretta riescono a soddisfare questi nuovi bisogni delle classi agrarie e industriali, si trovano private della necessaria base proprio quando esteriormente credono di avere costruito nella regione natia un simulacro di stato. Fatti esterni della storia francese come le guerre, le crociate, i pellegrinaggi agiscono solo limitatamente su questo fenomeno di trasformazione interna, dipendente da cause puramente interne. La rivoluzione comunale rinnova il tessuto della vita sociale francese e le guerre di egemonia dei principi e dei re ricevono il vero loro valore dalla situazione nuova in cui il paese viene socialmente a trovarsi.
L'organizzazione della monarchia feudale. - La caduta della potenza dei Plantageneti e le grandi conquiste dei re capetingi destarono grande impressione in Francia e in Europa. Si sentì l'importanza di questa nuova concentrazione monarchica avente per centro il nord della Francia; si comprese che l'azione capetingia aveva un carattere completamente diverso da quella angioina. La tradizione storica era ancora così forte da ispirare una coalizione delle vecchie potenze danneggiate dal prevalere della monarchia francese; e il re d'Inghilterra ebbe così come alleati l'imperatore di Germania e il conte di Fiandra. Notevoli gruppi della feudalità aquitanica aderirono alla coalizione. Il re di Francia consacrò la sua superiorità sugli avversarî con un'azione militare rapida ed energica. Nell'aprile del 1214 i Francesi sbaragliarono a La Roche-au-Moine gl'Inglesi e gli Aquitanici di Giovanni Senzaterra; nel luglio dello stesso anno i Fiamminghi e i Tedeschi dell'imperatore vennero schiacciati a Bouvines in battaglia. A Bouvines nasce infatti il sentimento nazionale della Francia: la monarchia di Ugo Capeto balza in quel momento al centro della storia del paese e in una Francia ancora tutta spezzettata feudalmente e divisa per istituzioni, costumanze e lingua, attorno al re balena la futura Francia monarchica e unitaria.
La conseguenza immediata del trionfo sull'Inghilterra e sull'Impero fu l'intervento del re di Francia nelle questioni del sud della regione francese. Il vasto stato feudale di Tolosa con la sua attività sul mare aveva rinunciato a ogni importante azione nelle vicende interne della Francia; già nel sec. XII Capetingi e Plantageneti avevano conteso attorno a Tolosa. La caduta della potenza anglo-angioina voleva dire che la contea di Tolosa era alla mercè della monarchia capetingia. Ma la politica regia poté entrare nel sud solo attraverso una grave crisi spirituale e politica locale: lo sviluppo amplissimo dell'eresia catara, sotto la protezione dei principi e dei feudatarî. Nel 1209 Innocenzo III organizzò una crociata per reprimere l'eresia: vi aderì in special modo la feudalità regia del nord e del centro della Francia, con a capo Simone di Montfort. I crociati occuparono le principali città della Linguadoca. Il re di Aragona, che volle intervenire per proteggere il conte Raimondo VI di Tolosa, fu sconfitto a Menet e così fu respinta ogni pretesa aragonese d'intervenire nella regione. La spedizione pareva essere favorevole solo a Simone di Montfort, rimasto in possesso di tutti i territori conquistati. Ma allora intervenne Filippo Augusto, rimasto sino allora spettatore della lotta. Nel 1215 il principe ereditario Luigi scese con un esercito nella Linguadoca con il pretesto di aiutare Simone di Montfort; vi ricomparve nel 1219 come arbitro nella lotta fra i Montfort e i conti di Tolosa. Ora l'occupazione fu fatta in nome del re. I tentativi tolosani di difendere l'autonomia vennero schiacciati nel 1226 da Luigi VIII. Il papa aveva dovuto acconsentire a che i dominî del conte di Tolosa e degli altri signori accusati d'eresia passassero al re. La monarchia, dopo vari secoli, era ritornata al Mediterraneo.
L'orgoglio francese andò affermandosi durante il sec. XIII in proporzioni assai notevoli, ché l'avere vinto potenze militari indiscusse diede al popolo francese la convinzione d'essere destinato a dominare tutta l'Europa. Solo lentamente però si ebbe lo sviluppo di una politica estera francese; per gran parte del secolo si sentì la necessità di un prudente raccoglimento; il lungo regno di Luigi IX fu precisamente caratteristico sotto questa luce. La Francia infatti, sebbene fosse dominata ora dalla monarchia di Parigi, era però ancora tutta in subbuglio. L'Inghilterra conservava ancora speranze di rivincita, e alla morte di Filippo Augusto, il papa stesso aveva ammonito il nuovo re a restituire il Poitou. Luigi VIII invece continuò arditamente l'opera del padre. Una spedizione militare completò nel 1224 l'occupazione francese del Poitou, assicurandola con la conquista della Rochelle. Per un momento parve che anche la Guascogna dovesse essere conquistata, ma Bordeaux rimase fedele all'Inghilterra. Morto inaspettatamente il giovane re, la reggenza della vedova Bianca di Castiglia per il minorenne Luigi IX fu sfruttata dai malcontenti convinti che la potenza regia non potesse conservarsi. Il conte di Champagne, il conte di Bar, i baroni di Bretagna, del Poitou e di Guascogna ripetutamente organizzarono coalizioni contro la monarchia, ma la reggente seppe disperderli ogni volta rinsaldando il prestigio del governo e facendo accordi pacifici con i varî principi sì da legarli alla dinastia. Qualche tentativo antidinastico fu ancora compiuto dopo il 1235, quando Luigi IX aveva già assunto il governo, per opera specialmente della nobiltà aquitanica che faceva capo a Ugo di Lusignano conte della Marche: i re di Aragona, Castiglia, Navarra, Inghilterra aiutarono l'impresa; ma Luigi IX riuscì presto a domare tutti i coalizzati. Dopo il 1242 si può dire che l'autorità del re sia sicura in tutto il mezzodì della Francia. Concessione all'autonomia del paese fu l'erezione delle contee del Poitou e dell'Alvernia in appannaggio per il fratello del re, Alfonso di Poitiers, che, avendo sposato la figlia del conte di Tolosa, diventò, alla morte del suocero nel 1249, padrone anche del tolosano. In tal modo le provincie meridionali si preparavano a una fusione più intima con il nucleo vero dello stato capetingio.
Dopo gli anni d'inquietudine della reggenza, la monarchia organizza le sue conquiste con una politica di pace e di giustizia. Luigi IX rappresenta la politica di sistemazione della Francia feudale sotto l'egida della autorità regia, con la fusione delle due autorità, di capo della gerarchia feudale e di monarca di diritto divino. Luigi IX, come i suoi predecessori e successori, è dominato dalla concezione feudale e s'illude di governare nell'ambito delle concezioni feudali teorizzate e irrigidite dai trattatisti. In realtà la monarchia si accontenta di sfruttare le abitudini feudali, di interpretare le regole feudali nell'interesse proprio, traendone tutti i vantaggi politici e territoriali. Ma le concezioni fondamentali sono diverse e sono superiori al feudalismo: il monarca regna per autorità divina, si appoggia al principio di ereditarietà, al possesso di un territorio in cui la feudalità è diventata serva, alla capacità militare e finanziaria conquistata con l'organizzazione dei territorî.
La curia regis (v. sotto: Diritto), centro del governo, si è trasformata: vicino ai grandi ufficiali della corona compaiono nel sec. XII i consiglieri di origine oscura, borghese, ufficiali modesti ai quali toccano mansioni effettive del governo. Nell'età seguente i borghesi diventano nel consiglio del re numerosi e potenti, simbolo di un'intesa ormai effettuatasi fra monarchia e borghesia. Nelle città e nei castelli del vecchio dominio regio, i re del sec. XI e del XII avevano avuti come rappresentanti funzionarî modesti, i prevosti. Sotto Filippo Augusto lo sviluppo territoriale richiese l'istituzione di un nuovo funzionario provinciale, il bailli; si ebbero perciò nuove, più ampie circoscrizioni territoriali dette bailliages; come nella Francia del sud si ebbe la sénéchausée, con a capo un funzionario militare detto sénéchal. Da Filippo Augusto la monarchia cerca di organizzare le sue finanze, cioè di eliminare l'inconveniente più grave dell'organizzazione feudale. È necessario sostituire lo straordinario e l'aleatorio con il tributo regolare e fisso. Così anche per l'esercito: anziché ricorrere all'organizzazione feudale i re cercavano di organizzare proprie milizie. Lo stato capetingio grazie a questo nuovo attrezzamento poté fare rapidi progressi durante il sec. XIII. Prevosti, baillis, sénéchaux iniziano su ogni punto della Francia un'azione di penetrazione in nome della monarchia. La monarchia protegge, organizza e inquadra le forze sociali del paese. La prima è la feudalità. L'elemento feudale del vecchio dominio è stato smantellato duramente nel sec. XII ed è diventato fedele esecutore della volontà regia. Ma nelle regioni di nuovo acquisto la classe feudale è ancora riottosa, turbolenta, amante dei saccheggi, aspra con i soggetti. La monarchia interviene per mettere fine alle guerre private; sorveglia gli obblighi militari dei vassalli; impedisce l'unione dei grandi feudi per vie di matrimonî e cerca di far sposare le ereditiere dei feudi con membri della famiglia reale; interviene a confermare atti dei grandi baroni con i loro vassalli, vescovi e borghesi; costringe i grandi signori ad accettare le decisioni regie, a riconoscere il re come interprete della legge feudale, impone l'obbligo della dipendenza diretta dal sovrano a tutti i vassalli che hanno diviso per eredità un feudo, inizio dello sgretolamento dell'edificio feudale. Come sfogo dell'irrequietudine della feudalità servono soprattutto le imprese d'oltre mare, le crociate. I re rimangono fedeli alla politica tradizionale di accordo intimo con la chiesa; ripetutamente combattono contro i feudatarî per difendere vescovati e abbazie. Ma contemporaneamente pretendono la più rigida obbedienza dal clero. Filippo Augusto usa anche asprezza in questa sua difesa del trono contro le pretese ecclesiastiche; vescovi e abati furono sottoposti a tutti gli obblighi feudali. Anche la chiesa fu sottoposta alla giustizia regia e i tribunali episcopali vennero richiamati alle pure cause ecclesiastiche. La stessa politica rigida fu seguita da Luigi IX. Questi, d'altra parte cercò di proteggere la chiesa di Francia dalle esazioni della Santa Sede, per impedire che il clero francese venisse sfruttato per l'interesse della politica italiana del papato; ma non mancò poi a sua volta di colpire la chiesa francese di esazioni molto pesanti per l'utilità diretta della monarchia.
Con Filippo Augusto incomincia una nuova politica regia verso i comuni; la monarchia pare decisa a farsi protettrice del movimento comunale. Nel sec. XII i re avevano tenuto a questo proposito un atteggiamento incerto; Luigi VI concede carte di franchigia comunale a qualche centro per avere alleati in una lotta immediata o per procurarsi denaro. Così Luigi VII aveva cercato di sfruttare le città, risvegliantisi economicamente e desiderose di autonomie amministrative, per opporle ai baroni laici ed ecclesiastici; nei suoi territorî pare che abbia impedito o ostacolato lo sviluppo del comune, invece lo favorisce dove è necessario per indebolire la potenza feudale. Filippo Augusto dedica molte cure a confermare o a creare i comuni: accresce le prerogative comunali, regola i rapporti del comune con l'autorità regia, semplifica e mitiga gli oneri. Dovunque poi il re trovava interessi fiscali; perché la base della franchigia comunale era inevitabilmente il tributo al fisco regio, come indennizzo dei diritti feudali abbandonati al comune. Ostentatamente la monarchia assume la protezione delle comunità, anche nei territorî appartenenti ai grandi feudi che almeno in parte sfuggono all'erosione regia: i comuni in questi territorî diventano i capisaldi del programma di pacificazione e di trasformazione monarchica nella convulsione della vita feudale. La politica della monarchia verso i comuni accenna tuttavia a mutare durante il sec. XIII. Via via che la grande feudalità si piegava e si abbatteva sotto i colpi della dinastia, questa sentiva sempre meno il bisogno di curare le relazioni coi comuni. L'autorità regia diffida di queste città in cui le agitazioni, i contrasti fra le varie classi sono così vivaci; inoltre si ha bisogno di accrescere i redditi della corona. Le ordinanze di Luigi IX del 1262 impongono ai comuni l'obbligo di rinnovare ogni anno le municipalità, di presentare agli ufficiali del re i conti annui delle spese e delle entrate. Così il governo veniva sistematicamente informato della situazione economica dei comuni. Attraverso a tutta questa attività interna, la monarchia stringe a sé i varî elementi sociali della Francia e utilizza forze nuove. Vicino al vecchio elemento dell'Isola di Francia compaiono nel sec. XIII elementi nuovi nell'amministrazione regia: normanni, bretoni, tolosani e provenzali. Parigi ha già nel sec. XIII un'importanza grandissima: l'amministrazione regia, l'università e il commercio attirano i provinciali. A Parigi si ha già il senso di dominare per mezzo della monarchia il resto della Francia.
Nella politica estera francese il sec. XIII stabilisce i principî fondamentali che trionferanno poi nei secoli successivi venendo perfezionati, sviluppati, ma non modificati. Appunto da Filippo Augusto a Luigi IX si hanno in embrione le varie tendenze: relazioni e interessi mediterranei, relazioni e interessi atlantici. Si precisano nella loro vera natura i rapporti con il regno inglese, con i regni iberici, con i principi italiani e germanici. Luigi IX pretendeva non avere altra politica che non fosse la difesa della giustizia e della pace, raccogliendo tutti i principi nell'intesa concorde per la ripresa della crociata contro gl'infedeli. Ma anche questa attività serviva ad affermare nella monarchia francese la pretesa di voler essere la suprema guida della cristianità europea, sostituendo l'impero germanico, che rovinava attraverso alle lotte con il papato e i grandi vassalli. Le due crociate di Luigi IX, la prima in Siria e in Egitto, la seconda in Tunisia, mettono in evidenza le tendenze egemoniche della Francia per il predominio nel Mediterraneo. Il papato rimase in buoni rapporti con i varî re francesi del Duecento. Neanche l'atteggiamento di sfida assunto da Filippo Augusto (v.), che, ripudiata la consorte Ingeburga di Danimarca, passò a nuove nozze illecite, e resistette per vent'anni alle proteste e agl'interdetti, poté spingere il papato a un'azione decisiva.
Gli è che i papi coinvolti nelle lotte con gl'imperatori avevano bisogno dei potenti re di Francia. Filippo Augusto con indipendenza di giudizio a sua volta interviene nella competizione fra Filippo di Svevia e Ottone di Brunswick, a favore del primo e contro il secondo, che pure è appoggiato dal papa. Più tardi Innocenzo III adottò la politica francese antiottoniana e Federico II fu assunto all'impero sotto la duplice protezione del papa e del re di Francia. Così la monarchia francese inizia la sua politica di intromissione nella politica interna della Germania.
Riapertosi il conflitto fra papato e impero, Luigi IX agì con la massima prudenza. Rispettoso della religione, respinge le richieste del papa, ma è freddo seppur cortese con l'imperatore. Il suo programma della crociata gli permetteva di evitare impegni pericolosi. Federico II quando meditò di catturare in Lione Innocenzo IV, s'informò delle idee del re e, saputolo ostile, non insistette. La crisi dell'impero dopo la morte di Federico II eccitò le aspirazioni francesi al predominio; nel 1273 si parlò di presentare la candidatura del re di Francia, Filippo III, all'impero, indizio delle pretese della monarchia a farsi centro della cattolicità. E le pretese ricomparvero di nuovo nel secolo successivo.
La battaglia di Bouvines inizia una fase nuova nelle relazioni franco-inglesi: ora è la Francia che accenna a un'azione anti-inglese vivace. Filippo Augusto pare già avesse pensato ad annettere l'Inghilterra: rifare l'impero dell'Atlantico, ma da Parigi. Il figlio suo Luigi aveva sposato Bianca di Castiglia, nipote di Giovanni Senzaterra e aveva la possibilità di affermare diritti alla corona inglese. Nel 1215 le trattative con un gruppo di feudatarî inglesi in lotta con il loro re parvero riuscite; il principe Luigi fu proclamato re d'Inghilterra e si affrettò a organizzare una spedizione. Nel 1216 poté solennemente entrare in Londra e avervi l'omaggio dei vescovi e dei nobili. Ma la morte del competitore Giovanni Senzaterra favorì il concentrarsi degl'Inglesi attorno al legittimo re Enrico III, che venne pure riconosciuto dal papa, desideroso di impedire la troppa potenza della Francia. La politica di Luigi VIII fu abbandonata da Luigi IX, che dopo aver respinto i varî tentativi fatti da Enrico III per riconquistare i possessi di Francia, preferì venire a un accordo cordiale. Col trattato del 1258 Enrico III rinunciò definitivamente alla Normandia, all'Angiò, alla Turenna, al Poitou, ma ottenne in restituzione alcune terre nel sud, a condizione di dichiararsi vassallo del re di Francia per quanto possedeva sul continente. Anche in altre questioni straniere di grande interesse per il regno Luigi IX assunse un atteggiamento pacifico. In Fiandra le controversie per la successione furono ripetutamente composte in modo da dividere la Fiandra dal Hainaut, indebolendo quindi questo grande feudo a favore del regno. Col trattato di Corbeil furono liquidate le discussioni con il regno di Aragona, che rinunciò a ogni pretesa nella Linguadoca, esclusa Montpellier, mentre il re di Francia abbandonava le pretese carolinge alle contee di Barcellona e del Rossiglione (1258). Politica di arbitro e di dominatore svolsero saggiamente i re nei territorî renani di diritto imperiale.
Invece lo stesso Luigi IX non contrastò, anzi favorì la spedizione di Carlo d'Angiò nel regno di Napoli, che fu la prima azione militare della monarchia capetingia fuori del territorio francese. Probabilmente a Parigi si pensò che l'occupazione dell'Italia meridionale e della Sicilia fosse utile ai progetti di crociata in Egitto e in Africa che stavano a cuore a Luigi IX. Certo le proposte pontificie furono da Luigi IX discusse e accettate. La spedizione angioina in Italia esercitò grande influsso sullo spirito pubblico francese. Non solo si ebbe una corrente di emigrazione nobiliare in Italia, ma si rafforzarono le tendenze egemoniche nella convinzione dell'assoluta superiorità del popolo francese. Il nuovo regno di Filippo III (1270-1285) rivela già la vittoria di queste aspirazioni ch'erano state contenute saggiamente da Luigi IX. Il re interviene in Navarra a difendere gl'interessi di quei principi legati con la dinastia francese contro le dinastie castigliane e aragonesi e riesce a far sposare l'erede di quel regno con un figlio di Filippo III; interviene in Castiglia nell'aspra tenzone degl'Infanti della Cerda. Ma soprattutto vivace è l'azione contro la grande monarchia d'Aragona, che sviluppa un'importante attività militare nel Mediterraneo, diretta a sgretolare lo stato angioino di Sicilia. Si pensa a rispondere ai Vespri Siciliani occupando l'Aragona d'accordo con il papato: nel 1285 un grande esercito attraversa i Pirenei e inizia la conquista, che però fallisce. Così anche nei rapporti dell'Inghilterra si cerca di abbandonare la politica pacifica di Luigi IX; e quando morì Alfonso di Poitiers, i funzionarî regi occuparono tutti i territorî dell'appannaggio, senza preoccuparsi dei diritti che il trattato del 1258 dava al re d'Inghilterra. Solo nel 1279 si venne a un accordo, cedendo all'avversario il vescovado di Agen.
Alla fine del secolo la politica regia è già sotto l'influsso di generazioni cresciute nella convinzione che la Francia è la prima potenza d'Europa. I legisti usciti dalle scuole universitarie dove dominava il diritto romano, applicano al loro principe le pretese dell'imperatore romano; e varî trattatisti sviluppano in dissertazioni piani di espansione e di conquiste, che rappresentano se non il programma vero della monarchia, certo le idee correnti ampiamente in Francia. L'attività di Filippo il Bello si svolge (1285-1314) in una cornice di aspirazioni megalomani così per la politica estera come per la politica interna. La monarchia ha ora stabilito le zone in cui deve operare. Anzitutto tutti quei paesi dell'est, che dopo aver formato parte dell'antica Francia merovingica e carolingica, attraverso alle artificiose costruzioni della Lotaringia sono affluite nel seno dell'impero o, sotto il nome di regno di Arles e di Vienna, ondeggiano fra Germania e Francia. Le vallate della Saona e del Rodano soprattutto sentono viva l'attrazione al regno. I principati laici ed ecclesiastici lentamente si staccano dall'Impero e gravitano attorno alla monarchia francese: i funzionari regi con abile politica cercano di affermare diritti, radicare consuetudini a favore della Francia. A nord-ovest poi, la contea di Fiandra, paese ricco per sviluppo d'industrie e di commerci, dominato da una classe d'industriali capitalisti, organizzati nei comuni e rafforzati da tutta una serie di privilegi e franchigie strappati durante due secoli di lotte ai loro principi, era per la Francia necessaria così per la politica di espansione renana come per una vantaggiosa conclusione del conflitto inglese. Infine, la Guascogna in possesso del re d'Inghilterra era una continua minaccia di una ripresa dei vecchi progetti dei Plantageneti. A questi problemi dedica la monarchia i suoi sforzi, prima di affrontare quel programma massimo d'egemonia europea che i trattatisti del tempo delineavano. È vero però che i re e i ministri di Francia spesso furono travolti dall'illusione di poter tradurre in atto qualche punto di questo programma e abbandonarono l'esecuzione metodica di quelle conquiste nelle regioni immediatamente vicine che sembravano all'atto pratico difficili o impossibili.
Liberatosi dai contrasti con l'Aragona, l'attenzione del re di Francia Filippo IV si rivolse al problema inglese. Contrasti di sudditi francesi e inglesi diedero motivo al governo di Parigi di sequestrare il ducato di Guienna e di ordinarne l'occupazione (1295-1296). La riconciliazione del 1298, grazie al matrimonio d'Isabella, figlia di Filippo IV, con l'erede del trono inglese, durò appena due decennî; poi nel 1324 si ebbe una nuova rottura e una nuova occupazione della Guienna che durò sino al 1327. I conflitti con l'Inghilterra si legarono ora a quelli delle Fiandre, il cui commercio con Londra e i porti inglesi creava un importante fascio d'interessi antifrancesi. Nel 1297 si ebbe l'alleanza di Edoardo I e di Guido di Dampierre conte di Fiandra; l'imperatore eletto di Germania Adolfo di Nassau aderì alla lega e parve rifatto il blocco che Filippo Augusto aveva distrutto a Bouvines. Vinti gl'Inglesi, la Fiandra venne occupata dai Francesi che imposero la loro protezione al conte; ma Filippo IV con la battaglia di Courtrai vide falliti i tentativi di piegare i Fiamminghi. La Fiandra rimaneva legata all'Inghilterra e la Francia era bloccata così a nord come a sud ovest. Più facile pareva l'espansione dalla parte del confine con l'Impero: Adolfo di Nassau, che aveva progettato d'opporsi all'avanzata francese, nulla poté fare; il successore Alberto d'Austria assunse un atteggiamento di simpatia verso Filippo IV, di cui favorì praticamente l'espansione in Franca Contea e in Lorena. Ottone conte di Borgogna cedette alla Francia la Franca Contea; la città di Toul si diede pure a Filippo IV; varî principi renani strinsero patti di alleanza e sudditanza con la Francia; e molti vescovati ebbero prelati legati alla corte di Parigi. Nella valle del Rodano il più grande centro imperiale, Lione, fu occupato nel 1310 e gli staterelli feudali della regione, il Delfinato, la contea di Savoia, la contea del Genevese e i feudi minori furono ora esposti all'azione accerchiatrice della monarchia.
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Ma non si abbandonava intanto il programma di espansione in Italia. Gli Angioini, costretti a rinunciare alla Sicilia, ripresero le vecchie idee di predominio nella penisola: nel 1301 il pretesto di pacificare i comuni della Toscana porta in questa regione Carlo di Valois, fratello del re di Francia, senza raggiungere alcun esito favorevole; nel 1320 Filippo di Valois ritenta lo stesso programma di pace fra i signori della Lombardia. Così vani furono i progetti e gli studî per riaffermare il primato francese in Oriente, riconquistando Costantinopoli per farne centro di uno stato angioino.
Il papato occupava un posto importante nelle meditazioni dei politici e dei trattatisti francesi della fine del secolo. Il desiderio d' impadronirsi della direzione della società politica europea si univa col desiderio di avere favorevole e alleato il papato per poter disporre liberamente delle forze della Chiesa. Gli sforzi della monarchia per giungere a questo risultato appaiono evidenti nel grande conflitto svoltosi, in varie fasi, fra il 1296 e il 1303, fra il re di Francia e il papa Bonifacio VIII (v. bonifacio viii; filippo iv).
Il conflitto finiva, dopo l'attentato di Anagni (7 settembre 1303) e la morte del papa, con la piena vittoria di Filippo il Bello: il nuovo papa Benedetto XI si affrettò ad annullare ogni misura presa dal predecessore contro il re di Francia, pur facendo riserve per gli autori dell'attentato di Anagni. Clemente V, francese, eletto nel nuovo conclave del 1304-1305, si rassegnò a subire la più grave umiliazione del papato romano: acconsentire all'inizio di un processo contro Bonifacio VIII e al ritiro di tutte le scomuniche lanciate così da Bonifacio VIII come da Benedetto XI contro la Francia e i Francesi. Così la monarchia francese aveva avuto vittoria sul potere assoluto del papa, contro il quale non avevano potuto prevalere né Enrico IV né Federico II. Conseguenza inevitabile della vittoria della Francia fu la necessità in cui si trovò Clemente V di subire tutte le imposizioni di Filippo il Bello. Il papato rimase d'allora in poi in terra francese, pronto a servire gl'interessi della monarchia; l'elemento francese diventò predominante nel corpo cardinalizio; il papa, i vescovi e tutta l'organizzazione della Chiesa dovettero agire nel grande processo che il governo di Filippo IV nel 1307 decise di intentare contro il potente e ricco ordine dei Templari (v.).
Importa, a questo proposito, mettere in rilievo il sistema violento usato dai consiglieri di Filippo IV in affari così gravi. È evidente che nel governo francese si obbediva alla convinzione che i diritti della monarchia fossero superiori a qualsiasi principio morale e religioso, a qualsiasi tradizione giuridica e storica. Non diversamente furono trattati gli ebrei, che nel 1306 furono in tutto il regno arrestati per poter loro confiscare quanto possedevano, i banchieri lombardi che nel 1320 furono arrestati e i loro beni confiscati. La monarchia varcava facilmente i limiti dell'onesto e del giusto, affermando di non avere limiti nei diritti. Un legista dell'epoca precedente già aveva riconosciuto al re di Francia la pienezza del potere legislativo. Né questo è affermato per diritti superiori, divini, na semplicemente in vista dell'utile dello stato e della popolazione.
Il regno di Filippo il Bello vede la decadenza del principio feudale e l'inizio della monarchia assoluta. La chiesa francese, che pure era già stata addomesticata, si vide costretta a obbedire al re contro i Templari e contro la Santa Sede, a sottostare a tutto il peso della fiscalità regia per quanto in teoria il governo si affermasse difensore e protettore della libertà e dei beni ecclesiastici. Anche la nobiltà si trovò compressa e imbavagliata: la monarchia aveva la possibilità di affermarsi solo distruggendo le istituzioni feudali. Filippo IV riprende e riconferma la proibizione delle guerre private, dei tornei, e persino del porto di armi. Gli obblighi del servizio militare, dei tributi regi sono imposti con rigidità giustificata ddlla necessità della difesa del regno. Alla fine del sec. XIII il re usò convocare assemblee di nobili e di ecclesiastici per avere l'approvazione loro. Forse già nel 1289-90 si ebbero convocazioni anche per i rappresentanti dei comuni; certo questo avvenne nel 1302-1303 per la lotta con il papa e poi nel 1307 per l'affare dei Templari. Queste furono le prime assemblee dette più tardi Stati Generali: non assemblee consultive e tanto meno legislative, ma pure convocazioni per intimare più comodamente i tributi nuovi che la monarchia credeva urgenti (v. sotto: Diritto). Malcontenti e agitazioni si manifestarono nelle nuove classi sociali per questo indirizzo violento che il governo era venuto prendendo. Si ebbero anche leghe di nobili e una federazione di leghe per costringere il re a cedere sui tributi pretesi e sotto i successori di Filippo IV, i tre figli che in pochi anni gli successero, Luigi X (1314-1316), Filippo V (1316-1322), Carlo IV (1322-1328) le proteste e le agitazioni continuarono, e nel 1317, poi nel 1318 e ancora negli anni seguenti i re convocarono assemblee generali dei tre Stati per cose riguardanti i tributi.
Nel 1328 la vita della Francia ebbe un'interruzione che apparentemente riguardava solo la dinastia, ma che in realtà colpì profondamente il paese. Una nuova dinastia sale al potere; subito dopo si apre una grande crisi politica con il rinnovarsi della guerra contro gl'Inglesi. L'avvenire della Francia è in gioco, tutte le classi sociali subiscono le conseguenze della grande lotta e la Francia che uscirà dalla guerra dei Cento anni non avrà più nulla della vecchia Francia di Filippo il Bello.
Gl'inizî della Francia nazionale. - Quando nel 1328 la dinastia dei Valois saliva al trono, la Francia appariva come la principale potenza dell'Europa.
Nessuno stato si estendeva così ampiamente; nessuno stato aveva popolazione pari a quella francese, superiore ai 20 milioni. Le condizioni economiche erano floride; da Bouvines in poi il paese aveva goduto pace profonda; le guerre dei Pirenei, delle Fiandre, d'Italia, d'Oriente avevano toccato appena le classi feudali. Nel sec. XIII aveva portato i suoi frutti la grande trasformazione rurale iniziatasi nei secoli precedenti: i dissodamenti di terre nuove avevano enormemente accresciuto la ricchezza; le classi rurali erano già in parte diventate proprietarie delle terre. I servi o erano scomparsi o avevano migliorata la loro condizione. Le autonomie urbane della Provenza, Champagne, Fiandra avevano reso possibile l'accentrarsi in territorio francese di buona parte delle contrattazioni commerciali del continente; le industrie erano prospere.
La coscienza di questa potenza economica e politica spinge la nuova dinastia dei Valois a tentare di risolvere tutti i problemi lasciati in sospeso dai re precedenti, a imporre all'Europa occidentale l'egemonia francese. Non s'innova nulla, ma si lavora con asprezza analoga a quella di Filippo il Bello.
Il dominio regio copriva oramai più della metà del regno; dei grandi stati feudali del sec. XII rimanevano la contea di Fiandra, i ducati di Borgogna, di Bretagna, di Guienna: vi era desiderio di assorbire questi feudi. I buoni successi avuti da Filippo il Bello nell'opera d'infiltrazione nei territorî imperiali del Reno e del Rodano facevano sperare di potere in breve annettere i piccoli staterelli feudali alpini, la contea di Ginevra, la contea di Savoia, il Delfinato, la Provenza, già posseduta da una dinastia di sangue reale. La sicurezza di avere il papato, installatosi quasi definitivamente ad Avignone, devoto e sottomesso, ravvivava le ambizioni di succedere nel dominio d'Italia all'impero tedesco. Così con l'appoggio di Giovanni XXII si studia la creazione di un regno francese sul Po per disciplinare e sottomettere le signorie italiane: i regni di Napoli, di Ungheria, di Navarra, dominati da dinastie francesi, sono centri di propaganda francese oltre i confini. A oriente l'espansione regia pare favorita. La cultura francese invade i paesi del vecchio regno d'Arles; gl'imperatori sono incapaci di qualsiasi reazione. Nel 1349 Filippo VI acquista dai principi aragonesi l'ultimo loro possesso di Linguadoca, Montpellier col porto di Lattes, e dall'ultimo dei Delfini il vasto stato di Grenoble, raggiungendo così per la prima volta la linea delle Alpi. Nel 1355 i Savoia si riconoscono per il Faucigny vassalli di Francia; nel 1361 il ducato di Borgogna viene riunito al dominio regio.
Ma il problema più grave è quello dei grandi feudi oceanici: la Bretagna, la Guienna, la Fiandra. Già nel 1328, Filippo VI intervenne in Fiandra in difesa del conte e a Cassel credette di avere schiacciato le resistenze autonomiste dei Fiamminghi: il conte sarebbe stato ora costretto a governare il paese come protetto e rappresentante della monarchia francese. Le aspirazioni unificatrici della Francia minacciavano gravemente gli stati vicini: la prima potenza che si affrettò a reagire fu l'Inghilterra. Edoardo III, col pretesto di rivendicare i diritti alla corona francese, quale nato da Isabella di Francia, pensò a riconquistare tutti i possedimenti continentali che avevano avuto i Plantageneti; era urgente impedire che Fiandra e Bretagna venissero assorbite dalla Francia. Nuovamente si cercò di creare la lega con l'Impero e varî stati tedeschi, come aveva fatto Giovanni Senzaterra: le comunità fiamminghe, capitanate da un mercante di Gand, Giacomo Artevelde, intervennero nel conflitto a favore dell'Inghilterra e in difesa della loro attività industriale; la Bretagna contesa da due rami della dinastia fu divisa fra partigiani di Francia e d' Inghilterra. La monarchia fu costretta a sospendere la sua attività espansionistica per difendere la sua stessa esistenza; la guerra dei Cento anni (v.) mise infatti in discussione tutta la costatazione statale dei Capetingi del sec. XII e XIII. Le vicende della guerra, le gravi sconfitte subite rivelarono le grandi deficienze dell'edificio politico francese, ma non ebbero nessuna efficacia per sgretolare lo stato stesso. La monarchia dovette in presenza del nemico provvedere alla trasformazione della sua organizzazione, acquistando però la sicurezza che le popolazioni francesi erano devote al principio dell'unità monarchica.
Filippo VI (1328-1350) attese con zelo a sviluppare le istituzioni regie, sottoponendole all'autorità assoluta del re. Fu regolata l'amministrazione statale, riorganizzata la giustizia, fissata la giurisdizione del parlamento. Difficilissimo fu il problema finanziario.
La guerra non solo distrusse la ricchezza in molte regioni, ma fece deviare le vie commerciali e rovinare le industrie. Le grandi epidemie contribuirono a spopolare la Francia e a rovinare la vita economica. Tutte le ricchezze accumulate nelle popolazioni francesi nei secoli precedenti in gran parte scomparvero. Crebbero invece enormemente gli aggravî fiscali. I re del periodo precedente avevano cercato di sviluppare le risorse tributarie, ma queste erano sufficienti solo per il periodo di pace. La guerra costrinse la monarchia a escogitare nuovi sistemi tributarî. Dal 1335 i Francesi furono colpiti dall'imposizione di sussidî straordinarî (aides). Per ottenere il pagamento di questi tributi, la monarchia dovette fare appello alle assemblee dei rappresentanti dei sudditi. Ma queste ora opposero alle pretese del re la massima resistenza. L'alterazione delle monete d'oro e d'argento che avvenne sotto il regno di Giovanni il Buono (1350-1364) aggravò la situazione. Il governo dovette sempre più cedere alle esigenze delle assemblee provinciali. Già nel 1348 per avere un sussidio dalla Normandia si era dovuto acconsentire a che gli Stati raccogliessero e amministrassero il provento del tributo. Così si fece pure nel Vermandois: dell'amministrazione del denaro si sarebbe reso conto non al re, ma agli Stati. Nel 1355 gli Stati Generali della Linguadoca svilupparono il sistema. L'amministrazione regia era esclusa da ogni intervento nelle riscossioni e nei pagamenti. D'altra parte il re avrebbe fatto grandi riforme: gli Stati avrebbero regolato la monetazione e controllato la riunione delle milizie; le popolazioni avrebbero potuto riunirsi in armi per respingere le violenze degli ufficiali regi; avrebbero avuto assistenza contro gli abusi.
Così dai paesi più minacciati dall'invasione inglese venivano attacchi violenti alla monarchia. Dopo Poitiers il movimento antimonarchico guadagnò le vecchie provincie del dominio regio. La corona negli Stati Generali del 1357 fu rappresentata dal Delfino, duca di Normandia e luogotenente del re, preoccupato di guardarsi dalle insidie del congiunto Carlo re di Navarra, che pensava di sostituirsi ai Valois sul trono di Francia. Gli Stati anziché deliberare sui sussidî chiesti dal governo, sotto l'influsso dell'elemento borghese di Parigi rappresentato dal prevosto dei mercanti, Étienne Marcel, prese a studiare le riforme da imporre al reggente. Le loro conclusioni furono riunite nella Grande Ordonnance del 3 marzo 1357, il più grande tentativo d'imbrigliare il potere assoluto della monarchia francese. Si sanzionarono gravi provvedimenti coi quali si frenava la prodigalità del re, non ancora convinto di non poter usare del bilancio dello stato come prima aveva usato i proventi del suo dominio; si disciplinava l'amministrazione statale cresciuta enormemente per la moltiplicazione degli uffici, alla rinfusa, senza giustificazione di un reale sviluppo dei servizî pubblici e in modo superiore alla capacità finanziaria dello stato. Non vi è dubbio che l'ordinanza del 1357 veniva a diminuire le prerogative regie, quali si trovavano nella tradizione assolutista carolingia, se non nella tradizione monarchica feudale; ma la dinastia aveva trionfato nel sec. XIII in quanto difendeva il paese dai nemici esterni e assicurava la pace interna, e ora i re erano venuti meno a questa missione.
Appunto in questi anni la guerra e l'epidemia allontanavano le popolazioni rurali dal lavoro pacifico dei campi; nel 1358 le agitazioni si aggravarono e presero l'aspetto di vera insurrezione contro le classi feudali. Ma questo movimento, detto Jacquerie (v.), fu nefasto al tentativo dei borghesi di regolare il governo: le violenze dei Jacques determinarono un'energica ed efficace reazione del re e dei nobili: i Jacques furono massacrati e le campagne pacificate; i borghesi stessi abbandonarono Étienne Marcel, che perì in un tumulto popolare; il reggente ricuperò Parigi e scomparve ogni traccia della riorganizzazione per opera degli Stati. La riforma del 1357 era nata infatti in un momento di crisi nazionale, in un momento di sfiducia nell'opera della monarchia. Ma ad essa si doveva inevitabilmente far appello per la ricostruzione, non potendo la nobiltà e la borghesia offrire la base di una vitale riforma. In un paese dove tutte le regioni erano ancora dominate da tanti motivi di provincialismo e di separatismo, la dinastia rappresentava quello che in presenza dell'invasore stava diventando l'aspirazione somma di tutte le popolazioni francesi: la compattezza e l'unità. Perciò la dinastia ricuperò rapidamente il suo prestigio, appena mostrò di riprendere la sua missione di pacificatrice e di giustiziera, e la pace di Brétigny, che mutilava il regno di preziose provincie conquistate da Filippo Augusto e da Luigi VIII, non fu considerata come una grave colpa della monarchia.
Il regno di Carlo V fu rivolto a curare le ferite riportate dalla Francia sotto il regno di Filippo VI e di Giovanni II. Alla perdita delle provincie del sud-ovest si mette in qualche modo rimedio con l'annessione del ducato di Borgogna, con il matrimonio dell'erede della contea di Fiandra con il fratello del re, Filippo duca di Borgogna. Si rinsaldano i rapporti con il papa Urbano V, con gli Stuart di Scozia, i Visconti di Milano e soprattutto con l'imperatore Carlo IV, approfittando della crisi interna dell'Inghilterra, si riprende la guerra e con una sistematica azione contro i presidî inglesi, si riesce a rioccupare tutte le provincie perdute e persino parte della Guienna; si prende possesso delle terre e dei castelli ancora posseduti in Normandia e nell'Isola di Francia dal re di Navarra; si fanno spedizioni in Castiglia per sostenervi il prestigio della monarchia francese minata dall'influsso inglese. La visita dell'imperatore Carlo IV a Parigi nel 1378 è chiaro segno che la dinastia è di nuovo potente: l'impero le cede la luogotenenza nel regno d'Arles e ne autorizza e riconosce l'affermazione in quelle regioni.
Non così facile è curare i mali interni del paese: Carlo V non vi riuscì. Era però il re convinto della necessità di consolidare le istituzioni regie lasciate dagli avi, evitando ogni innovazione pericolosa. È questo il programma della "bonne policie" di Carlo V: la monarchia francese non fu più ora né la forma feudale di Luigi IX, né la forma assolutista violenta e arbitraria di Filippo il Bello. Si vuole realizzare un governo assoluto, ma rivolto al bene delle popolazioni. Una serie di riforme dell'amministrazione, della giustizia, dell'economia, dell'esercito fu la manifestazione organica dell'assolutismo benefico della corona; il re si fece scrupolo di decidere senza prima avere udito il parere dei consiglieri e al consiglio reale si chiamarono i saggi e i competenti provenienti in modo speciale dalla borghesia.
La crisi in cui il paese era stato gettato era però troppo grave perché vi si potesse trovar rimedio. Né i commerci né le industrie potevano riprendere; le campagne erano ancora incolte e spopolate e i bisogni dello stato costringevano il governo a continuare nella terribile pressione tributaria. Morto Carlo V (1380), il governo passò nelle mani dei principi reggenti per il giovane Carlo VI. Le popolazioni, che inquiete e malcontente anelavano a un sollievo, appena sentirono più debole e più incerta la mano dei governanti, proruppero dovunque in agitazioni, chiedendo la soppressione di tutti i tributi straordinarî. Se il duca d'Angiò cedette, desideroso di avere le simpatie popolari, la situazione non migliorò, ché l'erario esausto impedì ogni azione di governo e si dovette tornare ai tributi provocando nuovi tumulti nelle città. Più rigido atteggiamento impresse al governo il duca di Borgogna, assunta che ebbe la reggenza per Carlo VI. Un esercito regio intervenne in Fiandra per reprimere l'agitazione borghese, favorevole sempre agl'Inglesi, e sconfisse a Roosebeke le genti armate di Gand; poi si repressero con numerose esecuzioni i movimenti dei Maillotins di Parigi e di altre città. Il sistema tributario di Carlo V fu ripreso in tutta la sua asprezza: le popolazioni continuarono a soffrire: le agitazioni rurali riprendevano nelle regioni meno sorvegliate. Carlo VI appena assunse personalmente il governo dello stato si propose una revisione di tutte le attività statali, ma presto la pazzia lo allontanò dagli affari e i miglioramenti sperati svanirono. Il governo della Francia ritornò ai principi della famiglia reale, che da questo momento cercarono di sfruttare le povere energie del paese per svolgere i loro piani di ambizioni personali a danno dello stato e della Francia. Il duca di Borgogna, diventato, per il matrimonio con Margherita di Mäele, anche conte di Fiandra, attendeva alla creazione di uno stato fiammingo-renano, in cui l'elemento francese doveva lasciare la prevalenza all'elemento tedesco. La Francia dopo aver creduto che la ricostituzione del ducato di Borgogna fosse una necessità per accarezzare le autonomie locali, vedeva ora risorta la potenza dei conti di Fiandra e maggiore che non nel sec. XIII. Il ducato di Borgogna-Fiandra doveva fare gran conto delle borghesie cittadine fiamminghe, pur sempre legate al commercio inglese e perciò era presumibile in caso di nuove guerre la formazione del blocco antifrancese. Anche il duca d'Orléans diventato, per il matrimonio con Valentina Visconti, signore di Asti, aveva vasti progetti di espansione in Italia; altri progetti aveva pure nella valle del Reno. Il governo del re passò alternativamente dalle mani dell'uno alle mani dell'altro partito.
L'assassinio del duca d'Orléans nel 1407 determinò lo scoppio della guerra civile fra gli Armagnacchi o Orleanisti e i Borgognoni. Gran parte della Francia fu afferrata dalla lotta terribile che arse fra i due partiti: le classi feudali e le borghesie si divisero secondo le simpatie e gl'interessi. L'organizzazione governativa va a rifascio; dovunque disordine e corruzione; i principi sono ricchi, lo stato è incapace di provvedere. Parigi è il centro delle agitazioni: il governo è della fazione che riesce ad avere la capitale e la corte.
Gli Stati Generali, che si riuniscono nel 1413 a Parigi, si fanno eco del malcontento generale: si critica l'operato del governo, si formulano programmi. L'elemento intellettuale rappresentato dalla università di Parigi pare mettersi alla testa del movimento. Il lavoro serio e proficuo è interrotto dalle violenze popolari: si deve proclamare una riforma per calmare gli animi (Ordonnance Cabochienne), ma si getta il governo in balia della piazza. Il duca di Borgogna si disinteressa; l'università e l'alta borghesia hanno paura di un movimento che non si sa dove approderà. Facile quindi agli orleanisti reagire, ristabilire l'ordine e abolire le riforme.
Problemi di economia e contrasti di partiti favoriscono l'invasione inglese nel 1415. Le sconfitte dell'esercito regio permettono l'occupazione sistematica di tutto il nord-ovest della Francia. Il predominio degli Armagnacchi sul governo del re, sempre pazzo, e l'assassinio del duca di Borgogna sono buoni pretesti per il nuovo duca di Borgogna, Filippo II, per stringere con l'Inghilterra quella alleanza che era nelle tradizioni fiamminghe. Si vorrebbe disfare la Francia unitaria e perciò il duca di Borgogna riconosce come legittimo successore di Carlo VI il re d'Inghilterra Enrico V (trattato di Troyes). Così la Francia scompare: tutto il paese dei Capetingi è possesso inglese; la dinastia rappresentata, morto Carlo VI nel 1422, dal giovane Carlo VII, si rifugia a sud della Loira. Difficile agl'Inglesi scendere a sud del fiume; ma assurda pure per Carlo VII la riconquista del nord. Per alcuni anni la situazione si conserva stazionaria e intanto svanisce ogni influsso della Francia in Europa: i principi spagnoli, italiani e tedeschi sviluppano liberamente le loro attività. I popoli francesi sentono dovunque le invasioni straniere, soffrono i saccheggi delle soldatesche. Le città sono spopolate; Parigi stessa offre dovunque la vista di case abbandonate e in rovina.
Impoverite le aristocrazie feudali, falcidiate le borghesie cittadine, dilaniata la chiesa dalla contemporanea crisi dello scisma papale, una sola istituzione sopravvive del passato: la monarchia.
Giovanna d'Arco, che nel 1429 guida alcune milizie in soccorso di Orléans e riesce subito dopo a condurre il re a Reims per l'incoronazione, rappresenta in quel momento l'anima popolare francese, che, temprata nella sventura, afferma l'unità nazionale creata dagli sforzi della dinastia capetingia nei tre secoli precedenti. La ripresa delle armi riesce, nei vent'anni dal 1431 al 1451, a liberare tutto il suolo francese dagl'invasori. Ma a costo di grandi sacrifizî.
Alla pace di Arras la monarchia ha riconosciuto l'esistenza indipendente dello stato borgognone-fiammingo, che impedisce alla Francia ogni movimento espansionista sul Reno; gli Asburgo sono liberi di mettere i piloni della futura potenza; gli Aragonesi s'installano in Sicilia e a Napoli, e preparano l'unione con la Castiglia; in Italia il ducato di Savoia felicemente si organizza e si amplia, a danno di Milano alleata francese, sotto la supremazia imperiale; anche Genova, per un momento occupata dalla Francia, ricupera la libertà; la Chiesa mette fine allo scisma nel concilio di Costanza convocato dall'imperatore e la sede del papato ritorna definitivamente a Roma. Tutto era da rifare: rifare la ricchezza del paese, disciplinare classi e popolazioni imbarbarite, ricostruire le istituzioni monarchiche, riprendere le aspirazioni egemoniche in Europa. La monarchia si accinse a quest'opera grandiosa di restaurazione con l'appoggio di una forza nuova formatasi nei cento anni di guerre interne ed esterne: il sentimento nazionale. Nazione e monarchia procedono dopo la comparsa di Giovanna d'Arco in modo da collegarsi e da confondersi: la monarchia assoluta nasce dalla grande crisi del sec. XIV e XV e trae il suo valore ideale come la forza materiale dall'essere simbolo dell'unità nazionale.
La vittoria sugl'Inglesi spinge i re a combattere all'interno il vecchio nemico che la guerra ha risvegliato e reso violento: la feudalità, che, impoverita dalla guerra, sente desiderio di conservare quello stato anarchico che la guerra ha creato e lasciato. Si sbarazza anzitutto il regno con misure violente dalle compagnie di ventura disoccupate e abituate a vivere sul paese (Ecorcheurs). Verso il 1440 alcuni principi del sangue, i duchi d'Angiò, di Borbone, d'Alençon, di Bretagna, desiderosi di affermare la loro indipendenza dalla corona, organizzarono un complotto d'accordo con lo stesso erede del trono, il delfino Luigi (Praguerie). Il re si accontentò di minacce e d'una comparsa in armi nel Poitou e nell'Auvergne; nuovi tentativi di ribellione portarono ad aspre punizioni. Il delfino fu esiliato nel suo stato del Delfinato; il conte d'Armagnac, il conte di Alençon furono colpiti gravemente e i loro territorî vennero confiscati e annessi al dominio regio; così anche la contea di Comminges fu annessa. Poche case principesche rimanevano a fare corona al trono: i duchi d'Orléans rappresentati da Carlo, il poeta, e dal fratello suo il bastardo Dunois; i duchi d'Angiò, che dei territorî del regno di Napoli erano riusciti a conquistare e a tenere stabilmente la sola Provenza; i duchi di Borbone, padroni anche del Forez e del Beaujolais; i duchi di Bretagna, legati alla Francia, ma costretti a fare gran conto delle tendenze dei sudditi. L'energia di Carlo VII pareva aver trionfato delle aspirazioni di questa grande feudalità principesca: ma nei primi anni del regno di Luigi XI le velleità feudali risorsero e approdarono a una Lega di principi desiderosi, dicevano, di fare il bene del popolo. Si chiamò perciò Lega del bene pubblico: vi parteciparono i duchi di Berry, di Lorena e di Borbone, i conti di Charolais (Carlo il Temerario) e di Saint-Pol, il duca d'Alençon, il conte di Nemours e altri. Ma il loro programma di schiacciare la corte e distruggere l'organizzazione monarchica fallì di fronte all'abilità diplomatica di Luigi XI, che acconsentì a trattare e a concedere ai varî collegati tutti i feudi che essi pretesero; al duca di Berry cedette la Normandia come feudo ereditario; al conte di Charolais, le contee di Boulogne e di Guines, al duca di Bretagna le contee di Montfort e d'Étampes; al duca di Lorena la custodia di Toul e Verdun. Sciolta la lega, il re si affrettò a ritogliere la Normandia al duca di Berry, dopo avere corrotto con denaro il duca di Bretagna; poi attaccò quest'ultimo e lo costrinse alla pace; confiscò definitivamente i feudi degli Armagnac e dei Nemours; confiscò alla morte del fratello il suo appannaggio di Guienna; riconquistò a danno della Bretagna le città della Somme, cedute dal padre alla pace di Arras, rioccupate nel 1463, poi di nuovo abbandonate a Carlo il Temerario alla pace di Péronne. Nel 1477, alla morte dell'ultimo duca di Borgogna, si affrettò a occupare la Borgogna francese, l'Artois e i castelli di Roge, Montdidier e Péronne. Frattanto sorvegliava le azioni del vecchio zio, Renato d'Angiò, pronto a occupare tutti i suoi stati; nel 1474 prese Angers e tutto l'Angiò; nel 1480, morto Renato e subito dopo l'unico suo erede Carlo di Maine, annetteva al dominio regio anche la Provenza e dominava il Mediterraneo per l'ampio tratto dai Pirenei alle Alpi. I duchi di Borbone non avevano oramai nessuna capacità di fare opposizione e neppure i duchi d'Orléans: le condanne a morte di Jacques de la Marche e del Conte di Saint-Pol erano state di triste ammonimento. Nel 1483 nella vecchia Francia carolingia la Bretagna era il solo stato indipendente, che doveva tardare pochi anni a unirsi al regno con il matrimonio dell'ereditiera, prima con Carlo VIII e poi con Luigi XII: i possessi degli Orléans si sarebbero uniti poi con l'assunzione al trono di Luigi XII e di Francesco I, mentre quelli dei duchi di Borbone furono confiscati nel terzo decennio del secolo XVI. L'unità territoriale non trovava più ostacoli dopo la caduta delle aspirazioni inglesi sui dominî continentali.
Il periodo 1430-1480 vede il definitivo assetto delle istituzioni monarchiche. Il re, che dal sec. XIV usa chiamarsi Cristianissimo (Très chrétien), fa dai legisti dichiarare assoluta e di origine divina la sua autorità; i suoi diritti sono precisati alla luce del diritto romano, in modo da eliminare ogni pretesa e opposizione feudale. Si sente il bisogno di fondere tutti i paesi in unità legislativa: Carlo VII ordinò la raccolta di tutte le consuetudini del regno; il successore suo pensò d'imporre un codice unico a tutto il regno, ma l'attuazione era ancora prematura. La Francia rimase ancora divisa nelle due zone tradizionali: la zona del diritto romano a sud, e la zona del diritto consuetudinario a nord.
Il governo si raccoglie nelle mani del re: meno con Carlo VII, di più con Luigi XI. Ma il Consiglio reale conserva sempre tutta la sua autorità: continua a essere formato dalle persone chiamatevi dal re; segue il monarca nelle sue peregrinazioni di pace o di guerra. Vi si delineano contrasti di persone e di gruppi, ma inutili sono i tentativi per impadronirsi del governo. L'elemento borghese vi è assiduo: fornisce uomini d'affari o giuristi. Il parlamento, uscito dallo specializzarsi di un gruppo di consiglieri regi nell'esaminare le questioni giudiziarie e organizzato da ultimo nel 1345 da un'ordinanza di Filippo VI, è diventato permanente; il re vi nomina le persone di sua fiducia, ché esso è il supremo consesso giudiziario del regno. Al parlamento ricorre il re per colpire feudatarî ed ecclesiastici che attentino alle prerogative regie; ed esso, se ha una competenza male definita su tutta l'amministrazione, vanta il diritto di registrare i decreti del re, magari facendo rimostranze circa atti che non gli paiono consoni con la tradizione giuridica della monarchia. Appunto sotto Luigi XI si affermò il diritto del parlamento di fare rimostranze al re. Giudiziariamente il parlamento sentenziava in prima istanza per le cause che interessavano il re e la feudalità, in seconda istanza per le cause già giudicate dai varî giudici dei baliaggi. Nel sec. XV varî parlamenti furono costituiti nelle provincie: a Tolosa, a Grenoble, a Bordeaux, a Digione, ma tutti furono subordinati a quello di Parigi. Altri consigli furono riorganizzati nel sec. XV: la Corte dei conti per il controllo finanziario; la Corte delle monete per la monetazione; la Corte degli aides per i tributi straordinarî che tanta importanza avevano acquistato. Gli Stati Generali vennero da Carlo VII convocati quasi ogni anno, perché davano alla monarchia la sensazione di essere a contatto con l'anima popolare. Ma verso la metà del secoli le riunioni degli Stati diminuiscono e poi cessano: la monarchia assoluta di Luigi XI al più utilizzò ristrette assemblee di notabili designati dal re stesso.
L'amministrazione provinciale stentò assai a organizzarsi con precisione. Sotto Luigi XI si ebbero 86 baliaggi (e senescallie) mentre all'ascensione dei Valois nel 1328 erano solo 36: persistettero le suddivisioni in castellanie, prevosture e viscontadi. Spesso durante la guerra dei Cento anni e nel periodo successivo si crearono governatori o luogotenenti generali incaricati di governare straordinariamente e con autorità assoluta certe regioni. Nel sec. XV il personale dell'organizzazione provinciale si accrebbe molto: tutti aspirarono a diventare funzionarî del re, gli uffici diventarono venali e si trasmisero ereditariamente. D'altra parte la monarchia ebbe in questa classe un meraviglioso strumento per sgretolare quanto di feudale si conservava nelle provincie.
L'assolutismo regio sentì bisogno di crearsi un esercito proprio e di disarmare le popolazioni. La guerra aveva armato tutti indistintamente: ora Carlo VII abolì e vietò le compagnie libere di mercenarî; si riserbò il diritto di autorizzare capitani a fare arruolamenti. Con l'ordinanza del 1445 si organizzarono corpi di truppe regolarmente assoldati; nel 1448 s'istituirono i franco-arcieri equipaggiati e spesati dalle comunità del regno. Le vecchie milizie feudali rappresentarono solo la riserva dell'esercito. Era, per quanto piccolo e rudimentale, il primo nucleo di un esercito regolare: la nobiltà ne fu malcontenta comprendendo che la monarchia si emancipava così dalla vecchia sudditanza verso il feudo. Contemporaneamente Carlo VII creava un sistema regolare di tributi. Nel 1435 con il consenso degli Stati Generali si ristabilivano gli aides che erano stati soppressi nel 1418; nel 1439 fu fissato in modo definitivo il provento della taglia, l'imposta regia per eccellenza, o imposta fondiaria.
Luigi XI perfezionò e aggravò il sistema; gli altri proventi furono ora di secondaria importanza. La chiesa di Francia fu anch'essa legata strettamente agl'interessi della monarchia mediante la prammatica sanzione di Bourges del 1438: ristretti i diritti della Santa Sede così nel campo finanziario come nel campo canonico, riaffermata la superiorità della corona sulla chiesa nazionale. Sulla questione molte discussioni ebbero Carlo VII e Luigi XI con la Santa Sede, preparazione all'accordo che avverrà poi nel 1516 sotto forma di concordato. Nella sua azione contro la feudalità e la chiesa, la monarchia utilizzò notevolmente l'appoggio delle borghesie comunali. Queste erano interessate a indebolire la feudalità politicamente, perché impoverita si rassegnasse ad abbandonare le terre oramai non più sufficienti per la sua vita: i beni feudali passavano nelle mani dei borghesi ricchi, dei funzionarî regi, con i quali la monarchia creava una nuova nobiltà più mansueta, più fedele della vecchia nobiltà feudale. A questa borghesia che si sviluppa sulle rovine del feudalesimo erano indifferenti oramai quelle che erano state le aspirazioni delle vecchie borghesie comunali del sec. XIII o anche del successivo. Le franchigie comunali, per conseguenza, nel periodo della guerra dei Cento anni, si avviarono verso la scomparsa quasi generale. Sotto i regni di Carlo VII e di Luigi XI l'organizzazione dell'amministrazione regia inquadrò rigidamente le attività municipali: si vietò d'imporre tributi senza il consenso del re, di tenere assemblee senza il controllo di un funzionario regio; si affermò il diritto di creare e sopprimere uffici comunali. Eliminato il diritto della libera elezione, alle magistrature municipali salirono solo gl'individui designati dal re in un piccolo numero di ricche famiglie che godevano della protezione e dei favori del re stesso.
La pacificazione imposta dai re a tutte le classi della popolazione permise una rapida ripresa delle attività economiche. Carlo VII molto fece perché i contadini riprendessero le loro colture, ricostruissero i villaggi, restituissero le terre abbandonate alla produzione. Così sotto Luigi XI le industrie tradizionali appaiono risvegliate, accanto ad altre industrie nuove favorite in modo speciale dal re, come l'industria della seta e lo sfruttamento delle miniere. Le fiere furono ripristinate con la speranza di ricostruire i vecchi organi della vita commerciale; nuovi criterî poi furono introdotti da Luigi XI con accordi commerciali fra stato e stato, con organizzazione di compagnie commerciali. Nel governo salirono a potenza grandissima dei puri commercianti come Jacques Coeur e Jean de Baune: il primo con la sua casa centrale di Montpellier e le succursali in varie città della Francia e degli altri paesi mediterranei cercò di rinnovare le vecchie relazioni commerciali con il Levante. Marsiglia pure riprendeva importanza nel commercio mediterraneo; dovunque poi con concessioni speciali si cercò di richiamare i mercanti stranieri: Lombardi e Toscani ricomparvero a Lione, a Parigi, nelle città del nord, come pure gli Anseatici, i Fiamminghi, i Castigliani e i Portoghesi. È vero però che la ricostruzione economica della Francia non poteva in così pochi decennî rifare la potenza e la floridità del sec. XIII.
Carlo VII e Luigi XI si sforzarono assai per riaffermare in Europa il vecchio prestigio della Francia; né si attese di avere del tutto respinto gl'Inglesi o domata la feudalità. Poiché l'Inghilterra ancora padrona di Calais, rappresentava sempre un nemico sicuro per l'avvenire e il ducato di Borgogna con le sue aspirazioni ad ampliamenti sul Reno minacciava gravemente il regno, si sentì il bisogno di rinnovare alleanze, riprendere la vecchia trama di amicizie e relazioni. Vivace fu l'attività di Carlo VII in Lorena e in Alsazia. Stabiliti buoni accordi con l'imperatore Federico III, il re inviò nel 1444 un esercito di avventurieri, che vinse le forze delle leghe svizzere a Basilea e poi firmò con esse un patto di amicizia; si affrettò a prendere la protezione del duca di Lorena contro le città che lo osteggiavano e così mise presidio in Verdun e Toul; strinse alleanza con gli arcivescovi di Treviri e di Colonia, con l'elettore palatino e il duca di Sassonia. In Italia l'influsso francese quasi scomparso, ricomparve ed energico: ristabilito il protettorato su Genova, frenate ruvidamente le ambizioni espansionistiche dei duchi di Savoia, costretti ad abbandonare il Valentinois occupato quando il re era a Bourges; riaffermata l'autorità sul papato, che dovette alla Francia la cessazione dello scisma di Basilea; a Milano gli Sforza si misero, come già i Visconti, sotto la protezione francese. Così tutta la penisola si accorse che la guerra dei Cento anni era cessata e che riprendeva la politica egemonica di Filippo VI. Più insistente, più fine fu la politica italiana di Luigi XI: in Savoia nelle lotte della famiglia ducale, a Milano fra Sforza e Orléans, a Napoli fra gli Aragonesi e gli Angioini, a Roma fra il papa Sisto IV e i Medici, la politica regia mirò ad affermare il prestigio della monarchia su tutti gli staterelli italiani.
Più aperta si mostrò l'ambizione di Luigi XI di sfruttare le lotte interne dell'Aragona per rimetter piede a sud dei Pirenei: nel 1462 incominciò a inviare aiuti al re Giovanni II in lotta con i Catalani; disinteressatosi dell'alleato, occupò per conto suo il Rossiglione e la Cerdagne e a lungo nutrì la speranza di annettere tutta la Catalogna. Tutta la politica estera della monarchia francese, dal trattato di Arras del 1435, fu dominata dal problema della Borgogna. Se Filippo il Buono, soddisfatto di avere inflitto al re l'umiliazione di doversi riconoscere colpevole dell'assassinio di Giovanni Senzapaura, si era accontentato di regnare con magnificenza, rispettato e onorato dalla Francia ancora impegnata nella lotta con gl'Inglesi, il figlio Carlo il Temerario sviluppò una politica di conquista diretta a impadronirsi di tutta la valle del Reno sì da isolare la monarchia di Francia dalla Germania; la sua attività diplomatica in tutta Europa cercò di scalzare e abbattere l'influsso francese costringendo Luigi XI a uno sforzo continuo per ribattere i colpi dell'avversario. Nel conflitto franco-borgognone, ebbero parte anche altre potenze come l'Impero germanico, le leghe svizzere, la Savoia; l'abilità della diplomazia francese si mostrò soprattutto nell'impedire la ricostituzione dell'alleanza della Borgogna con l'Inghilterra. Luigi XI vide scomparire il pericolo più grave con la morte di Carlo il Temerario nella battaglia con gli Svizzeri sotto le mura di Nancy (1477), ma non poté impedire che le Fiandre passassero in mano agli Asburgo, preannuncio di nuovi futuri conflitti. La morte di Luigi XI (1483) segna per la Francia la chiusura di un periodo storico che si può dire dedicato al rinnovamento nazionale. La monarchia, padrona di tutte le forze dello stato, la nazione orgogliosa di avere vinto la prova dell'invasione straniera e della guerra civile, rappresentavano ora una Francia nuova, pronta ad affermare con maggiore energia e coscienza le pretese alla supremazia europea.
Le guerre d'Italia e la lotta per l'egemonia in Europa. - Tuttavia una nuova crisi parve ora minacciare l'edificio di Luigi XI. Per quanto questi non avesse disposto per una reggenza, una reggenza di fatto fu assunta dalla figlia di lui, Anna, e dal marito Pietro di Beaujeu; ma contro i Beaujeu si levò subito il partito dei principi, capeggiato da Luigi duca di Orléans e dal duca di Borbone, e forte di molti consensi fra la nobiltà feudale. Cercarono, i principi, di approfittare degli Stati Generali, convocati a Tours il 5 gennaio 1484, per trarre a sé la maggioranza dei deputati, ma il piano fallì; e i desiderata espressi dagli Stati di Tours - di carattere più che altro finanziario e fiscale -, furono poi tenuti in poco o nessun conto dai Beaujeu. Questi ultimi, superato così il primo difficile momento della reggenza, ripresero invece il programma di Luigi XI. A Luigi d'Orléans, battuto sul terreno legalitario degli Stati, non rimase se non ricorrere alla violenza: cercò di far rapire il giovane Carlo VIII; poi, fallito il tentativo si dichiarò apertamente contro la reggenza (manifesto di Nantes). Cominciò così la guerre folle, finita rapidamente con una completa vittoria delle truppe regie (Saint-Aubin-du-Cormier, 1488). Il particolarismo feudale era nuovamente sconfitto. E, per coronare l'opera sua, Anna di Beaujeu riusciva poco dopo a far sposare (6 dicembre 1491) a Carlo VIII Anna di Bretagna, impedendo ch'ella andasse sposa a Massimiliano d'Austria: la Bretagna, ultimo dei grandi feudi indipendenti, veniva così riunita, sia pure solo mediante un'unione personale per il momento, alla corona di Francia. Allora, Carlo VIII assumeva direttamente il governo d'uno stato ben atto a sostenere il peso di una politica estera di grande portata.
Quali dovessero essere gli obiettivi di questa politica, era il punto incerto. Luigi XI era riuscito, soprattutto, a disfare la potenza borgognona. Con Carlo VIII invece la Francia si sarebbe volta esclusivamente verso l'Italia ove avrebbe battagliato fino alla pace di Cateau-Cambrésis. E sarebbe stato questo, a detta di molti, un grosso errore: dalla politica italiana la Francia non avrebbe raccolto che fumo, invece che proseguire, saggiamente, la sua espansione verso est e nord-est. Non è vero, si afferma, che la Francia dovesse necessariamente volgersi verso l'Italia, quasi condottavi dai precedenti storici: gli Angioini a Napoli, gli Orléans eredi dei diritti viscontei nel Milanese, Luigi XI a Genova. L'inizio della politica italiana sarebbe dunque dovuto solo all'inesperienza e all'ambizione di Carlo VIII. Questa tesi è indubbiamente eccessiva e determinata, più che altro, dal fatto che in seguito la politica francese ebbe il suo massimo centro di svolgimento nei paesi dell'est e del nord-est; e trascura i vantaggi che alla Francia derivarono dalla sua politica italiana, se non altro quell'accrescimento d′influenza nella penisola, che permise poi ai re di Francia, durante il conflitto con Carlo V, di raggruppare attorno a sé i governi italiani malcontenti del predominio dell'asburghese. Ma è certo, in ogni modo, che le imprese in Italia vennero preparate e condotte con grande leggerezza e con senso politico scarso o nullo. Dal 1490 al 1515, specialmente, la politica estera francese fu una serie di errori quasi continua.
L'iniziatore della politica italiana fu Carlo VIII. Dalla casa d'Angiò, egli aveva ereditato non solo la Provenza, ma le pretese sul regno di Napoli e persino su Cipro e su Gerusalemme; e progettò un'ultima crociata contro i Turchi che avrebbe fatto vedere in lui il discendente di San Luigi. Ma prima occorreva fermarsi ben sicuramente a Napoli; e a Napoli egli volse le mire.
La situazione italiana era tale da favorirne i disegni. L'urto tra Ferrante d'Aragona e Ludovico il Moro, aggravatosi subito dopo la morte di Lorenzo de' Medici; l'elezione di Alessandro VI, strettamente legato con la parte sforzesca, e il conflitto apertosi fra il papa e il re di Napoli nei riguardi di Virginio Orsini; l'acuirsi generale dei contrasti nella penisola offrivano facile esca alle mire di Carlo VIII. Nella corte di Francia erano molti i fuorusciti napoletani che eccitavano i Francesi a muovere contro l'Aragonese; dalla stessa Italia cominciavano a giungere voci allettatrici. Ma se Ludovico il Moro, Ercole d'Este, Alessandro VI pensarono di potersi servire dello spauracchio francese per intimorire il re di Napoli, essi non pensavano che il re di Francia sarebbe effettivamente sceso, e qui fu il loro errore massimo. Non fu tuttavia senza contrasto che Carlo VIII si decise al gran passo. A corte i pareri erano contrastanti: avversi alla spedizione i vecchi consiglieri di Luigi XI, fra tutti il Commynes, e i Beaujeu; favorevoli invece i nuovi favoriti del re, Étienne de Vesc, Briçonnet. E soprattutto, occorreva prima assicurarsi contro l'ostilità di Massimiliano d'Austria, nemicissimo della Francia, del re d'Inghilterra, che proprio nel '92 era sbarcato sul suolo francese per assediare Boulogne, e di Ferdinando il Cattolico, re d'Aragona. Ma il sogno italiano fece smarrire al re di Francia il senso della realtà, inducendolo a sacrificare per un ipotetico vantaggio gli acquisti di Luigi XI: il Rossiglione e la Cerdagne furono ceduti al Cattolico (trattato di Barcellona, 19 gennaio 1493); Massimiliano riebbe l'Artois, la Franca Contea e il Charolais (trattato di Senlis, 23 maggio 1493); Enrico VII d'Inghilterra s'accontentò d'una buona somma.
Carlo VIII scese in Italia alla fine del settembre 1494. Il 15 ottobre è a Pavia, poi scende in Toscana, entra a Firenze. Il 31 dicembre Carlo VIII entra a Roma. Alessandro VI, che negli ultimi tempi era diventato ostile al re, deve venire a un accordo con lui. Da Roma a Napoli, altrettanto facile l'avanzata: Alfonso, nuovo re, abdica; il suo successore Ferrandino si rifugia a Ischia; i Francesi sono padroni della capitale del regno. Fin qui tutto era andato nel migliore de' modi. Ma rapidamente la situazione muta. Preoccupati di essersi tirati in casa un padrone, gli stati italiani muovono alla controffensiva; e sotto sotto dirige il grande intrigo Ferdinando il Cattolico. Il 31 marzo 1495, Venezia, Ludovico il Moro, Alessandro VI, Ferdinando il Cattolico e Massimiliano concludono una lega chiaramente rivolta contro la Francia. Il capovolgimento della situazione è tale, che a Carlo VIII non rimane se non ritirarsi in tutta fretta, per non esser chiuso in trappola. La battaglia di Fornovo sul Taro (6 luglio), gli permette di sfuggire alla stretta dei nemici; il trattato di Vercelli (ottobre 1495) con il Moro, gli dà l'illusione che il duca di Milano ritorni a lui: ma quella del Moro era una finta, ma i presidî francesi rimasti nel Napoletano capitolavano l'un dopo l'altro, ma l'Inghilterra aderiva alla lega anti-francese. Era il fallimento.
Ciò non impediva al successore di Carlo, Luigi XII, di riprenderne i progetti. L'obiettivo principale diventava però, in luogo di Napoli, Milano, su cui il nuovo re, discendente di Valentina Visconti, vantava diritti. Un abile armeggio diplomatico permetteva a Luigi XII di assicurarsi alleanze fra i principi italiani, soprattutto l'alleanza con Venezia: e fu militarmente facile la spedizione che, guidata dal Trivulzio, nel luglio-settembre 1499 spodestò Ludovico il Moro del suo ducato, come non fu difficile riacquistare il Milanese, dopo l'effimero ritorno dello Sforza, nell'inverno 1499-1500.
Ma a questo punto cominciarono gli errori. Ripreso, anche lui, dalla chimera del regno di Napoli, Luigi XII non esitò ad allearsi proprio con il più abile dei nemici che la Francia avesse: con Ferdinando il Cattolico (trattato di Granata, novembre 1800). E non appena Francesi e Spagnoli ebbero occupato il reame, la discordia scoppiò fra i due alleati, e i Francesi dovettero abbandonare il Napoletano (gennaio 1504). Luigi XII aveva insediato nel Mezzogiorno della penisola il suo potente rivale.
Altri errori seguivano: il distacco da Venezia, il distacco dagli Svizzeri, che costituivano militarmente una potentissima arma in mano del re di Francia, e ch'egli comincia ad alienarsi sin dal 1500. Invece di tener fermi questi due capisaldi, il governo francese comincia ad abbozzare intrighi in altre direzioni: cerca l'accordo con Filippo il Bello, arciduca d'Austria, e con Massimiliano imperatore, a costo di sacrifici gravi per la Francia (trattati di Blois, settembre 1504); poi, rompe gl'impegni assunti a Blois, ritorna ai vecchi contrasti con gli Asburgo, e cerca invece l'accordo con Ferdinando il Cattolico (convegno di Savona, giugno 1507). Finalmente, giunge agli accordi di Cambrai (dicembre 1508) con Massimiliano imperatore, contro Venezia. Quanto fosse errata la politica francese, trascinata in questa occasione a rimorchio dalla diplomazia asburgica, si vide subito dopo che la vittoria di Agnadello (maggio 1509) ebbe dato a Luigi XII, per un momento, la sensazione di essere l'arbitro della situazione. Giulio II, che aveva aderito alla lega di Cambrai, si rappacificò con Venezia, progettando invece la cacciata dei Francesi dall'Italia; Ferdinando il Cattolico colse l'occasione di dare addosso al suo ex amico; Enrico VIII d'Inghilterra aderì anch'egli alla lega antifrancese. Gli Svizzeri, disgustati dal contegno del re verso di loro, posero le loro armi a servizio del papa.
Dalla lega di Cambrai si trascorre alla Lega santa (ottobre 1511). Mai, dalla fine della guerra dei Cento anni in poi, la Francia si era trovata tanto in pericolo, come si trovò nel periodo giugno 1513-primavera 1514; le truppe del re battute a Novara, a Digione, a Guinegate; gli Svizzeri nella Franca Contea, gl'Inglesi sotto Thétouanne, mentre Ferdinando il Cattolico si impossessava della Navarra spagnola. Fu ventura che tra gli alleati contro la Francia sorgessero contrasti così profondi da impedire un'azione comune. Sdegnato contro il Cattolico, Enrico VIII fece pace e alleanza con Luigi XII (agosto 1514); gli Svizzeri furono placati con denaro; il nuovo papa, Leone X, non aveva contro la Francia le stesse ragioni di animosità personale che aveva avuto Giulio II. Così la situazione tornava nuovamente a mutare, a favore della Francia. Ma a trar le somme, alla morte di Luigi XII, la politica francese si chiudeva in netto svantaggio: perduti i passeggeri acquisti territoriali in Italia; perduti Rossiglione, Navarra, Artois, Charolais. Nonostante questo, Francesco I riprendeva l'offensiva nella penisola, riconquistando d'un subito il Milanese, grazie alla battaglia di Marignano (13-14 settembre); e, grazie al successo, riusciva a conciliarsi Leone X, strappandogli il concordato di Bologna (18 agosto 1516), che poneva la chiesa di Francia alla dipendenza del re (v. sotto). E con gli Svizzeri concludeva la pace perpetua (29 novembre 1515), che poneva a disposizione della Francia i mercenarî elvetici.
Ma la politica italiana stava ormai per diventar una parte soltanto di un più vasto intreccio di eventi e di lotte. La morte di Ferdinando il Cattolico e l'avvento al trono di Spagna di Carlo I, già padrone dell'eredità borgognona, aggravavano infatti la situazione internazionale della Francia. Nella persona di Carlo sarebbero infatti, presto o tardi, confluiti due orientamenti politici, entrambi contrarî alla Francia: quello borgognone e quello spagnolo, l'eredità di Carlo il Temerario e quella di Ferdinando il Cattolico. A nord e ad est della Francia tre frontiere ugualmente minacciate. E in effetti, nonostante che nel trattato di Noyon (13 agosto 1516) Carlo e Francesco si fossero momentaneamente accordati, fidanzandosi il primo con la figlia - Luisa - del secondo, l'urto non tardò a scoppiare, quando la morte di Massimiliano pose la questione della successione all'impero. Francesco I cercò con ogni mezzo d'impedire l'elezione dell'asburghese; ma il 28 giugno 1519 Carlo veniva eletto successore di Massimiliano. Ciò significava l'accerchiamento completo della Francia, e la guerra. Nel 1520 ebbe inizio la lotta, destinata a durare fino al 1559. Due furono essenzialmente i teatri delle operazioni: la Fiandra e l'Artois al nord; al sud, e fu il centro più importante delle operazioni, almeno nel primo periodo, l'Italia. Il dominio di Milano in mano a Carlo V avrebbe riunito i possessi del nord con la Spagna, chiudendo il cerchio attorno alla Francia. Così fu che dal 1521 al 1525 la lotta si svolse soprattutto nella valle padana, fino a che la battaglia di Pavia (24 febbraio 1525), in cui lo stesso Francesco I venne fatto prigioniero, vi pose fine, per il momento. Il re di Francia, condotto a Madrid, doveva sottoscrivere il trattato di pace del 13 gennaio 1526, per il quale rinunziava al ducato di Milano, ad Asti e a Genova, prometteva a Carlo V la Borgogna, rinunziava alla sovranità sulla Fiandra e l'Artois, cedeva Tournai. Ma il re, appena libero, rifiutò di rispettare i patti, firmati, secondo lui, sotto costrizione.
E ricominciò la lotta. Ma questa volta era notevole un sensibilissimo mutamento nella politica francese in Italia. Anziché condurre la lotta da sola, con chiari scopi di predominio, la monarchia francese, approfittando del timore che la potenza di Carlo V infondeva nei principi italiani, si fece paladina della libertà degli stati della penisola contro l'imperatore. Non fu difficile alla reggente Luisa di Savoia prima, a Francesco I poi, riuscir nell'intento: il 22 maggio 1526, la lega di Cognac sanzionava l'unione dei principi italiani, capeggiati da papa Clemente VII, contro Carlo V. E, dall'altro lato, Enrico VIII d'Inghilterra, staccatosi anche lui da Carlo V, si riavvicinava al re di Francia. L'appello all'"equilibrio", le proteste contro i disegni imperiali di una "monarchia universale", servivano dunque bene la politica del re di Francia. Il quale, nello stesso tempo, iniziava trattative ancor più lontano, con gli stessi Turchi: anche qui lo scopo era d'indebolire l'imperatore, tenendo l'Austria sotto l'incubo dell'invasione turca. Infine per cattivarsi l'opinione pubblica, una guerra contro Carlo V a base di libelli, preparati specialmente dai Du Bellay. Non tutte le speranze si realizzarono: la lega dei principi italiani si rivelò poco atta a fronteggiare l'esercito imperiale; Roma fu presa, saccheggiata, e Clemente VII ridotto a chieder pace a Carlo V; le stesse spedizioni francesi contro Milano e Napoli finirono con insuccessi. Ma la complicazione della situazione interna in Germania, per le contese religiose; la gravità del pericolo turco a est; le difficoltà finanziarie in cui già l'imperatore si trovava, tutto questo era a favore della Francia. E la nuova pace di Cambrai (agosto 1529) se sanzionava in genere il trattato di Madrid, conteneva in realtà la rinunzia di Margherita d'Austria e di Carlo V alla Borgogna, definitivamente unita alla corona di Francia.
Cominciò allora il periodo della cosiddetta politica d'equilibrio, periodo di attività diplomatica fervidissima da parte dei Francesi, sempre pronti a far balenare all'Europa lo spettro di un impero universale di Carlo V; infaticabili nel cercar di tessere intrighi con i principi tedeschi luterani, allo scopo di crear quanti più impacci fosse possibile all'imperatore; attenti anche a mantenersi in stretto contatto con gli stati italiani. Nel '32 veniva negoziato il matrimonio di Caterina de'Medici, nipote di papa Clemente VII, con il secondogenito di Francesco I, Enrico. Intrighi anche con Enrico VIII, irreparabilmente diviso ormai da Carlo V dalla questione del suo divorzio con Caterina d'Aragona, zia dell'imperatore; intrighi con i Turchi.
La morte del duca di Milano, Francesco II Sforza, riapriva la lotta in Italia. Con un colpo di mano, il re di Francia faceva occupare dalle sue truppe la Bresse, la Savoia e il Piemonte sabaudo (marzo 1536), occupando così le porte d'Italia. La spedizione di Carlo V in Provenza (luglio 1536) falliva; Kheir ed-dīn Barbarossa rioccupava Biserta e minacciava l'Italia spagnola. A Aiguesmortes, nel luglio 1538, i due rivali concludevano una tregua decennale sulla base dell'uti possidetis. Ma era una tregua soltanto. E Francesco I, il 12 luglio 1542, riapriva le ostilità contro Carlo V concentrando i suoi sforzi anzitutto verso i Pirenei; poi, fallita questa manovra, nuovamente nel Piemonte. Intanto Kheir ed-dīn Barbarossa, alleato del re di Francia, bombardava Nizza, rimasta al duca di Savoia, e spargeva il terrore sulle coste italiane. A Ceresole (13-14 aprile 1544), piena vittoria francese sugl'imperiali. Ma nel nord Carlo V ed Enrico VIlI d'Inghilterra, ora di nuovo alleati, entravano nella Piccardia e fin nello Champagne, minacciando Parigi. E si venne così a una nuova pace, quella di Crespy (15-16 settembre 1544), per la quale si stipulavano le nozze del duca d'Orléans con la figlia dell'imperatore (che avrebbe portato in dote il Milanese), oppure, a scelta di Carlo, con una figlia di Ferdinando d'Asburgo, che avrebbe avuto i Paesi Bassi e la Franca Contea. Si confermava la rinunzia della Francia alla Fiandra e all'Artois, oltreché l'abbandono del ducato di Savoia, e la rinunzia della Spagna alla Borgogna. La guerra continuò con gl'Inglesi fino al giugno 1546: il trattato di Ardres rendeva Boulogne alla Francia, ma solo dopo l'effettuato pagamento di 800.000 scudi, da eseguirsi in otto anni. La morte del duca d'Orléans, prima che Carlo decidesse sul matrimonio, infirmò tuttavia il trattato di Crespy e riaprì la questione del Milanese; e solo la morte di Francesco, 31 marzo 1547, evitò per il momento una nuova guerra.
A trar le somme, dunque, la politica estera di Francesco I si era svolta, in prevalenza, in Italia; ma, questa volta, la politica "italiana" era stata in funzione di un più vasto contrasto d'interessi tra il Valois e Carlo V. In questo senso era stata proficua di risultati, non soltanto e non tanto per l'acquisto, temporaneo, del Piemonte, quanto per i rapporti allacciati con gli stati italiani in vista di un comune obiettivo: l'abbattimento della potenza asburgica. Enrico II, salendo al trono, trovava già allacciati i rapporti con Venezia e specialmente con papa Paolo III - con i Farnese in genere -, che gli sarebbero poi stati utilissimi sin dai primi anni di regno.
Poiché anche la politica di Enrico II e dei suoi consiglieri fu, in parte notevole, politica italiana. È vero che sotto il nuovo re ebbe più vigoroso impulso l'offensiva verso il bacino renano, a est, e verso le Fiandre; vero che le conquiste durature furono non quelle fatte in Italia, ma Metz, Toul, Verdun, Calais. Ma sarebbe errato credere che, con l'avvento del nuovo re, l'orientamento politico italiano di Carlo VIII, di Luigi XII e di Francesco I cessasse. C'è anzi, in certi momenti, persino un intensificarsi dell'azione nella penisola: e a far sì che il governo di Enrico II si preoccupasse sempre delle questioni italiane, intervenne non tanto il fatto che la nuova regina, Caterina de'Medici, fosse italiana, perché l'influsso politico di lei fu allora nullo o quasi; nemmeno gl'incitamenti di fuorusciti italiani, di Firenze, Milano e Napoli (sopra tutti, celebri gli Strozzi), perché questi non erano mai mancati; quanto l'accentuarsi della reazione antispagnola in Italia, specialmente durante gli ultimi anni del pontificato di Paolo III e tutto il pontificato di Paolo IV, che era quasi un invito alla Francia per continuare a rimestare intrighi nella penisola.
La politica estera francese non subì dunque un capovolgimento. Si fece però assai più attiva verso il Reno, in ciò favorita dai principi tedeschi che, nuovamente ribelli a Carlo V, sempre più cercavano di accostarsi al re di Francia, specialmente da quando a Mühlberg, nel 1547, Carlo V ebbe trionfato sulla Lega smalcaldica: ed ecco nel 1550 iniziarsi una serie di trattative che sboccano nell'accordo di Chambord (15 gennaio 1552), concluso fra principi tedeschi che affidano a Enrico II, come vicario dell'impero, Metz, Toul, Verdun e "altre città dell'Impero, ove non si parla il tedesco" con la missione di proteggerle contro Carlo V. E allora, Enrico II progettò l'impresa di Germania. Il 3 febbraio 1552, a Fontainebleau, il re emanava un proclama, come vindex libertatis germanicae et principum captivorum; il 10 aprile i Francesi entravano a Metz, poi marciavano su Saverne, su Haguenau, giungevano al Reno. Ma i principi tedeschi cominciavano per conto loro le trattative con Carlo V; ed Enrico II, temendo di trovarsi da un momento all'altro in cattiva situazione, si ritirava, occupando tuttavia ancora Verdun. Metz veniva difesa dal duca di Guisa contro il ritorno offensivo degl'imperiali; e la campagna di Germania si chiudeva così con l'acquisto dei tre vescovadi.
Sennonché questo non fu l'inizio di una sistematica politica renana del re di Francia. Il centro massimo di attività della politica francese rimase invece ancora l'Italia. In Piemonte il Brissac, riprese le armi, guadagnava terreno sugl'imperiali, occupava Ivrea e altri luoghi; a Siena, Piero Strozzi, fuoruscito fiorentino, e il Monluc cercavano di salvare la città contro Cosimo de' Medici; in Corsica il maresciallo di Thermes capeggiava i Corsi che, ribelli a Genova, si erano dichiarati per il re di Francia, mentre Kheir ed-dīn Barbarossa, alleato di Enrico II, devastava l'isola d'Elba. In questo momento anzi la politica francese appare in alcuni particolari tratta a rimorchio da influenze e interessi italiani: com'è il caso dell'impresa di Siena, ispirata dallo Strozzi. Ma l'impresa falliva; e nei Paesi Bassi, dove Carlo V aveva concentrato le sue forze, il Montmorency s'era lasciato strappare, già nel 1553, Thérouanne e Hesdin. La tregua di Vaucelles (5 febbraio 1556) non fu che un'effimera sospensiva. Nuovamente attratto verso l'Italia dalle sollecitazioni di Paolo IV, dagl'incitamenti dello stesso duca di Guisa, che sognava d'impossessarsi di Napoli, Enrico II si lasciò trascinare a riprendere le armi: nel marzo 1557 il duca di Guisa era a Roma, a capo di un esercito francese. Riaperta per le questioni italiane, la guerra doveva essere decisa in Piccardia. Lasciando che il Guisa s'avventurasse verso Napoli, il nuovo re di Spagna, Filippo II, aveva concentrato le sue truppe nei Paesi Bassi: e di lì partì l'offensiva di Emanuele Filiberto che il 10 agosto 1557 a San Quintino schiacciava l'esercito francese del Montmorency.
Il Guisa, tornato subito in Francia, attenuava le conseguenze della disfatta, togliendo agl'Inglesi, alleati di Filippo II, Calais e Guines (gennaio 1558) e occupando Thionville (maggio). Ma ormai non si anelava più che alla pace. La situazione finanziaria era disastrosa; gli animi stanchi. E non meno agivano sull'animo del re le esortazioni della favorita Diana di Poitiers, e del suo fido consigliere, il Montmorency, fatto prigioniero a San Quintino. Si venne così alla pace di Cateau Cambrésis (3 aprile 1559). Per essa, Enrico II rinunciava a ogni pretesa sul Milanese, abbandonava la Corsica ai Genovesi, restituiva il Piemonte e la Savoia al duca Emanuele Filiberto, conservando tuttavia, come pegno, Torino, Chieri, Pinerolo, Chivasso e Villanova d'Asti; ma ricuperava invece le città sulla Somme, e Calais - quest'ultima solo per otto anni, dopo di che doveva seguire o la restituzione al re d'Inghilterra o il pagamento di 500.000 scudi. E soprattutto conservava - col titolo di protettore - Metz, Toul e Verdun. La pace di Cateau Cambrésis sanciva dunque il fallimento della politica italiana seguita dai re di Francia, da Carlo VIII a Enrico II. Persino il Piemonte, occupato per più di vent'anni, e validamente difeso contro gli Spagnoli dal Brissac, veniva abbandonato. I vantaggi, non piccoli, che la Francia ricavava dalla lunga ed estenuante lotta, erano alla frontiera dell'est e del nord: Metz, Toul, Verdun, Calais. Per l'Italia invece, i plenipotenziarî di Enrico II avevano preso atto, in sede diplomatica, dell'insuccesso della politica francese.
Se però in politica estera i re di Francia, da Carlo VIII a Enrico II, s'erano allontanati dalle direttive di Luigi XI, in politica interna invece essi avevano proseguito l'opera del loro predecessore: e cioè la centralizzazione monarchica, a spese della feudalità. Domata con le armi la ribellione dei principi durante la reggenza dei Beaujeu, la monarchia intacca le prerogative dei feudatarî, ne rovina la potenza politica: sia favorendo, nei giudizî, le rivendicazioni dei rurali contro i loro signori, sia imponendo i suoi magistrati che soppiantano le curie feudali. Favoriscono la politica regia, in questo periodo, le condizioni eeonomiche di molti dei piccoli feudatarî, condotti a mal partito dal rapido aumento dei prezzi, mentre restano inalterati i censi d'affitto, stipulati generalmente per lunghi periodi di tempo, a tutto vantaggio dei rurali. Assai più decisa si fa la tendenza all'assolutismo sotto Francesco I. Ricomincia allora, infatti, da parte dei giuristi della scuola di Tolosa, quell'esaltazione del potere monarchico che già era stata caratteristiea della Francia di Filippo il Bello; e il rifiorire degli studî di diritto romano conduce al riapparire della formula del princeps legibus solutus. Alla teoria corrisponde la pratica. L'azione che Francesco I conduce contro il connestabile di Borbone (v. borbone, carlo di), il più potente dei feudatarî francesi, è chiaro indice della volontà del re di essere solo padrone in terra di Francia. E, costretto il connestabile a uscire di Francia, la diffidenza del sovrano si volse contro tutti gli altri membri della famiglia di Borbone, che da quel momento passarono in secondo luogo e si videro anteposti nei grandi incarichi pubblici, o uomini di non antica nobiltà e pertanto ligi al monarca a cui dovevano la loro fortuna, come il Montmorency, oppure addirittura nobili di origine straniera, come i Guisa. E ciò fu poi non ultima causa del sorgere di huguenots d'estat (v. più avanti), e complicò la crisi religiosa, a partire dal 1559, con una crisi politica.
Ma oltre alla repressione violenta, oltre alla guerriglia di ogni giorno, la monarchia comincia ad avere altre armi per domare la feudalità. L'età di Francesco I è l'età in cui si comincia a formare la nuova corte francese, che non è più la corte medievale, a netto carattere feudale, ma la corte modellata sulle corti principesche dell'Italia del Rinascimento, con un solo centro - il sovrano - e fedeli servitori attorno. La corte di Parigi a poco a poco trae fuori dai loro castelli delle provincie i feudatarî, per trascinarli nell'orbita del re, per renderli dipendenti dalla sua volontà e dalla sua borsa. È, per ora, solo l'inizio di un lungo processo storico che avrà la sua conclusione nell'età di Luigi XIV: ma è già un mutamento sensibile nella vita della grande feudalità francese. D'altra parte, la creazione dell'esercito permanente, e l'accordo con gli Svizzeri, hanno dato al re le prime armi sicure, che lo esimono dalla tutela dei feudatarî. L'esercito dipende dal volere dei re; e, mediante le compagnies d'ordonnance, serve anche a distrarre dalla feudalità gli uomini migliori, facendoli passare al servizio regio. Ma un esercito siffatto richiede una larga disponibilità di denaro. Or anche in questo campo la monarchia ha provveduto: nonostante tutti i reclami degli Stati di Tours del 1484, la taille diviene imposta permanente, che accresce di gran lunga i proventi dell'erario. Altro grosso cespite di guadagno è ormai fornito dalla vendita delle cariche pubbliche, espediente di cui la monarchia si vale largamente nei momenti di bisogno. E poi ci sono i grandi banchieri stranieri, in particolare gl'Italiani di Lione, con i quali ormai i re stringono alleanza. La monarchia sa di poter contare su di essi, anche se debba concedere loro molto, ipotecar rendite ed entrate, concedere esenzioni e beni e onori.
Finalmente, l'assolutismo monarchico progredisce ancora in virtù del concordato del 1516 con la S. Sede, che fa del re in realtà il padrone delle enormi ricchezze del clero francese. Gli è infatti riservato il diritto di nomina a 10 arcivescovadi, 82 vescovadi, 527 abbazie, oltre a un numero grandissimo di priorati e di canonicati: ed egli se ne può servire sia per cattivarsi i membri della feudalità, sia per compensare quegli stranieri, figli di principi e di mercanti, che gli è necessario tenersi legati. Da ogni decima del clero, ritrae 200.000 ducati: e se il papa rifiuta il consenso per la decima, il re impingua ugualmente le sue casse convincendo il suo clero a offrirgli un dono "per la difesa del regno".
Un secolo appena dopo che con Carlo VII era parso alla mercé degli eventi, il re di Francia era dunque il vero capo del suo regno. E come s'era rafforzata la monarchia, così s'era rafforzata la nazione. Già s'è detto come il regno di Luigi XI rappresentasse una vigorosa ripresa dell'attività nazionale, in tutti i campi; e l'ascesa continuò ancora sotto i suoi successori, i quali si preoccuparono di favorire la risurrezione dell'economia nazionale con provvedimenti nei quali già erano in germe alcuni dei principî del mercantilismo. Luigi XI aveva creato le fabbriche di seta a Tours; Francesco I creava quelle di arazzi, ambedue cercando di por freno a quell'importazione dei generi di lusso ch'era deplorata come causa di sperpero, ma che attestava come si fosse raggiunto un alto grado di benessere economico. E l'industria della seta prosperava a Lione. Fu un periodo di benessere per la borghesia, padrona dei commerci e delle industrie, e per i rurali, cui il rapido aumento dei prezzi giovava.
Tuttavia a un certo punto il movimento ascensionale parve arrestarsi. A partire dal secondo-terzo decennio del sec. XVI si assiste infatti a questo fatto: i borghesi arricchiti, invece di continuare a dedicarsi al commercio e all'industria, preferiscono acquistare le cariche pubbliche, o investire il denaro nelle rentes di vario genere che lo stato o le città offrono, o limitarsi alla pura speculazione finanziaria. Particolarmente il primo fatto era grave, come quello che distraeva forze cospicue dall'attività produttrice, e accresceva con ritmo impressionante le file dei pubblici funzionarî, accrescendo nel complesso il bilancio passivo della nazione. Intanto, l'alta finanza passa quasi del tutto nelle mani degli stranieri; e pure il commerce de l'argent va a detrimento dell'attività produttrice.
A siffatti germi di crisi economica si accompagnavano altri chiari sintomi di malessere sociale, nella classe operaia. Contrariamente a quanto avveniva per i contadini, gli artigiani, specialmente quelli occupati in lavorazioni complesse (seta, tessuti, ecc.) e quindi sottoposti all'arbitrio dei padroni - ch'erano nello stesso tempo industriali, mercanti e finanzieri - dal rialzo generale dei prezzi ricevevano danni sensibili, non mutandosi i loro salarî. E già nel terzo decennio del secolo scoppiano a Lione disordini fra la classe operaia, contro la borghesia cittadina. Non v'è da stupire se in questo ambiente, inquieto e bisognoso di sollevarsi anche moralmente, la riforma trovasse larga diffusione.
La riforma in Francia e le guerre di religione. - Dapprima le nuove dottrine si diffusero soprattutto nel mondo dell'alta cultura. Prima che l'eco della parola di Lutero e di Zwingli giungesse in Francia, c'era già stato l'évangelisme francese: movimento che riconosceva per capo Lefèbvre d'Étaples, e che, senza assumere posizione in netta antitesi con quella di Roma, già predicava la necessità di una riforma della Chiesa. Riforma dei costumi, soprattutto, a cui dava alimento il malcontento contro l'alto clero, più preoccupato di guerre e di affari di stato che della cura delle anime. A questo riguardo, le conseguenze del Concordato erano state deleterie: diocesi intere rimanevano, per la non residenza del loro capo, in mano del basso clero, povero e ignorante. Ma ecco diffondersi gli scritti di Lutero; ed ecco Lefèbvre accentuare il suo insegnamento, aderire alla dottrina luterana sulla fede. La Sorbona lo condanna; ma tra il 1523 e il 1524, a Lione e a Parigi specialmente, si moltiplicano i seguaci delle nuove idee. Da Lione, i riformati agiscono nella valle del basso Rodano; da Parigi, in Piccardia e in Normandia; da Orléans, in cui i professori dell'università sono quasi tutti inclini alla riforma, nella Francia centrale. Ed ecco il movimento reclutare i suoi aderenti specie nei bassi ceti della popolazione, cardatori di lana (come Meaux), tessitori, artigiani. E finalmente, appare Calvino che dà al movimento francese un centro, una dottrina, una direttiva (v. calvinismo).
Di fronte a tale dilagare dell'eresia, la sorella di Francesco I, Margherita di Navarra, si mostrò decisamente favorevole ai riformati. Francesco I stesso, in un primo tempo, parve lasciar correre; ma a partire dal 1533 iniziò una politica di repressione che divenne sempre più aspra, sotto l'influsso del cardinal di Tournon, e che costrinse molti dei riformati (e fra gli altri Calvino) ad abbandonare la patria. Sulle orme di Francesco I mosse anche Enrico II. La creazione, nel 1547, della Camera Ardente (v.); la promulgazione degli editti di Chateaubriand (1551) e di Écouen (1558), che comminavano misure severissime contro i riformati, significavano la decisa volontà della monarchia d'impedire, con la forza, il diffondersi della Riforma. Senonché le misure riuscivano inefficaci; e invece il movimento religioso s'andava complicando con aspirazioni politiche ogni giorno più palesi. La conversione di molti dei nobili, caratteristica del calvinismo francese tra il 1555 e il 1560, se accresceva le forze dei riformati, faceva anche sì che con le rivendicazioni prettamente religiose s'accompagnassero rivendicazioni di ben altro carattere; e decisiva fu, a questo riguardo, l'adesione che al calvinismo diedero, circa il 1558-59, i principi del sangue, Antonio di Borbone e Luigi di Condé. Con questi due uomini, di dubbia sincerità religiosa, i riformati diventarono un partito politico, a cui stava a cuore non solo il riconoscimento ufficiale del culto evangelico, ma la caduta dei Guisa e il ristabilimento dei diritti di principi del sangue. Era, in fondo, una ripresa della lotta della feudalità contro la monarchia, che complicava il problema religioso.
Il contrasto politico fra i Guisa e i Borbone fu aggravato ancora dal fatto che, durante il brevissimo regno del giovane Francesco II, successo a Enrico II, la suprema autorità fu effettivamente esercitata da Francesco di Guisa e dal fratello di lui, cardinale di Lorena, i quali si divisero il potere. Il connestabile di Montmorency era caduto in disgrazia; Caterina de' Medici aveva adottato una prudente politica di riserbo e di attesa; i principi del sangue erano messi completamente da parte. E allora, si ebbero le prime schermaglie della guerra civile, con la congiura di Amboise (v.) e il conseguente arresto del Condé, che veniva condannato, come colpevole di tradimento, eresia e cospirazione, alla pena capitale. L'improvvisa morte del re (4 dicembre 1560), salvò la vita del principe; poiché Caterina de' Medici si accordò coi Borboni (dopo avere facilmente intimorito il debole Antonio) che soli, essendo di sangue reale, potevano aspirare al governo dello stato, e durante la minore età di Carlo IX iniziava quella sua politica che mirava a restaurare l'autorità reale attraverso la pacificazione dei partiti avversi.
Agli Stati Generali di Orléans (1561), il cancelliere Michele de l'Hospital esponeva un programma di tolleranza nel quale si cercava di separare nettamente la sedizione politica dal contrasto di opinioni e di fedi. Poi, chiusi gli Stati, veniva promulgata una grande Ordinanza, nella quale, accogliendosi alcuni dei voti presentati, si promettevano molte riforme: abolizione della venalità delle cariche, elezioni canoniche dei vescovi, limitazione della giurisdizione dei tribunali ecclesiastici, ecc. Nell'estate Caterina cercava ancora di ottenere la conciliazione fra cattolici e calvinisti, invitando a una discussione i più cospicui teologi delle due parti (colloqui di Poissy). Poi, veniva emanato l'editto di Saint-Germain (gennaio 1562), per arrestare le persecuzioni contro i protestanti.
Ma i Guisa reagirono: un patto di alleanza veniva stretto tra Francesco di Guisa, il connestabile di Montmorency e il maresciallo di Saint-André (il "triumvirato"), che si trascinarono dietro anche il fedifrago Antonio di Borbone; e nel marzo del 1562 il massacro, compiuto dal duca di Guisa, di un gruppo di calvinisti a Vassy, fece divampare la guerra civile.
I triumviri, più forti militarmente, costrinsero la reggente Caterina de' Medici ad aderire a loro. Ma alla superiorità delle forze nemiche il Condé rispose alleandosi con Elisabetta d'Inghilterra, a cui, in cambio del suo aiuto, venivano promesse Calais e Le Havre. Dal canto loro, i cattolici non esitavano, nemmen essi, a stringere accordi oltreché con il papa, con lo stesso Filippo II di Spagna. La guerra fu un'alternativa di successi per le due parti: perivano alcuni dei capi cattolici, Antonio di Borbone, Francesco di Guisa, il Saint-André. La pace di Amboise (marzo 1563) non fu d'altronde che una breve tregua. Nonostante che Caterina continuasse nella sua politica di conciliazione e di tolleranza, i calvinisti si ritennero minacciati allorquando la reggente si recò a Bayonne per trattare con gl'inviati di Filippo II (giugno 1565); e nel settembre del '67 la guerra si riaccendeva. Nuova pace a Longiumeau (marzo 1568); e nuovo riaprirsi delle ostilità nel '69. I capi scomparivano l'uno dopo l'altro: Montmorency era caduto nel novembre del '67; Condé cade a Jarnac. Al momento della pace di Saint-Germain (8 agosto 1570), rimaneva, a capo dei calvinisti, il solo Coligny. E fu col Coligny che il calvinismo cercò, nel breve periodo tra la pace di S. Germano e i massacri dell'agosto 1572, di allearsi la monarchia.
La situazione sembrava favorevole: generale la stanchezza per il lungo conflitto interno e propizia la situazione estera, con i Paesi Bassi in rivolta contro Filippo II. Fu appunto su un piano di politica estera che il Coligny impostò la sua azione. La Francia doveva intervenire a favore dei ribelli, nelle Fiandre; colpire così in un punto vitale la potenza spagnola, riacquistare il predominio europeo che le era sfuggito. Ma, quando già Carlo IX sembrava persuaso dal capo ugonotto, intervenne Caterina de' Medici per motivi politici (v. caterina de' medici); e invece di una spedizione francese nelle Fiandre, si ebbero in Francia i massacri dei calvinisti, della notte di S. Bartolomeo e giorni seguenti.
Fu così eliminata per sempre la possibilità che in Francia si avesse una monarchia calvinistica; ma fu riaperta la guerra civile. Anzi, il movimento calvinistico, che sino a quest'epoca aveva sempre cercato di non apparire antimonarchico, assume ora in molte parti un atteggiamento decisamente rivoluzionario. Nel Mezzodì specialmente rifioriscono le vecchie tradizioni autonomistiche delle città; la borghesia si organizza, assume la direzione della lotta, con nette tendenze all'autogoverno. E a far divampare maggiormente le passioni, intervengono i pastori calvinisti e gli scrittori: Francesco Hotman, Du Plessis-Mornay, per rammentare solo i più noti. E centinaia di libelli contro Caterina de' Medici, gl'Italiani, i Guisa, sommuovono l'opinione pubblica francese. Un alleato si offre, per di più, ai calvinisti: il partito dei politiques, reclutato fra uomini di diversa condizione e di diverso stampo, ma convinti della necessità di porre fine alle lotte fratricide e di permettere, quindi, ai riformati l'esercizio del loro culto, pur di salvare l'unità nazionale. I politiques riescono persino a trovare un capo nell'ambizioso duca di Alençon, il quartogenito di Caterina de' Medici. Nemmeno la paix de Monsieur (maggio 1576), che concludeva la nuova guerra facendo larghissime concessioni ai riformati, riusciva a riportar l'ordine nel paese. Nonostante l'atto di pace, la situazione si era ancora aggravata. Diffidenti gli ugonotti, che in alcune regioni del Mezzogiorno conservavano le loro tendenze autonomistiche; irritati i cattolici capeggiati da Enrico duca di Guisa. Lo stesso anno della pace di Monsieur, negli Stati Generali di Blois la maggioranza dei rappresentanti aveva respinto la tesi dei politiques e aveva proclamato l'unità religiosa, revocando gli editti di tolleranza. E la situazione si aggravava ancora, dopo il 1580, per la questione della successione al trono. Il nuovo re, Enrico III, era senza figli; senza figli era anche il duca di Alençon, suo fratello: di guisa che, quando quest'ultimo morì, nel 1584, l'erede al trono divenne, ufficialmente, Enrico di Navarra, il nuovo capo del partito calvinista. Fu questo un evento decisivo. I Guisa cercarono di correre ai ripari contro il nuovo pericolo, stringendo accordi con Filippo II e proponendo come eventuale successore il vecchio cardinale Antonio di Borbone, zio di Enrico di Navarra, un fantoccio nelle loro mani. Ma questo, e l'intervento di Sisto V che dichiarò il re di Navarra incapace di succedere, irritarono Enrico III. Mentre egli cercava di riunire intorno a sé un gruppo di difensori devoti, creando l'Ordine dello Spirito Santo, Parigi gli oppose un consiglio di 16 rappresentanti dei quartieri, sorta di governo rivoluzionario che costrinse il re alla fuga (Journé e des barricades, 12 maggio 1588). Da questo momento, la Lega ebbe in lui un nemico mortale. Le umiliazioni che essa gl'inflisse nei nuovi Stati Generali di Blois lo spinsero ad agire. Il 23 dicembre 1588 egli fece uccidere il duca di Guisa, e il giorno seguente il cardinale di Lorena, poi di fronte alla violenta rivolta che seguì al duplice assassinio, fece appello a tutta la nobiltà fedele. E la nobiltà rispose: ciò che dimostra come le prepotenze dei Guisa e gli eccessi rivoluzionarî dei Sedici avessero prodotto nel paese profondo malcontento. Il re si alleò anche con Enrico di Navarra e, l'anno dopo i due eserciti investirono Parigi. Le sorti dei Leghisti apparivano disperate, quando Enrico III fu assassinato da Jacques Clément (i agosto 1589). Prima di morire l'ultimo dei Valois riconobbe come successore Enrico di Navarra (Enrico IV) al quale raccomandò di convertirsi.
La riorganizzazione interna della Francia e la ripresa di una politica europea. - Gl'inizî del nuovo sovrano furono assai difficili: sebbene, nel primo momento di commozione per il regicidio, tutti i signori lo avessero acclamato re, molti in seguito lo abbandonarono. Il partito dei Guisa, intanto, proclamò re il vecchio cardinale di Borbone, zio di Enrico (Carlo X). Ma ben presto, una folla di nuovi partigiani accorse intorno alle bandiere del re legittimo: tutta gente che, disgustata dagli eccessi demagogici dei Sedici, dai tentativi di Mayenne, allora capo della Lega, per imporre l'aiuto spagnolo, dall'effettivo intervento straniero, a opera di Alessandro Farnese, generale di Filippo II, ebbe dai successi militari di Enrico IV la spinta decisiva a riconciliarsi con lui. Anche nel clero, geloso delle sue libertà gallicane, l'intervento del papa suscitava reazioni e incertezze. Enrico IV giunse due volte fino alle porte di Parigi e due volte fu costretto, non vinto, a ritirarsi. Finalmente, nel 1593, si riunirono a Parigi gli Stati Generali; mentre questi respingevano tutte le offerte di aiuto proposte dall'ambasciatore spagnolo, si negoziava con Enrico IV. Il 25 luglio, questi abiurava a Saint-Denis; il 27 febbraio dell'anno seguente veniva consacrato a Chartres. La conversione segnò la disgregazione della Lega. Il 22 marzo 1594 Enrico entrava a Parigi acclamato dalla borghesia e dal popolo, lieti di vedersi liberati dalla tirannia dei Sedici e dal pericolo di un'invasione straniera.
Il paese non era tuttavia pacificato: nonostante l'assoluzione di Clemente VIII, continuavano le lotte fra protestanti e cattolici e anche fra cattolici realisti e gallicani e cattolici ultramontani. Ma trasformata, con la dichiarazione di guerra alla Spagna (17 gennaio 1595), la guerra civile in guerra nazionale, si ebbe il mezzo più efficace per ricostituire l'unità spirituale della Francia. Una campagna fortunata, nella quale i Francesi ritolsero agli Spagnoli Calais e Amiens che essi avevano occupato, portò alla pace di Vervins (2 maggio 1598), con la quale si ristabilivano le clausole del trattato di Cateau-Cambrésis. Mentre riaffermava così la potenza della Francia all'esterno, Enrico IV provvedeva alla pacificazione interna con l'editto di Nantes (13 aprile 1598; v.), che concedeva agli ugonotti libertà di culto nei luoghi specificamente indicati, non dovunque. Nell'insieme, l'editto era assai meno liberale di quello seguito alla pace di Monsieur, ma ad esso fece seguito, il 30 aprile 1598, un articolo segreto che accordava ai riformati, per otto anni, le cosiddette piazze di sicurezza, cioè tutte le città e castelli di cui erano padroni alla fine dell'agosto 1597, con diritto di tenervi guarnigione propria. Ciò significava creare un piccolo stato nello stato, tanto più che Enrico IV tacitamente riconobbe le assemblee politiche dei riformati stessi, onde nacquero più tardi conflitti fra i riformati stessi e la monarchia nell'età dì Richelieu.
Pacificato così il paese Enrico IV poté riprendere l'opera di rafforzamento della monarchia, interrotta dalle guerre civili. Le opposizioni e i complotti dei Grandi furono repressi senza pietà; il numero dei consiglieri reali fu ridotto e al disopra di essi funzionò una specie di consiglio ristretto, al quale furono ammessi solo i collaboratori più fidati. Gli Stati Generali non furono mai convocati; il potere dei governatori fu ancora limitato, praticamente più che legalmente; se col parlamento di Parigi si usarono molti riguardi, agli altri parlamenti fu imposta, spesso bruscamente, la volontà reale; l'ingerenza governativa nelle elezioni e costituzioni municipali si fece più vasta e più invadente.
Ma assai più importante fu l'azione esplicata dal governo per risollevare l'economia nazionale che, alla fine delle guerre civili, era in condizioni disastrose: spopolato il paese, arrestato il progresso dell'agricoltura, ostacolati e resi malsicuri gli scambî interni da esazioni e saccheggi e anche arbitrarî pedaggi signorili che qua e là riapparivano, rovinata l'industria; le finanze oberate, il debito pubblico schiacciante, il bilancio in gravissimo disavanzo. In questo campo agiscono specialmente due dei collaboratori di Enrico IV: Sully, il più noto, e Laffémas. L'opera del Sully non si fondò tuttavia su idee e istituti nuovi, mirando solo a migliorare il funzionamento pratico dell'amministrazione e ad accrescerne così il rendimento: furono eliminate le dispersioni e gli abusi, aumentate le affittanze, rateato il rimborso dei debiti, riveduti i titoli delle rendite ed effettuata la conversione di queste (dall'8% al 61/4%). Grandi cure si dedicarono all'agricoltura, ristabilendo la sicurezza nelle campagne, diminuendo la taille, migliorando la viabilità, proclamando la libertà degli scambî tra le provincie, evitando qualsiasi restrizione protezionistica: l'esportazione del grano rimase libera e fu sospesa solo dal 1595 al 1601, per fronteggiare una grave carestia. Anche il commercio fu generalmente libero. Sebbene Sully volesse impedire gli acquisti all'estero e raffrenare il lusso, e Laffémas, controllore generale del commercio, fosse un protezionista deciso, Enrico IV mirò soltanto a favorire lo sviluppo dell'industria nazionale. Diversi trattati di commercio furono stipulati con nazioni estere: un trattato di reciprocità fu concluso con l'Inghilterra (nel 1606, rinnovato nel 1623) che peraltro quella nazione non osservò mai scrupolosamente. Con la Spagna, dopo il trattato di Vervins, si ebbe un periodo di lotta commerciale che finì col trattato del 1604. Nello stesso anno, si stipulò un trattato con la Turchia, dove il commercio francese, durante le guerre di religione, aveva perduto la sua supremazia, sebbene Carlo IX avesse nel 1569 rinnovate le capitolazioni. Anche l'attività coloniale fu ripresa, nonostante l'avversione di Sully. Insomma, tutto il tono della vita nazionale francese si rafforzò: l'economia in energica ripresa, il bilancio in pareggio, l'arsenale ben fornito, le forze militari riordinate e rinsaldate.
Riordinata così la Francia, Enrico IV poteva prepararsi a farle riprendere un posto di prim'ordine nella vita europea. E qui egli adottava un indirizzo politico nettamente diverso da quello italiano, accentrando invece gli sforzi verso il Reno e verso le Fiandre. In tal modo sarebbero stati colpiti in punti vitali l'Impero e la Spagna; e la potenza spagnola sarebbe stata repressa, a tutto beneficio della potenza francese. Fu così che, quando alla morte del duca di Jülich Clèves, nel 1609, l'imperatore pretese di sequestrarne i territorî a favore dell'impero, Enrico IV si schierò a favore dei principi protestanti che aspiravano a quella corona. Per spezzare il fronte unico asburghese, gli era tuttavia necessario agire anche in Italia, contro Milano che rappresentava il ponte di passaggio tra i dominî degli Asburgo di Spagna e i dominî degli Asburgo d'Austria. A tal fine si alleò con Carlo Emanuele I di Savoia, mediante il trattato di Brosolo (v.). Già tutto era predisposto per l'apertura delle ostilità, quando il re cadeva assassinato (14 maggio 1610).
Allora, invece di una grande politica di potenza, si ebbe un nuovo periodo di crisi interna per la Francia. Reggente per il figlio novenne era la moglie di Enrico IV, Maria de' Medici, che governava sotto l'influenza della sua dama Leonora Galigai e del marito di questa Concino Concini. Ma ben presto contro la reggenza si posero i grandi: cioè i principi del sangue e i bastardi, i principi stranieri (Nevers, Bouillon, ecc.), alcuni governatori come Montmorency, d'Epernon, ecc., successori dei grandi vassalli medievali e nei quali lo spirito feudale tenta l'ultima resistenza contro il potere regio. Alle manovre dei grandi, come anche al malcontento degli ugonotti, contro i quali dopo la morte di Enrico IV s'era risvegliata l'animosità dei cattolici, Maria oppose un sistema di larghezze nelle quali andarono dispersi tutti i frutti delle economie di Sully. Costretta poi ad abbandonare i preparativi di guerra, essa, per rafforzare il suo potere, instaurò una politica di più stretta unione con la Spagna. Nel 1612, fu pubblicato il contratto col quale si fissavano le nozze di Luigi XIII con Anna d'Austria e quelle del re di Spagna con la sorella di Enrico. Anche coi grandi si riconciliò (trattato di Sainte-Menehould, 1614). I grandi ottennero la convocazione degli Stati Generali, nei quali contavano di trovare una maggioranza favorevole. Ma la corte riuscì a influire siffattamente sulle elezioni che queste ebbero un risultato del tutto diverso da quello sperato dai principi. La riunione ebbe luogo a Parigi. I nobili proposero l'abolizione della paulette, tassa che garantiva l'ereditarietà degl'impieghi e aiutava così il consolidarsi del nuovo patriziato parlamentare e borghese sviluppatosi con la venalità delle cariche; di rimando, il terzo stato propose la soppressione delle pensioni. Seguì una lotta fra il terzo stato e il clero, a proposito delle autonomie gallicane, nella quale il parlamento di Parigi si schierò contro il clero. Chiusi gli Stati, il principe di Condé si fece campione delle rivendicazioni popolari e gallicane, suscitando un'altra rivolta sopita con nuove concessioni finanziarie (trattato di Loudun, 1616). Intanto si licenziavano i ministri di Enrico IV e Richelieu era nominato segretario per gli Affari esteri e la Guerra (novembre 1616). Il Condé, di nuovo in rivolta, fu arrestato; e la guerra contro gli altri signori fu condotta con grande energia. Con l'arresto del Condé, i Concini avevano dato la suprema prova della loro potenza. Ma il re, irritato dal loro predominio, si accordò col suo favorito Luynes e fece uccidere il Concini e giustiziarne la moglie. Maria de' Medici dovette abbandonare la corte, furono richiamati i vecchi ministri e anche Richelieu cadde in disgrazia.
Durante il predominio di Luynes, si dovette ancora combattere contro i grandi che si erano raggruppati intorno a Maria. La lotta finì col trattato di Angers (1620) col quale la regina otteneva la libertà di ravvicinarsi al re e la facoltà di mantenere nelle loro cariche e dignità quelli che l'avevano servita.
Assai più grave fu l'urto contro i protestanti, che avevano nuovamente assunto un atteggiamento di netta opposizione politica al potere centrale, e che a La Rochelle (maggio 1621) avevano proclamato una costituzione autonoma da applicare a tutta la Francia riformata, nonostante l'opposizione degli stessi signori ugonotti. Si venne così a un nuovo conflitto con gli ugonotti, che durò fino al 1622 e si concluse con la pace di Montpellier, che confermava l'editto di Nantes, ma obbligava i protestanti a demolire in parte le fortificazioni di alcune loro città.
Ma col Richelieu, ormai vero padrone del governo, la politica francese riprende le grandi direttive di Enrico IV. Mentre all'interno si consolida definitivamente il potere della corona e si perfeziona l'unità nazionale, all'estero si conquistano più sicure frontiere, si abbassa l'impero austriaco, si affretta la decadenza della Spagna. All'attuazione del programma interno erano ostacoli principali i grandi e i calvinisti. Gastone d'Orléans, intorno al quale più volte si annodarono le file delle congiure, costretto sempre a tradire i suoi compagni, perse ogni reputazione, e fu reso così inoffensivo. Con altrettanta energia furono troncate le velleità di Anna d'Austria che aveva cercato di unire i nemici del cardinale e i fautori della Spagna. La lotta contro gli ugonotti, dopo che questi furono battuti a La Rochelle e in Linguadoca, finì con la pace di Alais, seguita dall'editto di grazia (1629) che confermava l'editto di Nantes, ma, imponendo ai riformati di demolire entro tre mesi tutte le fortificazioni delle loro città, annullava la forza del "partito" riformato e faceva della questione dei calvinisti una pura questione religiosa (v. anche richelieu).
Assodato così il potere regio all'interno, il Richelieu poté dedicarsi alla politica estera, anche qui riprendendo il programma di Enrico IV, cioè la lotta a fondo contro gli Asburgo. I quali proprio allora, nella guerra dei Trent'anni, cercavano di fondere tutti gli stati germanici in uno stato unico ed ereditario e di conquistare, attraverso una vasta opera di restaurazione cattolica, l'egemonia in Europa. A questi piani la Francia si oppose per cinque anni con una guerra coperta, ostacolando con successo le mosse degli Austriaci in Italia nella guerra di successione di Mantova e Monferrato (v.), aiutando le imprese di Gustavo Adolfo, cercando di suscitare contro l'imperatore l'ostilità dei principi tedeschi. Dopo la morte di Gustavo Adolfo, essendo riuscito a Ferdinando II di riconciliarsi coi suoi nemici tedeschi e d'isolare la Svezia, Richelieu decise di scendere in campo; ma, per non scoprirsi interamente e riservarsi campo libero ai negoziati e agl'intrighi, fece dichiarare guerra alla Spagna (1635). Dopo un primo periodo d'incerte vicende militari, i Francesi presero il sopravvento. (Per le operazioni militari e trattative diplomatiche v. trenta anni, guerra dei). Ma nel 1642, quando già si erano firmati preliminari di pace con l'imperatore e la Francia, conquistata l'Alsazia, l'Artois, il Rossiglione, data una grave scossa alla potenza della casa d'Austria, Richelieu moriva. L'opera sua veniva proseguita dal suo successore, il cardinal Mazzarino, vero capo della Francia durante la reggenza di Anna d'Austria. La pace di Vestfalia (v.), che poneva fine, nell'ottobre 1648, alla guerra dei Trent'anni, non solo riconosceva infatti definitivamente alla Francia il possesso di Metz, Toul e Verdun, ma le attribuiva Brisac, il langraviato della bassa e dell'alta Alsazia, il Sundgau e la prefettura provinciale delle dieci città imperiali (v. alsazia): cioè in sostanza quasi tutta l'Alsazia, eccetto Strasburgo. Il testo diplomatico era oscuro, perfino contradditorio: e più tardi Luigi XIV doveva trarne partito per estendere il suo dominio. Ma insomma era un importantissimo acquisto. Meno importante, ma tuttavia ragguardevole, era poi l'acquisto di Pinerolo: soprattutto perché la Francia avrebbe potuto da allora controllare l'azione del duca di Savoia, minacciando con questo lo stesso dominio spagnolo del Milanese. Nella pace di Vestfalia figuravano, come contraenti, solo gli Asburgo d'Austria. La Spagna invece continuava la guerra contro la Francia, sia in Fiandra sia in Italia. Ma, ripetutamente vinta, la monarchia spagnola dovette infine accedere alla pace dei Pirenei (7 novembre 1659; v.), con la quale la Francia otteneva il Rossiglione e parte della Cerdagne, quasi tutto l'Artois, una serie di piazzeforti settentrionali e anche alcune città in Lorena. Si concludeva inoltre il matrimonio di Luigi XIV con Maria Teresa, infante di Spagna, la quale, mediante una dote di 300.000 scudi d'oro, rinunciava ai suoi diritti di successione al trono di Spagna. La pace dei Pirenei, seguita a breve distanza dall'acquisto del protettorato sulla Lega del Reno, concluse l'opera diplomatica del Mazzarino. Nel 1661 egli moriva, avendo riaffermato all'estero la potenza della Francia e finito di stabilire all'interno l'assolutismo monarchico.
Nell'età di Richelieu e del Mazzarino l'opera di accentramento monarchico era infatti fortemente progredita. Dai grandi e dai governatori, Richelieu pretese un'obbedienza passiva, e non solo represse tutte le velleità ribelli, ma abbatté la posizione tradizionale delle grandi case che abbassò anche moralmente. Ponendo i nobili di fronte al dilemma della completa docilità o delle pene più rigorose, contribuì fortemente ad avvilirne il carattere e a preparare quella aristocrazia di corte che, trasformandosi in società mondana, portò un gravissimo colpo alla vita economica della nazione, ma permise alla monarchia l'esercizio del potere dispotico. È vero che dopo la morte di lui, i grandi cercarono di riprendere parte del potere perduto; vero che il parlamento di Parigi, costretto dal Richelieu a sottomettersi alla volontà del re, tentò pure di rifarsi a spese della Reggenza. Ma le due Fronde, quella parlamentare e quella dei principi (v. fronda), i due movimenti disgregatori che furono insieme una guerra civile e una moda, fallirono completamente: e così, all'avvento effettivo al governo di Luigi XIV, la reazione contro l'assolutismo monarchico era un ricordo del passato.
Anche nei riguardi delle autonomie provinciali e municipali, fu attuata una politica di accentramento e di unificazione. Gl'intendenti reali che fin allora avevano avuto incarichi ispettivi, divennero sotto Richelieu agenti esecutivi. Essi conservarono tuttavia il carattere di missi dominici, né si pensò ancora a istituirli stabilmente come magistrature locali e fisse. La politica finanziaria, specie dopo il 1635, non seguì altro criterio che quello di procurarsi più denaro che fosse possibile per la guerra. Il grande aumento dell'esercito e la formazione di una flotta potente richiesero spese enormi. Prima, si era cercato di favorire lo sviluppo industriale e commerciale, seguendo in generale le direttive di Enrico IV, di distruggere la pirateria che infestava i mari, di formare grandi compagnie per il commercio con l'estero (tentativo che non ebbe suceesso), di estendere la colonizzazione del Canada, di prender piede alle Antille e in Africa. Ma l'entrata in guerra costrinse il governo ad abbandonare i suoi disegni ricostruttivi. La monarchia assoluta, considerando la nazione come uno strumento per la lotta di egemonia continentale, ritornò alla politica degli espedienti finanziarî e, col peso schiacciante delle imposte, portò a un fortissimo disagio economico che le guerre resero più acuto. Si ebbero così tumulti e sommosse: grave fra tutte, quella del 1639 in Normandia, che Richelieu represse spietatamente.
L'età di Luigi XIV e del predominio francese in Europa. - Alla morte del Mazzarino, il giovine Luigi XIV prende la direzione effettiva degli affari; e quasi subito, la politica francese si orienta contro la Spagna. Sarebbe eccessivo dire che la successione spagnola sia stata il perno di tutta l'azione internazionale di Luigi XIV. È certo tuttavia che egli considerò quello stato come un avversario che bisognava abbattere, perché la Francia potesse salire verso l'egemonia europea: più tardi egli dovette accorgersi a sue spese che non era quello il nemico più temibile. Alla morte del suocero Filippo IV (1665), invocando una consuetudine fiamminga, Luigi XIV pretese che i Paesi Bassi spagnoli spettassero a sua moglie. Si venne così alla guerra, e i Francesi occuparono rapidamente la Fiandra francese e la Franca Contea (v. devoluzione, guerra di). L'Olanda si unì alla Svezia e all'Inghilterra (triplice alleanza dell'Aia) e interpose la sua mediazione, che Luigi XIV accettò. Con la pace di Aquisgrana (1668), la Francia conservava le città conquistate in Fiandra, ma restituiva la Franca Contea.
Da allora la politica francese subiva un mutamento, nel senso di dirigersi ora anche contro l'Olanda. Tale rovesciamento del sistema tradizionale di alleanze seguito da Enrico IV a Richelieu, non fu determinato soltanto dal risentimento personale di Luigi XIV che si era visto arrestato nella sua marcia trionfale, ma soprattutto da ragioni politico-religiose, culminanti nell'antagonismo economico. Infatti alle tariffe protezionistiche poste da Colbert nel 1667, l'Olanda aveva risposto con tariffe più alte e con una specie di boicottaggio dei prodotti di Francia, mentre la marina mercantile di questa trovava concorrenza invincibile nella marina olandese. Cosicché anche Colbert, contrario a tutte le avventure, appoggiò quella guerra d'Olanda che doveva riuscir fatale ai disegni egemonici di Luigi XIV. Dal 1668 al 1672 durò la preparazione diplomatica diretta a isolare l'avversario. Si strinse alleanza con Carlo II d'Inghilterra, si riuscì ad acquistare la neutralità della Svezia e dell'imperatore. Il successo appariva sicuro, ma Guglielmo d'Orange (v.) assunto lo statolderato, riuscì a organizzare la resistenza e, rompendo le dighe e inondando il paese, arrestò la marcia degl'invasori. Il pericolo che correva l'Olanda determinò una vasta coalizione contro la Francia, alla quale parteciparono l'imperatore, il re di Spagna, il duca di Lorena, spodestato del suo stato nel 1670 da Luigi XIV, e i principi di Germania. L'Inghilterra fece pace per suo conto, lasciando sola la sua alleata. Allora questa si rivolse contro gli Spagnoli e gl'Imperiali, che furono ripetutamente sconfitti dagli eserciti di Turenne e di Condé. Alla fine, Luigi XIV riuscì a imporre la pace a tutti i suoi avversarî (trattati di Nimega, di Saint-Germain-en-Laye e di Fontainebleau, 1678 e 1679), costringendo la Spagna a cedergli la Franca Contea e altre città della Fiandra (pace di Nimega; v.). Tuttavia, a oscurare questo trionfo l'Olanda conservava la piena integrità territoriale, ottenendo altresì la revoca delle tariffe protezioniste di Colbert.
Nel breve periodo di pace che seguì al trattato di Nimega, la Francia, appigliandosi alla vaga dicitura degli articoli che in quello e nel precedente di Vestfalia parlavano di territorî dipendenti dalle città assegnatele, convocò "Camere di riunione" che proclamarono l'annessione di molti luoghi importanti come Strasburgo e Casale. Invano gli altri stati si ribellarono: Luigi XIV, ottenuta la neutralità dell'Olanda, batté facilmente gli Spagnoli che gli avevano dichiarato guerra e li costrinse a riconoscere le "Riunioni" e a concludere la tregua di Ratisbona (1684). Questo anno segna il momento culminante della potenza francese. Ma le annessioni, la revoca dell'editto di Nantes (1685), il bombardamento di Genova, sono altrettanti motivi che accrescono le ostilità contro la Francia in Europa. Si va così delineando la lega d'Augusta (1686) tra l'imperatore, la Spagna, la Svezia e gli stati germanici: minaccia non grave dapprima, ma poi sempre più pericolosa a mano a mano che vi aderiscono nuovi alleati. I paesi renani e Pinerolo nelle mani della Francia spingono l'elettore di Brandeburgo e il duca di Savoia a entrare nella Lega. Ma l'avvenimento che per le ripercussioni europee e lo spostamento di forze e d'interessi che determinò doveva segnare l'inizio d'una crisi dell'egemonia francese, fu la rivoluzione d'Inghilterra (1688) con la caduta di Giacomo II, l'ascesa al trono di Guglielmo d'Orange e la conseguente unione anglo-olandese, per cui la Francia ebbe contro di sé coalizzate tutte le più potenti nazioni. Durante il corso della guerra (1688-1697; v. alleanza, guerra della grande) Luigi XIV diede a Giacomo II larghi aiuti perché potesse riconquistare la corona, ma invano: nel 1692 la flotta francese subiva una disfatta decisiva presso Cherbourg. Sul continente, la lotta proseguiva con varia fortuna, ma i Francesi non riuscirono a ottenere un successo risolutivo. La guerra si trascinò ancora fiaccamente finché la defezione di Vittorio Amedeo, che riebbe dalla Francia tutti i suoi stati compreso Pinerolo, indusse la Lega alla pace che fu firmata a Ryswick (1697; v.). Con questo trattato la Francia dovette restituire tutte le terre "riunite", eccetto Strasburgo, abbandonare Giacomo II e riconoscere Guglielmo III. Il duca di Savoia vedeva consolidata la sua indipendenza; il duca di Lorena recuperava il suo stato; l'Olanda otteneva vantaggi commerciali, e la marina francese cessava, per il momento, di costituire una minaccia al predominio marittimo dell'Inghilterra.
Ma la situazione generale della Francia nei confronti dell'Europa non era mutata di molto; e i contrasti internazionali erano destinati ad acuirsi per le precarie condizioni di salute di Carlo II, re di Spagna, che facevano ritenere imminente l'apertura d'una ambita successione alla quale aspiravano, tra gli altri, Luigi XIV, l'imperatore e il duca di Savoia. Gli stessi progetti avanzati a più riprese dalla Francia per una spartizione preventiva dell'eredità spagnola, nel 1668 e nel 1699, accrescevano l'impressione d'una volontà borbonica di predominio pericolosa per l'equilibrio europeo; né le promesse fatte da Luigi XIV ai grandi e ai piccoli stati (come la cessione della Lombardia al duca di Savoia), apparivano garanzie o compensi sufficienti. Quando, nel 1700, Carlo II morì lasciando suo erede Filippo d'Angiò, a condizione che rinunziasse ai suoi diritti di successione al trono di Francia, l'urto si manifestò inevitabile. L'imperatore si sentì colpito nelle sue aspirazioni ereditarie, l'Olanda reagì all'occupazione delle città spagnole del Belgio compiuta dai soldati di Luigi XIV; ma soprattutto l'Inghilterra si trovò dinnanzi alla minaccia di un'egemonia franco-spagnola nel Mediterraneo, proprio nel momento in cui l'espansione coloniale francese nel Canada riceveva un cospicuo impulso. Nel 1701 fu stipulata la grande alleanza dell'Aia e l'anno seguente si aprivano le ostilità. Luigi XIV non ebbe dalla sua che il re di Portogallo, l'elettore di Baviera e il duca di Savoia, i quali però lo abbandonarono quasi subito (v. successione, guerre di). La guerra si combatté in Italia, in Spagna, sul Reno, con alterna fortuna; ma la lotta assunse per la Francia un carattere nazionale che non aveva avuto nei periodi precedenti. I riflessi dello sforzo sostenuto apparvero immediati in tutto il paese; e spesso il disagio economico e la stanchezza morale trovarono uno sfogo nella reazione satirica contro M.me Maintenon e i generali da lei preferiti. Pure il governo vegliava: nel 1706 Pontchartrain chiedeva al D'Argenson notizie sullo stato d'animo del popolo "dans les circonstances présentes", e nel 1709, quando si dovettero interrompere i negoziati di pace appena intrapresi, per le richieste eccessive degli alleati, lo stesso sovrano con una lettera agli arcivescovi, governatori e intendenti, rivolse all'opinione pubblica un caldo appello per la resistenza. Fatti nuovi e oltremodo significativi nel regime dispotico di Luigi XIV.
Riprese le ostilità, i successi francesi in Spagna, la vittoria di Denain (1712), le mutazioni politiche in Inghilterra (caduta dei whighs) e in Austria (l'avvento al trono di Carlo d'Austria) facilitarono la conclusione della pace (trattati di Utrecht, 1713, e di Rastadt, 1714). Filippo V conservava la corona di Spagna, ma rinunziava ai suoi diritti francesi. La Francia cedeva all'Inghilterra quelle terre dell'America del Nord che aveva cominciato a occupare dopo Enrico IV, e vedeva minacciato lo stesso Canada. Gli Asburgo perdevano la Spagna, ma riacquistavano i Paesi Bassi e i dominî italiani. Cadeva definitivamente il disegno francese di riunire in un solo regno gli stati borbonici di Francia e di Spagna; ma si era pure esaurito il vecchio antagonismo tra Borboni e Asburgo. L'egemonia francese finiva in un nuovo equilibrio europeo, in cui la suprema direzione politica era tenuta dall'Inghilterra, che aveva isolato la Spagna e il suo impero coloniale, si era asservito il Portogallo, aveva distrutto la concorrenza di Dunkerque, acquistato Port-Mahon e Gibilterra. L'anno dopo il trattato di Rastadt, Luigi XIV morì (1° settembre 1715).
Sotto questo re, l'assolutismo aveva compiuto il suo movimento ascensionale. Distrutte le autonomie sopravvissute alla demolizione di Enrico IV e di Richelieu, Luigi XIV volle essere e fu il padrone, e anche qualcosa di più. Egli considerò come una cosa sola sé stesso e il paese, la sua gloria e quella della Francia; e diede al dispotismo l'ultimo tocco con quella sua personale creazione che fu l'arte della regalità. Nella nuova corte di Versailles, l'alta aristocrazia, ormai completamente sradicata dalla sua terra, allontanata da tutte le attività politiche e governative, rovinata dal servizio militare e dalla vita di corte, non esercitò più altra funzione che quella di formare un fastoso sistema di satelliti, in mezzo ai quali si moveva, astro supremo, il re. Di fronte a questa aristocrazia avvilita e impoverita, cresceva l'autorità delle alte magistrature inamovibili e la prosperità della classe media ricca e colta, devotissima al re, cui lee sue fortune erano legate e che da essa trasse quasi tutti i suoi collaboratori. Esclusi a poco a poco dalle corporazioni padronali, gli operai cominciavano a unirsi a quel tempo in società segrete.
Teoricamente, il re govemava da solo; nella pratica, egli era assistito da diversi consigli e funzionarî: il Consiglio di stato, che conferiva ai suoi componenti il titolo di ministri e che dirigeva i grandi affari politici; il Consiglio dei dispacci, specie di ministero dell'Intemo; il Consiglio delle finanze, che si occupava delle imposte. A questi consigli il re interveniva regolarmente. Non partecipava invece quasi mai alle sedute del Consiglio privato o Gran Consiglio, che aveva funzioni simili a quelle dell'odierno Consiglio di stato e della Corte di cassazione, aggiuntavi la competenza delle cause avocate al re. Altri consigli, come quello di commercio, di coscienza ecc., non ebbero che una vita temporanea. Col tempo, le riunioni del Consiglio di stato si andarono sempre più diradando e il re preferì trattare gli affari direttamente coi segretarî di stato, i quali erano ancora, come nel Medioevo, "domestici" del sovrano, scelti sistematicamente fuori della nobiltà. Fra questi segretarî non si fece mai una divisione netta di competenze. A poco a poco, però, si vanno distinguendo e acquistano sempre maggiore importanza i segretariati della Guerra, degli Affari esteri, della Casa del re e della Marina. Verso la fine del regno, il segretario della Guerra è, col controllore delle Finanze, il principale personaggio del regno.
Nelle amministrazioni locali, l'accentramento iniziato da Richelieu ebbe una spinta decisiva. In molte provincie furono soppressi gli Stati e a quelli che rimasero fu tolta ogni autonomia. Le elezioni municipali si ridussero a una pura formalità, finché l'editto del 1692 trasformò la carica di sindaco in un impiego governativo. Si cercò di ridurre l'autorità dei parlamenti alla pura funzione giudiziaria; ma questo produsse frequenti dissidî e conflitti. Verso la fine del regno, il parlamento di Parigi riconquistò un certo prestigio, perché il procuratore e gli avvocati generali furono incaricati di missioni ufficiali e il primo divenne un attivo collaboratore del controllore delle Finanze. Organi dell'amministrazione centrale nelle provincie furono gl'intendenti e i loro subdelegati. Gl'intendenti, che ebbero carattere permanente, furono estesi a tutto il regno e assunsero le facoltà tolte ai govematori, agli Stati, ai municipî costituivano la vera ossatura burocratica dello stato. Essi dipendevano direttamente dai ministeri ed erano sempre di bassa nascita e revocabili.
Il primo periodo del regno di Luigi XIV si segnala per un grandioso sforzo di risanamento finanziario, dovuto soprattutto a J.-B. Colbert (v.). Quando questi assunse la direzione delle finanze, il disordine era enorme. I suoi predecessori (specialmente Fouquet) avevano contratto debiti onerosissimi e accumulato grandi fortune personali. La lotta contro Fouquet costituisce il primo atto d'autorità personale di Luigi XIV, e la caduta che ne seguì segna il crollo della potenza politica dei finanzieri. I peggiori abusi si verificavano nella ripartizione e nell'esazione delle imposte. La taille era divenuta insostenibile. Le gabelle erano affittate a una folla di appaltatori che si arricchivano. Una rete di dogane interne intralciava gli scambî. Quanto al demanio reale, esso era, per la maggior parte, impegnato o alienato. Colbert non mirò tanto ad attuare una sostanziale riforma, quanto a migliorare praticamente il funzionamento del meccanismo amministrativo. Si cominciò con un lit de justice che per quattro anni operò una revisione di tutti i contratti e prestiti dello stato, riducendo e spesso annullando i titoli di credito: fu istituita una contabilità di stato regolare, sul tipo di quella commerciale. Quanto alle gabelle, non si pensò ad abolire gli appalti, ma a riunirli nelle mani di una sola compagnia. Con mezzi legali e illegali, si ricostituì il demanio statale. Grandi cure furono dedicate all'agricoltura e al commercio; ma i vantaggi della diminuzione della taille, dell'abolizione dei pedaggi e dogane interne, della migliorata viabilità furono in parte annullati dalle teorie "mercantili" di Colbert che, imponendo restrizioni al commercio dei grani, finì per abbassarne il prezzo a un livello anti-economico. Anche le industrie, e soprattutto quella serica, se trassero notevole incremento dal regime di sovvenzioni e di protezione, furono inceppate nel loro slancio dagli eccessivi interventi e regolamentazioni statali; e il protezionismo non solo portò a una dannosa lotta di tariffe con l'Olanda e l'Inghilterra, ma fu tra le cause della funesta guerra d'Olanda. Ma occorre ricordare che la politica economica di Colbert va considerata e giudicata in funzione di tutta la politica interna ed estera. Così furono rivolte non poche cure ai possedimenti coloniali d'America; ma quando il conte di Frontenac volle riunire gli Stati Generali della Nouvelle France, di cui fu ottimo governatore per un decennio (1672-1682), venne disapprovato dal Colbert, trattandosi d'una consuetudine abbandonata nella madre-patria. In questo periodo anche ricevono impulso le esplorazioni del Canada, particolarmente per merito di Jean Talon; e la graduale conquista prosegue nei primi decennî del sec. XVIII, fino a quando si determina la concorrenza con le colonie inglesi e quindi la lotta che si decise in modo sfavorevole per la Francia nel corso della guerra dei Sette anni. Colbert tentò anche di fondare grandi compagnie per il commercio d'oltremare, come quella delle Indie Orientali, costituita nel 1664; ma i suoi sforzi fallirono. Miglior successo ebbe la sua opera di riorganizzazione della marina. Di questo tempo è anche un tentativo d'unificazione legislativa: si devono a Colbert il codice civile del 1667 e quello penale del 1669, il codice di procedura penale del 1670, il codice di commercio del 1673, ecc.; a Le Tellier e a Louvois i regolamenti militari che accompagnarono la riorganizzazione dell'esercito. Alcuni di questi codici restarono a lungo in vigore e tutti servirono di base alla legislazione ulteriore.
La lotta di tariffe, la revoca dell'editto di Nantes, che produsse danni gravissimi specialmente all'industria, ch'era stata in larga parte in mano di calvinisti, le continue guerre che seguirono a quella d'Olanda fecero perdere quasi tutti i vantaggi procurati da Colbert. Alla sua morte (1683) il bilancio era in disavanzo di 16 milioni, ma nel 1697 il deficit era salito a 138 milioni. Il crescente bisogno di denaro costrinse il governo a tornare ai vecchi espedienti: si crearono e si vendettero nuovi uffici a migliaia, si conferirono titoli nobiliari a pagamento, s'impegnarono le entrate future, si crearono nuove tasse, si rimaneggiarono le monete, si emisero biglietti e si contrassero prestiti a tassi sempre più alti. La situazione andava peggiorando per l'enorme prodigalità del re e l'imprevidenza del governo. Il debito pubblico complessivo che alla morte di Colbert non superava i 156 milioni, era salito (1715) a circa 3 miliardi e mezzo, mentre i debiti immediatamente esigibili ammontavano a 430 milioni.
Agli stessi fini unitarî che guidarono la politica amministrativa di Luigi XIV s'ispirò la sua politica religiosa: intollerante di qualsiasi tentativo disgregatore e autonomistico, desideroso di una compatta unità morale dello stato egli fu, anche prima di diventare devoto, ostile ai protestanti, spingendo la sua ostilità fino alle dragonnades e a quella revoca dell'editto di Nantes che tolse alla Francia alcune delle sue migliori forze produttive. Perseguitò anche il giansenismo, ma fece sua quella parte delle teorie gallicane che miravano a estendere le prerogative sovrane. I quattro articoli della dichiarazione del 1682 rafforzavano il Concordato del 1516, permettendo al re di dominare a sua posta, anche nel campo spirituale, il clero e lo stato. Sebbene nel 1693 il bisogno di denaro costringesse Luigi XIV a scambiare le libertà gallicane col diritto di regalia, alla sua morte il gallicanismo predominava ancora nel clero francese. Questo era stato, durante il regno di Luigi, di una completa docilità; anche i gesuiti avevano temperato il loro ultramontanismo.
Le sofferenze causate dalle lunghe guerre avevano messo a dura prova la resistenza interna: spaventosa la carestia dell'inverno 1709; il popolo inquieto; un sordo mormorio di protesta e di malcontento insieme con scatti di rivolta subito soffocati. La classe intellettuale alimentava spiriti d'opposizione e proposte di riforme (Boulainvilliers, Saint-Simon), ma spesso si perdeva nei richiami a un chimerico passato (Fénelon) quasi a un immaginario ritorno neofeudale. Pure tutti avevano coscienza della forza ch'era derivata alla nazione dal potere assoluto del monarca, del prestigio che alla Francia era stato dato dal suo re nella vita europea. Ma, dal momento stesso in cui la monarchia assoluta raggiunge il vertice del suo potere, s'inizia la fase di decadenza. Questo fenomeno va spiegato soprattutto col fatto che Valois e Borbone, mentre portarono l'arte di regnare a sempre maggior perfezione, amministrarono la cosa pubblica, si può dire, giorno per giorno, con criterî assolutamente empirici: essi riuscirono come pochi a farsi obbedire, ma non seppero governare. Così i periodi di floridezza all'interno e di egemonia all'estero, dipendono essenzialmente dalla qualità dei ministri e dalla virtù dei generali. Quanto a Luigi XIV, il suo maggior merito personale fu la infaticabile energia, il senso quasi religioso col quale esercitò la sua sovrumana funzione di sovrano dispotico; il campo dov'egli più mostrò d'intendere le esigenze e il compito avvenire della Francia, fu quello politico-militare. Il concetto di sicurezza ai confini, ai Pirenei, alle Alpi, al Reno, fu sotto di lui attuato non solo attraverso acquisti territoriali, ma pure con l'opera di difesa e copertura del paese compiuta dal Vauban, col sistema di fortificazione e protezione della zona renana tenacemente perseguito dal Louvois.
Il declino della potenza francese in Europa e la crisi dell'assolutismo monarchico. - Nel suo testamento, Luigi XIV affidava la reggenza a un consiglio nel quale doveva avere parte preponderante il suo figlio legittimato duca del Maine, sebbene la presidenza fosse affidata a Filippo d'Orléans. Ma questi che godeva la simpatia dei giansenisti, dei giovani, di tutti i malcontenti, e poteva contare all'estero sull'appoggio del cugino Giorgio I d'Inghilterra, si accordò col parlamento, al quale restituì la perduta autorità politica in cambio dell'annullamento di tutte le restrizioni che il testamento di Luigi XIV aveva posto al potere del reggente. Il governo di Filippo s'iniziò con una serie di riforme liberali che gli diedero grande popolarità: accanto al consiglio di reggenza, furono istituiti sette consigli ai quali era affidata l'amministrazione dello stato; si promisero favori a giansenisti e a protestanti, si preannunziò una più equa repartizione delle imposte. Ma l'incapacità dei consiglieri, l'indifferenza del pubblico, l'opposizione degl'interessati, che miravano al ristabilimento dei ministeri, e il carattere ambiguo di una innovazione che vincolava il potere assoluto del monarca senza creare un regime rappresentativo, resero breve la vita dei nuovi consigli: nel 1718 essi furono aboliti e si tornò al vecchio sistema.
Intanto Filippo, con l'aiuto del Dubois, mirava a riannodare i legami con Londra. Declinate le proposte della Russia, nel 1717 si concluse un trattato di alleanza con l'Inghilterra e l'Olanda, concedendo alla prima l'espulsione dalla Francia del figlio di Giacomo II, il pretendente Giacomo III, alla seconda l'abolizione dei dazî protettivi. Nel 1718, anche l'imperatore aderì all'alleanza. La minaccia che la nuova lega costituiva per la Spagna, i disegni ambiziosi del cardinale Alberoni, ministro di Filippo V, l'ostilità fra il reggente e Filippo V, che avrebbe voluto rivendicare i suoi diritti al trono di Francia, furono causa della guerra, che scoppiò nel 1719. L'esercito spagnolo fu ripetutamente battuto e Filippo V dovette accettare la pace dell'Aia (1720). Questo fu l'inizio di una politica di riavvicinamento tra Francia e Spagna, politica che portò al fidanzamento di Luigi XV con la figlia di Filippo V. Nel 1723 fu proclamata la maggiore età del re e il Dubois, diventato cardinale e primo ministro, ebbe il titolo di segretario di stato per gli Affari esteri; ma pochi mesi dopo moriva, seguito presto dal reggente.
Alla morte di Luigi XIV, la reggenza aveva dovuto affrontare una situazione finanziaria gravissima, conseguenza delle guerre dispendiose e degli errori della politica mercantilista. Rifiutata la proposta di non riconoscere gl'impegni presi dai predecessori, s'incaricò il Consiglio delle finanze, diretto dal duca di Noailles, di una generale revisione dei conti e dei titoli di credito. Il consiglio, ricorrendo agli stessi metodi sommarî adottati da Sully e da Colbert, riuscì a ridurre il debito di circa mezzo miliardo e a diminuire il disavanzo pur abolendo l'imposta del decimo. Ma la vita economica non risorgeva. Allora si ricorse al grande piano di riorganizzazione architettato dal Law (v.). Nel 1716 questi fondò la sua banca. Due anni dopo il reggente, liberatosi dai consigli, convertiva la banca privata in banca reale, nonostante l'opposizione del parlamento. Accanto alla banca, Law istituì la Compagnia d'occidente che poi, avendo assorbito tutte le società commerciali sopravvissute alla decadenza degli ultimi anni del regno di Luigi XIV, si chiamò Compagnia delle Indie. Law non si accorse che il suo sistema si fondava su basi del tutto illusorie e che la sua iniziativa finiva per essere un gigantesco tentativo d'inflazione e di aggiotaggio. Nel 1721 si giunse alla liquidazione che ebbe effetti rovinosi sull'economia pubblica e privata. Dopo la sua caduta, furono ricostituiti gli appalti che la compagnia aveva riscattato. Alla bancarotta seguì una nuova revisione, che annullò più di mezzo miliardo di valori. Nonostante la creazione di nuove rendite, gli 86 milioni che lo stato doveva pagare alla morte di Luigi XIV furono ridotti a 56; così il debito pubblico fu riportato alla somma complessiva di un miliardo e 700 milioni. Il risanamento della circolazione permise al commercio di riprendere il suo andamento normale e all'economia nazionale di ritrovare la stabilità; ma la bancarotta e gli atti arbitrarî con cui si era ottenuta la riduzione del debito seminarono germi di malcontento che sopravvissero a lungo e dovevano dare i loro frutti, mentre la breve parentesi di riforme liberaleggianti aveva lasciato tracce nelle classi intellettuali e nella borghesia.
Alla morte di Filippo d'Orléans, la carica di primo ministro fu affidata al duca di Borbone, ciò che significava l'influenza preponderante di una donna, la marchesa di Prié. Da questo momento cessa ogni distinzione netta fra politica e galanteria, e ministri e sovrano subiranno sempre più l'onnipotenza delle favorite. Nonostante alcuni provvedimenti utili, come un principio di riforma fiscale, la costruzione del canale di San Quintino, l'estrazione a sorte di una milizia permanente di 60.000 uomini, il duca si rese impopolare con la persecuzione dei protestanti e dei giansenisti, con le crudeli leggi contro la mendicità, con l'istituzione della nuova imposta del cinquantesimo su tutti i redditi. Giornalisti e libellisti si scagliarono contro il duca e la marchesa accusandoli, specie durante la carestia del 1725, di affamare il popolo. Si era andata formando un'opinione pubblica tanto più sfrenata ed eccessiva, quanto più a lungo era stata costretta al silenzio.
Per evitare un soverchio ingrandimento della casa d'Orléans (Filippo V aveva abdicato ed era salito al trono di Spagna Luigi I, genero del reggente), il duca di Borbone fece rompere il contratto di matrimonio fra Luigi XV e l'infante e questa fu rimandata in Spagna. Celebrate, nonostante la disapprovazione dell'opinione pubblica, le nozze con Maria Leszczyńska, figlia dello spodestato re di Polonia, fu facile al vescovo di Fleury, governatore del re, provocare la disgrazia del duca e della marchesa.
Nominato primo ministro il Fleury, che nello stesso anno (1726) ebbe anche il cappello cardinalizio, la sua politica (economia all'interno e mantenimento della pace in Europa) si rivelò corrispondente ai desiderî di tutti. Nel 1724, si era riunito a Cambrai un congresso dei rappresentanti della quadruplice alleanza; ma il rinvio dell'infante aveva indotto il re di Spagna a ritrarsene e ad accordarsi con l'Impero. Questa intesa fra i Borboni di Spagna e gli Asburgo, che rovesciava tutto il sistema politico europeo, provocò un'alleanza tra Francia, Inghilterra e Prussia (trattato di Hannover, 1725) alla quale accedettero Svezia, Danimarca e Olanda. Ma poco dopo la Prussia se ne staccò e, d'accordo con la Russia, si collegò con l'Impero. Questa era la situazione dell'Europa quando Fleury assunse il potere. Per evitare la guerra, egli consentì a una pericolosa alleanza con la Spagna; il trattato di Siviglia (1729) costituì un accordo momentaneo con le grandi potenze marittime, e l'Inghilterra che ne aveva tratto molti vantaggi commerciali, indusse anche l'imperatore a mantenere la pace. Pace di breve durata perché nel 1733, la morte di Augusto II re di Polonia segnò l'inizio della guerra di successione (v. successione, guerre di). La Francia fu pronta ad appoggiare la candidatura di Stanislao Leszczyński, ma quando questi, dopo essere stato incoronato, fu assalito da Augusto III, figlio del re defunto, e costretto a fuggire a Danzica, il governo francese, dove il segretario di stato Chauvelin seguiva una sua politica, spesso in contrasto con quella di Fleury e troppo incline ad accogliere i consigli interessati del gabinetto inglese, lo abbandonò vergognosamente e continuò la guerra per conto suo sul Reno e in Italia. Col trattato di Vienna (1738), Augusto III fu riconosciuto re di Polonia, Stanislao ebbe Bar e la Lorena, col patto che alla sua morte i due ducati dovessero passare alla Francia; l'Austria cedeva le Due Sicilie all'infante di Spagna e recuperava la Lombardia; al duca di Lorena era assegnata la Toscana.
Da questo momento le mire francesi sull'Italia coincidono con il vecchio programma di Enrico IV: dare alla penisola un assetto stabile e legarne le sparse membra con una federazione che la renda indipendente dall'Austria. E poiché tale disegno, ora caldeggiato dallo Chauvelin (1733), più tardi ripreso dal D'Argenson (1764) e infine dal Dumouriez (1773) non poté ottenere pratica attuazione per la diffidenza dei principi italiani e per l'opposizione spagnola, Luigi XV appoggiò le aspirazioni sabaude sulla Lombardia e bilanciò l'influenza asburgica facendo leva, volta a volta, sulle repubbliche genovese e veneta e sulla Toscana lorenese. Scoppiata la guerra di successione austriaca, la Francia scese in campo ancora una volta contro l'antica rivale, ma questa volta solo per assicurarsi una più larga sfera d'influenza in Italia. Nonostante gli sforzi, le spese enormi e la gloriosa vittoria di Maurizio di Sassonia (Fontenoy, 1745), la pace di Aquisgrana (1748) ritoglieva alla Francia tutte le sue conquiste di Fiandra. Luigi XV si accontentava della concessione dei ducati di Parma, Piacenza e Guastalla al genero Filippo, mentre l'Inghilterra sconfitta otteneva la rinnovazione dei patti di Utrecht, ossia la demolizione dei forti di Dunkerque e l'espulsione degli Stuart dalla Francia. Federico II guadagnava la Slesia. Questo trattato che sollevò in Francia la disapprovazione generale, apparve come una vittoria delle nazioni protestanti contro i due più antichi stati cattolici d'Europa, e si comprese che esso doveva portare a quel ravvicinamento con l'Austria che sarebbe stato più saggio effettuare otto anni prima, appoggiando i diritti di Maria Teresa.
La guerra di successione, finché la cosiddetta "pace stupida" non dimostrò gli errori politici e diplomatici del governo, era stata popolare. La partecipazione di Luigi XV, la sua malattia del 1744 a Metz e la morte della duchessa di Châteauroux, sua prima favorita, che fecero sperare per un istante nel suo ravvedimento, mantennero ancor vivo nel popolo il rispetto alla monarchia. Ma la freddezza che accolse il trattato di Aquisgrana si mutò presto in opposizione, quando si vide che la cessazione delle ostitità non portava alleggerimenti del carico fiscale e che, regnando a Versailles una nuova favorita, la Pompadour, le enormi spese dissanguavano il Tesoro. Giornalisti e libellisti non esitarono a scagliarsi contro il re. Invano la Pompadour, che esercitava di fatto le funzioni di primo ministro, cercò di farsi perdonare la sua fortuna con la fondazione della scuola militare e con alcuni gesti di liberalità: il popolo era schiacciato dalle imposte, mentre il costo della vita saliva vertiginosamente.
E intanto la Francia era in fermento e violentissimi erano i contrasti d'idee: se non si combatteva più tra giansenisti e antigiansenisti, si combatteva tra credenti e "filosofi". Era il momento in cui usciva alla luce l'Enciclopedia. Anche l'antagonismo tra il parlamento e il clero si andò inasprendo. Il re prese le parti del clero e alle "grandi rimostranze" del 1753 rispose esiliando i membri del parlamento. Allora tutti i parlamenti di Francia si dichiararono solidali con quello di Parigi, e si cominciò a parlare di Stati Generali. Le repressioni esasperarono la resistenza: si andava ormai diffondendo l'idea che la nazione era al disopra del re, come la chiesa al disopra del papa. Spaventata dell'estensione che prendeva il conflitto, la corte richiamò il parlamento. Questi, nel 1755, dichiarò che la costituzione Unigenitus promulgata da Clemente XI nel 1713 e da allora causa di lotte vivacissime in Francia (v. giansenio) non era articolo di fede e proibì al clero di considerarla tale. Il re cassò il decreto, perché aveva bisogno di un "dono gratuito" del clero, ma ottenutolo respinse i reclami dei vescovi. Intanto la Pompadour otteneva la carica di dama di palazzo della regina e convinceva il re a ordinare che la costituzione fosse rispettata come decisione della chiesa. L'attentato di Damiens (1757) creò una diversione alle ire suscitate da questo atto del re e permise alla Pompadour di far licenziare i due migliori ministri: D'Argenson (Guerra), Machault (Marina). Ciò avveniva alla vigilia della guerra dei Sette anni.
Nonostante la politica di acquiescenza di fronte all'Inghilterra, seguita fino dal tempo di Fleury, acquiescenza che giunse fino a richiamare Dupleix che stava conquistando l'India alla Francia, la rivalità marittima e coloniale portò fatalmente alla guerra. L'Inghilterra si unì con Federico II, mentre la Francia coi due trattati di Versailles (1756 e 1757) mutava radicalmente la sua politica internazionale, alleandosi con Maria Teresa e con la Russia. Questo rovesciamento d'alleanze ebbe un valore notevolissimo ed esercitò i suoi effetti nella storia di Francia fino all'avvento della repubblica. L'esito sfavorevole della guerra parve confermare l'opinione pubblica, avversa al legame. L'alleanza con Vienna segna il definitivo distacco tra la monarchia e la nazione: le accuse mosse a Luigi XV e alla Pompadour dal paese, verranno ripetute contro Luigi XVI e Maria Antonietta. Pure, nel determinare questa svolta della politica estera francese, aveva agito qualcosa più che la semplice vanità d'una favorita. Il grave passo era stato calcolato e venne deciso, come appare dalle istruzioni del Bernis allo Choiseul, sotto l'assillo della minaccia germanica. La Francia troppo aveva contribuito all'ingrandimento della Prussia; ora bisognava arrestarne il moto ascensionale. D'altra parte occorreva mantenere a ogni costo l'integrità della Polonia: il nuovo legame con l'Austria e con la Russia non doveva costare il sacrificio della vecchia fedele alleata. Di qui un groviglio d'interessi discordi che paralizzava ogni efficace azione politica e che accresceva le difficoltà di sostenere in pari tempo una guerra continentale e marittima.
Per questo, nel 1757, il ministro degli Esteri Bernis cercò di evitare la guerra; ma la favorita onnipotente lo fece sostituire col duca di Choiseul, il quale iniziò le sue funzioni firmando il terzo trattato di Versailles che ribadiva gli obblighi della Francia verso i suoi alleati senza ottenere in cambio alcun aiuto nella lotta contro l'Inghilterra. Durante il governo di Choiseul, le operazioni militari furono intralciate dai mutamenti di comandanti che Versailles nominava e destituiva secondo i capricci della Pompadour. Intanto, la morte della zarina Elisabetta, a cui successe Pietro III e poco dopo Caterina II, causò la defezione della Russia. Allora Choiseul, dopo un tentativo di pace con l'Inghilterra, reso vano dall'intransigenza di Pitt, concluse con la Spagna il Patto di famiglia (1761) al quale aderirono i sovrani di Parma e delle Due Sicilie. Questo patto, insieme con l'alleanza austriaca, attuava la grande lega degli stati cattolici sognata da Luigi XIV. Finalmente, i trattati di Parigi e di Hubertsburg (1763) posero fine alla guerra. Mentre l'Inghilterra acquistava la maggior parte delle colonie francesi e Federico II otteneva definitivamente la Slesia, mentre l'Austria assicurava la corona imperiale al figlio di Maria Teresa e otteneva piena libertà di azione verso Oriente, la Francia rimaneva isolata, senza esercito e senza marina, priva delle sue migliori colonie e diminuita nel suo prestigio di grande nazione.
La morte della Pompadour (1764) fece sperare per un momento che più sane influenze avrebbero indotto il re a una migliore politica. Choiseul fece un grande sforzo per ricostituire l'esercito e la marina e riorganizzare l'amministrazione coloniale. Bisognava cancellare, almeno in parte, gli effetti del trattato di Parigi, preparare la rivincita contro "les tyrans des mers". L'attenzione fu rivolta al Mediterraneo: si cercò di trarre partito dal patto di famiglia, e di bilanciare il vantaggio conseguito dall'Inghilterra col recente acquisto di Minorca, premendo su Genova per la cessione della Corsica. L'annessione della Corsica (1768), l'assorbimento definitivo del ducato di Lorena (1766) e il possesso del principato di Dombes (1762) costituiscono gli accrescimenti territoriali francesi durante il regno di Luigi XV.
Ma tutto questo non bastava a ristabilire all'interno l'unità morale tra sudditi e sovrano. Lo Choiseul ottenne dal re la soppressione dei gesuiti, atto che gli procurò una grande popolarità. Ma un editto contro i parlamenti, ispirato dal cancelliere Maupeou, rinnovò il dissidio con la corte. Il duca di Choiseul, caduto in disgrazia per un fallito tentativo coloniale in Guiana e per aver speso forti somme nella conquista della Corsica, ma soprattutto per essersi opposto alla nuova favorita Du Barry, venne destituito e il suo posto fu preso dal d'Aiguillon. Per annientare l'opposizione del parlamento di Parigi, Maupeou, d'accordo con l'abate Terray, controllore generale, e con d'Aiguillon, ne affidò le funzioni ai consiglieri di stato (1770). Nello stesso anno ebbero luogo le nozze del delfino con Maria Antonietta d'Austria, alla quale la corte fu subito nemica, per l'atteggiamento ostile che tenne di fronte alla Du Barry. Intanto il governo austriaco, approfittando dell'inesperienza del d'Aiguillon, trattava segretamente degli affari di Polonia con la Prussia e la Russia, a danno della sua alleata. Né il re né i suoi ministri si resero conto dell'importanza del trattato di spartizione, stipulato fra quelle nazioni (1772), assente la Francia.
A Parigi, il "parlamento Maupeou" suscitava generali opposizioni: al popolo e ai gazzettieri si erano uniti i principi del sangue: Orléans, Chartres, Conti. Non gli valsero alcuni buoni provvedimenti come l'istituzione a Parigi e in provincia di consigli superiori o tribunali che permettevano una forte diminuzione delle spese processuali, e l'abolizione della venalità delle cariche, la quale tuttavia produsse altri inconvenienti per gli abusi che si verificavano nella loro concessione. Le memorie di Beaumarchais, nella sua lite con Goezmann consigliere del nuovo parlamento, gli diedero il colpo di grazia nell'opinione pubblica. Ma Luigi XV si ostinava a mantenerlo in carica: le sorti del cancelliere furono decise dalla morte del re il 10 maggio 1774. Ormai l'opposizione all'opera politica della monarchia non aveva più quell'impronta d'origine feudale che era stata la sua caratteristica fino ai tempi del Mazzarino, ma aveva assunto una forma giuridico-legale forse più pericolosa, certo più significativa delle vecchie insurrezioni frondiste.
L'avvento al trono di Luigi XVI fu accolto da tutte le parti come una liberazione. Ma se nella scelta dei nuovi ministri egli ebbe ottime intenzioni, gli mancò l'energia per rompere fin da principio le cabale di corte. Così le manovre del duca di Richelieu e del duca d'Aiguillon lo indussero a richiamare Maurepas, che fu ministro di stato senza portafoglio. I principi del sangue non furono ammessi al consiglio del re e questo suscitò un grave malcontento. La regina, pur non riuscendo a far ritornare Choiseul, ottenne che d'Aiguillon fosse sostituito agli Esteri dal conte de Vergennes, persona grata così a Maurepas come a Maupeou. Anche Turgot, nominato alla Marina, per la sua ostilità contro i parlamenti piaceva al cancelliere. Ma la questione dei due parlamenti turbava l'opinione pubblica e portava seco un atteggiamento di freddezza verso i sovrani. I principi, specie il duca di Orléans, persistevano nella loro opposizione. Luigi XVI esitava. Le manovre di Maurepas, che riuscì a convincere la regina, portarono all'esilio di Maupeou (24 agosto 1774) e al richiamo del vecchio parlamento. A Parigi fu un'esplosione di entusiasmo; ma il partito "devoto" considerò la decisione del re un tradimento, mentre i "filosofi" prevedevano che i parlamenti sarebbero stati indocili e ostili ad ogni progresso. In realtà questo richiamo, dovuto soprattutto alla regina che voleva rendersi popolare, fu una pericolosa prova di debolezza.
Nel rimaneggiamento di tutti i ministri, Turgot era succeduto a Terray come controllore generale delle finanze. Egli si propose di risanare l'economia nazionale senza bancarotta, senza aumenti d'imposte, senza prestiti. Uomo di grande dirittura morale, ma privo di senso pratico e incapace di un'azione energica, nella sua lotta contro gli abusi ebbe contro tutti i privilegiati e finì per soccombere. Il 13 settembre 1774 egli fece proclamare la libertà del commercio interno dei grani, sancita già da Machault (1749) ma che rimase lettera morta. I suoi avversarî, approfittando degli alti prezzi raggiunti dalle farine e dell'ira popolare contro gli accaparratori, provocarono una sommossa che portò, per la prima volta, fino a Versailles una massa tumultuante. Il re sostenne il suo ministro, ma rifiutò di perseguire i veri responsabili. Intanto la regina continuava a intrigare per il richiamo di Choiseul, appoggiava il conte di Guines in un processo scandaloso, otteneva che a vantaggio della principessa di Lamballe fosse ristabilita la costosa carica di soprintendente della casa della regina e conduceva una vita di prodigalità. Intorno a Maria Antonietta si andò formando un nucleo di profittatori, capeggiato dal conte di Artois e dalla contessa di Polignac. Questa cricca si rivolse prima di tutto contro l'economo Turgot, sfruttando il malcontento suscitato dall'abolizione della corvée e dalla soppressione delle corporazioni. Al parlamento, che aveva rifiutato di ratificare gli editti, il re ne impose la registrazione; ma fu questo il suo ultimo atto di energia a vantaggio del controllore. Inaspritasi la lotta, al punto che furono falsificate lettere di Turgot contro i sovrani, il riformatore dovette lasciare il ministero (1776). Con lui se ne andò Malesherbes, segretario di stato della Casa del re. L'anno seguente anche il conte di Saint-Germain, ministro della Guerra, che aveva cercato di ricostituire l'esercito e di ristabilire la disciplina, fu costretto a dimettersi.
La caduta di Turgot aveva dato mani libere a Maurepas che si era fatto nominare presidente del Consiglio delle finanze. Tutti i decreti di Turgot furono aboliti. Ma gli urti fra il partito "devoto" e quello dei "filosofi", la crisi sempre più grave causata dai costumi della corte e dalla mancanza di un governo forte, costrinsero Maurepas a volgersi verso i riformatori. Si ricorse a Necker che non potendo essere, lui straniero e protestante, un controllore generale, ebbe il titolo di consigliere aggiunto, poi di direttore generale delle finanze.
Il 4 luglio 1776 era scoppiata la guerra d'indipendenza americana. Fin dal primo momento, Luigi XVI, energicamente sostenuto da Vergennes, mandò soccorsi segreti agl'insorti che vendicavano la Francia delle umiliazioni coloniali e marittime subite nella guerra dei Sette anni. La Fayette e un forte gruppo di ufficiali francesi andarono a combattere nei nuovi Stati Uniti. Franklin, inviato dal congresso di Filadelfia, ottenne il riconoscimento della nuova repubblica e la firma di un trattato di alleanza (6 febbraio 1778). Ciò provocò la rottura e la guerra con l'Inghilterra. Nello stesso tempo, si delineava la minaccia di un altro conflitto in Germania. Alla morte dell'elettore di Baviera, Giuseppe II aveva occupato una parte dei suoi stati provocando l'intervento di Federico II che concentrò le sue truppe al confine boemo. L'Austria reclamò il concorso della Francia in base al trattato del 1756; ma, nonostante le insistenze di Maria Antonietta, il re e Vergennes tennero duro e, osservando come non si potesse riconoscere nelle attuali circostanze il casus foederis, proclamarono la neutralità della Francia. Questo atteggiamento permise alla Francia di esercitare una parte di mediatrice nel trattato di Teschen (1779) e, assicurando l'equilibrio e la pace in Europa, di proseguire con vigore le operazioni contro l'Inghilterra. Nel 1781 l'esercito inglese subiva in America una disfatta decisiva. Nel 1783 si giunse alla pace generale, in seguito alla quale gli Stati Uniti furono riconosciuti come nazione indipendente e sovrana e la Francia, oltre alcuni possessi coloniali, ottenne l'abrogazione degli articoli del trattato di Parigi che le vietavano di fortificare Dunkerque e l'obbligavano a tollerare la presenza di un commissario inglese in questa città.
Durante questo periodo, mentre Sartine e poi de Castries alla Marina ricostituivano la flotta, e de Ségur alla Guerra riorganizzava l'esercito, Necker dirigeva l'amministrazione finanziaria.
Egli cercò di provvedere alle necessità del Tesoro con economie, prestiti e soprattutto con lotterie ed emissioni di rendite vitalizie. Il suo credito personale e la puntualità con la quale venivano pagati gl'interessi assicurarono il successo di queste operazioni; ed egli poté attuare notevoli economie, fra l'altro sopprimendo gli uffici dei sei intendenti di finanza, riprendendo le idee di Turgot e continuando la trasformazione degli appalti in regie. Provvidenze e sgravî che permisero al re di rinunziare, nei suoi dominî, ai diritti di servitù e di manomorta. Egli in realtà avrebbe desiderato che questi carichi feudali scomparissero interamente, ma gli mancarono i mezzi necessarî per riscattare i diritti dei signori e si limitò ad auspicare prossimo il "completo affrancamento dei suoi sudditi". Questi propositi liberali del re e del suo ministro, suscitarono opposizioni non solo nell'alto clero, ma anche nel parlamento. L'ostilità di Maurepas e l'intensificarsi di una violenta campagna di stampa, indussero il Necker a pubblicare (febbraio 1781), il Rendiconto al re nel quale si esponeva la situazione esatta delle finanze. Questa pubblicazione, se ebbe un immenso successo nell'opinione pubblica, suscitò contro il Necker una coalizione di malcontenti. Quando il Necker chiese al re il titolo di ministro di stato e l'amministrazione diretta della cassa della Guerra e della Marina, Maurepas minacciò le dimissioni dei ministri e Luigi XVI respinse le domande del Necker che dovette andarsene (19 maggio 1781).
La caduta del Necker provocò a Parigi e nella provincia un senso di costernazione e un'esplosione di malcontento contro il re e la regina. Accettando le dimissioni del Necker, Luigi XVI aveva dichiarato che l'indirizzo non sarebbe cambiato: invece, il Joly de Fleury che prese il posto del ginevrino, annullò tutte le riforme del suo predecessore. Alle magnifiche feste che accolsero nello stesso anno la nascita del delfino, il popolo partecipò con entusiasmo; ma le mura di Parigi si coprirono di manifesti minacciosi. Solo per un momento parve che Luigi XVI riuscisse a sottrarsi alle pressioni della regina e del suo circolo, quando, morto Maurepas, il re, consigliato da Vergennes, rifiutò di dargli un successore.
Dopo la guerra di America, si ebbe un periodo di calma. Sovrani e nobili sono travolti da una ubriacatura di filantropismo, senza rendersi conto che tale atteggiamento, considerato e sfruttato come un riconoscimento di torti, non fa che diffondere e accrescere lo spirito di ribellione. Intanto, i Polignac ottennero che la carica di controllore delle finanze fosse affidata a Calonne. Questi seppe dapprima conquistarsi la fiducia di tutti; ma poi le spese fatte con pazza prodigalità suscitarono numerosi attacchi, partiti anche dal Necker, che finirono per scuotere la fiducia dei finanzieri e rendere difficile il collocamento dei prestiti. Calonne si appoggiò al clero dal quale ottenne un "dono" di 18 milioni, e al quale concesse in cambio che fosse soppressa l'edizione delle opere di Voltaire, curata da Beaumarchais.
Ma l'ostilità alla monarchia si accentuava, traendo nuova esca dallo scandalo della collana, del quale i nemici di Maria Antonietta, che pure non vi ebbe alcuna colpa, si valsero per farle perdere nel popolo quel prestigio morale che solo poteva raffrenare le avversioni politiche. Ella non aveva mai voluto astenersi dalle inframmettenze nel governo dello stato. Così, aveva cercato con tutte le sue forze di ottenere al fratello Giuseppe II l'appoggio della Francia nei suoi maneggi contro l'Olanda. Ancora una volta Luigi XVI e Vergennes, che la regina tentò invano di far revocare, persistettero nella politica di pace e la Francia poté partecipare come mediatrice al trattato di Fontainebleau (1785) fra l'imperatore e la repubblica batava. La conclusione degli accordi fu resa possibile del pagamento di 5 milioni che la Francia versò a Giuseppe II; spesa ben giustificata perché assicurò la pace europea e permise alla Francia di stipulare un trattato col quale l'Olanda si sottraeva definitivamente all'influenza inglese. Ma il popolo non volle vedervi che i milioni spesi per il fratello della regina.
L'anno seguente, il viaggio del re a Cherbourg e il trattato di commercio che Vergennes riuscì a concludere con l'Inghilterra, produssero benefici effetti nell'opinione pubblica; ma Calonne, ridotto all'estremo delle risorse e combattuto dai parlamenti, era costretto a confessare al re la situazione: i prestiti salivano quasi a mezzo miliardo e il disavanzo superava i 100 milioni. Tornando alle idee di Turgot e di Necker, egli propose al re una riforma generale del regime fiscale e l'abolizione di tutti i privilegi. Non potendosi contare per questo sull'appoggio dei parlamenti, per il 29 gennaio 1787 si convocò a Versailles un'assemblea di notabili quasi esclusivamente privilegiati e quindi favorevoli agli abusi che avrebbero dovuto abolire. Alla riunione, ritardata dalla malattia di Calonne e dalla morte di Vergennes, il 22 febbraio i notabili chiesero di conoscere lo stato delle finanze prima di votare le nuove imposte. Calonne rifiutò di comunicare il rendiconto e, di fronte alle violente opposizioni dell'assemblea, cercò invano di salvarsi con un appello al popolo. Fu esiliato. Il suo posto fu preso da Loménie de Brienne, arcivescovo di Tolosa, perché il re non volle saperne di un ritorno del Necker. Il nuovo controllore si conquistò il favore dell'assemblea comunicandole il rendiconto finanziario (dal quale apparve un deficit di 140 milioni); impegnandosi a forti economie ottenne la registrazione di un prestito di 60 milioni; ma quando propose due nuove imposte (sovvenzione territoriale e tassa di bollo) i notabili rifiutarono di votarle, dichiarando di non averne il potere. L'allusione agli Stati Generali era evidente, e fu del resto affermata esplicitamente da La Fayette il quale propose la convocazione di un'assemblea nazionale. Il 25 maggio i notabili furono sciolti. Non avevano attuato alcuna riforma, ma avevano aperto la via all'azione del parlamento: il paese aveva seguito i loro dibattiti abituandosi sempre più a giudicare e discutere gli affari pubblici.
Alcuni decreti amministrativi di Brienne passarono senza opposizione: così quello che istituiva le assemblee provinciali, che Necker aveva creato in due provincie, come quello che aboliva la corvée. Le assemblee provinciali, incaricate della ripartizione dell'imposta e della direzione dei lavori pubblici, rappresentavano una conquista dei principî liberali, ma erano un grave colpo all'autorità sovrana, la quale non poteva fondare il suo assolutismo che su un'amministrazione rigidamente accentrata. La tassa di bollo fu l'occasione della lotta fra il governo e il parlamento. Questo si scagliò furiosamente contro le prodigalità della corte e chiese lo stato dei conti. Brienne li rifiutò e fu sostenuto da Luigi XVI. Allora il parlamento presentò rimostranze, supplicando il re di non imporre nuove tasse prima di aver riunito un'assemblea nazionale. Queste rimostranze, che furono approvate da tutti gli altri parlamenti, resero al parlamento di Parigi tutta la sua popolarità. Invano si ricorse a un lit de justice e si esiliò il parlamento a Troyes e si pensò alla soppressione di tutti i parlamenti che da ogni parte di Francia invocavano gli Stati Generali. Si dovette finire col cedere: il 20 settembre l'editto di esilio fu revocato; quattro giorni dopo furono revocate le nuove imposte. Ma nel novembre un progetto di prestito riaccese la lotta, nella quale si segnalò, per la sua ostilità contro i sovrani, il duca d'Orléans. Nel 1788, l'agitazione era al colmo. Nell'aprile, la notizia che il governo preparava un colpo di stato contro il parlamento provocò una protesta violentissima. Il re volle resistere; fece arrestare due consiglieri, istituì nuove corti di giustizia e creò la Corte plenaria, alla quale assegnò il potere di registrazione e verifica delle leggi, riservandosi il diritto di decidere personalmente dei prestiti. Ma inaspritasi ancora la lotta, non potendo spezzare l'unione tra le classi privilegiate e il terzo stato, Luigi XVI decise di convocare gli Stati Generali e l'8 agosto 1788 ne fissò la data al 5 maggio 1789. Brienne dovette sospendere i pagamenti e dimettersi (25 agosto), Necker fu richiamato al ministero (26 agosto) e i parlamenti furono ristabiliti (23 settembre).
La Rivoluzione. - Ottenuto l'intento comune, la convocazione degli Stati Generali e la prima disfatta della monarchia assoluta, nobiltà, clero e terzo stato si divisero allorché si trattò di vedere in che senso si sarebbe usato della vittoria: se nel senso nobiliare e reazionario o in quello borghese e rivoluzionario. La questione del voto segnò il distacco: si sarebbe votato per ordine o per testa? La nobiltà e il clero erano naturalmente per la prima soluzione, il terzo stato per la seconda e pretendeva un numero di voti doppio rispetto a quello di ciascuno degli altri due ordini e pari alla loro somma. Si offriva così una nuova possibilità politica alla monarchia: porsi energicamente come arbitra tra le classi in conflitto o appoggiare con franchezza una di esse dominandola e acquistando una nuova forza. Ma nella corte non vi era alcun uomo di stato: non il re, che sarebbe stato al suo posto se fosse stato un padre di famiglia borghese; non la regina, che poneva alla base della politica i suoi sentimenti e risentimenti di donna; non il Necker, un puro tecnico privo di larghe vedute; non il conte d'Artois, fratello del re, e i suoi bollenti seguaci. L'esercito rispecchiava i conflitti della nazione: negli ufficiali si rifletteva l'irrequietezza e l'indisciplina dei nobili; nei sottufficiali e soldati le ambizioni e i rancori del terzo stato. Il regolamento del 1781, che inibiva ai borghesi la carriera d'ufficiale, aveva scavato tra loro un abisso. Le truppe mercenarie straniere mal pagate erano scontente, e per di più non erano aumentabili per mancanza di mezzi pecuniarî. Si può dire con gli storici nazionalisti che la rivoluzione sia stata essenzialmente una crisi dell'autorità, intesa questa non solo come possesso della forza bruta, ma come percezione esatta della situazione d'un paese e del rapporto tra le forze politiche vive e le istituzioni. La monarchia, invece, non seppe fare altro che resistere passivamente, lasciare l'iniziativa alle varie classi in conflitto, piegarsi alla violenza e all'audacia del terzo stato o tentar di reagire per impulso delle classi privilegiate. Questa china fatale cominciò con la questione del voto: fu concesso al terzo stato un numero di deputati eguale alla somma degli altri due ordini, ma non si decise nulla se negli Stati Generali si sarebbe votato per ordine o per testa: era una misura che imbaldanziva il terzo stato senza conquistarlo.
Mentre la monarchia continuava a subire più che a dominare gli avvenimenti, nobiltà, clero e terzo stato dimostravano chiara coscienza dei loro interessi e dei loro fini nei cahiers, che ogni circoscrizione elettorale doveva compilare, e nella vasta letteratura pubblicistica, che pullulò nel periodo delle elezioni. Tutte e tre le classi erano concordi nel combattere il dispotismo monarchico e ministeriale e nel volersi garantire stabilmente da esso con una costituzione scritta. Tutte e tre le classi erano d'accordo nel ritenere compito degli Stati Generali il voto, il controllo e la regolamentazione delle imposte. Ma quale classe avrebbe dato il tono all'assemblea? Nella nobiltà per reazione all'assolutismo di Luigi XIV si era risvegliato il senso della dignità umana e il senso di classe. L'esempio vivente dell'aristocrazia inglese aveva acuito nei nobili il desiderio di ritornare a essere politicamente la classe dirigente; sorgeva così il concetto aristocratico della nazione, che poneva la nobiltà nella più netta antitesi col terzo stato. Ma nel seno stesso della nobiltà una minoranza, ispirata dal La Fayette, era pronta a collaborare col terzo stato, e ciò spezzava la compattezza della classe. D'altro canto nessuno stretto legame univa la nobiltà reazionaria al clero: le idee di tolleranza e di libertà di pensare, di parlare e di scrivere; la disposizione a far man bassa sui beni ecclesiastici, purché non si toccassero i proprî; il fatto che i nobili formavano la minoranza episcopalista del clero, impediva ogni collaborazione tra le due classi privilegiate. Di fronte alla nobiltà, il terzo stato si ergeva come rappresentante la vera nazione: la nazione è la maggioranza dei cittadini, la nazione non è tale per tradizione, per sangue più o meno puro, ma per volontà, per auto-decisione: spuntava così il concetto democratico della nazione. Il terzo stato aspirava alla piena eguaglianza giuridica tra tutti i cittadini, alla fine o alla restrizione del regime signorile nelle campagne, alla libertà nelle industrie con la soppressione delle corporazioni. Liberista nel commercio interno (soppressione dei dazî, unità economica territoriale, ecc.), il terzo stato era protezionista in quello estero e condannava il trattato di commercio con l'Inghilterra del 1786. Tuttavia già spuntavano nel seno della borghesia i primi contrasti sociali: la questione demaniale poneva la borghesia contro i contadini e quella dell'abolizione delle associazioni d'arti e mestieri contro gli operai delle città. Ma questi contrasti non erano ancora tanto forti da spezzare il blocco del terzo stato. Nel clero, infine, si riflettevano i contrasti sociali del paese (v. francese, rivoluzione).
Dopo nove mesi, attraverso un sistema lungo e complicato ma nella più autentica libertà, le elezioni ebbero termine, e il 5 maggio 1789 a Versailles si tenne la seduta inaugurale degli Stati Generali: di tutto si parlò salvo che della questione della modalità del voto, senza la quale l'assemblea non avrebbe potuto funzionare. Il terzo stato decise d'invitare gli altri due ordini a riunirsi a esso per la verifica dei poteri di tutti i deputati e di considerarsi intanto una semplice assemblea privata. Dopo più d'un mese di vane trattative con gli altri due ordini, il terzo stato aveva già cominciato da solo la verifica dei poteri dei deputati il 12 giugno, allorché nei giorni successivi il basso clero spezzò l'unione delle classi privilegiate e venne a unirsi ad esso, e allora il terzo stato si proclamò Assemblea nazionale (17 giugno). Dinnanzi a questo atto, il re, spinto dai nobili, decise d'imporre all'assemblea con un lit de justice il voto per ordine, e intanto non seppe fare altro che chiudere la sala in cui si riunivano i deputati del terzo stato, i quali naturalmente non fecero che cambiar sala, e il 20 giugno giurarono di non separarsi prima d'aver dato una costituzione alla Francia, prevenendo, sull'esempio dei parlamenti, l'atto d'arbitrio del re con un atto di resistenza e ribellione legale. Il 23 giugno si tenne il lit de justice: il re impose il voto per ordine e invitò i deputati a sciogliersi per riunirsi nei giorni seguenti in camere separate. Nobiltà e clero obbedirono, ma il terzo stato alle ingiunzioni del cerimoniere di corte De Brézé oppose la maestà dell'assemblea e quella sera stessa proclamò l'inviolabilità dei deputati, tutto per opera di Mirabeau, il meglio dotato di senso politico dell'assemblea. Il re non ebbe l'animo di farsi obbedire. Fu la giornata decisiva della rivoluzione: la sovranità passava coi suoi attributi dalla monarchia al popolo. Il 24 giugno il clero si unì al terzo stato, il 25, 47 nobili lo imitarono, il 27 il re invitava tutti gli altri nobili a seguirli.
L'Assemblea nazionale trionfava, ma il re meditava la rivincita; congedò il Necker l'11 luglio, chiamò al ministero il barone di Breteuil, cominciò a concentrare truppe nei dintorni di Parigi. Prima che i propositi reazionarî prendessero corpo, con un pronto intuito politico, le forze rivoluzionarie li stroncarono sul nascere. La carestia per il cattivo raccolto, l'alto prezzo del pane e dei generi di prima necessità, la disoccupazione in seguito alla crisi industriale prodotta dalle invasioni delle merci inglesi dopo il trattato di commercio del 1786, producevano nelle masse uno stato continuo di malessere e di nervosismo. Il terzo stato seppe approfittare di questo fermento rivoluzionario naturale ed elementare, per i suoi fini e per intimidire la monarchia. Il 12 luglio il popolo minuto parigino, eccitato da Desmoulins, dagli agenti dell'assemblea e da quelli del duca d'Orléans cominciò ad agitarsi. Le guardie francesi fraternizzarono col popolo. Il generale Bezenval, comandante delle truppe ammassate al Campo di Marte, senza ordini della corte, sgombrò Parigi. Un comitato permanente, un vero comitato d'insurrezione, fu insediato all'Hôtel de Ville. La folla, armatasi agli Invalidi, espugnò la Bastiglia il 14 luglio, la rase al suolo e ne uccise il comandante De Launay. Il capo dell'antica municipalità, il prevosto dei mercanti, De Flesselles, essendosi opposto al moto, fu trucidato. Una nuova municipalità, alla cui testa fu posto il Bailly come maire, sostituì l'antica ed ebbe a sua disposizione una forza armata, che più tardi si chiamò guardia nazionale, sotto il comando del La Fayette. Il re, atterrito da queste notizie, congedò Breteuil, richiamò Necker e si recò a Parigi, ove dovette riconoscere la nuova bandiera rivoluzionaria, il tricolore. Il conte d'Artois e i suoi seguaci abbandonarono la Francia e cominciò l'emigrazione nobiliare.
La rivolta parigina ebbe non solo un'immensa ripercussione morale all'estero, dove la presa della Bastiglia divenne un simbolo, ma anche un'immediata ripercussione nel paese, e produsse due rivoluzioni, in parte concorrenti, in parte divergenti. La prima, una rivoluzione comunale, spiantò in tutte le città le vecchie forme municipali medievali e pose al loro posto comitati permanenti e guardie nazionali. I poteri degl'intendenti caddero: la Francia da stato tendenzialmente accentratore si trasformò di botto in una federazione di comuni. La seconda rivoluzione, agraria, fu preceduta da un fenomeno di panico collettivo (la grande peur): nelle campagne si sparse la voce che torme di briganti scorrazzavano; i contadini presero le armi, ma non vedendo venir briganti si rivolsero contro i castelli feudali saccheggiandoli, malmenandone o uccidendone i proprietarî nobili, e abolendo di fatto la feudalità, sebbene la borghesia delle città, proprietaria di terre o usufruttuaria di rendite feudali, mandasse guardie nazionali a metter l'ordine.
L'Assemblea nazionale sentì il dovere di consacrare questo nuovo stato di fatto nella notte del 4 agosto. Su iniziativa dei nobili e del clero furono dichiarati aboliti i diritti feudali personali (corvées, manimorte, ecc.) e riscattabili quelli reali; i paesi di stato e quelli d'elezione rinunziarono alle loro franchige; il clero rinunziò alla decima. Cadde ogni divisione tra le classi e tra le provincie: in una parola tutto il vecchio regime di privilegio. Se la notte del 4 agosto fu l'atto di morte del vecchio regime, la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino (26 agosto) fu l'atto di nascita della nuova Francia. La Dichiarazione dei diritti è stata per lo più giudicata o coi criterî d'un astratto ideologismo o con quelli d'un realismo di tutti i giorni e quindi pseudo-realismo rispetto a una situazione d'eccezione: nel primo caso o s'è tentato di esasperare le contraddizioni implicite nella Dichiarazione o s'è tentato di mediarle in un'armonia costruita a posteriori; nel secondo si è ritenuto ch'essa fosse opera inconcludente di utopisti, privi del senso del reale. Nell'uno e nell'altro caso non si è tenuto conto abbastanza delle contingenze storiche in cui operava la Costituente e con le quali si spiegano tutte le apparenti contraddizioni. Così il contrasto tra l'affermazione della sovranità popolare, che postula una concezione monistica della realtà politica, e la dichiarazione dei singoli diritti di libertà, che postula una concezione dualistica e uno stato quasi estraneo agl'individui, si comprende quando si tenga presente il fatto che la Dichiarazione è non solo una dichiarazione astratta di principî, ma un atto concreto di guerra ai tiranni, una garanzia verso la monarchia, di cui non si sa fare ancora a meno e di cui si diffida.
Intanto si manifestavano le prime profonde scissure nel seno dell'assemblea: la destra, monarchica costituzionale, per opera del Mounier e del Lally Tollendal, propose il sistema della doppia camera, di cui una ereditaria, e il riconoscimento al re del veto assoluto per fortificare il potere esecutivo e le forze conservatrici; ma la sinistra, capitanata dal Barnave, da Alexandre e Charles Lameth e dal Duport si oppose tenacemente. I tentativi di compromesso di La Fayette fallirono: il progetto della camera alta, in cui si temeva una roccaforte della nobiltà e della controrivoluzione, fu rigettato, e al re, nonostante la splendida difesa del Mirabeau, non fu concesso che un veto sospensivo per due legislature. Questa concessione era stata fatta a Luigi XVI col patto segreto che egli avrebbe sanzionato i decreti d'agosto. La destra eccitò il re alla resistenza; fu chiamato a Versailles il reggimento di Fiandra, che ebbe l'imprudenza di calpestare il tricolore; e si ventilò il progetto di trasferire l'assemblea in altra città. Pronta, come al solito, fu la reazione rivoluzionaria. La folla parigina corse a Versailles, obbligò il re a sanzionare i decreti d'agosto e a trasferirsi a Parigi, prigioniero di fatto della rivoluzione (5-6 ottobre). Mounier e i suoi amici emigrarono. La Fayette, dopo le giornate d'ottobre, in cui era stato un po' il mediatore tra il popolo e il re, divenne l'arbitro della Francia ed esercitò una specie di dittatura morale. Sinceramente attaccato alla monarchia e alla rivoluzione, egli avrebbe potuto conciliare l'una e l'altra e fondare un forte partito monarchico costituzionale. Ma la coppia reale non gli era amica con franchezza; e Mirabeau, mentre scriveva a La Fayette di voler essere la sua eminenza grigia, tentava di scalzarlo a corte. Tumulti reazionarî scoppiati nel Mezzogiorno, per opera di agenti del conte di Artois, tenevano deste le diffidenze contro la monarchia. Nondimeno La Fayette molto fece per la causa monarchica: furono organizzate dimostrazioni di lealismo dinastico, fu fatto tacere Marat, fu fatto partire per l'Inghilterra quel grande mestatore d'intrighi del duca di Orléans, fu creato un ministero di fayettisti. L'assemblea resisteva a questa ondata monarchica: il 7 novembre fu decretato che nessun membro di essa potesse divenire ministro: era un colpo al Mirabeau, che solo poteva salvare la corte. Ma la battaglia decisiva s'ingaggiò nel maggio 1790. La Spagna, avendo l'Inghilterra occupata la baia di Nootka (Columbia britannica), chiese l'aiuto francese in base al patto di famiglia. La sinistra della Camera si scagliò contro la diplomazia segreta, contro le amicizie e le lotte dinastiche e rivendicò all'assemblea il diritto di dichiarare la guerra e di concludere i trattati. Ma La Fayette e specialmente Mirabeau difesero la prerogativa regia con tanto vigore, che si dovette venire a un compromesso: il re avrebbe avuto il diritto di proporre la guerra o la pace, l'assemblea quello di decretarla; il re avrebbe avuto la direzione della politica estera, l'assemblea lo avrebbe sorvegliato con un comitato diplomatico. La Fayette celebrò il più grande trionfo nella festa della Federazione il 14 luglio 1790, che simboleggiò la salda unità della nuova Francia. Poi la sua fortuna declinò, allorché da buon soldato volle ricondurre la disciplina nell'esercito (repressione del moto militare di Nancy): nacque allora nella corte una nuova speranza controrivoluzionaria: quella d'imporsi con la forza dell'esercito fedele (agosto 1790).
Intanto si rafforzavano le varie tendenze politiche per mezzo dei clubs e dei giornali. Primeggiava tra i club quello dei giacobini, che aveva molte filiali in provincia, in cui finirono col prevalere nel 1790 i Lameth, Duport e Barnave; seguivano la Société de 1789, composta dagli amici di La Fayette, e il club dei cordiglieri, di più accesa intonazione rivoluzionaria. I reazionarî si riunivano ai Cappuccini o al Salon Français. Coi club sorgeva il giornalismo politico moderno con giornalisti di razza, come Desmoulins (Les Révolutions de France et de Brabant) e Brissot (Le patriote français) tra i rivoluzionarî, Rivarol (Actes des Apôtres) tra i reazionarî.
Nuove tribolazioni continuarono a travagliare il re: il 20 ottobre 1790 dovette subire un nuovo ministero fayettista, poi vennero le leggi sul clero, che colpirono i suoi sentimenti religiosi, poi quella sugli emigrati (febbraio 1791), infine l'esclusione delle donne dalla reggenza (7 marzo), che volle essere un colpo alla regina. Per colmo di sventura, Luigi XVI perdette la più bella lama al soldo della monarchia con la morte di Mirabeau (2 aprile 1791) e le monarchie straniere, nonostante fossero sollecitate dal suo fido Breteuil, non si decidevano a intervenire. Luigi volle fuggire, recarsi fra le truppe del Bouillé e tentare con la forza un colpo di stato. Partì con la famiglia il 20 giugno, ma, riconosciuto a Varennes, dovette ritornare a Parigi, ove venne sospeso dalle sue funzioni regali. Una vasta agitazione antimonarchica e repubblicana si delineò nelle masse rivoluzionarie e nei gruppi più avanzati. Ma l'idea monarchica trovò i suoi più battaglieri difensori nel gruppo dei Lameth, di Barnave e Duport, che si staccarono dai giacobini, in cui lasciarono il campo a Robespierre, e fondarono il nuovo club dei foglianti. All'assemblea Barnave fece mettere fuori causa il re (15 luglio) e gettare tutta la colpa della fuga su Bouillé. I repubblicani fecero un ultimo sforzo il 17 luglio, firmando una grande petizione al campo di Marte, ma vennero schiacciati dal La Fayette. Così per opera dei lamethisti la monarchia fu ancora una volta salvata, fu evitata la guerra con le potenze reazionarie, che avevano interrotto dopo la sospensione del re i rapporti con la Francia, e che si contentarono della platonica dichiarazione di Pilnitz (23 agosto); il re fu obbligato ad approvare la costituzione il 14 settembre 1791. Compiuta la sua opera, l'assemblea si sciolse il 30 settembre 1791.
Occasionata da un problema particolare, il problema finanziario, l'assemblea, dalla resistenza attiva delle classi privilegiate e passiva della monarchia, ebbe la sensazione netta che quel problema non era che un aspetto d'una più vasta crisi, la crisi dell'antico regime, l'abisso esistente tra le nuove condizioni reali della Francia e le sue istituzioni invecchiate. La Costituente colmò questo abisso - e questo fu il suo grande merito - ma non ebbe né il tempo, né il senno, né il potere di risolvere il problema particolare e le sue soluzioni, come tutte le soluzioni, risolsero i problemi vecchi e ne impostarono dei nuovi. Certo nei membri della Costituente il senso politico non fu pari all'entusiasmo morale con cui vennero affrontate le più gravi questioni e all'effettiva conoscenza tecnica dei problemi particolari non corrispose in loro quel sapere realistico che può solo esser dato dall'esperienza della vita politica e amministrativa. Ma un'esperienza come quella delle camere inglesi, non poteva averla la Costituente, perché non poteva farsela nella luna, bensì vivendo e legiferando, e quelli tra i membri della Costituente, che sapranno scampare alla ghigliottina, diverranno un giorno i collaboratori di Napoleone, che di realismo ne avranno anche troppo. L'opera della Costituente si può ridurre all'applicazione di pochi principî: il passaggio di tutti i poteri dalla monarchia al popolo, che li esercita per mezzo delle elezioni; l'emancipazione dell'individuo; la razionalizzazione organica e semplificatrice di tutte le istituzioni; la diffidenza verso il potere esecutivo, verso la monarchia.
Proclamata la sovranità del popolo, il supremo potere passò dalla monarchia all'assemblea e tutte le cariche, fino allora concesse o vendute (cariche giudiziarie) dalla monarchia, divennero elettive; perfino il diritto della nomina dei vescovi passò al popolo. Le municipalità, i consigli distrettuali e dipartimentali, i giudici di pace e quelli dei tribunali dipartimentali, tutti erano eletti dal popolo. Ma da quale popolo? Da quelli che pagavano un dato censo d'imposte, dai cittadini attivi, non dai nullatenenti, dai cittadini passivi. Sorse il contrasto tra cittadini attivi e passivi, tra borghesia e proletariato, che le altre assemblee tenteranno di risolvere.
Il rispetto al passato, divenuto vuota tradizione, aveva moltiplicato nell'antico regime gli uffici e aveva mantenuto i privilegi storici delle provincie. Tutto questo sparve per opera della Costituente, che creò un'amministrazione autonoma ma uniforme, e soppresse le cariche inutili. Al difetto della tradizione intesa come vuoto omaggio, si sostituirono talvolta costruzioni, che rivelavano negli autori più gusto architettonico geometrico che senso del reale, ma è certo che un'intelligente razionalizzazione, come ben vide il Tocqueville, era imposta dalle stesse reali condizioni della Francia. La Francia fu divisa in 83 dipartimenti non solo per il gusto di dividerla in parti uguali, ma anche perché da ogni angolo del dipartimento si potesse andare nel capoluogo in una sola giornata.
Il limite dell'opera della Costituente è la determinazione dell'ufficio della monarchia, che rispecchia la situazione contraddittoria in cui essa si trovava: la monarchia con le sue resistenze passive, i suoi pentimenti, le sue insincerità non conquista la rivoluzione, ma col suo contegno remissivo non ancora l'esaspera; d'altro canto l'assemblea sente quasi per istinto rivoluzionario la diffidenza verso il nemico, ma non è liberata ancora dal suo fascino secolare. La storia interna della Costituente è il successivo cadere sotto questo fascino dei suoi membri, da Mounier a Barnave: non resta immune che il gruppo del Robespierre, passato alla repubblica dopo la fuga del re. Ma la storia esterna della Costituente è diversa: il re nella costituzione è l'amico infido che occorre neutralizzare: la sua autorità è ricreata ab ovo: non più l'origine divina o il diritto patrimoniale: egli è un semplice commesso della nazione, che può essere messo in stato d'accusa in caso di tradimento. Ha 25 milioni di franchi come lista civile, ma un intendente deve renderne conto all'assemblea. Comanda le truppe, ma non può radunarle a meno di 30 miglia dall'assemblea. Propone la pace o la guerra, ma non può deciderla. Firma, ma i suoi atti non hanno valore se non sono controfirmati da un ministro. Nomina i ministri fuori dell'assemblea, ma essi sono responsabili dinnanzi all'assemblea. Ha il diritto di veto, ma non sulle leggi costituzionali. Il potere esecutivo in una parola è esautorato e la fine degl'intendenti, le piene autonomie provinciali, gli tolgono ogni mezzo d'agire nel paese.
Con la rivoluzione politica, si accompagna una rivoluzione economica, nella quale trionfano i principî fisiocratici, salvo nella politica commerciale estera, in cui s'inaugura un moderato protezionismo. Nella questione agraria, aboliti i diritti feudali e i privilegi, sorge la proprietà libera. La vendita dei beni ecclesiastici accresce la forza della borghesia agraria (grossi fittavoli e grossi fermieri) e dà l'ultimo colpo alla proprietà privilegiata. Libera la proprietà, divengono libere l'industria (soppressione delle corporazioni, 2-17 marzo 1791, con la conseguente abolizione degl'ispettori e dei regolamenti delle manifatture) e il commercio (soppressione delle dogane interne, libertà del commercio dei cereali, ecc.). Solo nel commercio estero si passò a un sistema protezionista moderato con le tariffe doganali del 1791, perché il trattato di commercio con l'Inghilterra del 1786, pur ispirato al libero scambio, era stato tanto impopolare quanto l'alleanza austriaca, pur ispirata al pacifismo. Restavano problemi aperti: la questione della riscattabilità dei diritti feudali, che generarono una serie di liti nelle campagne, la questione demaniale, l'incipiente contrasto tra borghesia e operai industriali, che volevano associarsi in organizzazioni di classe.
La riforma economica generò quella finanziaria: distrutto il sistema feudale, alle contribuzioni indirette occorreva sostituire le dirette, alle immunità l'eguaglianza di tutti dinnanzi alle imposte. Vennero così stabilite la fondiaria, la patente, un'imposta sulle vendite commerciali e industriali, e un contributo mobiliare. Ma tutto questo presupponeva un lungo lavorio per un catasto e per la formazione di ruoli, che non si poteva compiere con rapidità in un momento di effervescenza e senza un solido ordine statale. Queste imposte, quindi, poco resero da principio. Necker tentò due prestiti, una contribuzione volontaria patriottica, esautorò la Cassa di sconto, ma invano, e allora si decise di porre le mani sui beni del clero, che, valutati a circa tre miliardi e posti a disposizione della nazione (dicembre 1789) formarono la base della Cassa dello straordinario. Su una parte di questi beni (400 milioni), si emisero degli assegnati con l'interesse del 4 per 100. Ma, siccome i beni erano effettivamente ancora in potere del clero, l'assegnato non incontrò fortuna. Si fecero allora le nuove leggi ecclesiastiche, l'assegnato divenne un biglietto di banca e se ne portò l'emissione a 1200 milioni. I danni dell'inflazione furono enormi, ma l'acquisto dei beni ecclesiastici giovò molto alla rivoluzione. Occasionata dalla questione finanziaria, la riforma del clero era imposta da tutta la nuova riforma della società. La notte del 4 agosto 1789 con la soppressione delle annate e delle decime diede al clero il primo colpo, ma di queste perdite gli si garantirono indennità sul bilancio dello stato. Seguì l'abolizione del clero regolare per scopi economici (porre in circolazione i beni dei monasteri) e per scopi morali (l'avversione al misticismo e all'ascetismo cristiano). Infine si compì nella disciplina della chiesa (29 maggio-12 luglio) una rivoluzione democratica: vescovi e curati dovevano essere eletti dal popolo, un consiglio limitava i poteri del vescovo, nessun tributo si doveva pagare al papa, le circoscrizioni diocesane dovevano coincidere con quelle amministrative, la proprietà ecclesiastica passava alla nazione, che si assumeva il peso del mantenimento del clero. Era la completa laicizzazione del clero sotto veste di ritorno alla primitiva democrazia cristiana e solo qualche debole residuo di diritto canonico restava nel fatto che i curati dovessero essere istituiti canonicamente dai vescovi e i vescovi dal metropolita. I vescovi dell'assemtblea ritennero necessario che la costituzione avesse un crisma canonico e proposero un concilio nazionale di vescovi, ma si preferì chiedere l'approvazione del papa. Pio VI tacque lunghi mesi. La Costituente impose allora al clero il 27 novembre di giurare fedeltà alla costituzione civile. La maggioranza dei vescovi e dei curati rifiutò, altri accettarono e tra gli altri sette vescovi, che, salvando il principio dell'istituzione canonica, impedirono che la chiesa scismatica si dissolvesse senza residui nella società laica. La costituzione civile del clero è stata ritenuta il più grande errore politico della Costituente anche dagli storici più benevoli alla rivoluzione, ma occorre avvertire, che se essa complicò la rivoluzione con la lotta religiosa e le fece perdere l'appoggio del clero, fu essa pure che creò intorno alla rivoluzione i più saldi interessi con la nazionalizzazione dei beni ecclesiastici.
Il 10 ottobre 1791 si riunì la nuova assemblea. I foglianti, divisi come sempre nelle due frazioni dei lamethisti e dei fayettisti, sedettero a destra: ambedue le frazioni si disputavano i favori della monarchia, ma vinsero i lamethisti, dimostrandosi più arrendevoli verso il re, che accettò un ministero di loro creature e d'accordo con loro silurò la candidatura di La Fayette a maire di Parigi. Contro i lamethisti impegnò una lotta senza quartiere la sinistra della camera, composta da un gruppo di deputati detti girondini, perché tra essi prevalevano quelli della Gironda. Giovani entusiasti, brillanti oratori, vivaci pamphletaires, avevano tutte le doti per trascinare un'assemblea e un popolo come il francese. Poiché la crisi economica che travagliava la Francia derivava non più dalla carestia, ma dall'inflazione degli assegnati, e poiché il valore degli assegnati, moneta fiduciaria, era minato dalle mene dei preti refrattarî all'interno e dagli emigrati all'estero, i girondini ispirarono i decreti del 31 ottobre e del 9 novembre 1791 contro gli emigrati, del 29 novembre contro i preti refrattarî e il 29 novembre stesso pregarono il re di mandare un ultimatum all'elettore di Treviri, perché espellesse dal suo territorio gli emigrati. I lamethisti consigliarono il re di resistere col veto a tutti questi decreti e di evitare la guerra: il re accettò il loro consiglio sul primo punto, ma non sul secondo e mandò l'ultimatum all'elettore di Treviri, sperando dalla guerra l'aiuto, tanto invocato, delle potenze europee. Al partito della guerra si associò anche il La Fayette, che sperava di coprirsi di gloria e di salvare la monarchia, una volta vittorioso del nemico. Alla guerra, invece, si oppose con tutte le sue forze Robespierre, che temeva un'insidia controrivoluzionaria. L'imperatore d'Austria Leopoldo annunziò il 21 dicembre che l'elettore di Treviri aveva espulso gli emigrati, ma che se il suo territorio fosse stato violato dai Francesi, egli avrebbe ritenuto ciò un casus belli; il 7 febbraio 1792 si alleò con la Prussia, e il 20 febbraio anche la Prussia minacciò alla Francia la guerra se avesse invaso il territorio tedesco. Queste dichiarazioni esasperarono gli ardenti girondini, che fecero confiscare i beni degli emigrati (9 febbraio e 29 marzo 1792), misero in stato d'accusa il ministro lamethista degli esteri de Lessart (10 marzo), intimidirono il re e gl'imposero un ministero di loro creature (Roland, Clavière, Servan), in cui prevaleva Dumouriez, un irregolare della vecchia diplomazia, avverso all'Austria. Così il re fu obbligato a dichiarare la guerra, che si proclamò al re di Boemia e d'Ungheria (20 aprile) e non all'imperatore per non urtare le suscettibilità tedesche. La guerra si aprì sotto cattivi auspici. L'esercito, mal preparato, minato dalle lotte politiche e dall'indisciplina, fuggì appena vide il nemico e trucidò i suoi capi (29 aprile). I tre generali d'armata, Luckner, La Fayette e Rochambeau, dopo un consiglio di guerra, mandarono a dire all'assemblea che non era possibile continuare le ostilità con un esercito in tali condizioni (18 maggio). Si gridò al tradimento, si temettero colpi di stato, e i Girondini proposero tre provvedimenti: la dissoluzione della guardia del re (27 maggio), la deportazione dei preti refrattarî (29 maggio) e l'adunata a Parigi di 20 mila federati per la sicurezza dell'assemblea (6 giugno). Il re, spinto dai lamethisti, approvò il primo decreto, ma pose il veto agli altri due, e, poiché Roland protestava, congedò tutto il ministero girondino (13 giugno) salvo Dumouriez, che però dovette seguirli due giorni dopo (15 giugno), e nominò un ministero lamethista. I girondini per intimidire il re sciolsero i freni al popolo parigino, che insultò Luigi XVI nella giornata del 20 giugno e gli pose in testa il berretto frigio. Ci fu allora l'ultima reazione monarchica costituzionale: La Fayette corse a Parigi e tentò invano di sollevare la guardia nazionale a favore del re (28 giugno); ritornò all'esercito e invitò il re al suo campo di Compiègne (luglio), ma il re non volle o non poté andarvi. Intanto la Gironda agitava contro la monarchia il paese e l'assemblea; ma, quando il re licenziò il ministero lamethista e si dimostrò pronto a riprenderne uno girondino, si chetò e assunse quella missione moderatrice, ormai sfuggita ai foglianti, uomini politicamente finiti. Sennonché non si chetarono quelle forze che la Gironda, incautamente, aveva messo in moto. I 20 mila federati e le sezioni rivoluzionarie parigine decisero di farla una buona volta finita con la monarchia. La dichiarazione della patria in pericolo (luglio) con gli arruolamenti dei volontarî aveva esaltato il loro patriottismo, il manifesto insultante del duca di Brunswick, comandante dei Prussiani, lo aveva esasperato. Danton, che li animava, ebbe la sensazione netta che per fare la guerra della rivoluzione occorreva sbarazzarsi della monarchia. Così il 10 agosto le Tuileries furono prese, gli Svizzeri trucidati, e l'assemblea costretta a sospendere il re dalle sue funzioni e a farlo rinchiudere nel Tempio. La Gironda vide drizzarsi contro la Comune, che anticipò i metodi della Montagna e del Terrore.
Alla concezione legalitaria e parlamentare della Gironda si oppose la concezione estremista, demagogica della Comune, agli oratori dell'assemblea gli oratori della piazza, alla libertà politica ed economica la dittatura politica ed economica. Non si tratta di due classi sociali diverse, come vuole il Mathiez, l'una della grossa, l'altra della piccola borghesia, spalleggiata dal popolo minuto; l'una dei produttori, l'altra dei consumatori; ma di due classi politiche con mentalità, tattica e senso della situazione del momento completamente diversi. L'assemblea fu costretta a concedere l'abolizione senza indennità dei diritti feudali e la divisione in piccoli lotti delle terre demaniali nelle campagne e nuovi provvedimenti contro il clero refrattario, e permettere provvedimenti d'eccezione per la sicurezza rivoluzionaria (tribunale rivoluzionario, visite domiciliari, perquisizioni).
Tre eserciti intanto invadevano la Francia, due austriaci e uno prussiano: Longwy prima, Verdun dopo caddero in mano dei Prussiani, Thionville in mano degli Austriaci. Il ministero in prevalenza girondino, che aveva assunto il potere dopo il 10 agosto, voleva trasportare la capitale altrove, ma Danton, che copriva nello stesso ministero il dicastero della Giustizia, si oppose con la sua travolgente energia (28 agosto) e, se non ordinò, certo preparò con la sua concezione politica e consacrò, assumendone la responsabilità, quelle terribili stragi di settembre (2-6 settembre), che fecero inorridire tutta l'Europa civile. Mentre all'interno la rivoluzione compiva le sue stragi, all'esterno riportava la sua prima vittoria: a Valmy, il 20 settembre 1792, per la prima volta le truppe della rivoluzione non volsero le spalle al nemico.
La Convenzione s'inaugurava il 21 settembre tra i più brillanti successi militari: mentre Dumouriez vinceva a Valmy, il generale Montesquiou conquistava la Savoia, il generale Anselme entrava a Nizza e il generale Custine a Spira (30 settembre) e a Magonza (21 ottobre). L'assemblea era divisa tra la Gironda e la Montagna, che erano tendenze politiche piuttosto che partiti nel senso esatto della parola, di cui l'una voleva mantenere il corso normale dell'amministrazione della giustizia e la libertà economica, e l'altra voleva misure d'eccezione. Danton tentò di porre tra le due parti una passerella: niente legge agraria e niente dittatura, contenta quindi la Gironda; niente federalismo, contenta quindi la Montagna, tutti uniti nel rassodare francamente una repubblica democratica unitaria. La repubblica fu proclamata il 21 settembre stesso, grazie al tatto di Danton, che riuscì a ottenere una tregua fra le due parti; ma la Gironda sferrò subito dopo un'offensiva mortale contro la Montagna: a Danton, che aveva lasciato il ministero della Giustizia, furono chiesti i conti della sua amministrazione, Marat e Robespierre furono denunziati per le loro mire dittatoriali, una guardia dipartimentale fu invocata per difendere la Convenzione dalle pressioni del popolo di Parigi. La maggioranza dell'assemblea, fino allora oscillante, si oppose a queste misure, e la Montagna poté passare al contrattacco, chiedendo il processo del re. I girondini tentarono di prorogarlo e salvare la vita del re, ma trascinati dalla maggioranza della camera, capitolarono e il re fu ghigliottinato il 21 gennaio 1793. L'opinione pubblica europea si commosse a questo delitto: l'Inghilterra, la Spagna, le piccole potenze italiane e germaniche ruppero le relazioni con la Francia. Si formò allora la prima coalizione, animata dall'Inghilterra, che si era nettamente schierata tra i nemici della Francia, fin da quando il Dumouriez aveva conquistato il Belgio dopo la bella vittoria di Jemappes (6 novembre), ed erano state aperte alla navigazione le bocche della Schelda (16 novembre) contro il trattato di Vestfalia. Burke, l'animatore dell'azione controrivoluzionaria, avrebbe voluto che s'impostasse una guerra di principî: si combatteva non la Francia, ma la rivoluzione, e occorreva appoggiare in Francia il partito realista e non pensare a conquistar colonie o indennità finanziarie o territoriali. Ma Pitt si mantenne nel campo diplomatico e non voleva che imporre alla Francia il rispetto dei trattati internazionali e il principio d'equilibrio. Ciò impedì che la guerra controrivoluzionaria avesse quell'afflato etico-religioso, che aveva la guerra rivoluzionaria nel pensiero girondino.
Mentre le potenze europee si mostravano così poco energiche e accorte nel non portare nettamente la guerra sul terreno morale, nell'incipiente diplomazia rivoluzionaria s'inserivano due principî che in un linguaggio retorico nuovo continuavano vecchie, gloriose e abili tradizioni: il principio del portare soccorso a tutti i popoli schiavi proseguiva l'uso che dei concetti di "libertà d'Italia, di Germania, d'Europa", dei gesta Dei per Francos aveva fatto la vecchia monarchia, e il principio dei confini naturali, alle Alpi e al Reno: i due concetti, sostenuti in particolare l'uno dai girondini, l'altro da Danton, s'integravano e facevano sì che la Francia, pur servendo la causa della civiltà, non dimenticasse sé stessa. In base al principio dei confini naturali e dell'auto-decisione o spontanea dedizione dei popoli, furono annessi alla Francia la Savoia (27 novembre), Nizza (31 gennaio 1793), il Belgio e la Renania (marzo).
Incoraggiata dal successo, la Convenzione fece invadere da Dumouriez l'Olanda (26 febbraio), ma gli Austriaci, condotti dal principe di Coburgo, invasero il Belgio e batterono Dumouriez, ritornato per difenderlo, a Neerwinden il 18 marzo, riconquistarono il Belgio, entrarono in Francia, e cominciarono l'assedio delle fortezze create dal Vauban nel nord della Francia. Intanto i Sardi rioccupavano la Savoia, e gli Spagnoli, condotti dal Ricardos e dal Caro, penetravano in Francia. La Vandea, già eccitata dai preti refrattarî, si ribellò alla coscrizione (10-15 marzo). Il popolo nelle città invocava o imponeva la regolamentazione della vita economica. I contadini volevano finirla definitivamente col problema della terra. Il momento era gravissimo. La Montagna sentì venuta la sua ora e promosse l'istituzione d'un Comitato di salute pubblica in cui entrò Danton (5-6 aprile). Tentarono prevenirla i girondini con un colpo di testa. Il 1° aprile accusarono di tradimento Danton, il 13 si scagliarono contro Marat, Hébert e Robespierre come aspiranti alla dittatura. Ma la Montagna, spalleggiata dalle sezioni rivoluzionarie di Parigi, impose alla Convenzione l'arresto di 29 girondini (31 maggio-2 giugno). La Montagna raggiunse così finalmente il potere e lo tenne con pugno di ferro. La nuova costituzione, fondata sul suffragio universale, venne proclamata il 24 giugno e ciò soddisfece giuridicamente le correnti estremiste.
Il più rigido vincolismo esterno e interno sostituì il principio della libertà economica della Costituente e della Gironda: tutta la vita economica venne regolata dall'alto: fu imposto il maximum. sul prezzo del grano e sui salarî; fu dato il corso forzoso agli assegnati; fu chiusa la Borsa; venne minacciata la pena di morte agli accaparratori, si regolarono le importazioni e le esportazioni. Nella politica agraria si favorì la piccola proprietà: si vendettero a piccoli lotti i beni degli emigrati (3 giugno) e quelli demaniali (10 giugno) e fu dato l'ultimo definitivo colpo ai diritti feudali (17 luglio). Per la difesa della rivoluzione, s'istituì il Comitato di sicurezza generale, si promulgò una terribile legge sui sospetti, si arrestarono i sudditi degli stati nemici, si mandarono a morte la regina (16 ottobre) e i girondini (3 ottobre). Poiché le provincie si ribellarono per vendicare i girondini, e Tolone si diede perfino in mano agl'Inglesi, il Comitato di salute pubblica riaffermò il potere centrale nell'amministrazione con l'invio dei rappresentanti in missione prima, degli agenti nazionali poi, che ristabilirono l'ordine con misure dittatoriali e spesso con crudeltà. Sparì la libertà di stampa e del culto, anche del clero costituzionale, e si proclamò il nuovo calendario (ottobre) e il culto della Dea Ragione (novembre). Ma l'opera più grandiosa del Comitato di salute pubblica fu l'organizzazione della guerra. Danton aveva tentato le forme diplomatiche e si era sforzato di rompere la coalizione, ma venne considerato uomo di mentalità superata e sostituito da Robespierre il 27 luglio 1793. Si accelerarono allora i provvedimenti bellici. Si decretò, il 23 agosto, la leva in massa dei celibi dai 18 ai 25 anni; si organizzarono ben 14 eserciti, e si pensò al loro vettovagliamento in modo mirabile; si mobilitò tutta la nazione; si crearono fabbriche di munizioni e di armi; si concepì la guerra come fenomeno morale e si curò lo spirito del soldato; si posero a profitto le scoperte dei tecnici. Tutto questo stupendo lavoro, il primo esempio di organizzazione moderna della guerra, fu opera di due uomini di attività indiavolata, Carnot e Prieur Duvernois.
In tal modo il 1793 si chiude con una serie di vittorie su tutti i fronti: Houchard sconfigge gl'Inglesi a Hondschoote (settembre), Jourdan sgomina gli Austriaci a Wattignies e libera dall'assedio Maubeuge, Hoche conquista le linee di Weissemburg, la Savoia è ripresa, gli Spagnoli sono ricacciati oltre i Pirenei, Lione e Tolone sono espugnate; i Vandeani, che avevano osato passare la Loira, sono disfatti a Le Mans (12-13 dicembre) da Marceau e Kléber.
All'interno Robespierre, arbitro della situazione, lottava intanto per il suo particolare ideale rivoluzionario contro due frazioni, che riteneva rappresentare due estremi dannosi, quella di Danton, che voleva il ritorno alla normalità, quella di Hébert, che tendeva alla scristianizzazione della Francia ed era in completa balia delle masse parigine. Con l'aiuto di Danton, si sbarazzò di Hébert, che fu messo in stato d'accusa il 18 e ghigliottinato il 24 marzo 1794, quindi attaccò a morte Danton il 5 aprile. Il 7 maggio faceva proclamare il culto dell'Ente Supremo e il 10 giugno la facoltà di porre in stato d'accusa i membri della Convenzione senza il permesso dell'assemblea. Ma nell'atto stesso che celebrava il suo trionfo, Robespierre si scavava un abisso sotto ai piedi e sparivano quelle circostanze che avevano imposto il regime dittatoriale. In tanto la Convenzione lo temeva in quanto era il mediatore tra essa e la Comune di Parigi: la morte di Hébert e il provvedimento contro la Convenzione gli toglie ogni favore presso l'uno e presso l'altro potere e lo isola, mentre credeva di aver raggiunto il culmine della potenza. In tanto la nazione lo aveva subito in quanto aveva preparata la vittoria, ma ora la sua missione era finita: la battaglia di Fleurus schiudeva alla Francia (26 giugno) di nuovo il Belgio e il successo della guerra si delineava sicuro. Stanchi della sua tirannide, moderati e terroristi della Convenzione si unirono contro Robespierre (27-28 luglio) e lo mandarono alla ghigliottina coi suoi amici.
Intanto il Belgio e l'Olanda erano conquistati e il Reno rivedeva i Francesi. La coalizione si sfaldava per opera del Barthélemy, che concludeva la pace con la Prussia (5-6 aprile 1795) e con la Spagna (22 luglio 1795) a Basilea. L'Olanda, divenuta Repubblica batava, con la pace dell'Aia pagava centomila fiorini d'indennità, che venivano a sollevare un po' le finanze (16 maggio 1795).
Stroncato per opera di Hoche un tentativo anglo-realista di sbarco a Quiberon e pacificata la Vandea, avviata la Francia sulla via della pace, assicurata la continuità dello spirito della rivoluzione con la legge del 3-13 fruttidoro a. III (22-30 agosto), che assicurava due terzi dei posti della nuova camera creata dalla nuova costituzione a convenzionali, e disfatti i realisti nella giornata del 13 vendemmiaio (5 ottobre) per opera del generale Bonaparte, la Convenzione si sciolse il 26 ottobre 1795.
La costituzione dell'anno III rappresentava un ritorno al sistema censitario e all'equilibrio dei poteri della Costituente, con maggiore accentuazione anzi di quest'ultimo principio mediante l'istituzione d'una altra camera. Il potere legislativo infatti era esercitato da due camere, quella dei Cinquecento e quella degli Anziani, e il direttorio eletto dai consigli doveva rinnovarsi ogni anno della quinta parte per opera dei consigli stessi, che in tal modo esercitavano su di esso un continuo controllo. I primi direttori furono Barras, Carnot, Reubell, Larevellière, Letourneur, e cominciarono a governare in pieno accordo coi consigli, anzi presero dal loro seno due dei nuovi ministri: gli altri erano tecnici. Politicamente il direttorio non seppe formare un'opinione moderata, repubblicana e conservatrice, per mezzo dei giornali, delle scuole e del culto: dei giornali i migliori avevano tendenze contrarie all'ordine stabilito; la scuola non ebbe un impulso vigoroso in modo che potesse servire a una determinata educazione; il culto oscillò tra l'indifferentismo separatista più liberale per sottrarsi alle spese del bilancio del culto, e le velleità d'anticlericalismo e di nuove forme religiose come il teofilantropismo. Nel campo finanziario si perpetuò la crisi, pur tentando di sostituire ai deprezzatissimi assegnati i mandati territoriali sui beni nazionali non ancora venduti, compresi quelli del Belgio. Si ritornò al vincolismo nella politica economica, dopo la breve reazione fisiocratica dei Termidoriani, anche per le esigenze della guerra: il 6 agosto 1796 una nuova tariffa doganale facilitava lo scambio delle merci con le repubbliche satelliti; il 31 ottobre si presero gravi provvedimenti contro i prodotti inglesi e neutri, il 10 novembre si pose una marca ai prodotti francesi: in una parola, precorrendo la concezione napoleonica del blocco continentale, si cominciò a realizzare un'unità economica europea contro l'Inghilterra.
Intanto si conduceva a fondo anche la guerra continentale contro l'Austria: tre eserciti comandati da Jourdan, da Moreau e da Bonaparte dovevano condurre una risoluta offensiva contro gl'Imperiali e marciare di conserva su Vienna. Cominciò Bonaparte, che separò i Piemontesi dagli Austriaci a Montenotte e a Millesimo e costrinse i primi all'armistizio di Cherasco (28 aprile 1796), divenuta poi pace (15 maggio): Nizza e Savoia venivano riconosciute come appartenenti alla Francia e si pagò un'indennità di tre milioni da parte di Casa Savoia. Vittorioso ancora a Lodi, Bonaparte divenne padrone della Lombardia, e obbligò ad armistizî o a paci con pagamento d'indennità i duchi di Parma e di Modena, il re di Napoli, il papa. Nello stesso tempo Jourdan e Moreau passavano il Reno, e il Baden, il Württemberg, il circolo di Svevia patteggiavano con la Francia. Tornò alla riscossa l'Austria: in Germania Jourdan fu completamente battuto dall'arciduca Carlo e Moreau dovette compire la celebre ritirata del Danubio, una delle ritirate più perfette peraltro che l'arte della guerra ricordi; in Italia invece Bonaparte vinceva Würmser a Lonato, a Castiglione, a Bassano e lo rinchiudeva a Mantova. Alvinczy, altro generale austriaco, tentò due volte di liberare Mantova, ma fu disfatto ad Arcole e a Rivoli, Mantova cadde, e il papa, che aveva rotta la tregua, fu costretto a cedere le Legazioni. Riuscito vano contro Bonaparte anche il talento militare dell'arciduca Carlo, ripassato il Reno da Hoche e da Moreau, che avanzavano verso Francoforte e lungo il Danubio, la pertinacia austriaca capitolò a Leoben. L'Austria rinunziò al Belgio, alla riva sinistra del Reno e alla Lombardia, ottenendo in cambio la promessa di avere tutto ciò che apparteneva alla repubblica di Venezia. Penetrava così nella diplomazia rivoluzionaria il costume di barattare gli stati deboli per equilibrare tra loro gli stati forti e rinasceva la politica italiana della vecchia monarchia francese. È stata da molti storici, specie francesi, criticata questa rinascita, che faceva posporre i concreti interessi renani agli aleatorî interessi italiani, ma è da ricordare che una volta rigettata la politica d'alleanza austriaca dell'ultimo periodo dell'antico regime, una politica italiana doveva esserne il legittimo corollario: il disinteresse per l'Italia era possibile soltanto sulla base d'un accordo austro-francese. Su questo punto fu più rivoluzionaria la politica della monarchia nella sua ultima fase che quella della nuova Francia, la quale riprese in pieno la tradizione anti-austriaca (v. italia: Storia).
Mentre Bonaparte vinceva il più potente nemico esterno, il direttorio all'interno doveva lottare su due fronti: contro velleità socialisteggianti (Babeuf) poco vigorose in vero, perché ormai le masse popolari erano stanche e contente di aver raggiunto i tre otto: il pane, la carne e il vino a otto soldi; contro la reazione monarchica, più pericolosa perché voleva servirsi dei mezzi legali delle elezioni per riacquistare di soppiatto il potere. Nelle elezioni di germinale infatti i realisti riuscirono ad avere una certa maggioranza e nel sorteggio per il rinnovo del quinto direttore fecero eleggere un loro candidato, Barthélemy, conquistarono quindi Carnot (che realmente non credeva di divenire uno strumento monarchico, ma s'illudeva di poter creare un solido governo sulla base d'un accordo tra direttori e consigli), e giunsero perfino a chiedere che si rinnovasse il ministero e che anche la nomina dei commissarî di Tesoreria passasse dal direttorio ai consigli. Gli altri tre direttori contrattaccarono tempestivamente ed ebbero dalla loro parte l'esercito, che riteneva opera antinazionale quella dei realisti. Infatti l'Inghilterra nelle conferenze di Lilla e l'Austria in quelle di Mombello temporeggiavano nella speranza d'un cambiamento di governo. Perciò Hoche mandò un suo generale a comandare la Guardia del direttorio; Bonaparte inviò Augerau con 20 mila uomini e così si compì il colpo di stato di fruttidoro (17-18 fruttidoro, 3-4 settembre 1797). Carnot fuggì, Barthélemy fu arrestato e deportato, furono epurati i consigli con l'espulsione di 198 membri, di cui 33 condannati alla deportazione. Venne deciso che non si poteva più essere elettore senza aver prima giurato odio alla monarchia e all'anarchia e furono esclusi dai diritti politici gli emigrati e i refrattarî. Fu epurata anche la stampa e si decretò la deportazione di 70 giornalisti. François de Neufchâteau e Merlin de Douai presero il posto dei due direttori caduti.
Perduta ogni speranza d'un cambiamento interno in Francia, l'Austria firmò la pace di Campoformio (v. campoformido: Trattato di Campoformio) e l'Inghilterra interruppe le conferenze di Lilla. Per colpire a morte l'Inghilterra allora Bonaparte concepì una spedizione in Egitto, che avrebbe scosso l'Oriente e gli avrebbe spianata la via delle Indie. Il direttorio acconsentì, anche per toglierselo di torno, e Bonaparte veleggiò verso Alessandria.
Occupando Malta e invadendo l'Egitto, alto dominio turco, la Francia non solo s'inimicò la Turchia, ma anche la Russia, che si vedeva sorgere un nuovo temibile concorrente nelle sue mire sull'Impero Ottomano, mentre l'imprudente Bernadotte, ambasciatore francese a Vienna, si circondava di polacchi e ne eccitava le aspirazioni nazionali. Bonaparte disfece i Mammalucchi alle Piramidi, ma restò bloccato nell'Egitto in seguito alla vittoria di Nelson ad Abukir (10 agosto 1798).
La spedizione d'Egitto e la lotta economica contro l'Inghilterra, lo slancio dato alle aspirazioni delle nuove classi sociali in tutti i paesi confinanti, accentuarono nel direttorio le esigenze di una politica italiana. Per avere un piede sicuro in Italia occorreva possedere il Piemonte, e la Casa di Savoia venne spiantata; per potervi entrare sempre con facilità e neutralizzare l'importanza strategica del cuneo trentino occorreva dominare la Svizzera, e in essa fu creata una repubblica elvetica, alla quale fu subito imposta la costruzione delle strade del Sempione e dello Spluga verso l'Italia (che furon fatte però l'una poco, l'altra molto più tardi). Seguirono poi, per chiudere la penisola all'Inghilterra e per avvicinarsi all'Egitto, la proclamazione della repubblica a Roma e a Napoli. All'Inghilterra non restò che prendere sotto la sua protezione i Savoia in Sardegna e i Borboni in Sicilia. Il predominio francese in Italia colpiva il prestigio dell'Austria, che possedeva la Venezia; l'Austria quindi interruppe le conferenze al Congresso di Rastatt e si unì alla Russia, all'Inghilterra, alla Turchia contro la Francia.
Stavolta la vittoria non fu propizia alle armi francesi: Jourdan fu battuto a Stokack (21 marzo 1799); Massena dové presto passare alla difensiva in Svizzera; Schérer prima, poi Moreau a Cassano (27 aprile), poi Macdonald alla Trebbia (17-19 giugno), poi Joubert a Novi (15 agosto) furono disfatti dagli Austro-Russi, condotti dal Suvaroff; l'Olanda fu invasa dagli Anglo-Russi. Tutto questo mentre il problema d'un solido governo era sempre insoluto a Parigi: il direttorio aveva vinto a fruttidoro, ma non aveva saputo trar vantaggio della vittoria, fortificando in tal modo il potere esecutivo da non rendere frequenti i soliti conflitti di giurisdizione. Perduto il suo membro più energico nel Reubell nel rinnovo del quinto direttore del 16 maggio 1799, sostituito con l'abate Sieyès, desideroso d'una riforma dello stato, il direttorio cadde alla mercé dei consigli, che dichiararono nulla l'elezione di uno dei suoi membri, Treilhard, sostituendolo con Gohier, ed eliminarono anche gli altri due direttori della maniera forte Larevellière e Merlin de Douai, sostituendoli con Roger Ducos e Moulins (30 pratile, 18 giugno 1799). Tenuto in iscacco il direttorio dai consigli, la Francia fu priva d'un vero governo, che da tutti s'invocava, e il messia avrebbe dovuto essere un generale, coperto del lauro delle vittorie: si pensò a Moreau, che non ebbe l'animo, si pensò a Joubert, che morì a Novi. Ma venne d'Egitto e trionfò Bonaparte, che il 18-19 brumaio, d'accordo coi principali generali e uomini politici e coi due direttori Sieyès e Roger-Ducos, si rese padrone del governo e coi due complici direttori prese il titolo di console provvisorio.
Il Consolato e l'Impero. - Il primo problema che si presentava a Bonaparte era quello istituzionale. Ma la costituzione dell'anno VIII da lui creata cadde nell'eccesso opposto di quella dell'anno III: alla paralisi si sostituì l'onnipotenza del potere esecutivo e il potere legislativo venne sostanzialmente assorbito da esso senza lasciare residui. Quatto erano gli organi centrali dello stato: i tre consoli, dei quali solo il primo aveva effettiva autorità, esercitavano il potere esecutivo; il Senato, nominato dai due consoli uscenti insieme con il secondo e il terzo dei nuovi, eleggeva i consoli, i tribuni, i giudici di cassazione e i commissarî di contabilità, e vegliava all'osservanza della costituzione; il Consiglio di stato, formato di tecnici, preparava coi consoli le leggi; il Tribunato discuteva le leggi stesse e il Corpo legislativo dava loro l'ultimo tocco formale. Il potere di nominare alle alte cariche dell'amministrazione passava dal popolo al primo console. Nell'amministrazione provinciale dall'autogoverno e dalla collegialità delle due prime assemblee della rivoluzione e del direttorio si passò al più vigoroso sistema accentratore con l'istituzione dei prefetti e dei sottoprefetti, nominati dal primo console alla testa dei dipartimenti e dei distretti e dipendenti dal ministro dell'Interno. Giuridicamente però era mantenuto il principio della sovranità popolare esprimentesi nel suffragio universale: la costituzione dell'anno VIII fu sottoposta a un plebiscito e da esso approvato.
Forte della sua autorità giuridicamente garantita, Bonaparte mirò alla conciliazione dei partiti, anzi alla distruzione dei partiti stessi. "Je suis national" fu il suo motto e il medesimo concetto di nazione, che aveva scavato un abisso tra le classi alla vigilia della rivoluzione, fu la piattaforma su cui le classi e le fazioni s'incontrarono per collaborare. Nessuno meglio di Bonaparte poteva imporre questa piattaforma: egli non era un capo partito, era il più alto rappresentante di quell'esercito, in cui la nuova Francia aveva riposto il suo orgoglio. Attraverso le guerre per la difesa e l'espansione della Francia rivoluzionaria e attraverso la dura esperienza dell'esilio la patria si era rivelata ai cittadini della nuova e della vecchia Francia come una realtà al disopra dei partiti. Ma fusione nazionale non significò idillio, cessazione immediata d'ogni odio, d'ogni rancore. Lontano, gli emigrati sentono nel modo più forte la nostalgia della patria, ma rientrati in patria riaffiorano i vecchi rancori alla vista delle loro proprietà in mano ai ladri e agli assassini della rivoluzione. Ci vuole il pugno di ferro nel guanto di velluto di Fouché e di Bonaparte perché tluesti rancori non scoppino, ci vuole il bavaglio alla stampa, ma, nonostante ciò, nonostante il fatto che emigrati e rivoluzionarî collaborino nella classe dirigente napoleonica, il problema dei beni degli emigrati resta un problema aperto, che solo la Restaurazione - e solo la Restaurazione poteva farlo - risolverà col famoso miliardo d'indennità agli emigrati.
Più felice Bonaparte fu nella politica ecclesiastica. La nuova Francia era stanca delle velleità di nuovi culti, ed era rimasta in fondo nella sua gran massa cattolica; voleva mettersi in pace con la coscienza ma non voleva perdere il beneficio economico di essersi impadronita dei beni ecclesiastici. Il Concordato del 1801 risolse questa aspirazione contraddittoria: il cattolicesimo fu riconosciuto religione della maggioranza dei Francesi e in compenso riconobbe il fatto compiuto dell'alienazione della proprietà ecclesiastica. Bonaparte rinunziava all'elezione popolare dei vescovi della costituzione civile del clero, ma riprendeva il diritto dei re di Francia di nominare i vescovi e di legarli a sé col giuramento. Poiché molti vescovi erano emigrati, Bonaparte ne ottenne la destituzione per mezzo del papa, ed ebbe un clero nominato e salariato dallo stato e diviso in diocesi corrispondenti ai dipartimenti. Le leggi organiche annesse al Concordato, ma dal papa non accettate, mantennero alcuni punti fondamentali del vecchio giurisdizionalismo gallicano (appello per abuso, ecc.), di modo che Bonaparte finì con l'avere tutti i montaggi del regime concordatario e tutti quelli del giurisdizionalismo senza averne gli svantaggi, e trovò in un emigrato rallié, erede dello spirito gallicano, l'intelligente interprete della sua volontà, il ministro dei Culti Portalis. Tuttavia con l'esistenza stessa d'un nuovo concordato, con la destituzione dei vescovi emigrati, con l'abile politica di secondare le esigenze delle masse credenti laiche la Chiesa s'insinuò in Francia in modo più efficace che per il passato. Il freno agli emigrati e il riconoscimento da parte della Chiesa della vendita dei beni ecclesiastici soddisfecero la borghesia agraria, che trovò nel codice di Napoleone la piena garanzia dei suoi diritti, e nella sicurezza interna, nelle nuove vie di comunicazione interne, nel moderato liberismo economico le possibilità della sua ascensione.
Nel regime industriale Bonaparte, assistito dallo Chaptal, conciliò dapprima liberismo e protezionismo, non senza dare i primi segni della sua caratteristica tendenza a tutto razionalizżare e regolamentare. Il commercio all'interno e negli stati vassalli era libero; all'estero, verso l'Inghilterra e verso i neutri, protetto e controllato. Nella politica sociale, Bonaparte, sebbene a volte avesse qualche velleità corporativa, mantenne il divieto delle associazioni operaie, salvo che per quelle di mutuo soccorso, fu severissimo nel prevenire gli scioperi, ma non fece mai mancare agli operai il lavoro e il pane con una grandiosa serie di lavori pubblici, con sovvenzioni alle industrie pericolanti perché non lasciassero i loro operai sul lastrico, con previdenti provvedimenti annonarî. Con la creazione della Banca di Francia (18 gennaio 1800) il governo ebbe in mano il mondo finanziario ed ebbe il modo di vigilare sul credito nazionale. Si stabilizzò la moneta e ritornò a circolare il numerario. Una guerra a morte Bonaparte condusse contro gli speculatori, l'alta finanza, che avevano celebrato la loro epoca d'oro nel direttorio: con la riorganizzazione del corpo degli agenti di cambio e dei mediatori, si tentò d'introdurre l'ordine nella Borsa. Col codice di commercio, promulgato solo nel 1807, ma decretato fin dal 1801, si mirò a imporre la buona fede nelle transazioni commerciali e a reprimere lo scandalo dei fallimenti. La rivoluzione aveva fatto i magnifici progetti d'educazione nazionale di Talleyrand e di Condorcet, ma la mancanza di mezzi pecuniarî e di tranquillità aveva impedito di attuarli. Con Bonaparte s'inizia un organico sistema moderno d'istruzione statale, che avrà i suoi ultimi tocchi nel 1808.
Mentre Bonaparte avviava la nuova Francia a una razionale ricostruzione interna, non mancava di assicurarle all'estero la difesa, il trionfo e la pace. Già prima che egli giungesse dall'Egitto, la vittoria aveva di nuovo favorito le armi di Francia: in Olanda Brune aveva disfatto a Bergen gli Anglo-Russi e li aveva costretti a capitolare ad Alkmaer; in Svizzera Massena aveva annientato a Zurigo l'esercito austro-russo del Korsakoff e del Hotze e logorato completamente il superbo esercito di Suvaroff. Di plomaticamente una grave incrinatura aveva turbato la coalizione: la politica rapace dell'Austria in Italia, il modo come si era trattato e si era abbandonato nella difficile campagna svizzera l'eroico Suvaroff, avevano eccitato lo sdegno dello zar Paolo I verso l'Austria e l'effettivo distacco dalla coalizione del suo più potente membro, la Russia. Tuttavia la situazione non era rosea: Germania e Italia erano in pieno possesso del nemico e l'esercito di Svizzera si trovava tra loro in critica posizione. Bonaparte inviò Moreau in Germania con un forte esercito e Massena in Italia a comandare i pochi residui di truppe francesi che vi erano rimasti difendendo Genova, e intanto preparò un terzo esercito. Moreau vinse e rivinse gli Austriaci in Germania, l'indomito Massena resisté come un leone a Genova e quando capitolò, già Bonaparte aveva avuto il tempo di scendere in Italia, correre come un fulmine a Milano, ritornare contro Melas, l'espugnatore di Genova, e vincerlo in gran giornata a Marengo. Marengo ridiede a Bonaparte l'effettivo predominio in Italia: gli Austriaci sgombrarono la Lombardia e firmarono un armistizio di sei mesi. Ripresasi la guerra nell'inverno, Moreau riportò la sua più grande vittoria a Hohenlinden, Brune ebbe qualche successo in Italia, e l'Austria fu quindi obbligata a firmare la pace di Lunéville (9 febbraio 1801), con la quale si tornava allo statu quo di Campoformio. Intanto Bonaparte sfruttava le diffidenze della Russia verso l'Austria e verso l'Inghilterra, che aveva occupato Malta (25 settembre 1800), e conquistava l'animo di Paolo I, accordando una pace al suo protetto re di Napoli (Firenze, 29 marzo 1801), mentre in cambio la Russia organizzava la lega dei neutri contro l'Inghilterra. Paolo I morì, ma l'Inghilterra, stanca della guerra, chiese la pace, che fu firmata ad Amiens il 25 marzo 1802. La Francia riaveva le sue colonie delle Antille; l'Egitto tornava alla Turchia; l'Inghilterra avrebbe sgombrato Malta, quando la Francia avesse fatto lo stesso per il regno di Napoli; all'Inghilterra venivano abbandonate Ceylon degli Olandesi e la Trinità degli Spagnoli: Bonaparte console continuava il costume di Campoformio e sacrificava i deboli alleati o neutri per l'equilibrio dei forti.
Il prestigio di Bonaparte era ormai immenso: era signore assoluto della Francia ricca ed entusiasta, e di gran parte dell'Europa. Non tutto era opera sua, sebbene di tutto egli fosse l'animatore. Si trovava a dominare un grande popolo di solide tradizioni politiche e in un periodo di ardente e consapevole patriottismo e aveva a sua disposizione la più superba classe dirigente che possa sperare un capo di stato. Uomini dal fiuto politico fine, non vecchi d'anni, ma ricchissimi di esperienza vissuta, opportunisti, conoscitori profondi di ogni ramo dell'amministrazione, uomini che avevano saggiato alla prova della realtà i più svariati sistemi e avevano acquistato quel realismo che viene dalla pratica e non solo dallo studio libresco dei problemi concreti. Ma alla classe dirigente napoleonica mancava il vigore morale, il senso etico della vita statale: invano si cercherebbe in essa quella vita interiore, quella devozione all'ideale, quella serietà morale, che formarono il fascino delle contemporanee classi dirigenti prussiana e inglese. È una classe che serve oggi Napoleone e servirà domani i Borboni e dopodomani gli Orléans con lo stesso zelo e con la stessa intelligenza. D'altronde, anche Napoleone difettava di una profonda vita interiore: francese sì, e certo non avrebbe dominato la Francia se non avesse avuto i pregi e i difetti del suo popolo - francesi quella sua mente a scompartimenti stagni, l'arte di urtare la suscettibilità dei popoli e quella di saperli legare a sé, quel sapersi servire realisticamente delle ideologie; ma in ultima istanza la sua ambizione coincideva, non s'identificava con quella della nazione; e quando l'una e l'altra divergeranno egli sentirà più il suo orgoglio, la sua dignità, la sua coerenza d'uomo grande che l'interesse della Francia.
La dignità imperiale (18 maggio 1804) e quella reale d'Italia (1805) allarmarono le grandi potenze. Già l'Inghilterra, non volendo sgombrare Malta, né volendo tollerare la schiacciante predominanza continentale e la politica economica protezionista e anti-britannica di Napoleone, aveva rotta la pace d'Amiens. Napoleone adunò un grande esercito a Boulogne per sbarcare in Inghilterra, ma l'Inghilterra per sottrarsi al pericolo riuscì a formare la terza coalizione con l'Austria, allarmata dal titolo di re d'Italia, e la Russia, in cui Alessandro aveva reagito alla politica di Paolo I: La Prussia non vi partecipò, perché Napoleone le gettò come offa il Hannover per tenerla cheta. Fulmineo come sempre, Napoleone prima che giungessero i Russi, accerchiò gli Austriaci a Ulma e li fece capitolare, marciò su Vienna, la prese e distrusse l'esercito austro-russo ad Austerlitz (2 dicembre 1805). I Russi si ritirarono e l'imperatore d'Austria fu costretto nella pace di Presburgo a cedere al Regno d'Italia il Veneto, ad abbandonare il titolo d'imperatore del Sacro Romano Impero e a dare a Napoleone carta bianca in Germania.
Napoleone, padrone di tutta Italia, salvo lo Stato Pontificio e le isole, con la conquista del Napoletano per il fratello Giuseppe, prese a rimaneggiare la Germania (v. germania: Storia). Ciò allarmò la Prussia, che si unì alla Russia, che non aveva fatto pace, alla Svezia e all'Inghilterra. Con la stessa tattica dell'anno precedente, prima che i Russi si congiungessero ai Prussiani, Napoleone piombava addosso a costoro, li vinceva a Jena e ad Auerstadt (14 ottobre 1806), entrava a Berlino, vinceva i Russi ad Eylau e a Friedland e faceva pace con lo zar a Tilsit (giugno 1807). Il convegno di Tilsit segnò il ritorno all'alleanza franco-russa, vagheggiata dai tempi di Paolo I: Napoleone diede ai Russi carta bianca contro la Svezia, cui fu tolta la Finlandia, e si fece concedere carta bianca per la Germania, in cui creò il regno di Vestfalia per il fratello Girolamo. Per riguardo allo zar, non ricostruì la Polonia tolta alla Prussia in governo autonomo, ma la infeudò alla Sassonia col nome di granducato di Varsavia.
Annientata la Prussia e patteggiato con la Russia, Napoleone si dedicò tutto alla guerra contro l'Inghilterra, contro la quale aveva proclamato il blocco continentale (novembre 1806). Tutta l'Europa continentale doveva formare una compatta unità economica, bastare a sé stessa e respingere le merci inglesi: nuove culture furono perciò impiantate o tentate in Francia o nei paesi satelliti (zucchero di barbabietola, tabacco, materie tintorie, ecc.) e nuove conquiste si dovettero fare per non offrire falle al sistema di blocco. Sorse così l'esigenza della conquista della Penisola Iberica con la creazione del regno di Spagna, tolto ai Borboni, per il fratello Giuseppe, sostituito da Murat a Napoli, e con la fine del dominio temporale dei papi in Italia. Ma la Spagna si sollevò come un sol uomo, e l'Inghilterra corse a difendere il Portogallo, e per la prima volta si videro le invincibili truppe napoleoniche deporre le armi dinnanzi al nemico: a Baylen (luglio 1808) di fronte agl'insorti spagnoli, a Cintra di fronte agl'Inglesi (agosto 1808). Allora Napoleone andò personalmente in Spagna, vinse a Somo-Sierra ed entrò a Madrid, ma non pacificò il paese.
L'Austria volle approfittare delle difficoltà spagnole di Napoleone, si alleò all'Inghilterra, e invase la Germania, il granducato di Varsavia e l'Italia. Ma Napoleone disfece l'arciduca Carlo ad Eckmüll, i Franco-Italiani difesero il Piave contro l'arciduca Giovanni e passarono all'offensiva, Napoleone stesso entrò a Vienna, ingaggiò una dura battaglia, terminata ex-aequo Marte, ad Essling, e, congiuntosi con l'esercito franco-italiano, già vittorioso al Raab, vinse la battaglia decisiva di Wagram (luglio 1809). L'imperatore d'Austria fu costretto a cedere il Trentino al Regno d'Italia e le provincie illiriche, futuro nucleo della Iugoslavia, alla Francia e concedere a Napoleone la mano della figlia Maria Luisa.
Sembrava che Napoleone, vittorioso sempre, assicurata la continuità del suo regime con la nascita d' un figlio proclamato re di Roma (1811), fosse giunto al culmine della sua potenza. In realtà una profonda crisi corrodeva il suo impero e il suo regime. Quel non sapersi limitare nella vittoria e, strappando sempre nuove provincie ai nemici, quell'esasperare in loro il volere della rivincita, lo costringeva a un lavoro di Sisifo: vincere per poi tornare daccapo e trovarsi impigliato in una serie interminabile di guerre. Il disprezzo per le individualità nazionali gli alienava l'animo dei popoli vassalli, e invano il fratello Luigi in Olanda, il cognato Gioacchino a Napoli, si facevano interpreti dei loro particolari bisogni. V'era in Napoleone l'incomprensione d'un sovrano illuminato, d'un Giuseppe II: egli non comprendeva come popoli ragionevoli non capissero l'eccellenza delle istituzioni, dei costumi francesi e dei pensamenti suoi. Alienatosi i popoli vassalli, alienatosi la forza morale della Chiesa con le persecuzioni e le prepotenze, cominciava a esser solo anche in Francia. La classe dirigente si sfaldava: si dubitava che una politica così rischiosa potesse sempre riuscire e non potesse non condurre la nazione all'abisso: i più fini, come Fouché e Talleyrand, pensavano già a cambiar bandiera in tempo. Abolito il Tribunato, fatte tacere le varie opposizioni, nessun ostacolo più Napoleone aveva al suo dispotismo politico. Le esigenze del blocco lo spingevano sempre più a spezzare l'equilibrio del periodo consolare tra liberismo e protezionismo, e ad avviarsi al più rigoroso interventismo statale. Crisi frequenti (1806-07, 1811), turbavano la vita economica. L'autoritarismo napoleonico rivelava in tutti i campi la sua faccia negativa, e i malcontenti interni e gli emigrati vecchi e nuovi, come la Staël e il Constant, trovavano all'estero nel principio della libertà nelle sue varie sfumature la nuova piattaforma su cui incontrarsi: libertà intesa come garanzia delle conquiste rivoluzionarie; come libero sviluppo delle forze morali economiche e politiche d'una nazione; come possibilità alla classe nobiliare emigrata di affermarsi con una camera di pari.
Mentre si formava questo nuovo stato d'animo politico, Napoleone preparava la campagna di Russia, che fu il principio della fine. Perché spezzò l'alleanza russa, che sola poteva mantenere la tranquillità in Europa? La questione d'Oriente certo divideva i due grandi imperi, né Napoleone poteva disinteressarsene, padrone com'era dell'Italia e dell'Illiria, ma non era ancora questione impellente, perché l'impero ottomano, pur essendo vecchio e sciancato poteva ancora resistere. Napoleone forse comprese che Alessandro non gli era amico sincero, che un giorno avrebbe potuto porsi alla testa dell'Austria e della Prussia, anelanti alla riscossa, e volle prevenirlo nel momento in cui era lui il più forte. Ma Napoleone, accecato dai successi, non comprese la forza morale del popolo russo, che pur gli si era rivelata in tante battaglie, le più sanguinose che egli avesse vinte. E così invase la Russia con un esercito europeo di più di mezzo milione di uomini, vinse a Borodino ed entrò in Mosca. Ma le guerre dei popoli non si concludono con la presa delle capitali, come quelle dei re: l'inverno sopraggiunse e Napoleone perdette in una disastrosa ritirata il suo esercito (1812).
Per nulla scoraggiato, corse in Francia, impose una nuova leva e con un nuovo esercito andò in Sassonia a fronteggiare i Russi, che si erano uniti ai Prussiani e attendevano gli Svedesi. A Lützen, a Bautzen, a Dresda Napoleone sconfigge i Prusso-Russi. L'Austria interviene mediatrice e propone a Napoleone onorevoli condizioni, ma Napoleone rifiuta. Egli ha la sensazione netta della sua situazione politica: i principi di sangue possono tornare nelle loro capitali vinti venti volte senza perdere il trono, ma egli non può ritornare disfatto, il suo potere è fondato sul prestigio personale e deve o vincere o sparire con tale fracasso da lasciare il ricordo della sua grandezza. E così si viene alla grande battaglia di Lipsia (16-18 ottobre 1813) e a quella meravigliosa campagna di Francia, in cui Napoleone con pochi mezzi ostacolò al nemico passo a passo l'avanzata. Ma i suoi marescialli vacillano, Lione e Parigi capitolano al nemico ed egli è costretto ad abdicare e a ritirarsi all'Elba.
Gli alleati, d'accordo con elementi della classe dirigente napoleonica, pongono sul trono Luigi XVIII, che concede una costituzione con due camere. La Francia è umiliata dagli alleati, che la riducono ai suoi confini pre-rivoluzionarî, con in più la Savoia; gli emigrati intransigenti atterriscono con le loro velleità contro-rivoluzionarie il paese; al governo manca in un momento critico un polso fermo; si sospira e si desidera il dominatore, che sembrava creato dal destino per comandare. E Napoleone ritorna, non più in veste autoritaria, ma liberale (atto addizionale alla costituzione dell'anno X). Gli alleati inviano contro di lui gl'Inglesi di Wellington e i Prussiani di Blücher, e a Waterloo l'astro napoleonico tramonta per sempre. Parafrasando un motto di Napoleone e ritorcendolo contro di lui, M.me de Staël domandava cosa egli avesse fatto della Francia, che la rivoluzione gli aveva dato coi confini del Reno e delle Alpi. Ma non di soli ingrandimenti territoriali vive e prospera un grande popolo: Napoleone aveva portato i Francesi vittoriosi in tutta Europa, aveva dato alla Francia un prestigio immenso, aveva fatto in pochi anni quello che la monarchia aveva compiuto in secoli, lasciava alla Francia una superba armatura statale, ed era penetrato profondamente nell'anima del popolo, come dimostrerà la sua leggenda, vivente e operante in tutto il sec. XIX.
La restaurazione. - La Francia usciva dal periodo napoleonico carica di gloria, ma in pericolosa situazione internazionale e interna. A Waterloo aveva fatto seguito la nuova invasione straniera, ben più lunga, oppressiva e spogliatrice che non quella del 1814, e conchiusasi col secondo trattato di Parigi (20 novembre 1815), che imponeva l'occupazione temporanea di parte del territorio un'indennità di 700 milioni, la restituzione delle opere d'arte rapinate nelle campagne napoleoniche, la perdita di alcuni territorî di confine che il primo trattato aveva lasciato (Chambéry, Annecy, Sarreluis, Landau, Philippeville). A ciò si aggiungeva l'isolamento di fronte alle altre grandi potenze, strette nella Santa Alleanza. All'interno, i Borboni restaurati con Luigi XVIII e con la bandiera bianca dovevano fronteggiare le difficoltà di una situazione economica e finanziaria minacciosa per gli sperperi del periodo precedente e i danni delle invasioni, e di una situazione politica esasperata per le passioni di vendetta degli antichi emigrati ritornati e degli elementi del vecchio regime esplose nel cosiddetto Terrore bianco, e per l'irreducibile opposizione che bonapartisti, repubblicani, vecchi elementi rivoluzionarî, uniti intorno al simbolo glorioso del tricolore, facevano alla monarchia, colpevole di essere tornata per effetto della sconfitta e dell'umiliazione nazionale e "nei furgoni dello straniero".
La vita politica si doveva svolgere entro la Carta costituzionale, concessa dalla monarchia restaurata, che istituiva il regime rappresentativo attraverso due camere, quella dei pari nominati a vita dal re ed ereditarî, e quella dei deputati, emanazione di un corpo elettorale per far parte del quale si doveva pagare un minimo di imposta annua di 300 franchi. Ciò fece sì che il corpo elettorale risultò assai ristretto (gli elettori non furono mai più di 88 mila) e fu l'espressione soprattutto della grande proprietà terriera, e della borghesia industriale che si stava formando nel nord e nell'est per lo sviluppo delle industrie siderurgiche e tessili. Scarsa rappresentanza elettorale aveva la borghesia di professionisti, di commercianti, d'intellettuali. Da ciò i germi del malcontento e delle agitazioni che dovevano sfociare nella rivoluzione del luglio 1830. I tre quarti della popolazione erano costituiti da elementi rurali ed erano assenti dalla politica, per quanto per la formazione di una piccola e media proprietà e di una numerosa classe di affittuarî (conseguenza dei grandi rivolgimenti terrieri prodotti dalla rivoluzione) fossero una mirabile riserva di forze vive. Il proletariato operaio si stava appena formando con lo sviluppo delle grandi fabbriche, ed era in condizioni miserevoli.
Luigi XVIII nel primo anno del difficile regno rivelò singolari doti di avvedutezza con l'atteggiamento assunto contro la camera definita introvabile e composta in maggioranza di elementi ultrareazionarî, che nelle elezioni svoltesi nell'agosto 1815, in un'atmosfera di piena reazione, avevano trionfato. Le tendenze oltranziste di tale camera trovarono ferma resistenza nel re, che infine la sciolse, provocando nuove elezioni dalle quali uscì una maggioranza di centro moderato, ugualmente distante dalla destra spiccatamente reazionaria e dalla sinistra accogliente bonapartisti e liberali spinti. Allo spirito di tale maggioranza il re volle informare la politica interna, in contrasto col reazionario fratello conte d'Artois, trovando l'uomo di governo adatto in E.-L. Decazes. E nella nuova atmosfera venne compiuta un'opera senza dubbio notevole per la pacificazione interna e il risollevamento della Francia: le finanze furono risanate, furono pagati i 700 milioni d'indennità entro un termine più breve del previsto, il che permise anche di abbreviare l'occupazione straniera, con la fine della quale coincise, nel 1818, il ritorno della Francia a un'attiva politica internazionale nel concerto europeo. Tale risollevamento economico e politico si accompagnò col rafforzamento e con l'incremento delle correnti e delle tendenze liberali, rivelato d'anno in anno dai risultati delle elezioni parziali. Da ciò le gravi preoccupazioni degli ultrarealisti e reazionarî, capeggiati dal conte d'Artois, e le loro pressioni sul re per uno stringimento di freni, tanto più quando nel febbraio del 1820 l'assassinio del duca di Berry, figlio del conte d'Artois, offrì per la campagna reazionaria un motivo sentimentale. E il re dovette cedere affidando il potere agli ultra, il cui uomo rappresentativo fu J. Villèle. Così l'ultimo quadriennio di regno di Luigi XVIII (1820-1824) segnò una decisa conversione a destra, caratterizzata da fatti importanti all'interno e all'estero, quali i provvedimenti restrittivi contro la stampa e l'insegnamento, le misure a favore del clero e dell'aristocrazia fondiaria, e la spedizione del 1823 in Spagna, destinata a soffocare il movimento liberale oltre i Pirenei.
L'atmosfera reazionaria si aggravò ancora - pur mentre lo sviluppo di società segrete a tipo carbonaro e i tentativi di congiure dimostravano il malcontento che si diffondeva - quando salì al trono il conte d'Artois, col nome di Carlo X, i cui propositi e atti apparvero diretti a far rivivere lo spirito e le forme del vecchio regime. Contro siffatto indirizzo si formò una forte opposizione, il cui successo nelle elezioni del 1827 parve impressionare il re, che staccandosi dagli ultra chiamò al potere un moderato del centro, J.-B. de Martignac. Ma si trattò di una parentesi che il re chiuse bruscamente nel giugno del 1829, profittando delle difficoltà in cui il Martignac si trovava alla camera tra una destra e una sinistra egualmente malcontente e insidiose. Martignac fu licenziato e sostituito con il principe J. de Polignac, antico emigrato, al cui fianco fu, come ministro della Guerra, L. de Bourmont, noto per essere passato al nemico prima di Waterloo. Era il ritorno alla maniera forte e con simboli odiosi.
Ma ciò non poteva che provocare una lotta politica asprissima, date le tendenze prevalenti nella camera e nell'opinione pubblica, a paralizzare e stroncare le quali si presentavano necessarie modificazioni alla Carta del 1814, in quei punti che permettevano alle opposizioni di acquistare troppa consistenza e voce attraverso la stampa, i comizî elettorali e l'azione parlamentare. Ecco la genesi delle ordinanze del luglio 1830. Nella lotta, accanto alle vecchie forze di opposizione una nuova stava organizzandosi, forte non tanto per il numero, quanto per la qualità degli aderenti (Talleyrand, J. Laffitte, Thiers, Mignet, Casimir Périer, Guizot), mirante a risolvere il conflitto tra i Borboni e le tendenze liberali attraverso una sostituzione di dinastia, che permettesse di evitare le incognite di una rivoluzione repubblicana o di un movimento bonapartista, ambedue troppo inquietanti per la borghesia. Gli esempî e i modelli ai quali il nuovo partito si uniformava e che attraverso un giornale rapidamente assurto a grande autorità, Le National, agitava davanti all'opinione pubblica, erano quelli della rivoluzione "pacifica" del 1688 in Inghilterra, che aveva mutato la dinastia e affermato le istituzioni liberali. L'uomo che avrebbe impersonato il movimento era indicato nel capo della famiglia d'Orléans, ramificazione dei Borboni, figlio di un convenzionale del 1793, combattente a Jemappes, tornato in Francia nel 1814, dove ostentava abitudini borghesi nella vita familiare, e tendenze liberaleggianti in politica. Il partito orleanista, che raccoglieva elementi di prim'ordine e di grande abilità e capacità nella manovra politica, doveva essere l'erede dei maggiori benefici del movimento d'opposizione a Carlo X.
La lotta politica interna si accompagnò, verso il tramonto della monarchia borbonica, a un'intensa attività in politica estera, nella quale Carlo X, abbandonando le cautele e la prudenza usate da Luigi XVIII, volle ridare alla Francia una parte di primissimo piano. Caratteristica di tale politica fu l'avvicinamento alla Russia, che Carlo X tentò e compì durante le ultime fasi della crisi di Oriente, apertasi con l'insurrezione greca (1821) e conclusasi con la guerra russo-turca (1827-1829). L'avvicinamento mirava a dar vita a un sistema (il sistema dell'alleanza orientale) tradizionale nella politica estera francese, in contrapposizione all'Inghilterra e all'Austria, e che potesse permettere alla Francia, in cambio dell'appoggio alla politica russa in Oriente, successi e vantaggi verso il Reno e nel Mediterraneo. Effettivamente l'appoggio russo giovò a Carlo X, se non per ingrandimenti sul Reno, dove i vagheggiati progetti di rimaneggiamenti territoriali non poterono avere sviluppo, per l'impresa d'Algeri, che venne concepita nella primavera del 1830, sia come una ripresa dell'espansione francese nel Mediterraneo, sia come un mezzo per appagare un po' la sete francese di gloria, rimasta insoddisfatta dopo il crollo dell'Impero, sia infine come un diversivo dalle lotte interne, entrate nella primavera del 1830 nell'ultima e più drammatica fase. La camera, in conflitto col ministero Polignac, era stata licenziata; ma le nuove elezioni indette in giugno avevano rafforzato le correnti oppositrici, dimostrando che la maggioranza degli elettori, dietro cui stava la maggioranza del paese, era contro l'indirizzo reazionario del re e del ministero, che pure potevano vantare il felice successo dell'impresa di Algeri, dove il 5 luglio veniva piantata la bandiera francese.
Fu questa la situazione nella quale Carlo X, d'accordo col Polignac, tentò il colpo di forza, necessario, secondo il suo giudizio, per assolvere i doveri che egli aveva verso il Cielo. Il 26 luglio uscivano infatti le ordinanze con le quali si scioglieva la non ancora riunita nuova camera, si limitava, fino quasi ad annullarla, la libertà di stampa, e si modificavano i congegni elettorali in modo da diminuire gli elettori, eliminando gli elementi della borghesia. Ma appena conosciute, le ordinanze provocavano a Parigi un violento scoppio insurrezionale, in cui i capi dei partiti d'opposizione ebbero con sé gran parte delle masse operaie, e che in tre giorni (27-28-29 luglio), ebbe ragione delle resistenze regie, sia per la scarsezza delle forze regolari, sia per la difficile situazione in cui queste si trovavano a combattere tra le strade strette, tortuose e facilmente barricabili. Un tentativo fatto da Carlo X per salvare la dinastia con l'abdicazione a favore del nipote fu sventato dalla prontezza dei capi orleanisti, che già durante la lotta avevano avuto contatti col duca d'Orléans, e, messisi d'accordo con lui, avevano provocato manifestazioni a suo favore, trascinando nel movimento anche il vecchio La Fayette, idolo degl'insorti parigini. Il 31 luglio, Luigi Filippo, accorso prontamente a Parigi, si presentava al balcone dell'Hôtel de Ville con a fianco La Fayette, il patriarca della rivoluzione, e avvolto nel tricolore lo abbracciava fra le acclamazioni del popolo. La nuova monarchia era proclamata a Parigi. Il resto della Francia, come già nel 1789, nel 1799 e come poi nel 1848, si acconciò a quanto nella capitale era avvenuto. La borghesia liberale, e cioè l'elemento che della vittoriosa rivoluzione aveva colto i maggiori frutti, volle subito organizzarsi a difesa della vittoria, ricostituendo la guardia nazionale che Carlo X aveva sciolto nel 1827.
In appena quindici anni si era così logorata la Restaurazione borbonica, che pure aveva avuto il merito incontestabile di risollevare la Francia dall'abisso aperto dal crollo napoleonico, e, nella sua prima fase, di attuare nei limiti del possibile la pacificazione tra i Francesi, di attutire le passioni e gli odî, contemperando il ritorno alle forme monarchiche con la conservazione di molte delle innovazioni e trasformazioni del periodo rivoluzionario e napoleonico. Ma essa non era riuscita a liberarsi, di fronte al patriottismo e all'orgoglio francese, del vizio di origine, di essere legata alla vittoria dello straniero e a quei trattati del 1815 che avevano sanzionato il crollo della potenza e l'umiliazione della Francia. Da ciò una condizione di disagio e d'instabilità, destinata ad accentuarsi quando gli errori degli elementi reazionarî, e soprattutto di Carlo X, ebbero distrutto gran parte dei risultati che la cautela di Luigi XVIII avevano saputo raggiungere nella politica interna.
La monarchia di luglio. - Luigi Filippo prese ufficialmente possesso del trono il 9 agosto 1830, dopo aver accettato e giurato la Carta nella quale la camera, che Carlo X aveva tentato di sciogliere, aveva introdotto importanti e caratteristiche modificazioni: la soppressione dell'ereditarietà per i pari, l'abbassamento del censo elettorale a 200 franchi, l'adozione del tricolore e della formula "re dei Francesi" a definire il nuovo sovrano, la cui autorità veniva così a basarsi non più sul diritto divino come nella vecchia monarchia, ma sulla sovranità nazionale.
Gl'inizî della nuova monarchia furono agitatissimi. All'interno, dovette fronteggiare, oltre le avverse forze politiche (repubblicani, bonapartisti, partigiani della dinastia abbattuta o legittimisti), i fermenti di un movimento operaio che già si organizzava e tumultuava in qualche grosso centro di produzione (Lione), e l'eccitazione che la lotta vittoriosa aveva suscitato nella massa parigina e che tendeva a esplodere in nuove violenze (richieste di morte per i ministri di Carlo X, assalti e saccheggi a edifizî sacri). All'estero, due movimenti si delineavano, diversi per carattere, ma del pari suscitatori di difficoltà per Luigi Filippo, e derivanti dal sentimento subito diffusosi che, come quella del 1789, la nuova rivoluzione francese dovesse dilagare oltre i confini di Francia, infrangendo i trattati del 1815 e la situazione da essi creata. I governi, specialmente quelli delle grandi potenze centro-orientali, si preoccuparono e assunsero atteggiamenti di diffidenza e di ostilità, fra cui caratteristico quello della Russia, che si spostò nettamente dal sistema di accordi stretto con Carlo X, per avvicinarsi all'Austria e alla Prussia. I popoli, per contro, furono, come scrisse Heine, elettrizzati dall'odore del sangue delle giornate di luglio; e lo dimostrarono con la serie dei movimenti insurrezionali che dall'agosto 1830 al febbraio 1831 sconvolsero il regno dei Paesi Bassi determinando il distacco del Belgio, la Germania, la Polonia russa e l'Italia centrale. La proclamazione del principio del non intervento, fatto dal primo governo della nuova monarchia, e implicante l'impegno francese a impedire con la forza che le potenze straniere muovessero con le armi a domare i popoli insorti contro il proprio governo, parve l'annunzio della fine della politica intervenzionista della Santa Alleanza, e diede possente alimento allo sviluppo delle tendenze insurrezionali. Effettivamente tra i sostenitori e i fondatori della nuova monarchia esisteva un partito detto del movimento, che avrebbe voluto portare la rivoluzione alle estreme conseguenze: all'interno con la lotta senza quartiere contro i residui del vecchio regime, e all'estero con l'abbattimento completo dell'assetto del 1815. E a tale partito il re aveva dovuto lasciar la prevalenza nel primo ministero, presieduto da J. Laffitte. Ma contro gli eccessi di siffatta tendenza, risultante dalla sopravvivenza di ideologie del 1789 e da esasperate correnti patriottiche che odiavano i trattatì del 1815 in quanto erano risultato e suggello di sconfitta francese, stava il partito della resistenza che rappresentava la borghesia produttrice, paga del risultato ottenuto nel luglio 1830 e desiderosa di quiete e di ordine, e aveva nei suoi ranghi le teste politiche più forti (Casimir Périer, Guizot, Thiers, M.-L. Molé), e mirava a liquidare e a concludere la rivoluzione e a rassicurare l'Europa. Su questo partito riuscì ad appoggiarsi il re nel marzo 1831, affidando il potere al Périer, dopo che gli errori commessi e le difficoltà interne ed esterne ebbero logorato il Laffitte. Allora la politica della monarchia di luglio prese un orientamento temperato: all'interno comprimendo gli eccessi; all'estero, contenendo entro i limiti della questione belga il principio del non intervento, tanto da non opporsi alla repressione austriaca in Italia (marzo) e russa in Polonia (settembre), malgrado le invettive dei delusi e degli oppositori.
L'allontanamento della monarchia dagl'inizî e dagli eccessi rivoluzionarî si accompagnò con un notevole successo in politica estera, esso pure assai utile al consolidamento di essa: l'accordo con l'Inghilterra. Negoziato e condotto in porto dalla superiore abilità del Talleyrand, che Luigi Filippo aveva richiamato all'attività politico-diplomatica e inviato ambasciatore a Londra, l'accordo ebbe come suo primo terreno di esplicazione il problema del Belgio, nel quale le due potenze occidentali fecero trionfare di fronte alle centro-orientali - che volevano impedire lo smembramento del regno dei Paesi Bassi, creazione del 1815 - la soluzione della costituzione del Belgio in regno indipendente e neutrale (gennaio-ottobre 1831). Ma l'accordo continuò anche dopo, tanto da prendere aspetto di un sistema politico che per gran tempo caratterizzò la politica estera della monarchia di luglio, trovando giustificazione anche nelle affinità tra le forme di governo dei due paesi: una sua nuova efficace manifestazione si ebbe nel 1834 nelle questioni iberiche, a sostegno delle regine Maria di Portogallo e Isabella di Spagna, contro i pretendenti reazionarî don Miguel e don Carlos. Così la monarchia di luglio spezzò il pericolo dell'isolamento internazionale, il che fu grande vantaggio, anche se pagato con sacrifici necessarî per cattivarsi l'Inghilterra: la sospensione dello sviluppo dell'impresa algerina, e il rifiuto del trono belga, offerto in un primo tempo a un figlio di Luigi Filippo.
All'interno intanto vani riuscivano i tentativi di rovesciamento del nuovo regime attraverso insurrezioni e tumulti, cui si mescolarono attentati al re (sei in undici anni). Il governo fronteggiò i tentativi insurrezionali dei legittimisti, alla cui testa fu l'avventurosa duchessa di Berry (1832), quelli operai a Lione (1831-1834), quelli repubblicani a Parigi (1832, 1834), e l'azione delle società segrete sorte numerose con programmi di sovvertimento politico e sociale. La borghesia, difendeva le proprie posizioni e i proprî ordinamenti: all'azione della guardia nazionale, concorde con le forze regolari del governo contro i tumulti, corrispondeva in parlamento la condotta della maggioranza dei deputati, che foggiava severe leggi di repressione contro le società segrete e la propaganda sovversiva. Ma la concordia costituita tra le forze politiche borghesi per combattere le minacce di sovversione, si rompeva sull'eterno problema dell'autorità e della posizione del sovrano nel regno costituzionale. Dopo che gli uomini dell'antico partito del movimento si erano ridotti nell'atteggiamento di opposizione dinastica con qualche sfumatura repubblicanoide, i dibattiti fervevano fra le correnti politiche che erano prevalse dopo la caduta di Laffitte, e ciò tanto più in quanto assai presto, nel maggio 1832, morì C. Périer, cioè l'uomo di governo più autorevole e capacc. Gli epigoni, che pur costituivano un brillante gruppo di capacità e di ambizioni (A. de Broglie, Thiers, Guizot, Molé, A.-J. Dupin, Duvergier de Hauranne), erano divisi secondo due dottrine improntate alla vita costituzionale inglese: quella per cui il re doveva regnare e non governare, lasciando il potere ai ministri designati dalle maggioranze parlamentari, e quella per cui il re, pur rimanendo ossequiente alle tendenze della maggioranza, conservava una certa libertà nella scelta dei ministri e una certa influenza sull'indirizzo del governo. Erano di fronte, insomma, la teoria parlamentare e la teoria costituzionale.
Le lotte fra le due concezioni e le ambizioni degli uomini che le impersonavano e che aspiravano al potere, riempiono il primo decennio di vita della monarchia di luglio, complicate dall'azione personale del re, che sotto apparenze bonarie e borghesi nascondeva un alto concetto della propria posizione e autorità, e una forte volontà d'imprimere la propria impronta al governo. Scopo perseguito da Luigi Filippo era di logorare nelle lotte parlamentari gli uomini politici più restii e subordinarli all'autorità del re, così come nelle lotte del 1830-31 erano stati logorati gli uomini del partito del movimento, in modo da arrivare al risultato di formare, pur serbando rispetto formale alla Costituzione, un governo di uomini ligi.
Il risultato parve raggiunto nell'estate del 1840, quando, dopo il logoramento dell'ultimo e più autorevole campione della teoria che il re regna e non governa, Adolfo Thiers, impigliatosi e naufragato nelle controversie con l'Inghilterra a proposito della crisi turco-egiziana, il re poté affidare il potere al fido e ligio Guizot, che sotto la presidenza nominale dell'antico maresciallo napoleonico N. Soult, fu l'anima del governo fino al 1848.
La pratica di governo nella quale sovrano e ministro si trovarono d'accordo dal 1840 in poi, consistette in una specie di accaparramento della maggioranza degli elettori e degli eletti, mediante offerte di uffici, di favori, di compensi, associate ad accorti sistemi di pressione. Il metodo riusciva agevole per la relativa scarsezza del corpo elettorale (mai superiore ai 240 mila elementi), che poteva essere influenzato facilmente dai prefetti e dai funzionarî del governo a pro' dei candidati governativi, i quali, una volta eletti, rimanevano legati al governo dai favori e dalle prebende. Così il governo aveva docile la maggioranza, al tempo stesso che il re aveva docile il governo al proprio desiderio di esercitare un'azione personale. Si veniva a costituire insomma tra maggioranza del corpo elettorale e dei deputati e governo e Corte, quello che fu chiamato il paese legale, accaparrante a proprio vantaggio gli ordinamenti politici e costituzionali usciti dalla rivoluzione del 1830. E il congegno escogitato da Luigi Filippo e da Guizot, funzionò agevolmente per lunghi anni. La grave incognita contro la quale doveva urtare e naufragare era costituita dal paese vero e proprio, e cioè dagli strati politici e sociali esclusi dal paese legale, e agitantisi per farsi valere. A lungo andare, il logorio del congegno del paese legale e il rafforzamento e lo sviluppo del malcontento e delle agitazioni degli altri elementi dovevano determinare la crisi travolgitrice non solo del paese legale, ma anche della monarchia che su di esso aveva basato la sua esistenza.
La crisi egiziana e il contrasto con l'Inghilterra, che nel 1840 avevano permesso a Luigi Filippo l'eliminazione di Thiers, furono un episodio della politica estera attiva ripresa dalla monarchia di luglio, dopo il superamento delle difficoltà dei primi anni; politica mirante ad acquistare una certa autonomia e libertà d'azione di fronte all'Inghilterra, e che ebbe il suo culmine nel 1846, quando Luigi Filippo e Guizot sostennero e fecero trionfare nella questione dei matrimonî della regina Isabella di Spagna e di sua sorella i proprî candidati in confronto di quelli sostenuti dal governo inglese.
Da ciò la rottura definitiva dell'intesa anglo-francese, già compromessa per la crisi del 1840 e per la ripresa dell'azione francese in Algeria e verso il Marocco (battaglia d'Isly e bombardamento di Tangeri: 1844); e la sua sostituzione con un avvicinamento all'Austria, del resto favorito dall'indirizzo conservatore assunto dalla politica interna francese. L'accordo con l'Austria, le cui ripercussioni si ebbero anche in Italia, dove di fronte al movimento liberale-nazionale la politica francese assunse un atteggiamento raffrenatore in armonia con quello austriaco, caratterizza la politica estera della monarchia di luglio nella sua ultima fase, quando all'interno crescevano il malcontento e le forze d'opposizione, perché accanto alle vecchie forze irreducibili (repubblicani, bonapartisti), erano sorte quelle rappresentate da un movimento cattolico-liberale (Ch. Montalembert, R. de Lamennais) e da un movimento socialista rivoluzionario (P.-J. Proudhon, L. Blanc) ormai in netto sviluppo. Né l'indirizzo conservatore-autoritario cattivava al regime le simpatie e l'appoggio dei legittimisti fermi nella fedeltà ai Borboni, mentre aumentava il distacco delle correnti liberali che s'irritavano contro i sistemi di Guizot e si agitavano per una riforma elettorale a base di abbassamento di censo, in cui vedevano la via per determinare attraverso l'allargamento del corpo elettorale il crollo del paese legale. La riforma elettorale divenne la parola d'ordine per una campagna politica alla quale, insieme coi liberali, aderirono e parteciparono anche le altre forze oppositrici, inasprendosi sempre più per la resistenza del governo, sordo a ogni richiesta e cieco di fronte a sintomi eloquenti, quale il contegno della guardia nazionale, un tempo presidio del regime e ormai simpatizzante per l'opposizione.
La crisi decisiva scoppiò al principio del 1848, proprio quando re e governo speravano di essersi consolidati per il successo definitivo ottenuto nel dicembre 1847 in Algeria, dove dopo dieci anni di lotte si raggiungeva il consolidamento della conquista con la resa del temuto emiro Abd el-Kader. Ma come il successo dell'espugnazione di Algeri non aveva salvato nel 1830 Carlo X, così il successo della cattura di Abd el-Kader non salvò nel 1848 Luigi Filippo. La proibizione ordinata dal governo di una grande riunione pubblica a favore della riforma, indetta a Parigi il 21 febbraio, fu la scintilla per lo scoppio rivoluzionario, che si sviluppò impetuoso anche dopo che il re, reso edotto del pericolo, ebbe licenziato Guizot per sostituirlo con elementi liberali. Come nel luglio 1830, nel febbraio 1848 le barricate parigine trionfarono delle truppe regolari combattenti di malavoglia, e nemmeno il tardivo tentativo del re di salvare la dinastia con l'abdicazione a favore di un piccolo nipote trattenne il movimento dal suo sbocco. Questa volta i beneficiarî della rivoluzione furono i repubblicani, pronti a profittare della vittoria per premere con le masse armate degl'insorti sulla camera dei deputati e strappare la proclamazione della repubblica con la costituzione di un governo provvisorio (24 febbraio).
Così dopo diciotto anni la monarchia orleanista finiva come era finita nel 1830 la monarchia borbonica, travolta da un movimento insurrezionale e barricadiero di Parigi, cui il resto della Francia si adattò senza resistenza. La questione che aveva provocato la caduta e cioè la lotta per la riforma elettorale, non fu che un episodio accidentale e in certo senso trascurabile. In realtà, la monarchia di luglio cadeva perché non era riuscita a superare e a sanare la contraddizione insita alle sue basi, e cioè quella di essere sorta come espressione di un movimento rivoluzionario e di essersi poi orientata in senso sempre più contrario a tali origini, fino a giungere ad atteggiamenti rigidamente conservatori.
La seconda repubblica. - Il governo, uscito dalle tumultuose giornate parigine del febbraio 1848, ebbe non solo carattere repubblicano, ma anche una tendenza socialista rappresentata da Louis Blanc e dal meccanico A.-M. Albert, che ne fecero parte insieme a sette deputati repubblicani, tra i quali i più noti erano A. de Lamartine, A. Ledru-Rollin, F. Arago. La tendenza era l'espressione del movimento che aveva assunto sempre maggior sviluppo durante l'ultima fase della monarchia di luglio, e che aveva molta presa nella massa operaia parigina, eccitata nel senso delle conquiste più avanzate. La sua forza era riuscita a determinare una scissione nel vecchio partito repubblicano, facendo sorgere accanto alla corrente fedele alla concezione della repubblica borghese, la corrente che agitava il programma oltranzista di una repubblica social-democratica, riecheggiando molte delle affermazioni e delle tesi del Manifesto dei comunisti proprio allora lanciato da Marx e da Engels.
La pressione della corrente socialista sul governo provvisorio fu subito rilevata da alcuni provvedimenti significativi: l'istituzione degli opifici nazionali, aventi lo scopo di procurare lavoro agli operai disoccupati e l'adozione del suffragio universale.
Attraverso atteggiamenti e pressioni tumultuose s'iniziava un fatto importante nella storia francese del sec. XIX: l'ingresso e la partecipazione del proletariato alla vita politica, accanto e contro la borghesia e l'aristocrazia. I primi mesi della repubblica del 1848 sono caratterizzati da continue pressioni sul governo provvisorio da parte delle masse popolari parigine, avanzanti sempre nuove esigenze.
Ancora una volta la massa parigina tentava d'imporre la propria volontà e le proprie direttive al paese. Ma questa volta il tentativo, non più borghese-democratico ma socialista, era destinato a infrangersi contro la resistenza e la reazione delle forze della borghesia esasperata e spaventata, alleantesi con quelle delle classi rurali, nel che è da vedere la genesi della nuova situazione politica da cui scaturirà la dittatura del secondo impero. Il governo provvisorio, mentre in parte cedendo, in parte resistendo con difficoltà, fronteggiava le masse socialiste, doveva preparare l'organizzazione del nuovo regime repubblicano, e sviluppare un'attività internazionale in relazione alla nuova situazione europea.
Per il primo compito fu decisa la convocazione di un'Assemblea costituente da eleggersi con scrutinî nei quali per la prima volta fu applicato il suffragio universale diretto (23-24 aprile 1848). Dalle elezioni uscì un'assemblea di colore diverso da quello che si attendevano i socialisti e i repubblicani spinti, in quanto la maggioranza risultò di tendenze democratiche-conservatrici. Tale risultato fu l'espressione delle preoccupazioni borghesi e soprattutto dell'esasperazione dei ceti di campagna, che si eran visti capitare addosso un'imposta straordinaria di 45 cent. per ogni franco di contribuzioni dirette, carico fiscale deciso dal governo per far fronte alle nuove spese, specie a quelle per gli opifici nazionali.
Intanto urgevano anche, e assai gravi, i problemi di politica estera nella situazione rivoluzionaria che, in seguito agli avvenimenti francesi, si era determinata in gran parte d'Europa, tanto da far ritenere possibile la ripetizione di quanto era avvenuto tra il 1792 e il 1799. Ma nel campo internazionale assai scarsa risultò l'azione positiva del nuovo governo, per quanto notevoli correnti cercassero di spingerlo a interventi nelle questioni d'Italia e di Polonia. Il governo, la cui politica estera fu fino al giugno diretta dal Lamartine, si trovò in realtà paralizzato sia dal desiderio di non adombrare i governi stranieri, quello inglese in prima linea, sia dalle preoccupazioni per la situazione interna che tra l'aprile e il giugno si complicò per i tentativi della massa operaia parigina guidata dagli agitatori socialisti contro il governo e l'Assemblea costituente, tentativi culminati nella sanguinosa insurrezione del giugno (24-26), a domare la quale occorsero le truppe del generale L.-E. Cavaignac, al quale l'assemblea aveva dato poteri dittatoriali.
Lo schiacciamento del movimento segnò una svolta decisiva nella storia della seconda repubblica e della Francia, in quanto aprì la via al trionfo delle tendenze conservatrici, trionfo le cui tappe furono: l'elezione del presidente della repubblica, quella dell'assemblea legislativa, e il colpo di stato del 2 dicembre 1851. Un ravvicinamento tra la borghesia cittadina spaventata dallo spettro della rivoluzione sociale e le masse rurali esasperate contro le nuove tasse determinò la formazione di un partito dell'ordine a base clericale-conservatrice, la cui influenza fu decisiva a favore della candidatura presidenziale del principe Luigi Napoleone, nipote di Napoleone I e capo della famiglia Bonaparte, già per due volte nel 1836 e nel 1840 autore d'infelici tentativi di restaurazione napoleonica, e tornato alla vita politica in Francia dopo l'avvento della repubblica, come deputato alla Costituente. Il suo programma a base di ordine sociale, il prestigio del nome, l'abilissima propaganda sua e dei bonapartisti presto riorganizzati dietro di lui, gli valsero il 10 dicembre 1848 il clamoroso successo contro il candidato schiettamente repubblicano Cavaignac e il candidato socialista Ledru-Rollin, nell'elezione a presidente della repubblica, che si compì con diretta votazione popolare a suffragio universale. Fu il primo sintomo della reazione generale in Francia contro gli eccessi socialrivoluzionarî, cui seguì nel maggio 1849 quello ancor più significativo del risultato delle elezioni per l'Assemblea legislativa, nella quale, se risultò un rumoroso e inquieto gruppo di estremisti di sinistra, risultò anche un'imponente maggioranza a tinte conservatrici-clericali. Intanto il nuovo presidente aveva già dato prova della propria abilità politica promuovendo la spedizione contro la Repubblica romana, destinata non solo a equilibrare in Italia l'influenza austriaca, non lasciando alla sola Austria il compito delle restaurazioni, ma anche a cattivare al presidente le simpatie e l'appoggio delle masse clericali che egli con sicuro intuito aveva previsto prevalenti nelle elezioni.
L'Assemblea legislativa, di fronte alla quale il presidente aveva la pienezza del potere esecutivo, in quanto la Costituzione del 1848 gli attribuiva insieme con la nomina dei ministri il diretto controllo sull'esercito e sulla burocrazia, si presentava difficilmente dominabile, perché divisa fra contrastanti fazioni. Nella stessa maggioranza legittimisti e orleanisti si combattevano fieramente, rendendo impossibile la restaurazione monarchica, che pure sembrava sicura e facile, dato che le tendenze monarchiche avevano la maggioranza. In quest'atmosfera agitata Luigi Napoleone preparò abilmente il colpo di stato, che solo in apparenza soffocò la repubblica, mentre in realtà stroncò i tentativi di restaurazione monarchica, in quanto la repubblica era virtualmente morta dopo le elezioni del maggio 1849.
L'abilità del presidente fu di lasciare che l'assemblea si logorasse e si discreditasse nell'opinione pubblica coi suoi vani contrasti interni e con gli eccessi verbali degli estremisti, mentre per parte sua il presidente si accaparrava gli elementi direttivi dell'esercito e della burocrazia, allontanava dal governo gli uomini pericolosi alle sue ambizioni, e con viaggi in provincia prendeva direttamente contatto con la massa della popolazione, legandola alla propria persona e al proprio nome. Dopo un periodo in cui presidente e maggioranza furono d'accordo per battere in breccia e disgregare a furia di decreti e di provvedimenti restrittivi in materia di stampa e di associazione le superstiti forze repubblicane-democratiche, non tardarono a delinearsi aspri contrasti tra i due poteri, finché la lotta si fece ardente intorno a un progetto di modificazione alla Costituzione dove essa stabiliva il divieto di rielezione per il presidente, la cui carica durava quattro anni. L'abolizione chiesta dai partigiani del presidente trovò irriducibilmente contraria la maggioranza dell'assemblea. Ma Luigi Napoleone aveva ormai per sé larghe correnti nel paese, larghi e forti appoggi nell'esercito e nella burocrazia, e poteva osare il colpo di forza. Il 2 dicembre 1851 procedeva allo scioglimento dell'assemblea, facendo arrestare i principali esponenti dei partiti contrarî, e attribuendosi i poteri di riorganizzare il governo sul modello della costituzione consolare del 1800.
Un tentativo d'insurrezione contro il colpo di stato fu facilmente represso, e un plebiscito imponente di 7.400.000 voti venne a dare la sanzione del popolo al fatto compiuto. La Costituzione emanata da Luigi Napoleone il 15 gennaio 1852 contemplava un presidente decennale fiancheggiato da tre consessi legislativi: Consiglio di stato, Corpo legislativo, Senato; ma in realtà tutti i poteri e tutte le funzioni si assommavano nel presidente. Era il ritorno all'Impero, che infatti fu proclamato qualche tempo dopo con un decreto del Senato e sanzionato da un altro imponente plebiscito nel dicembre 1852.
Le convulsioni della rivoluzione del 1848 avevano ricondotto la Francia sotto una dittatura autoritaria, il che del resto era in armonia con la situazione prodottasi dovunque sul continente europeo, dopo la repressione dei varî movimenti insurrezionali e nazionali scoppiati in relazione alla rivoluzione di febbraio.
Il secondo impero. - Il regime che Luigi Napoleone aveva instaurato, richiamando in vita gli ordinamenti di Napoleone I, doveva durare fino al settembre 1870, pur modificandosi nell'ultimo periodo nel senso del progressivo allentamento dei freni e della progressiva attenuazione dell'autoritarismo, fino ad avvicinarsi a forme liberali. Come quello del primo Napoleone, il regime di Napoleone III, fortissimo nella prima fase, doveva indebolirsi per l'allontanamento e il logorio di alcune delle forze che lo avevano aiutato a sorgere e lo avevano sorretto, e doveva alla fine precipitare per il contraccolpo di disastri militari.
Il secondo impero ebbe con sé e per sé al suo sorgere l'esercito e la burocrazia - e cioè i due piloni fondamentali di un ordinamento statale fortemente accentrato quale quello della Francia - le masse campagnuole, le forze clericali e gran parte di quelle della borghesia produttrice e commerciante, a cui assicurava le condizioni favorevoli allo sviluppo delle attività economiche. E si giovò soprattutto di quel senso di nausea del parlamentarismo, di bisogno di quiete e di ordine, di paura dei sovvertimenti sociali che gli eccessi e le convulsioni della seconda repubblica avevano diffuso largamente nelle campagne e nelle città francesi, facendo passare in seconda linea l'amore per le libertà politiche. I ceti operai, che prima avevano dato tanto alimento al sovversivismo, venivano allettati e accaparrati con una politica paternalistica di provvidenze, di aiuti e di leggi sociali. L'aristocrazia legittimista e orleanista, che restava in disparte, diffidente e ostile, veniva sostituita con l'aristocrazia imperiale, i cui ranghi erano costituiti dalle famiglie della nobiltà del primo impero e da quelle innalzate da Napoleone III, e fornivano gli elementi per la fastosa e festosa corte organizzata dal nuovo imperatore, specie dopo il suo matrimonio (1853). Se una parte degl'intellettuali non si piegava al nuovo ordine di cose, avendo alla testa nientemeno che Victor Hugo, fulminante dall'esilio oceanico altosonanti invettive contro "Napoleone il piccolo", non mancavano quelli che l'avevano accettato in pieno e se ne facevano assertori. Nel regime la figura e l'azione del sovrano, poco più che quarantenne, erano dominanti, e tali rimasero fino all'ultima fase, quando l'età e la salute decadente indebolirono le forze dell'imperatore e si affermarono energie e volontà di ministri e di alti funzionarî, che esplicarono un'azione propria e talvolta s'imposero al sovrano.
Il secondo impero sembrò veramente imprimere un nuovo e più possente ritmo di vita alla nazione francese; e ciò con un'imponente politica di lavori pubblici, tra cui in prima linea lo sviluppo delle ferrovie; con un'intensificata attività d'affari, di cui furono documento le fondazioni di grandi compagnie azionarie e istituti di credito; con la trasformazione di Parigi in magnifica metropoli moderna, attuata attraverso demolizioni e sventramenti e costruzioni che sostituivano ai dedali di tortuose e strette viuzze con vecchie casupole, gli spaziosi boulevards, i rettifili fiancheggiati da maestosi palazzi; il che serviva anche a rendere assai difficile e quasi impossibile il ripetersi dei colpi insurrezionali come quelli del 1830 e del 1848. A tale intensificato ritmo di attività corrispose un incremento delle energie produttive, un elevamento del tenore di vita e del benessere generale. Tutto ciò era già in embrione durante il periodo della monarchia censitaria, quando la borghesia si era avanzata nella vita politica ed economica; ma il triennio di convulsioni e di disordini fra il 1848 e il 1851 aveva come arrestato il movimento di ascesa, che riprese e s'intensificò con l'avvento del secondo impero, e che si presentò imponente di fronte all'Europa con l'Esposizione universale tenuta a Parigi nel 1855. Nel 1860 Napoleone III poté considerare così solida la posizione economica e industriale del paese da decidersi ad abbandonare il protezionismo che aveva caratterizzato l'economia francese sotto i Borboni e gli Orléans, e ad aprire le vie al liberalismo, come dimostrò il trattato di commercio con l'Inghilterra (gennaio 1860).
Lo studio della storia del secondo impero deve tuttavia fare parte preponderante alla politica estera, giacché la ricerca di possibilità d'azione e di grandi successi nel campo internazionale costituì la preoccupazione assorbente, e diremmo quasi caratteristica, del nuovo imperatore, che aveva dietro di sé, e quasi a base e a giustificazione della propria sovranità e della propria dinastia, le tradizioni gloriose del primo impero, e che sentiva come un regime quale quello da lui instaurato - e che aveva preso il posto di dinastie legate alla storia dello sviluppo e dell'ascesa della Francia - non potesse veramente consolidarsi e farsi definitivamente accettare dalla nazione se non attraverso successi e vantaggi anche internazionali. "L'Impero è la pace", aveva affermato solennemente, in tono di promessa, il nuovo sovrano nel tempo in cui si preparava la via al trono. Ma l'affermazione aveva lo scopo di eliminare dalla via verso il trono le diffidenze e le paure di chi poteva temere una ripresa della politica guerriera e avventurosa del primo impero; e la promessa non poteva che dissolversi proprio nello spirito guerriero e avventuroso che il ritorno dell'Impero fatalmente faceva rivivere in Francia.
La molla e le direttive della politica estera del secondo impero sono da trovarsi nel proposito napoleonico di spezzare il sistema dei tre alleati continentali, che nel 1814-15 avevano rovesciato Napoleone I, e di batterli separatamente, riaprendo alla Francia le vie per giungere alle tradizionali mete dei confini naturali e dell'egemonia europea. Questa politica rispondente alle vecchie tradizioni della Francia avrebbe trovato un nuovo e potente strumento nel movimento di nazionalità di là dal Reno e di là dalle Alpi di cui Napoleone III si sarebbe fatto assertore, pur contenendolo entro limiti e direttive conformi agl'interessi francesi.
Il primo delinearsi di siffatta politica si ebbe durante la presidenza, quando Napoleone pensò di poter profittare del dissidio austro-prussiano sui problemi germanici per tentare un avvicinamento alla Prussia, in vista di un'azione anti-austriaca. La capitolazione dei Hohenzollern davanti agli Asburgo, sanzionata con l'umiliazione di Olmütz (dicembre 1850), arrestò lo sviluppo del tentativo e spinse la politica napoleonica alla seconda fase: quella dell'avvicinamento all'Inghilterra - preoccupata delle mire espansionistiche dello zar Nicola I in Oriente - e della collaborazione franco-britannica contro la Russia, dal che derivò l'inasprimento del contrasto russo-turco e lo scoppio della guerra d'Oriente (1853-56). Napoleone III attraverso questa crisi mirava a colpire e a umiliare la Russia, e cioè la più formidabile delle potenze continentali che avevano combattuto contro Napoleone I, e nello stesso tempo a determinare un attrito insanabile tra Russia e Austria, fatalmente destinate a urtarsi quando i problemi balcanici venivano sul tappeto. Le vittorie, per quanto raggiunte a caro prezzo, di Crimea, e la scelta di Parigi come sede del Congresso della pace, sembrarono il felice coronamento dell'azione napoleonica in Oriente e l'inizio di un nuovo periodo egemonico francese in Europa, al tempo stesso che la politica delle nazionalità poteva segnare un primo successo, perché dalla crisi orientale e dal Congresso di Parigi si delineava la formazione di un nuovo stato nazionale: la Romania.
Ma la situazione europea e francese creatasi in seguito agli avvenimenti d'Oriente imponeva all'imperatore una nuova fase di attività. L'accordo anglo-francese aveva lasciato il posto, sul finire della guerra, a una divergenza, per il contrasto tra gl'interessi britannici che esigevano il completo annichilimento della Russia, e quelli francesi che miravano a conservare in una Russia, sempre forte per quanto battuta, una possibile alleata orientale. La divergenza si era acuita durante il congresso; e mentre l'Inghilterra si era avvicinata all'Austria, Napoleone III aveva potuto tentare con successo approcci verso la Russia, dove il nuovo zar Alessandro II era furibondo contro l'Inghilterra, accanita e fortunata avversaria della Russia nell'Oriente europeo e asiatico, e contro l'Austria per l'infido atteggiamento da questa tenuto durante la crisi di Crimea. Si delineavano quindi i due contrastanti sistemi: angloaustriaco e franco-russo, e ciò mentre in Francia l'opinione pubblica considerava con mal celata insoddisfazione gli scarsi risultati concreti dei sacrifizî della guerra: prova di questo malcontento era il fatto che nelle elezioni del 1857 per il corpo legislativo riuscivano i primi cinque oppositori, quattro dei quali eletti a Parigi. In questa situazione, che imponeva all'imperatore la ricerca di un nuovo successo, nasceva l'idea dell'impresa d'Italia, per la quale Napoleone III calcolava di trovare gli appoggi esteriori nella Russia, pronta a secondare i piani anti-austriaci, e nel regno di Sardegna la cui combattività e le cui ambizioni si erano rivelate in Crimea. L'impresa mirava a riprendere e a far trionfare le due tradizionali direttive: quella dei confini naturali sulle Alpi e quella dell'espulsione degli Asburgo dalla penisola, a cui doveva succedere e sostituirsi l'influenza francese.
Di qui il piano della guerra del 1859, secondata dalle forze piemontesi, appoggiata a Oriente dalla neutralità benevola dello zar, diretta a creare nell'Italia settentrionale uno stato sabaudo dalle Alpi all'Adriatico col corrispettivo della cessione di Nizza e della Savoia alla Francia e di un'alleanza dinastica tra Savoia e Bonaparte, e a determinare nell'Italia centrale e meridionale lo scalzamento degli Asburgo-Lorena e dei Borboni da sostituirsi con nuove dinastie legate alla Francia (accordi di Plombières, 24 luglio 1858). L'impresa guerresca, che pur trovava dissenzienti e oppositori negli stessi circoli imperiali e che veniva ostacolata dall'Inghilterra, gelosa di salvare la posizione austriaca nella penisola per impedirvi uno sviluppo dell'influenza francese, le cui ripercussioni si sarebbero avute nella situazione mediterranea, si svolse nella primavera del 1859, resa inevitabile dall'abile politica di Cavour.
Anche questa volta la guerra fu più aspra e sanguinosa del previsto: i successi brillanti (Magenta 3 giugno, Solferino 24 giugno) furono pagati assai cari, e i risultati finali non furono tutti quelli preveduti e scontati dall'imperatore. L'Austria fu battuta e cacciata di Lombardia, ma appariva risoluta a ulteriore lotta tenace, e intanto il movimento nazionale italiano si era allargato ben oltre i limiti entro i quali Napoleone III voleva contenerlo, e tendeva all'unità, vibrando forti colpi anche allo Stato Pontificio il che creava difficoltà per Napoleone da parte di una delle forze sostenitrici dell'impero: l'elemento cattolico. Inoltre, si delineava la possibilità di un'aggressione della Prussia sul Reno.
Da tutto ciò la decisione dell'interruzione della guerra, e il tentativo di attuare non più in lotta ma d'accordo con l'Austria l'assetto federale dell'Italia vagheggiato a Plombières (patti di Villafranca, 11 luglio, e della pace di Zurigo, ottobre 1859). Ma ormai il movimento italiano è irrefrenabile, il che viene ad aprire nella politica italiana del secondo impero una nuova fase in cui l'imperatore non domina più, ma è dominato. Riesce nella primavera del 1860 a ottenere l'acquisto di Nizza e della Savoia, e cioè l'agognata frontiera alpina, ma a prezzo del consenso alle annessioni, del resto inevitabili, delle regioni centrali al regno dell'Italia settentrionale; nuovo forte impulso all'ulteriore cammino e al trionfo del movimento unitario, che i tradizionalisti della politica francese ritenevano dannoso agl'interessi della Francia e che avviene nel 1861.
La grande crisi politica iniziatasi con gli accordi di Plombières nell'estate 1858 e conclusasi nella primavera del 1861 con la proclamazione del regno d'Italia, permetteva a Napoleone di agitare davanti all'opinione pubblica, alla fine del primo decennio del suo regime personale, il risultato del raggiungimento dei confini naturali sulle Alpi, e cioè un aumento di territorio e di potenza e insieme il conseguimento di uno degli scopi tradizionali della politica della nazione. A tale aumento si accompagnarono notevolissime espansioni nel campo coloniale: Algeria, Senegal, Madagascar, Cina, Cocincina, regione di Obock furono campi d'importanti azioni e occupazioni francesi, che prepararono dal Mediterraneo al Mar Rosso e al Mar Giallo, dall'Atlantico all'Indiano, le basi della grande politica coloniale della terza repubblica. Né vanno dimenticati lo sviluppo all'influenza in Egitto con la costituzione della Società per il canale di Suez, e il tentativo d'insediamento in Siria nel 1860, all'epoca della lotta fra Drusi e Maroniti.
I risultati positivi d'ingrandimenti territoriali e di aumenti di potenza, conseguiti dal secondo impero nel primo decennio di esistenza, non erano però immuni di ombre e di pericoli. La formazione dello stato unitario italiano soprattutto creava nuovi difficili incognite, non solo per ciò che riguardava la politica mediterranea e internazionale, nella quale il nuovo stato fatalmente avrebbe mirato ad avere una propria parte e azione, indipendenti e magari contrastanti con la Francia, ma anche perché aveva impostato e rendeva ogni giorno più scottante il problema di Roma, vero scoglio insidioso sulla via degli ulteriori sviluppi della politica imperiale. Di qui il delinearsi di un'opposizione alla politica imperiale per parte degli elementi nazionalisti e clericali; il che mentre spinse l'imperatore a sollevare ogni sorta di ostacoli all'avanzata italiana su Roma (atteggiamento al momento di Aspromonte, Convenzione del settembre 1864, Mentana) lo decise anche a cercare verso le correnti liberali un compenso agli appoggi vacillanti o perduti.
Siamo al momento delle prime significative attenuazioni del ferreo regime autoritario istituito nel 1851-52: l'amnistia generale del 1859, che riaprì la Francia agli esuli e ai deportati dell'epoca del colpo di stato; l'aumento delle prerogative del Corpo legislativo nel 1860-61, che ridiede possibilità di discussioni parlamentari; un rallentamento nei vincoli della stampa, per cui sorsero nuovi giornali, anche con tendenze oppositrici e democratiche. Si ebbe così una ripresa di vita politica in Francia, alla quale però si aggiunse un ravvivamento delle correnti di opposizione, sia per il ritorno dei vecchi capi che si diedero a rianimarle e a dirigerle, sia per le nuove possibilità di organizzazione e di discussione: l'effetto di tutto ciò si vide nelle elezioni del 1863 per il Corpo legislativo, dalle quali risultarono 35 deputati di opposizione, provenienti dal repubblicanesimo, dal liberalismo, dal legittimismo, dall'orleanismo. Tra questi ultimi Adolfo Thiers, che riprese la vita politica con fervida tenacia di oppositore, facendo suo campo preferito quello della politica estera.
Il secondo impero entrava nella fase declinante. Mentre la sua forza diminuiva all'interno, all'estero dal 1863 al 1867 si susseguivano tre clamorosi insuccessi. Falliva nel 1863 il tentativo napoleonico d'intervento a favore dell'insorta Polonia russa, e ne risultava la rottura dell'accordo con lo zar. Si risolveva in un triste dramma, macchiato anche dal sangue di una nobile vittima, Massimiliano d'Austria, il piano ambizioso d'intervento nel Messico per creare oltre Atlantico un'irradiazione d'influenza e di potenza francese. E infine nel 1866 Napoleone III, dopo aver contribuito a provocare l'urto bellicoso tra Austria da una parte e Prussia-Italia dall'altra con la mira di completare in Italia l'allontanamento degli Asburgo e di creare in Germania, attraverso il logorio prussiano e la vittoria austriaca, una situazione favorevole alle ambizioni francesi di espansionismo renano, doveva assistere impotente e disorientato al crollo del proprio piano infrantosi a Sadowa (3 luglio 1866) e al minaccioso rafforzamento e predominio germanico della Prussia; dalla quale tentava poi invano di ottenere nel 1867 consensi e appoggi al proprio desiderio di conseguire o sul Reno o in Lussemburgo o in Belgio un qualche aumento, che potesse apparire agli occhi del nazionalismo francese, eccitato e sospettoso, il compenso per l'ingrandimento della Prussia, così come Nizza e la Savoia erano state nel 1860 il compenso per l'ingrandimento dell'Italia. In questa situazione Thiers dalla tribuna parlamentare poteva proclamare, fra larghi consensi, che l'Impero non aveva più un solo errore da commettere nella politica estera. La posizione di predominio continentale goduta tra il 1856 e il 1861 era crollata. E alla decadenza internazionale corrispondeva il progressivo logorio degli ordinamenti del 1851-52, contro i quali movevano in lotta vecchi e nuovi oppositori: nazionalisti irritati per gli scacchi della politica estera, cattolici malcontenti per Roma, liberali insistenti per una trasformazione del regime in senso parlamentare, repubblicani battenti in breccia l'impero, soprattutto per opera di capi giovani e audaci (Gambetta), socialisti riorganizzantisi secondo i principî dell'Internazionale, sorta a Londra nel 1864. Di fronte alle pressioni e agli attacchi moventi da ogni parte, l'imperatore invecchiato e malato non opponeva l'energia di un tempo, né sapeva far trionfare una propria direttiva, subendo a volta a volta opposte influenze, quali quella di E. Rouher, sostenitore della politica autoritaria, e quella di E. Ollivier, fautore delle trasformazioni liberali. Alla fine la tendenza dell'Ollivier prevalse, e attraverso una serie di riforme attuate tra il 1867 e il 1870 la costituzione dell'impero fu modificata in senso nettamente liberale-parlamentare. La trasformazione attuata ebbe l'8 maggio 1870 la sanzione di un imponente plebiscito popolare: sette milioni e mezzo di voti favorevoli contro un milione e mezzo di avversarî.
Il consenso dell'enorme maggioranza della popolazione sembrava così appoggiare l'Impero liberale succeduto all'Impero autoritario. Ma l'edificio era ormai minato alle basi. Gli avversarî non disarmavano, e potevano profittare per la loro accanita campagna di scandali clamorosi, quali quello provocato dall'uccisione del giornalista Victor Noir per opera di un principe della famiglia imperiale, Pietro Bonaparte (gennaio 1870). Una forte scossa sarebbe bastata a determinare il crollo. Essa venne, com'era fatale, dalla politica estera, in connessione alla politica nettamente antiprussiana che Napoleone III esplicò dopo il fallimento dei tentativi del 1867, e della quale la prima manifestazione fu il tentativo fatto tra il 1868 e il 1869 per costituire con l'Austria e l'Italia una triplice diretta a isolare e a schiacciare lo stato dei Hohenzollern. Il tentativo, dopo essere giunto fino alla preparazione di uno schema di trattato (maggio 1869), si arenò per il rifiuto napoleonico di accettare la condizione posta dal governo italiano dello sgombro francese da Roma, ma lasciò sempre più intorbidata l'atmosfera dei rapporti franco-prussiani. Ai sospetti e alle avversioni francesi contro la Prussia, rispondeva oltre Reno la volontà prussiana, impersonata in Bismarck e in Moltke, di completare l'unità germanica contro la Francia. Come ben disse un pubblicista francese, L.-A. Prévost-Paradol, Francia e Prussia erano come due locomotive correntisi incontro a gran velocità su uno stesso binario. L'urto era fatale.
La superiore abilità di Bismarck fu di provocarlo e di farlo avvenire a proposito della questione della candidatura di un principe Hohenzollern al vacante trono di Spagna, questione nella quale il secondo impero prese la posizione dell'aggressore, quanto mai atta a suscitare intorno alla Prussia la simpatia e la solidarietà di tutti i Tedeschi. La controversia, invelenitasi al principio dell'estate 1870, precipitò nell'urto quando si diffuse il dispaccio abilmente manipolato da Bismarck, che divulgava la notizia del rifiuto opposto dal re di Prussia ad accettare le esigenze francesi presentate dall'ambasciatore Benedetti nel colloquio di Ems. Piombando nell'ambiente eccitato francese, il comunicato parve una sfida e determinò l'irresistibile aumento e il trionfo delle correnti bellicose, cui invano cercò di resistere il Thiers. La dichiarazione di guerra fu decisa e inviata a Berlino: l'Impero affidava la sua sorte alla fortuna delle armi, affrontando la terza volta la lotta contro le potenze della vecchia coalizione antinapoleonica del 1813-1814. Dopo le lotte contro la Russia e contro l'Austria, era la volta della lotta contro la Prussia. Poco più di un mese bastò per dimostrare l'immensità dell'errore. Isolato diplomaticamente, perché vani riuscirono gli sforzi per riprendere le fila del progetto d'alleanza del 1869, mal preparato militarmente, il secondo impero si trovò di fronte a una Prussia che Bismarck aveva saputo appoggiare su tutte le forze germaniche subito riunite contro il secolare avversario, e sulla benevola neutralità dell'Inghilterra e della Russia, mentre Moltke le aveva foggiato uno strumento bellico formidabile. Ai tentativi d'avanzata francese oltre Reno, subito stroncati, seguì fulminea e terribile l'invasione delle forze tedesche in Alsazia e Lorena. E il 2 settembre uno dei due eserciti in cui erano divise le forze imperiali capitolava a Sedan con lo stesso imperatore, mentre l'altro si trovava strettamente bloccato a Metz.
L'inevitabile immediato contraccolpo di questi disastri era il crollo dell'impero. Il 4 settembre a Parigi gli elementi repubblicani riuscivano senza resistenza a far proclamare la decadenza della dinastia e l'avvento della repubblica, con alla testa un governo provvisorio di difesa nazionale. Le propaggini ormai numerose che il partito repubblicano aveva, soprattutto nelle regioni del sud e dell'est, permisero un pronto allargamento del movimento di Parigi in tutto il paese. Il secondo impero era finito. Per i precedenti della dinastia che lo governava e per i modi e il programma con cui era sorto, esso aveva come propria base insostituibile i successi e le vittorie, gl'ingrandimenti: le disfatte e l'invasione lo privavano di colpo d'ogni consistenza e possibilità di vita, anche se non ancora sette mesi erano trascorsi dal giorno in cui più di sette milioni di voti plebiscitarî si erano dichiarati a suo favore.
La terza repubblica. - La repubblica proclamata il 4 settembre 1870 non poté dirsi veramente costituita e consolidata se non nove anni dopo, e attraverso aspri contrasti interni. I capi repubblicani saliti al potere il 4 settembre (J. Simon, J. Favre, A. Picard, L. Gambetta) prima di pensare a organizzare il nuovo regime dovevano provvedere al terribile problema della guerra contro l'invasore, giacché il convegno che il 19 settembre ebbe a Ferrières con Bismark uno di essi, Jules Favre, dimostrò vana l'illusione, in cui erano molti, che potesse riprodursi la situazione della primavera 1814 all'epoca della caduta del primo impero, e cioè che lo straniero, pago di aver rovesciato l'Impero minaccioso, si ritirasse senza esigere indennità e territorî. Bismarck pose subito nettamente al nuovo governo la questione della cessione di territorio, il che fece trionfare nel governo provvisorio la decisione della lotta a oltranza, di cui fu animatore il Gambetta. La lotta si prolungò, eroica ma vana, sino alla fine di gennaio, sostenuta dalla capitale assediata e da eserciti organizzati in provincia per attaccare alle spalle gl'invasori, che si videro anche di fronte nei Vosgi il vecchio Garibaldi, generosamente accorso coi suoi volontarî a difesa della repubblica (Digione, gennaio 1871). La capitolazione di Parigi e un armistizio che doveva permettere la convocazione di un'assemblea per trattare la pace, posero fine alla guerra quando già presso l'assediata Parigi, nella fastosa reggia di Versailles, i vincitori avevano proceduto alla costituzione dell'Impero germanico sotto i Hohenzollern (18 gennaio 1871), coronamento della politica unitaria tedesca e insieme rivelazione della nuova forza germanica uscita dalle guerre vittoriose. L'Assemblea nazionale, eletta l'8 febbraio e convocata a Bordeaux, dopo aver proclamato la decadenza dei Bonaparte e messo a capo del potere esecutivo l'uomo più autorevole del momento, Adolfo Thiers, doveva piegarsi ad accettare e a ratificare (26 febbraio-10 marzo) i preliminari di pace imposti da Bismarck, implicanti l'indennità di 5 miliardi, l'occupazione temporanea di una parte del territorio, la cessione dell'Alsazia e di una parte della Lorena e anche la sfilata di una parte delle truppe vittoriose a Parigi, sui viali dei Campi Elisi. Tali patti, che poi dovevano concretarsi in forma definitiva nel trattato di Francoforte (10 maggio 1871), provocavano le accorate e veementi proteste dei rappresentanti delle provincie cedute, facevano sorgere la questione dell'Alsazia-Lorena, rendevano impossibile una vera riconciliazione franco-tedesca e preparavano tanta materia per l'incendio del 1914. Anche contribuirono a determinare in Parigi il furibondo scoppio insurrezionale, che restò nella storia col nome di Comune, e che fece seguire agli orrori della guerra esterna quelli della guerra civile (18 marzo-28 maggio 1871); giacché fu necessario per parte del governo e dell'assemblea trasferitasi a Versailles una vera e propria azione guerresca per domare la capitale, dove elementi estremisti, profittando dell'eccitazione delle masse operaie armate durante l'assedio per la difesa contro lo straniero, avevano costituito un governo rivoluzionario agitante confusi programmi di trasformazioni sociali e di organizzazione della Francia su basi federative. Lo schiacciamento del movimento significò, oltre che la vittoria dell'ordine sulla rivoluzione, la riscossa della provincia francese contro gl'impulsi della capitale. Si chiudeva il ciclo, iniziatosi con la presa della Bastiglia, dei movimenti e dei rivolgimenti politici nei quali Parigi aveva dettato legge alla Francia. La rapidità con cui poi il paese si risollevò dal duplice peso della disfatta e della guerra civile e la cui manifestazione più clamorosa fu il pagamento dei cinque miliardi, assolto in due anni anziché in cinque, con il conseguente anticipato sgombro dell'occupazione straniera cessata nel 1873, rivelò al mondo l'inesausta vitalità della Francia e insieme l'aumento del benessere e l'irrobustimento delle forze economiche che si erano realizzati durante il secondo impero.
Sgombrata dalle tempeste della guerra, l'atmosfera francese continuò a essere agitata dalle lotte politiche per l'organizzazione del nuovo regime; e ciò per la situazione di contrasto tra il governo, in cui si affermavano le tendenze repubblicane, e l'assemblea, in cui era una grande maggioranza monarchica, per quanto divisa tra legittimisti, orleanisti e bonapartisti. Era un po' il ritorno alla situazione del 1849-51. Ma questa volta la situazione, anziché in restaurazione dinastica (Borboni, Orléans, Bonaparte), doveva sboccare in un regime schiettamente repubblicano; sia per l'inabilità delle correnti monarchiche, le quali per di più non avevano nessun esponente audace e capace del tipo di Luigi Napoleone, sia per l'atteggiamento di Thiers, allora all'apice della sua forza politica e autorità, il quale, convintosi essere la repubblica "il regime che avrebbe meno diviso i Francesi" evolveva decisamente dall'orleanesimo al repubblicanesimo. Il cammino che portò allo sbocco repubblicano ebbe queste fasi: fallimento del piano di restaurazione monarchica nell'ottobre 1873, perché il conte di Chambord, nipote di Carlo X, rifiutò all'ultimo momento di accettare la bandiera tricolore, ritenuta insostituibile da una gran parte degli stessi partigiani della monarchia, tra cui il maresciallo Mac-Mahon, che nel maggio 1873 era stato portato alla presidenza al posto di Thiers, appunto perché costituisse il paravento dietro cui si sarebbe preparata la restaurazione; nuovi contrasti tra monarchici, specialmente fra orleanisti e bonapartisti, dei quali si giovarono i repubblicani che intanto con un'accanita propaganda nel paese (Gambetta) guadagnavano sempre più terreno, come dimostravano i risultati delle elezioni parziali; elaborazione della Costituzione promulgata nel gennaio 1875, che, mentre stabiliva la formazione di due assemblee (camera dei deputati e senato) per il potere legislativo, manteneva alla testa del potere esecutivo un presidente della repubblica; elezioni generali del 1876., che se creavano nel senato un'esigua prevalenza di elementi monarchici, davano alla camera una decisa fisionomia repubblicana, tanto da indurre Mac-Mahon a formare un ministero repubblicano; tentativo di Mac-Mahon di rafforzare le correnti monarchiche licenziando il ministero repubblicano e sciogliendo la camera (maggio 1877), fallito per l'energica reazione del paese, che nelle nuove elezioni dell'ottobre rafforzò la maggioranza repubblicana alla camera e costrinse Mac-Mahon a richiamare al governo i repubblicani; spostamento in senso repubblicano anche della maggioranza del senato, seguito dalle dimissioni di Mac-Mahon, cui venne dato per successore nella presidenza della repubblica un repubblicano schietto, Jules Grévy (gennaio 1879).
Le lotte attraverso le quali la repubblica si era affermata determinarono due conseguenze: la prevalenza del potere legislativo sull'esecutivo coi conseguenti pericoli degli eccessi del parlamentarismo, e la formazione di un'atmosfera politica tempestosa. Fra le crisi di particolare gravità vi fu quella determinata dal movimento capitanato dal gen. Boulanger con tinte nazionaliste e di rivincita e con tendenze dittatoriali (1887-89); quella per lo scandalo della compagnia costituitasi per il taglio dell'istmo di Panama (1892); e soprattutto quella scoppiata intorno al caso del capitano Dreyfus, ingiustamente condannato come reo di spionaggio a favore della Germania (1894). La crisi dreyfusista diede origine a veementi contrasti, che posero di fronte le correnti di destra (fra cui i cattolici entrati nel 1892 nell'orbita repubblicana, e i nazionalisti e i superstiti monarchici) e i partiti di sinistra, sostenitori dell'innocenza del condannato. La revisione del processo nel 1899 costituì il sostanziale successo dei partiti di sinistra, con la prevalenza di questi (radicali, radicali-socialisti, socialisti) nella vita politica e nel governo della repubblica, al che si accompagnò lo sviluppo di un acceso anticlericalismo sboccato nella lotta contro le congregazioni (1903), nel conflitto col Vaticano e nella denuncia del Concordato (1906). Il fatto che la repubblica riuscì a superare le varie crisi e a consolidarsi, mostrò la vitalità e la forza del nuovo regime e la progressiva decadenza delle correnti monarchiche, ridottesi in ultimo a rappresentare esigue per quanto combattive minoranze.
Al consolidamento del regime repubblicano si accompagnò il ritorno della Francia a una grande politica internazionale, i cui primi successi si ebbero nel campo coloniale, dieci anni appena dopo il trattato di Francoforte e la Comune, col protettorato sulla Tunisia (1881) e con l'occupazione dell'Indocina e di Gibuti (1883-85). A ciò si aggiunse l'accordo con la Russia, prima sotto la forma di un'intesa generica (1891), poi sotto quella di una vera e propria alleanza (1893) contrapponentesi nettamente al sistema della Triplice, creato dieci anni prima da Bismarck anche per isolare la vinta del 1870 e paralizzarne le velleità di rivincita. Al momento della formazione della Duplice, la terza repubblica si trovava in difficili rapporti non solo con la Germania, di fronte alla quale il patriottismo francese considerava sempre aperta la questione dell'Alsazia-Lorena, ma anche con l'Inghilterra per la rivalità marittima e coloniale in Africa e in Asia, e con l'Italia che gran parte della opinione pubblica francese dal 1870 in poi guardava con sospetto e avversione, sia per la mancata solidarietà nella guerra contro la Prussia, sia per l'adesione al sistema triplicista. I rapporti italo-francesi erano stati particolarmente difficili nei primi anni dopo il 1870, quando le correnti clerico-monarchiche prevalenti nell'assemblea parvero in certi momenti pronte ad agire per ridare Roma al papa. Il sopravvento dei repubblicani dopo il 1877 aveva migliorato la situazione, che però era tornata a farsi critica nel 1881-1882, per il colpo francese in Tunisia, compiuto in modo da ledere non solo gl'interessi, ma anche la suscettibilità italiana, e per la formazione della Triplice. L'impronta nettamente triplicista che ebbe la politica italiana nel decennio in cui la figura politica dominante in Italia fu il Crispi (1887-1896), mantenne tempestosa l'atmosfera tra Roma e Parigi. Ma gli ultimi anni dello scorso secolo videro un cambiamento nella politica estera francese verso l'Inghilterra e verso l'Italia. La tensione coloniale con l'Inghilterra, giunta al momento critico dell'urto sulla questione del Sudan a Fashoda (1898), lasciò il posto a un accordo in cui la Francia cominciava a subordinare i proprî interessi marittimi e coloniali a quelli dell'Inghilterra, in vista di costituire con l'Inghilterra un sistema sostanzialmente rivolto a fronteggiare la Germania. Questo movimento, iniziatosi con l'accordo africano nel 1899, sboccò nell'intesa generale anglo-francese dell'aprile 1904. Del pari la tensione con l'Italia si rallentò dopo la caduta di Crispi, e attraverso la conclusione di convenzioni relative alla condizione degl'Italiani in Tunisia (1896) e un trattato commerciale (1898), fu aperta la via che portò a un accordo mediterraneo (1900), confermato e ampliato nel 1902 con l'aggiunta di una clausola di reciproca neutralità in caso di guerra difensiva. I nuovi orientamenti politici, che ebbero il massimo assertore nel ministro degli Esteri T. Delcassé, mentre assicuravano alla Francia lo sviluppo dell'espansione coloniale nel Marocco, miglioravano assai la sua posizione internazionale, specialmente di fronte alla Germania. Questa mirò a reagire alla politica francese, cercando ripetutamente nel Marocco il terreno per paralizzarla (sbarco di Guglielmo II a Tangeri, 1905; colpo di Agadir, 1911). Ma le crisi che i tentativi tedeschi determinarono non ebbero altro risultato che di aggravare i rapporti franco-germanici, malgrado le apparenti provvisorie sistemazioni (decisioni della Conferenza di Algesiras 1906; accordo franco-tedesco dell'autunno 1911, che lasciava alla Francia il Marocco, in cambio della cessione d'una parte del Congo Francese alla Germania). Il dissidio creato dalla questione dell'Alsazia-Lorena era incolmabile; e quando giunse l'ora della conflagrazione mondiale, Francia e Germania si trovarono di nuovo fatalmente di fronte (v. guerra mondiale).
La guerra coglieva la Francia in un'ora particolarmente critica di politica interna; perché, mentre si era delineato un risveglio di patriottismo nazionalista di cui era stata manifestazione anche l'elezione a presidente della repubblica di Raimondo Poincaré, lorenese e assertore di una politica risoluta (1913), le correnti democratiche e socialiste, prevalenti in parlamento, si agitavano per la riduzione del servizio militare. Ma l'invasione nemica, subito presentatasi con proporzioni e caratteri ben più formidabili che non nel 1870, sopiva le lotte e i contrasti e determinava quell'unione sacra, che insieme con l'eroismo militare e gli aiuti degli alleati permise alla Francia di giungere alla salvezza e alla vittoria finale, pur dopo più di quattro anni di terribili prove.
Il trattato di pace che la vinta Germania doveva firmare a Versailles il 28 giugno 1919, e che fu integrato con quelli imposti ai minori avversarî (Austria, Ungheria, Bulgaria, Turchia) non solo distruggeva il trattato di Francoforte, ma apriva alla Francia nuove vie di sviluppo e di potenza. In Europa infatti la Francia riacquistava le provincie perdute nel 1871, occupava temporaneamente una parte del territorio tedesco, e riusciva a costituire intorno alla vinta Germania, e a spese di questa e dei suoi alleati, una serie di stati legati al sistema politico francese. Fuori d'Europa, in Africa e in Asia, ingrandiva notevolmente il già vasto e ricco impero coloniale, con parte delle colonie tedesche e col mandato sulla Siria. Inoltre, col tributo delle riparazioni dei danni di guerra imposto ai vinti e congegnato in modo da raggiungere cifre fantastiche, mentre aumentava l'indebolimento di questi, otteneva parte dei mezzi necessarî al risollevamento economico e finanziario dalle conseguenze dell'invasione e della lunga guerra, cui del resto sapevano validamente provvedere le stesse risorse ed energie del popolo francese con prontezza ed efficacia mirabili.
Ma più ancora che la preoccupazione della ricostituzione economica e finanziaria, ha dominato nella Francia del dopoguerra la preoccupazione del mantenimento della situazione creata dalla pace vittoriosa, e cioè il cosiddetto problema della sicurezza. In un primo tempo, nell'immediato dopoguerra, sotto l'influenza delle correnti nazionaliste che la guerra aveva eccitato, la soluzione del problema fu cercata in un irrigidimento di politica verso la vinta Germania, cui si prestava l'oppressivo congegno dei patti del 1919 e che culminò con l'occupazione della Ruhr (1923), mirante non tanto a premere sulla Germania per farle pagare tutte le riparazioni, quanto a meglio comprimerla e dominarla politicamente. Questa politica a fondo nazionalista s'intrecciava anche a mal celate aspirazioni verso una specie di egemonia continentale, che durante le trattative di Versailles si erano rivelate con progetti di permanenti occupazioni renane e di smembramento della Germania, e che dopo la pace apparivano nei propositi di mantenere in armi un formidabile apparato militare (il più forte di tutta l'Europa) e di stringere sempre più alla Francia gli stati sorti e ingranditi dalla comune vittoria e solidali con la Francia nel volere il rispetto assoluto dei trattati del 1919 (Polonia, Cecoslovacchia, Romania, Iugoslavia).
Un mutamento, o per lo meno un'attenuazione di siffatti indirizzi, a lungo andare minacciosi per la pace, si manifestò quando, nel 1924, la riscossa delle correnti democratiche nelle elezioni in cui trionfò il cartello delle sinistre, e insieme il naturale alleviamento delle tensioni e delle esasperazioni fermentate con la guerra, fecero ricercare il mantenimento della pace in una conciliazione con la Germania, col conseguente allentamento della morsa dei trattati. S'inaugurò la politica che ebbe a caratteristico esponente A. Briand e che condusse al patto di Locarno (1925), al piano Young (1929), e allo sgombro anticipato delle occupazioni renane (1930). Ma le resistenze contro gli ulteriori sviluppi di siffatta politica si mantengono forti; tuttavia con l'accordo di Losanna del luglio 1932 si è giunti all'eliminazione delle riparazioni germaniche.
Così la terza repubblica si trova ora di fronte al problema del contemperamento delle giuste esigenze della sicurezza francese con le necessità della pace europea, che impongono la rinuncia alle aspirazioni egemoniche e la conciliazione vera tra vincitori e vinti, raggiungibile solo attraverso una radicale trasformazione dello spirito che dominò nel 1919 a Versailles e nei trattati di pace.
Re di Francia e presidenti della Repubblica francese. - L'elenco dei re comincia con Ugo Capeto, cioè con la terza razza; per i re della prima e seconda razza, v. rispettivamente meravingi e carolingi. Le date d'inizio sono quelle dell'incoronazione o dell'elezione alla presidenza. Nei casi in cui la data di successione vera e propria diverga molto da esse, è posta in corsivo fra parentesi quadra.
Capetingi diretti: Ugo Capeto (987-996); Roberto II (996-1031); Enrico I (1031-1060); Filippo I (1060-1108); Luigi VI (1108-1137); Luigi VII (1137-1180); Filippo II Augusto (1180-1223); Luigi VIII (1223-1226); San Luigi IX (1226-1270); Filippo III (1271-1285); Filippo IV il Bello (1286-1314); Luigi X (1315-1316); Giovanni I (15 novembre-19 novembre 1316); Filippo V (1317-1322); Carlo IV (1322-1328).
Capetingi, ramo dei Valois: Filippo VI (1328-1350); Giovanni II (1350-1364); Carlo V (1364-1380); Carlo VI (1380-1422); Carlo VIl (1429 [1422]-1461); Luigi XI (1461-1483); Carlo VIII (1484-1498).
Capetingi, ramo dei Valois-Orléans: Luigi XII (1498-1515).
Capetingi, ramo di Valois-Angoulême: Francesco I (1515-1547); Enrico II (1547-1559); Francesco II (1559-1560); Carlo IX (1561-1574); Enrico III (1575-1589)
Capetingi, ramo dei Borboni: Enrico IV (1594 [1589]-1610); Luigi XIII (1610-1643); Luigi XIV (1654 [1643]-1715); Luigi XV (1722 [1715]-1774); Luigi XVI (1775-1792).
Prima Repubblica: Convenzione nazionale (1792-1795); Direttorio (1795-1799); Consolato provvisorio (1799-1800); Consolato di Napoleone Bonaparte (1800-1804).
Primo Impero: Napoleone I imperatore (1804-1814); Prima Restaurazione: Luigi XVIII di Borbone (1814-1815); Cento giorni: Napoleone I (10 marzo-22 giugno 1815); Seconda Restaurazione: Luigi XVIII di Borbone (8 luglio 1815-1824); Carlo X di Borbone (1824-1830); Monarchia di Luglio: Luigi Filippo di Borbone Orléans (1830-1848).
Seconda Repubblica: Governo provvisorio e presidenza provvisoria del Cavaignac (25 febbraio-10 dicembre 1848); Luigi Napoleone Bonaparte presidente (1848-1852).
Secondo ImpPro: Napoleone III (1852-1870).
Terza Repubblica: Governo provvisorio (4 settembre 1870-31 agosto 1871); Louis-Adolphe Thiers (1871-1873); Maurice Mac-Mahon (1873-1879); Jules Grévy (1879-1887); Marie-François Sadi Carnot (1887-1894); Jean Casimir-Périer (1894-1895); Félix Faure (1895-1899; Émile Loubet (1899-1906); Armand Fallières (1906-1913); Raymond Poincaré (1913-1920); Paul Deschanel (17 gennaio 1920-21 settembre 1920); Alexandre Millerand (1920-1924); Gaston Doumergue (1924-1931); Paul Doumer (1931-1932); Albert Lebrun (dal 1932).
Fonti: Il lavoro di raccolta e di cernita delle fonti della storia nazionale cominciò in Francia sin dal sec. XVI, per es. con il Pithou; e già nel sec. XVII si svolgeva con tale fervore, che molti dei lavori e delle raccolte pubblicate dai grandi eruditi di quel secolo (Duchesne, Baluze, le père Anselme, ecc.) sono ancor oggi indispensabili. Nel sec. XVIII, accanto alla storiografia illuministica, continua la storiografia erudita; insieme con il Siècle de Louis XIV del Voltaire escono alla luce le raccolte di don Bouquet, di Antoine Rivet de la Grange e di altri. Anzi, il lavoro di ricerca e di edizione delle fonti riceve nuovo impulso da enti ufficiali, come l'Académie des Inscriptions et Belles Lettres. Nel sec. XIX è un susseguirsi di pubblicazioni, di varia mole e di vario interesse, ma tali nell'insieme da offrire una delle più ricche raccolte di materiali documentarî.
I dittonghi ae, oe si sono anticamente ridotti a ę ed ẹ; au ha resistito più a lungo prima di ridursi a o???.
Ma bisogna distinguere da un lato il posto che le vocali e le consonanti occupavano originariamente nella parola e, d'altro lato, considerare la posizione della parola nella frase, distinguendo il trattamento delle vocali toniche (nella parola o nella frase). Inoltre bisogna distinguere le vocali libere o di sillaba aperta, quelle cioè che si trovano in fine di sillaba, p. es. la a di ma-re o di pa-trem, dalle vocali implicate o in sillaba chiusa, le quali sono seguite da una consonante che chiude la sillaba, p. es. la a di pas-tum o di par-tem.
In Gallia, forse per influenza celtica, la ū latina ha preso già anticamente il suono di ü (cioè è passata da labiovelare a labiopalatale): p. es. mūrum mur [pron. mür], duratum durü [pron. düré].
Le vocali atone sono fortemente soggette a indebolirsi. Meno delle altre le protoniche iniziali, che, proferite con particolare nettezza, si sono in generale mantenute in francese, sia col timbro originario (mari da marītum, filer da fīlāre), sia con un'alterazione che può essere incondizionata (duré [düré???] da duratum, couronne da coronam), ma che spesso è dovuta all'influenza di suoni vicini o al fatto che si tratta di sillaba chiusa (cheval [èəval] da caballum, cfr. charbon da carbonem, venir [vənir] da venīre, ma merci da mercēdem).
Le vocali atone finali sono di regola cadute fin dall'età preistorica (nef da navem, hier da herī, perd[s] da perdo, plein da plenum), fuorché l'a finale che si è mantenuta più a lungo nella pronunzia come e semimuta [ə], e ancor oggi sopravvive nella scrittura (mule da mūla). Tuttavia, dopo parecchi gruppi consonantici, tutte le vocali finali originarie si sono conservate sotto forma d'una e semimuta, detta d'appoggio (porte da portam, chèvre da capram, fièvre da febrem, enfle da inflo, nôtre da nostrum) e in particolare dei vocaboli sdruccioli latini (lièvre da lepŏrem, semble da simĭlo, frêne da fraxĭnum). Le vocali atone penultime sono cadute in età diverse, talora molto antiche (œil da oc[u]lum: oclum si trova già nel latino volgare, vert da vir[ĭ]dem, chaume da cal[ă]mum).
L'e semimuta, di qualunque origine fosse, ha avuto una sorte precaria. Davanti a vocale è scomparsa già anticamente, sia alla finale (la cosiddetta elisione: bell[e] amie), sia in altra sede (armure da armëure, lat. armatura; mûr da mëur, lat. maturum, ecc.). Seguita da consonante e preceduta da vocale, scompare in età antica: enrou(e)ment, l'anné(e) dernière. Fra due consonanti è stata eliminata dalla pronunzia moderna (acheter, pron. aèté), fuorché nei casi in cui verrebbero a incontrarsi tre consonanti (justement, pron. žüstəmã; parlerai, pron. parləré) o, all'iniziale assoluta, due (Petit! Demain!).
Le vocali toniche hanno molto maggiore resistenza. In sillaba chiusa non si sono mai dittongate nella lingua letteraria (mil da mille, fer da ferrum, char da carrum, porte da portam); ẹ si è aperta in ę, ọ si è chiusa in u (grafia ou): mettre da mĭttere, cour da cürtem. In sillaba aperta i e u si conservano (nid da nīdum, mur [cioè, come s'è detto, mür] da mūrum); ẹ diventa ei, da cui più tardi oi: da me si ha mei, moi (da cui poi, restando immutata la grafia, móe, mwę, mwa), o, con evoluzione diversa, diventa e (creta diventa craie); ę diventa ie, mantenutosi fino a oggi (miel); ọ diventa ou e poi œ (flürem dà flour e poi fleur, oggi pronunziato flœr); o??? diventa uo e poi ue, œ (cuor, cuer, cœur). Infine, l'a tonica libera è divenuta e (lat. mare, fr. mer) forse per un dittongamento preistorico. Grazie a queste diverse evoluzioni, il francese ha finito con l'avere un sistema vocalico ricco e originale, formato di tre gamme complete (la gamma palatale ę, ẹ, i), la gamma labio-velare (o???, ọ, u), la gamma labio-palatale (œ [aperta e chiusa], ü).
Influisce sul trattamento delle vocali la vicinanza di m, n, j (la j, spirante palatale sonora, è la continuatrice della j latina [i con valore consonantico], come majus [maius], e di ĕ e ĭ che in determinate condizioni si sono consonantizzate, p. es. .fīlĭa, vīnea trisillabi, diventati *filja, *vinja bisillabi). Così, p. es., á + j dà aj, ej, ę (maium - mai), j + á + j dà *jaj e poi i (iacet - gît), ó??? + j dà *uei e poi ui (cŏrium - cuir), o??? + j dà oi (rasorium - rasoir). A contatto di m o di n la vocale tende a modificare il timbro, o a nasalizzarsi, talvolta i due effetti si combinano. P. es. plēnam dà pleine (mentre habere dà avoir); grandem dà grand [pron. grã]; vinum dà vin [pron. væ], cioè la i si è non solo nasalizzata, ma aperta in e. Questo spostamento ha dato origine a un sistema originale di vocali nasali.
Nel consonantismo bisogna distinguere il trattamento delle consonanti alla finale, all'iniziale o all'interno della parola, e fra quelle interne bisogna ancora distinguere le consonanti appoggiate (che possono essere iniziali di sillaba, come la t di fes-ta, ovvero interne di sillaba, come la r di cre-do, pa-trem), le consonanti intervocaliche (come la b di faba), le consonanti finali di sillaba (come r di par-tem, s di fes-ta).
Le consonanti che si trovavano alla finale in età latina, o che si sono venute a trovare tali in età romanza in seguito alla caduta d'una vocale, di solito sono cadute, ma in età molto diverse. La m finale latina era già caduta davanti a vocale iniziale fin dall'età classica, e questo trattamento si generalizzò in latino volgare, fuorché in alcuni monosillabi (come rem, fr. rien) in cui persisté a lungo. La s finale si faceva ancora sentire in fine di frase nel sec. XVI; oggi è estinta. Tuttavia, alcune consonanti finali sono sopravvissute, sia in seguito a legamento (liaison) con la parola seguente (bon ami [pron. bonamí]), sia per reazione della grafia sulla pronunzia (p. es. lis "gigli"), sia per altre cause. Le finali l, r si sono per lo più mantenute (mare - mer; ma cfr. gl'infiniti in -er pronunziati é); la v primaria o secondaria sussiste sotto forma di f (bovem - bteuf, capu[t] - chef).
Le consonanti iniziali di parola e le consonanti interne appoggiate si sono di regola conservate: così le due t di testam - tête, la l di lunam-lune, la l di florem - fleur. Le occlusive velari (c, g) si sono mantenute quand'erano seguite da consonante oppure da o, u (crin da crinem, cœur da cor). Davanti a e, i, avevano già anticamente subito un intacco che le aveva mutate in ć, ǵ: successivamente cent viene a essere pronunziata zent e poi sã, gentem prima ǵent e poi žã. Davanti ad a, c e g si palatalizzano in età più tarda: l'esito di ca- è diverso da quello di ce-, ci-: caballum dà cheval (pron. prima ćeval e poi èval), mentre l'esito di ga- è analogo a quello di ge-, gi (Jambe pron. ǵambə e poi žãb). Il trattamento di cacaratterizza il francese letterario non solo di contro alle altre lingue neolatine, ma anche di contro a parecchi dialetti della Francia settentrionale.
Delle consonanti intervocaliche, solo le liquide e le nasali si sono mantenute: poire da pira, voile da vela, aime da amat, laine da lana. Le altre, per assimilazione con le vocali vicine, hanno inclinato a diventare sonore se erano sorde, fricative se erano occlusive, e spesso anche a perdersi. Così la -s- sorda è diventata sonora (chose da causa); la -p- è diventata -b- e la -b-, prmaria o secondaria, è diventata -v- (rive da ripa, fève da faba), la -v-, primaria o secondaria, sussiste (vive da viva, louve da lupa) se non è assorbita a contatto di o, u (oncle da a [v]uncŭlum); -t- è passata a -d-, e la -d-, primaria o secondaria, è caduta (vie attraverso vida, da vita; nue da nuda); -c- davanti ad a, o, u diventa -g-, e -g-, primaria o secondaria, cade prima o dopo o, u (sûr, attraverso sëur, *seguru, da securum, août da augustum, jouer attraverso *jogare, da iocare, rue da ruga), mentre preceduto da a, e, i e seguito da a, è diventato j, combinandosi con la vocale precedente (baie *baga baca); -c- e -g- davanti a e, i, palatali già da antica data, hanno, secondo le condizioni, esito vario (oiseau da aucellum, plaisir da placere; fléau fr. ant. flaiel, da flagellum).
Quanto alle consonanti interne non intervocaliche, le iniziali di sillaba sono trattate come le iniziali di parola (cfr. la prima e la seconda t di tête, testa). Delle finali di sillaba solo r sussiste, mentre le altre cadono o si alterano in periodi diversi (avenir da ad-venire, dette attraverso *deb-ta da debĭta, tête da tes-ta, rompre [rõpr] da rumpĕre, aube [ó] da alba). La c e la g si palatalizzano in j, e questa s'unisce alla vocale precedente o palatalizza la consonante seguente (agneau da agnellum, fait da factum, ais da axem). La j, qualunque ne fosse l'origine, ha di solito palatalizzato le consonanti contigue, le quali hanno poi avuto sorti diverse: la ñ ha resistito (vigne da vinea), -cj-, -tj- si sono assibilate (provence da provincia, force da fortia), la -j- di -rj- e -sj- ha scavalcato la -r- e la -s-, e si è combinata con la vocale precedente (cuir da corium, baher da basiare), la ł si è ridotta a j (fille pronunziato anticamente filə [cfr. ital. figlia] e ora fij); infine le labiali p, b, v sono cadute davanti a j diventata è o ž (ache da apia, tige da tibia, sauge da salvia), mentre la m ha nasalizzato la vocale precedente prima di cadere (singe [sæž] da simium).
Queste diverse evoluzioni hanno ridotto il francese a un sistema consonantico piuttosto povero: nessuna affricata, occlusive sorde p, t, k, sonore b, d, g, spiranti sorde f, s, è, sonore v, ś, ž, sonanti m, n, ñ, l, r, semivocali j, w, w??? (quest'ultima è una ü consonante ignota a quasi tutte le lingue indoeuropee: huit [w???it]).
Morfologia. - In generale, la flessione del francese continua la flessione latina, in conformità ai principî dell'evoluzione fonetica [ϕ], la cui normale efficacia è spesso modificata sia dall'analogia [a], sia dal bisogno di forme precise dal valore agevolmente riconoscibile [δ]. Molte flessioni latine sono andate perdute: ablativo, imperfetto del congiuntivo, ecc.; alcune flessioni sono creazioni romanze: futuro, condizionale, ecc.
Nella coniugazione I -er, II -ir, III -oir o -́re provengono [ϕ] dagli infiniti -are; -ire; -ēre, -ĕre. Ma, in tutte la età, l'analogia [α] ha trasferito degl'infiniti da una classe all'altra: paver invece di *pavir, tenir invece di *tenoir, courir invece di courre, recevoir invece di reçoivre, plaire invece di plaisir, rire invece di *rioir. Lo schema associativo [a] è del seguente tipo: tenir-tenons = venir-venons.
Nel presente la tre coniugazioni hanno terminazioni uniformi per il plurale: 1. persona -ons sembra rappresentare *-omus, di origine incerta; 2. -ez continua I -atis, che sin dall'inizio è stato esteso a II, III (α: vendez-vendons = chantez-chantons); 3. -ent continua -́ant [ϕ], nonché -́ent, -́ŭnt [δ]. Al singolare 1. I canto: chant si confondeva dapprima con II, III vendo: ant. fr. vent. Ma per 2, 3, la terminazione era distinta: I. 2. cantas: chantes, 3. cantat: chante(t); II-III. 2. vendis: ant. fr. venz; 3. vendit: vent. La distinzione è stata più tardi completata per la 1ª persona: I. chant è diventato chante (α: chante-chanter = tremble da trem(ŭ)lo [ϕ] -trembler); II-III hanno generalizzato una s: ant. fr. venz, fr. mod. vends: (α: vends − vendons = sens, da sentio [ϕ]: sentons). Queste terminazioni del presente indicativo si trovano negli altri tempi e modi, salvo le deroghe che saranno indicate. Per quel che riguarda il radicale, esso era atono dappertutto nella 1ª e 2ª plurale, tonico nelle altre persone. Ciò causava delle alternanze, per effetto delle leggi fonetiche: lieve levons, aime amons, meurt mourons, parole parlons, ecc. Alcune di queste alternanze, che esistono anche nel presente del congiuntivo e dell'imperativo, sono state distrutte più tardi ([α]: parle-parlons = chante-chantons); ma parecchie restano (peut-pouvons), e se ne sono formate delle nuove ([ϕ]: lève levons).
Nella maggior parte dei verbi in -ir il radicale ha subito [δ] l'aumento del suffisso incoativo -īsco, staccato da verbi come (ob)dormīsco: unis unissons, e -is- si è esteso [α] fino al presente del congiuntivo, all'imperfetto indicativo e al participio in -ant: unisse, unissais, unissant.
Il presente del congiuntivo aveva in origine due tipi distinti al singolare: I.1. chant; 2. chanz; 3. chant, provenienti da cantem, ecc. [ϕ]; II-III vende, vendes, vende, da vendam, ecc. [ϕ]. Ma poi II-III invase I, e perciò chante, ecc. [α] (chante-chantons = vende-vendons). La 1ª pl. I. -ons da *omus [ϕ], in concorrenza con II (e in parte III) -iens da -ĕámus, -ĭámus [ϕ] ha messo dappertutto capo a -ions, che ha dappertutto cagionato 2-iez [α, e parzialmente ϕ: -ĕátis, -ĭátis], invece di I -oiz da -ētis [ϕ], e di III -ez da -atis [ϕ]. In quanto a 3. chantent, si spiega con α e δ. Così si è avuto un paradigma unico per il presente del congiuntivo.
Ugualmente, nell'imperfetto indicativo, le fo mee primitive di I chanteve, chantoe da cantabam [ϕ, forme dialettali] sono state ben presto sostituite con III vendeie da *vendéa [ϕ], il quale è dovuto all'estensione [α] di *habé???a, *debé???a, provenienti da habebam, debebam [ϕ per dissimilazione consonantica]. La terminazione -eie è diventata -oie [ϕ], poi -ois [α] e -ais [ϕ]. Nella 1ª plurale la forma primitiva -iienṣ, da -ẹámue [ϕ], è stata sostituita da -ions [α del presente indicativo].
L'imperativo è rappresentato dal presente indicativo per la 2ª plurale (chantez, vendez), mentre la 2ª singolare proviene dall'imperativo latino (chante: canta [ϕ], ant. fr. vent: vende [ϕ], fr. mod. vends [α dell'ind. vendis).
Nel perfetto occorre fare distinzione tra i tipi deboli, con accento sulla terminazione in tutte le persone: chantai, fini(s), valu(s), e i tipi forti, con accento sulla radicale, almeno nella 1ª e 3ª sing. e 3ª plur.: fis, vin(s). Il tipo debole I chant-ai -as -a(t) -ames -a(s)tes -èrent continua il tipo latino cantavi, ecc., ridotto in volgare a cantai. Nella 2ª sing., -as, invece di *-ast da -asti [ϕ], è dovuto alle seconde persone in -s [α]. Nella 3ª sing., -α (in luogo di *chanto da *cantaut [ϕ]) sembra sia dovuto all'analogia di il a, sotto l'influsso del perfetto composto (passato prossimo) di significato quasi identico: j'ai chanté, tu as c., e il a c., forse anche sotto quello del futuro, di significato opposto [á per antitesi]: chanterai, -as, -a, donde perfetto chantai, -as, -a. Nella 1ª plurale, lat. volg., cantámus, per canta(vi)mus avrebbe dovuto dare *chantains [ϕ]; chantâmes deve il suo a alla 1ª, 2ª, 3ª sing. e 2ª plur.; l'-e finale si spiega con δ, come quella di chanta(s)tes [ϕ *chantaz]. Nella 3ª plur., -arunt dà -èrent [ϕ, e δ per l'e finale], dialettale -arent [α, δ, e parzialmente ϕ influsso dell'r]. Il tipo debole II fini(s), -is, i(t), -imes, - (s)tes, -irent si spiega in modo parallelo, secondo il lat. finī (v)i, ecc. Il terzo tipo debole valu(s), nel fr. ant. valúi, è una creazione originale del francese [α]. Infatti válŭi avrebbe dovuto dare *vail, cfr. volŭi, ant. fr. voil [ϕ]. Il perfetto del latino volgare e arcaico. fū???ī (class. fŭ???ī) fū???(i)sti fū???(i)t fū???(i)mus fū(i)stis fū(e)runt, divenuto forte in tutte le persone e ridotto in francese a fui (poi fus) fus fu(t) fumes fu(s)tes furent - in conformità di quel che si è detto per I e II - dapprima si impose alla maggior parte dei perfetti in -́ŭi, con la radicale in -l, -r, rendendo deboli questi perfetti, che originariamente erano forti, e quindi si ebbe fr. valúi (poi valus [α]) valús valú(t) valúmes valu(s)tes valurent. Poi, in tempi diversi, tutti gli altri perfetti in -́ŭi subirono l'influsso di fū???ī: così, per es., dÿbŭi, ecc. divenuto dui (poi dus [α]) dëus dút dëúmes dëüstes dúrent. Le persone originariamente forti (1ª e 3ª sing., 3ª pl.) hanno resistito più a lungo all'α del tipo fūi, specialmente quando il radicale accentato era originariamente a. Così, mentre hábui hábŭit hâbŭ(ĕ)runt dava ói ót órent, già si aveva tu oü′s, nous oü′mes, vous oü′ (s)tes; e poi finalmente J(e)ü′s, tu e(ü′)s il (e)ü′t, nous (e)ü′mes, vous (e)ü′tes, ils (e)ü′rent, dove il tipo fü′i trionfa su tutta la linea.
I perfetti forti latini diversi dal tipo -́ŭi si sono mantenuti bene. Nell'ant. fr. essi erano forti nella 1ª e 3ª sing. e 3ªplur., e deboli nella 2ª sing. e 1ª e 2ª plur. [ϕ]: perfetti in -si (dīxi ecc.): dis desís dist desímes desí(s)tes dístrent; perfetti con allungamento (vīdī, vēnī, ecc.): vi(s) vëís vit vëímes vei(s)tes virent; vin(s) venís vint venímes veni(s)tes vin(d)rent. Essi sono poi diventati forti in tutte le persone (ϕ: veís- vis; a venís-vins).
Il piuccheperfetto del congiuntivo latino ha sostituito l'imperfetto del congiuntivo scomparso: II dormī(vi)ssem, ecc. ha dato nel sing. 1ª e 2ª dormisse -isses (con -e per a del pres. cong. dorme. e anche alla 2ª persona per δ, in relazione a dormis 2ª sing. pres. ind.); 3ª pers. -ist [ϕ]; plur. 1ª e 2ª -issons issez divenuti -issions -issiez (α di dormions -iez); 3ª -issent [α e δ]. Parallelamente I cantassem ha dato chantasse -asses -a(s)t -hsons -issez (a della II, sotto l'influsso degl'imperfetti indicativi in -iiens: α: chantissons: chantiiens = dormissons: dormiiens). Riguardo alla III, la flessione si è regolata in maniera normale su quella del perfetto indicativo fusse, valusse, oüsse, vëisse, desisse, venisse, poi eusse, visse, disse, vinse [α]. Il participio passato, oltre ai due tipi deboli del latino classico I -atum: -é [ϕ], II -itum: -i [ϕ], ne ha avuto un terzo volgare -ūtum, dedotto da tribūtum e divenuto -u [ϕ]: eu, venu, voulu, ecc. I participî forti del latino tanto in -s- (clausum) quanto in -t- (factum) si sono in parte conservati: clos, fait. Spesso subiscono l'influsso del perfetto corrispondente prensum: pris [α], non *prois [ϕ]; mĭssum: mis invece di mes; spesso sono soppiantati da una forma debole: mordu e tordu invece di mors e tors.
Il participio presente -ant, comune a tutte le coniugazioni, rappresenta [ϕ] contemporaneamente il participio presente latino -antem e il gerundivo -ando, che aveva sostituito le altre terminazioni dei participî presenti e dei gerundivi.
Tra le nuove flessioni verbali di formazione romanza, il futuro è nato dalla giustapposizione dell'infinito e del presente indicativo di avoir: I cantar(e) (h)a(b)ĕo *cantaraio: chanterai [ϕ]; *audiraio: orrai [ϕ]; III *mitteraio: mettrai [ϕ]. Ma nella II e III più frequentemente sono prevalse delle formazioni secondarie: dormirai da dormir + ai.
Lo stesso avviene nel condizionale, formato dall'infinito e dall'imperfetto indicatico di avoir: I. cantar(e) (hab)ÿ(o)a(m) *cantaréa: cmteroie [ϕ]; II *audiré???a: orroie [ϕ]; III *mĭtteré???a: mettroie [ϕ]: donde dormiroie [α], poi dormirais, ecc. [ϕ e α].
Sin dall'origine il francese ha sviluppato delle forme perifrastiche, per mezzo della combinazione di un ausiliare, être o avoir, col participio passato. Esse servono sia per esprimere il passivo: je suis, j'étais, je serai, je serais aimé, ecc., sia per esprimere il tempo, j'ai, j'avais, j'eus, j'aurai, j'aurais, que j'aie, que j'eusse aimé, ecc., je suis, j'étais, je serai sorti, ecc. Vi sono inoltre forme doppiamente composte, j'ai eu fini, j'ai été parti.
La declinazione latina è stata quasi distrutta in francese, in particolare per i sostantivi e gli aggettivi. Dei sei casi del latino, due solamente sono sopravvissuti in origine: il nominativo, che fa anche le funzioni del vocativo, e l'accusativo, che sostituisce tutti gli altri casi (fr. ant. ancienor, ecc., fr. mod. Chandeleur sono fossili eruditi). Nei sostantivi maschili il tipo ϕ (sing. nom. murus: murs, acc. murum: mur, plur. nom. muri: mur, acc. muros: murs) a poco a poco ha soppiantato gli altri, cioè: 1. Sin dall'origine, la 4ª declinazione latina, tipo fructus, confusa con esso [ϕ]; 2. il tipo canis (parisillabi della 3ª decl.), il cui nom. plur. canes è stato sostituito dalla forma *cani [α] già in età merovingica; 3. il tipo sérpens serpéntem, cárbo carbónem (imparisillabi della 3ª decl.) divenuto parisillabo alla stessa epoca *serpéntis serpéntem, *carbonis carbónem e trattato come tale; 4. i tipi liber librum della 2ª decl. e pater patrem della 3ª, sforniti dapprima di -s al nom. sing.: pedre, père [ϕ], poi collocati nel tipo comune pères [α]. Soltanto gl'imparisillabi della 2ª e specialmente della 3ª decl. latina, che indicano persone e che erano frequentemente usati nel nom.-voc., caratterizzati ordinariamente da spostamenti di accento e alternanze fonetiche, resistettero molto a lungo all'α del tipo murs. Tali erano i sostantivi in -́or -ó???rem, -átor -atorem, -́o, -ó???ṇem diventati [ϕ] in ant. fr. pastre pasteur, emperere empereur, compain compagnon, e alcuni altri ábbas abbátem: ábes abé; infans infántem: énfes enfánt, népos nepótem: nies neveu; présbyter pre(s)byterum: prestre provoire. In seguito, l's del tipo murs ha avuto la tendenza ad aggiungersi tanto al nom. sing. di questi nomi quando non l'avevano già: pa(s)tre(s), emperere(s), compain(z), quanto ad alcuni imparisillabi, in piccolo numero, con accento fisso: hómo hóminem: (h)on(s) (h)ome. A questi nomi si era imposto in epoca antica il nom. plur. muri: empereor, pa(s)tor, (h)ome, comte. Col tempo l'uso dei nominativi, a cui gli accusativi facevano un gran concorrenza, divenne sempre più raro, e l'accusativo finì col prevalere, dando luogo a una flessione con un solo caso, sing. mur, plur. murs.
Lo stesso è avvenuto col femminile, in cui un nom. plur. filias, di origine dialettale italica, aveva sostituito in Gallia, già nell'epoca latina, il nominativo classico filiae. Ne venne, sin dall'origine, una flessione con un solo caso: sing. nom. acc. filia(m): fille; plur. nom. acc. filias: filles. Questo tipo si estese in epoca antica alla maggior parte dei femminili della 5ª decl. Solamente i femminili della 3ª decl. conservano a lungo una flessione originale (sing. nom. turris: ant. fr. tors, acc. tŭrrem; tor, plur. nom. acc. turres: tors); gl'imparisillabi si erano mod-llati sui parisillabi; nom. *virtútis, acc. virtútem: vertuz, vertu: nom. *floris, acc. florem: flors, flor, tranne sóror, sorórem, ant. fr. suer, seror. L'influenza del tipo fille ha ben presto portato a nominativi senza -s: tor, main, vertu, flor; e finalmente si affermò un tipo unico senza -s al sing., con -s al plur. I tipi mur e fílle eliminarono ben presto una declinazione speciale dei nomi proprî e di alcuni nomi di persona, creatasi per la fusione della flessione germanica con la latina Cárolus Carlónem: Charles -on, Bértha Berthánem: Berthe -ain, ridottisi a Charles, Berthe.
Gli aggettivi, trattati di massima come i nomi, si riducono a due tipi: 1°: bonus: maschile sing. nom. bons, acc. bon, plur. nom. bon. acc. bons; femm. sing. bone, plur. bones; 2°: fortis: masch. femm. sing. nom. forz, acc. fort, plur. nom. fort, acc. forz. Il 1° tipo influì sul 2° e la declinazione si ridusse a due casi, facendo prevalere una flessione unica: sing. bon, bonne, plur. bons, bonnes = sing. fort, forte, plur. forts, fortes. I comparativi e superlativi sintetici fortior fortissimus sono stati sostituiti da forme analitiche plus fort, le plus fort, très fort, tranne che per pochi.
La flessione dei pronomi si mantiene meglio di quella dei sostantivi e degli aggettivi. Il dativo e il neutro latini sono stati in parte continuati. Spesso è il caso di distinguere tra le forme toniche e quelle atone, che poi si son potute adoperare le une per le altre. I pronomi personali derivano dai pronomi latini corrispondenti e sono: nomin. sing. je, tu, il (questo da ĭllī per ĭlle, α di quī) elle, plur. nous, vous, il (poi ils, α di murs) elles (da *illas, α di nom. *filias); gli accus. atoni sing. me, te, le, la, neutro le, plur. nous, vous, les; gli accus. tonici sing. moi, toi, lui (da illui, α di cui, hui[c]) femm. li (ϕ da *ĭllaei α) plur. nous, vous, eux, elles; i dativi sing. me, te, li, plur. nous, vous, leur (da illorum, usato come dativo). La forma li del fr. ant. è stata sostituita [δ] da elle come acc. femm. tonico e da lui come dat. masch. femm. atono. Ancora vivo nei pronomi personali, il dativo negli altri pronomi esiste solamente come residuo privo di valore casuale. Gl'interrogativi e i relativi lo hanno conservato un po' più lungamente. Di questi pronomi i plurali quos, quas, quibus sono caduti in disuso, i femm. quae, quam sono stati eliminati dai maschili quī, quem; quindi in fr. ant. si è arrivati a un relativo-interrogativo nom. qui, acc. que, dat. cui. Il francese moderno ha abbandonato il dativo; ma conserva ancora il neutro quĭd, che sostituisce quŏd, sotto forma atona (que) o tonica (quoi). Ben presto è stato creato un nuovo pronome relativo per mezzo di qualis combinato con l'articolo: nom. liquels, acc. lequel. Infine, si sono sviluppati degli avverbî relativi, dont da *de unde e que dalla fusione [ϕ] di quem, quĭd, quae atoni. I dimostrativi latini si sono conservati soltanto in forme composte, e nell'articolo (dimostrativo con valore attenuato) che rappresenta ĭlle. Masch. sing. nom. ĭllī (con ī α di quī): li, acc. illu(m): lo poi le, plur. nom. īllĭ: li, acc. illos: les; femm. sing. nom. accusativo illa(m), la, plur. nom. acc. ĭllas: les. I dimostrativi propriamente detti risalgono a ĭlle e iste, rinforzati da ecce: masch. sing. nom. (i)cil, (i)cist, acc. cel, ce(s)t, dat. celui, cestui; plur. nom. cil, cist, acc. cels (ceux), cez (ces), femm. singl. nom. acc. cele (celi), ceste (cesti); plur. nom. acc. celles, cestes (cez, ces). In francese medio i tipi cil, cist sono stati specializzati l'uno come pronome, l'altro come aggettivo; finalmente, in francese moderno, celi, cist, ce(s)tui, cil sono stati eliminati. Invece il neutro ecce hoc: ço, poi ce, è rimasto vivo, quantunque in concorrenza a partire dal sec. XVII con ça, derivante da ce + là, divenuto cela, poi ça con la caduta dell'e e l'eliminazione di l, indubbiamente dapprima in posizione post-consonantica, sur ç'la, sur ça di fronte a à cela.
Nei possessivi si distingue la serie atona da quella accentuata. Essi continuano i tipi del latino volgare, caratterizzati da apofonie *stqum, *squm, *mẹam, da contaminazioni tęis sęus, tęum sęum e da riduzioni mus, tus, sus; mum, tum, sum; mam, tam, sam; *myi, mī, *mę(u)s, *mę(u)m. *tǫ(u)m, *tę(u)m, sǫ(u)m, *sę(u)m. Al maschile la serie atona aveva in fr. antico una declinazione: sing. nom. mes, tes, ses, acc. mon, ton, son; plur. nom. mi, ti, si, acc. meṣ, tes, ses; il nominativo in seguito è scomparso. Il femminile singolare ma, ta, sa, plur. mes, tes, ses si mantiene, ma dal medio fr. in poi ma, ta, sa sono sostituiti [δ] da mon, ton, son davanti a iniziale vocalica: ton amie secondo il tipo bon(e) amie. La serie aceentata, originariamente mien, tuen, suen, ha ceduto il posto a mien, tien, sien; su questo modello è stato formato un femminile mienne, tienne, sienne che ha sostituito l'antico femminile moie, toie, soie, originariamente moie, toe, soe [ϕ]. Il possessivo della pluralità nostrum, vostrum ha dato no(s)tre, vostre ridotto, al plurale, a noz, voz (poi nos, vos). Alla 3ª persona lor rappresenta il genitivo illorum. Tra gli aggettivi pronomi indefiniti, il dativo nului è scomparso, mentre autrui è stato conservato senza valore casuale. L'antico nom. plurale tuit [ϕ da tütti davanti a vocale] ha ceduto il posto all'acc. tous.
In complesso, tranne forse nella coniugazione, in cui sono state create alcune forme nuove, la storia morfologica del francese è caratterizzata dalla semplificazione graduale della flessione.
Sintassi. - Questo livellamento della flessione sta in stretto rapporto con l'evoluzione della sintassi. I sintagmi del latino, cioè le combinazioni dei termini della frase semplice o complessa e i valori logici di queste diverse combinazioni, sono stati ora conservati nel francese, ora sostituiti con innovazioni, dovute per lo più a estensione di sintagmi il cui uso era in origine più limitato. Questa estensione si spiega in generale sia col bisogno di ovviare al venir meno di una flessione consunta [δ], sia con la tendenza a dare a ogni forma un valore fisso e ben definito [σ], sia con la tendenza a dare un'espressione più precisa al pensiero [ν], sia con la contaminazione di varie espressioni, che avevano valori paragonabili, e furono confusi in seguito ad una associazione di idee [α]. Qui ci si limiterà a tracciare la storia di queste innovazioni, tralasciando la massa delle forme conservate, che non caratterizzano il francese né rispetto al latino, né rispetto alle altre lingue romanze. Se si considera la frase semplice, il verbo appare come l'anima della proposizione. Per quel che concerne le voci del verbo, la perdita del passivo sintetico latino, amor, ha fatto sorgere un sistema completo di forme analitiche composte con être, il est, a eté, sera ecc. aimé, l'uso di homo (on, on voit) nei casi del passivo impersonale, un'estensione moderata della forma riflessiva, clamor se tollit = tollitur, da cui in francese, alla 3ª persona, con un nome di cosa per soggetto, cela se voit, e per certi verbi, in tutte e tre le persone, con un nome di persona per soggetto, je me nomme = nominor.
La forma pronominale se erumpere, equivalente di erumpere, nella quale il pronome riflessivo ha la sola funzione di mettere il soggetto in rilievo, si è estesa nell'ant. fr. a tutti i verbi intransitivi, se taire, se périr, se dormir, s'aller (δ e ν). Quest'uso è stato regolarizzato dal fr. moderno che ha reso obbligatorie certe forme pronominali, s'évanouir, s'écrouler, s'en aller, s'enfuir [ν], ma ne ha eliminato certe altre, se périr, se dormir, s'aller, se fuir [o], sviluppandolo invece per i verbi transitivi seguiti da un complemento di relazione o di causa introdotto dalla preposizione de, s'apercevoir, se moquer,se vanter de quelque chose [ν].
Riguardo ai modi e ai tempi, la lingua antica esita per l'espressione del passato tra il perfetto semplice, il chanta, forma ereditaria, e le perifrasi nuove il a chanté, il ot chanté. Il chanta, il vint, dapprima più diffuso, a poco a poco ha ceduto il posto a il a chanté, il est venu. Durante la fase critica di questo conflitto (sec. XVII), i grammatici tentarono di stabilire fra i due sintagmi distinzioni di significato (ν e σ), che rimasero artificiali.
Per quel che riguarda l'ausiliare in queste perifrasi, être era anticamente prevalente con gl'intransit. vi, il est couru; avoir con i transitivi. Ma poiché questi si potevano usare assolutamente e quindi erano eguali talvolta a intransitivi, è sorta una confusione e si è detto il a couru. Oggi una decina di intransitivi vogliono sempre être (aller ecc.), una ventina être o avoir (passer, ecc.), gli altri avoir.
Il participio unito con être si è accordato col soggetto, come nel sintagma etimologico amatus sum. Il fr. ant. dice dunque il est mariz, il sont venu; e il fr. moderno dice ils sont venus, elles sont aimées. Dopo avoir, il participio è rimasto invariabile coi verbi intransitivi o transitivi usati assolutamente o col verbo sostantivo: l'ant. fr. il avoient estez è una forma rarissima. Se c'è un complemento oggetto, il participio in origine si accordava con esso, perché etimologicamente ne era l'apposizione: habeo spatham tractam: fr. ant. j'ai traite l'espée. A poco a poco il gruppo costituito dall'ausiliare e dal participio è stato percepito come una forma verbale coerente, uguale al perfetto semplice traxi, e il participio ha avuto la tendenza a diventare invariabile, j'ai trait l'espée. Ma l'accordo è durato a lungo se il complemento stava tra l'ausiliare e il participio, j'ai l'épée traite, ordine di parole caduto in disuso dal sec. XVII in poi. L'accordo esiste tuttora, se il complemento precede il gruppo, je l'ai tirée. Queste regole sono state progressivamente fissate nei secoli XVI e XVII (σ).
Il participio presente è ben presto entrato in conflitto col gerundio. Esso era originariamente, come gerundio, invariabile, cantando: chantant. Come participio era variabile come un aggettivo; ma siccome etimologicamente esso apparteneva alla II classe (tipo fortis), esso variava in origine solamente in numero e caso: fr. ant. ele vint rianz, il la trova riant. Una femminile riante ha potuto comparire soltanto più tardi, quando forte si è insinuato accanto al femm. fort. Ne risulta che nel conflitto dell'invariabilità (gerundio) con la variabilità (participio), il femminile ha sempre avuto una posizione inferiore; nel sec. XVI Palsgrave considera -ante(s) come una licenza poetica; e nel sec. XVII Vaugelas condanna assolutamente des femmes mangeantes des confitures, mentre ammette l'accordo nel numero, des hommes mangeans des confitures. L'invariabilità nel numero quanto nel genere - cioè il gerundio - ha riportato definitivamente la vittoria dopo la decisione dell'Accademia (1679) che non si sarebbero più declinati i participî attivi. Oggi si fa una precisa distinzione tra j'ai vu une femme charmant des serpents (verbo) e j'ai vu une femme charmante (aggettivo [σ]).
L'uso dei pronomi personali soggetti è strettamente collegato con la sintassi del verbo. Ordinariamente in latino i pronomi soggetti di 1ª e di 2ª persona si esprimevano soltanto per enfasi. In francese sono divenuti obbligatorî - come anche quello di 3ª persona, quando non c'è altro soggetto espresso - dapprima per evitare che la frase cominciasse con un verbo ovvero con un pronome complemento atono (tu fëis que sages, il me perdroit), poi gradualmente negli altri casi, man mano che la flessione verbale scompariva foneticamente [o]. Nella 1ª e 2ª persone plurali, che hanno conservato una flessione distinta, l'ellissi di nous, vous è comune sino a Malherbe; nella 1ª e 2ª sing. je, tu sono diventati una specie di flessione prefissa. Nella 3ª pers. sing. e plur. il pronome si usa solo nel caso che non ci sia altro soggetto espresso, e allora è obbligatorio: il est venu, ma le médecin est venu. Le médecin il est venu è un modo di dire popolare scorretto, ma che si trova sulla linea dell'evoluzione sintattica del francese. L'uso di il soggetto si è esteso alle costruzioni impersonali; ant. fr. (i)a, me semble sono divenuti il y a, il me semble (peut-être è un relitto), e questo fatto mostra il valore flessivo del pronome soggetto. Nondimeno, in ogni tempo, questa specie di flessione è stata separabile, giacché delle enclitiche, specialmente i pronomi complementi, si possono intercalare tra il pronome soggetto e il verbo, je le dis. In quanto all'ordine rispettivo di questi complementi diretti o indiretti, il vecchio sintagma je le vous dis è diventato, a cominciare dal sec. XIV, je vous le dis, con la sola eccezione del dat. lui che resta attaccato al verbo, je le lui dis. Motivi complessi (ϕ × α) spiegano l'evoluzione di queste forme.
Il collocamento dei sostantivi soggetti o complementi principali rispetto al verbo è stato relativamente libero, finché è sopravvissuta la declinazione: soggetto - verbo - complemento, o: complemento - verbo - soggetto, ecc. Ma se in capo alla frase si fosse trovato un avverbio o un complemento di circostanza, l'ordine obbligatorio era: avverbio - verbo - soggetto - complemento; or vit li cuenz le chevalier. Il collocamento del complemento principale dopo il soggetto è divenuto in linea di massima obbligatorio in tutti i casi, dopo che la declinazione è stata foneticamente alterata (δ). Soltanto nell'interrogazione diretta l'ant. fr. mette il pronome o il sostantivo soggetto dopo il verbo. Viendras tu? viendra li rois? e questa forma, ancora viva se il soggetto è un pronome personale, è scomparsa per il sostantivo nel sec. XVI. Le roi viendra-t-il data dai secoli XIV e XV e risulta dall'incrocio di le roi viendra (affermazione, o interrogazione con intonazione speciale) e di vient-il? Questa forma, che è la sola usata nella lingua letteraria odierna, ha per rivale est-ce que le roi viendra?, espressione famigliare derivata dal fr. ant. ço est que, fr. medio c'est que, ridotto a forma interrogativa; est-ce que ha la funzione di una vera particella [σ].
All'infuori delle relazioni che può avere col verbo, il sostantivo ha rapporti strettissimi con l'articolo determinativo, che non è altro che il dimostrativo ille con valore attenuato, usato sempre più frequentemente avanti il sostantivo. In fr. ant. l'articolo era omesso davanti i nomi o astratti (si confronti il proverbio stereotipato contentement passe richesse) o concreti presi in senso generale, souvent femme varie. L'uso dell'articolo è stato reso generale nei secoli XVI e XVII [δ]; in francese moderno l'articolo appunto fa distinguere per lo più il singolare dal plurale, la, les femme(s), le, les mur(s), per lo meno nei sostantivi usati come complemento oggetto. Una maggior precisione si è anche ottenuta con lo svilupparsi di un articolo indeterminato, il cui uso è diventato generale nel sec. XVII, c'est une chose glorieuse, e d'un articolo partitivo, che originariamente era sconosciuto al fr. ant., mangièrent pain, e che è sorto dalla combinazione dell'articolo col de partitivo latino, nemo de iis: ils mangèrent du pain.
Riguardo a rapporti del sostantivo con altri sostantivi, il rapporto di subordinazione era spesso indicato in ant. fr. dalla declinazione: li filz le roi continuava il latino filius regis. Rarissima se il complemento determinante era un nome di cosa o di animale (la colour le vis), questa forma alternava con l'uso delle preposizioni de e à, le pertuis de la posterne, la croupe au destrier, li filz au roi, du roi. L'uso di de è un'estensione del latino homo de plebe, in cui de, che da principio indicava l'origine, finisce col segnare la possessione e la determinazione. La forma con à viene in origine dalla confusione di due sintagmi latini dare litteras alicui, dare litteras ad aliquem: fr. donner une lettre à quelqu'un; confusione in forza della quale si è potuto dire sunt ad nos poma, fr. la nuit est à nous; poi, siccome il dativo di possesso o di determinazione aveva finito con l'essere usato senza il legame di un verbo, ossa Ursiniano = ossa Ursiniani, si è potuto dire le fils au roi [δ]. La forma con de è prevalsa sulle due altre nel sec. XVII, per lo meno nella lingua letteraria [σ]. La medesima preposizione de è oggi usata nell'apposizione di un sostantivo ad un altro, la ville de Paris, mentre ant. fr. aveva il tipo ordinario lat., urbs Roma, e metteva spesso il nome comune dopo il nome proprio, Rome la cité; l'uso del de è sorto dal genitivo esplicativo latino, alimenta carnis, donde urbem Patavii, fomia famigliare, divenuta in volgare urbem de Patavio [δ].
L'uso appropriato di tutti questi sintagmi e di tutti quelli conservatisi senza mutamento dal periodo latino permette alla frase semplice e alle diverse proposizioni che formano la frase complessa d'esprimere con grande chiarezza i rapporti di significato concepiti dal pensiero. Tale significato è cambiato totalmente con l'uso della negazione, che si trova tanto nelle proposizioni che formano la frase complessa, quanto nella frase semplice. In latino l'avverbio negativo era non. L'uso delle parole di rafforzamento, già esistente nel latino arcaico, è rimasto facoltativo a lato alle forme piene della negazione. Non feras? - Non! è il sintagma usuale dell'ant. fr. Parimenti la forma foneticamente ridotta ne da principio è bastata; ant. fr. tu ne viens. Ma a mano a mano che la vocale di ne diveniva meno solida, si è sviluppato l'uso di precisarne il valore negativo con una parola accessoria, pas, point, mie, che indica una piccola quantità, tu n(e) viens pas, e, di massima, è diventato obbligatorio nel secolo XVII [δ].
La frase complessa risulta dalla combinazione di proposizioni coordinate, subordinate o, talvolta, semplicemente giustapposte. Antiche particelle di coordinazione, si, ainz, neporquant, ecc., sono scomparse in varî tempi, mentre se ne sono create di nuove, par conséquent, c'est pourquoi, ecc. [δ, σ]. La giustapposizione, in luogo della subordinazione per mezzo di particelle, era molto diffusa in ant. fr., je cuit plus sot de ti n'i a, ele ne puet muer ne die, ecc. Quest'uso è stato ridotto, per lo meno nella lingua letteraria (δ, σ). L'uso delle particelle subordinative e dei modi del verbo è stato gradualmente regolato. La congiunzione que, sorta dal latino quod, in parte fusosi con quĭd, ha preso una grandissima diffusione, e si trova al principio della maggior parte delle proposizioni subordinate. Le proposizioni complementari sono in generale introdotte per mezzo di que; il modo del verbo è ora l'indicativo, ora il congiuntivo. Quest'ultimo è sempre prevalso coi verbi di volere, je veux qu'il vienne, e si è man mano imposto dopo i verbi di affetto: je m'étonne que vous dites, che si trova ancora in Voiture, oggi è je m'étonne que vous disiez. Dopo i verbi intellettivi, il congiuntivo, usato spessissimo in ant. fr. (cfr. je crois que ce soit in Corneille), si usa solamente se il verbo della proposizione principale è negativo, je ne crois qu'il vienne, o interrogativo, crois-tu qu'il vienne? La proposizione complementare può essere rappresentata da un infinito, je veux faire, forma che continua il latino volo facere, estesa a moltissimi casi, je viens faire, je crois faire. Le preposizioni de e à - che del resto si fanno concorrenza - spesso introducono questo infinito, promettre (de) faire, penser (à) faire; sintagmi dovuti all'incrocio dell'infinito e del gerundivo: promittit facere × *promittit defaciendo (cfr. *promittit de re), donde *promittit de facere [α]. Per una via differente, de si è introdotto davanti agli infiniti soggetti o attributi: il est bon de faire la paix nasce dal tipo bons est faire la paix incrociato con bons est de paix. L'infinito col soggetto all'accusativo, forma morta in galloromanzo con lo scardinamento della declinazione, è stato rifatto (sec. XIV-XVI) per imitazione del latino, ma è caduta di nuovo in disuso, tranne dopo certi verbi di senso, dopo i quali sembra che si sviluppi di nuovo - come si era già sviluppata nel latino classico - per l'azione spontanea dei sintagmi già esistenti nella lingua: j'ai vu le soleil se lever sur l'Hymette [ν].
Nelle proposizioni relative introdotte col neutro que, l'antecedente ce poteva essere sottinteso come anche il verbo già espresso nella proposizione principale, il fist que fols; il est que fel.
Le proposizioni circostanziali dai più varî significati (tempo, causa, fine, conseguenza) potevano essere introdotte in ant. fr. mediante que, Gli usi di que sono divenuti meno numerosi in seguito, per lo meno nella lingua letteraria [σ]. Le proposizioni temporali potevano cominciare con quand (da quando), che è rimasto, con en dementres que (in dum interim), entruesque (*inter opus quod), ainz que (*anteis quod) che son caduti e sostituiti da pendant que, tandis que, avant que, costruiti, secondo i casi e il senso, con l'indicativo o il congiuntivo. In certi dati casi avant que si costruisce anche con l'infinito, sia puro, avant que mourir, sia preceduto da preposizioni, avant que de mourir. La forma che ha prevalso a partire del sec. XVIII, avant de mourir, era sconosciuta sino al sec. XVII, e sembra si debba alla contaminazione di avant mourir, che si diceva ancora al tempo del Vaugelas, e avant que de mourir, la forma più diffusa a quell'epoca. Pour ce que serviva anticamente a introdurre delle proposizioni causali; esso ha ceduto il posto a parce que. Ja soit que, che indicava una concessione, è scomparso di fronte alla concorrenza di bien que, quoique, ecc. L'ant. fr. se, proveniente dal lat. volg. *sĭ (cfr. sĭquidem), class. sī, divenuto si in fr. mod. [ϕ e α], introdusse generalmente le proposizioni condizionali; e il periodo ipotetico, irreale e potenziale, appariva in origine nella forma seguente: si j'eusse, je fusse, continuazione, almeno formale, del latino si habuissem, fuissem, che sostituiva in parte il classico si haberem, essem. Ma si j'avais, je serais compare molto presto: questo sintagma originale sembra dovuto all'influenza delle forme enfatiche, in cui il latino adoperava un tempo passato dell'indicativo per dare un tono più patetico al periodo ipotetico, perierat, si fecisset; dalla proposizione principale l'indicativo è passato nella subordinata *peribat, si faciebat: fr. il etait mort, s'il faisait un geste; e la combinazione volgare dell'infinito con l'imperfetto di avoir ha dato origine al modo condizionale si habebam, face r(ehab)e(b)a(m): si j'avoie, je feroie. La combinazione di questa forma con il procedimento etimologico ha fatto nascere delle forme miste, si j'eusse, je jeroie, si j'avais, je fisse - quest'ultimo ancora usato nel sec. XVI - ma finalmente la forma originale, di formazione francese [ξ, σ], ha trionfato, si j'avais, je serais, e degli altri restano soltanto frammenti.
I dialetti francesi. Estensione della lingua letteraria. - La complessità e la precisione della norma sintattica fondata su un sistema fonetico e su un sistema morfologico agili e varî applicata a un vocabolario molto ricco fanno del francese la prima e si può dire la sola lingua letteraria della Francia odierna. Come nel Medioevo, nella parte meridionale della Gallia antica, l'idioma che si suole chiamare il provenzale (v.) aveva avuto il sopravvento sui dialetti meridionali, così, benché per ragioni un po' diverse, il francese prese successivamente il sopravvento sui dialetti settentrionali e poi sui meridionali e su quelli detti franco-provenzali (v.), riducendoli infine tutti allo stato di vernacoli. Ci limiteremo qui a dare un quadro d'insieme dei principali dialetti del tipo settentrionale.
Nel nord-ovest, intorno a Caen e a Rouen, il normanno è quello il cui sviluppo letterario ha avuto importanza maggiore. Si è avuta una letteratura normanna prima che ci fosse una vera e propria letteratura francese. In seguito alla conquista dell'Inghilterra (1066), l'anglo-normanno fiorì nell'isola per circa due secoli. Gli antichi testi normanni sono caratterizzati, per quello che concerne la fonetica, anzitutto da un certo arcaismo nel dittongamento delle vocali toniche libere: il latino ẹ è rappresentato da ei, non da oi, e si è ridotto più tardi a e (per es. rei, re); il latino ọ vi è rappresentato da o, scritto spesso u, in luogo di ou, eu (per es. flor, flur); a diventa spesso ie (per es. trinitiet, raachatierre); e si può trattare anche qui di un arcaismo se si ammette che il fr. e da a latino risalga a un antico dittongo. Le vocali nasali ã ed æ restano distinte, e assonanze del tipo gent: tant vi sono originariamente sconosciute; al contrario ain ed ein tendono a confondersi, chaeine rima con semaine; an in fine di sillaba dà aun (per es. graunt), che spesso si chiude in on (gront); l'e atona in iato cade per tempo: al(e)ures, e(u)st. Le consonanti, c e g restano velari davanti ad a (canter da cantare, goie da gaudia) e l'h delle parole germaniche persiste ancor oggi nel nord (hache, héron). Notiamo, nella morfologia verbale, le ie pers. plur. in -om, -on (-um, -un) invece che in -ons (poum, disom), e gl'imperfetti in -oe, -oue invece che in -oie -eve; nella declinazione, l'uso, antico, dell'accusativo in luogo del nominativo.
Queste caratteristiche si ritrovano tutte nell'anglo-normanno; inoltre troviamo e in luogo di ie; u (derivato da u latino) che si confonde con o o con ui (vediamo plus rimare con vertuus, pertuis con sus); ei, che si confonde con ai (palais rima con -eis); e atona finale che diventa i davanti a s (chosis) o alla 3ª pers. plurale (avindrint). Le consonanti ł e ñ si confondono spesso con l e n (viel "vecchio", feinnent "fingono"); s davanti a n, l prende un timbro interdentale rappresentato dalla grafia d (adnes "asini"). Per la morfologia, si osserva l'articolo indefinito lu, lui, alcuni perfetti in -s (vist, oïst). Il pron. tu può reggere una 2ª pers. plur. (tu faistes); l'imperfetto può essere adoperato come perfetto (robbèrent et ardoient); l'ausiliare avoir si può combinare con verbi pronominali (s'en ad irée).
Parecchi di questi tratti ricompaiono nei dialetti del nord-est, nel piccardo (Amiens, Arras) e nel vallone (Liegi), fra l'altro il trattamento di ca- ga- latini e la distinzione di ã æ originarî (fuorché, sembra, davanti a m: samble). Il piccardo ha inoltre una forte propensione a ridurre per assimilazione i gruppi di vocali: così -iée (da -iatam) diviene -ie (baisie da basiatam), -ieu (da -úu-) diviene iu (diu da dĕum); ma viceversa iu secondario diventa ieu: soutieurs "sottile". Analogamente, ę (e parzialmente ẹ seguita da [l] più consonante) dànno iau (biaus da bĕllus, chiaus da ecce ĭllos); mentre q si differenzia in a davanti a l velare (saus da sŏlĭdos). Nei gruppi consonantici n'r, m'r, l'r, non si ha l'epentesi come in francese (viendra, sembler, piudre): il piccardo conserva le consonanti intatte o le assimila (venra, sanler, pourre). La ts è ridotta a s fin dai più antichi testi (venès), sy diventa ž (mažõ da mansionem), la ł finale è depalatalizzata (solel). L'articolo femm. è di solito le, generalizzazione di (il)lam in posizione intertonica (dà le femme); talora anche li (da nom. *illī, sorto da illa per influsso di quī). La coniugazione in -ir è favorita a danno di quella in -oir (caïr, sir, veïr); prevalgono i perfetti in -i (je vengi); la 3ª pers. plur. dei perfetti forti in -s esce in -isent (disent, fisent, non distrent, fistrent). L'aggettivo, anche di colore, tende, per influenza germanica, a precedere il sostantivo.
Parecchie di queste caratteristiche si ritrovano in vallone: in vallone si ha anche il dittongamento in ei dell'a tonica finale di sillaba (bontei, partei) e dell'ÿ in corso di sillaba (tierre, bielle, pierd), il mantenimento della w- germanica iniziale (ouarder, ouarnit) e della w latina nel gruppo qu (kwā da quando, kweri da xquerire). Il pronome femminile lei conserva il dittongo (mentre il francese ant. ha li). Da notare gl'imperfetti in -ev(e) da -abat (il cantef), alcuni perfetti deboli in -i (tu dewis da debuisti) e la subordinativa causale plamon "perché" (da per [il]lum amorem).
Il lorenese (Nancy, Metz) ha parecchi tratti analoghi. Vi si osserva la differenziazione di i seguita da y in e, il passaggio, almeno parziale, di ü in i (-utum diventa i oppure, davanti a nasale, ęn), di ie a i, il non dittongamento di e ed o davanti a j (ley, nœy), la riduzione di üi a ü, di ei ad a, il passaggio di ei a oi anche davanti a ł (soloil), di ę in corso di sillaba ad a (matre "mettere"), di æ a o (to "tempo"), il passaggio da -sj- a h??? (maho da mansionem), la conservazione dell'h germanica. Morfologicamente notevole la formazione d'un imperfetto indicativo per agglutinazione della particella or (da ad horam): ž èãteor "io cantavo".
Il dialetto della Franca Contea (Besançon) partecipa del lorenese e del borgognone. Il borgognone (Digione) dittonga le a toniche solo alla finale assoluta (portei "porto"). Le ẹ in corso di sillaba passano ad o, e sotto l'azione d'una palatale a oi (motre da mĭttere, soiche da sĭccam). Davanti a j, ę ed ǫ non si dittongano (nœ da noctem). Il suffisso incoativo -esco è molto sviluppato, anche nella 1ª coniugazione (ind. pres. portois, congiuntivo -oie). Illorum si usa come pronome pers. tonico: a lo(u)r.
Nella Champagne (Reims, Troyes), nel Berry (Bourges), nell'Orleanese i tratti specifici del francese predominano, più o meno misti con quelli dei dialetti circostanti. Lo stesso si può dire per i dialetti occidentali nei quali, normalmente, ÿ in fine di sillaba non passa ad oi, a diventa in certe condizioni ei, uei si riduce a œ (Poitou uœ). La vocale ĕ seguita da l e poi da consonante diventa -iau- o -ia- -ea- -a- (Poitou, Saintonge, Angumese: chapia, chapa, h???apa). La 3ª pers. plur. dei verbi presenta uno spostamento d'accento, cantánt, da cui èãtã, èãtõ, sãtæ. Questo fenomeno ha una larga estensione in tutto il nord della Francia, dalla Saintonge fino alla Lorena meridionale e alla Franca Contea.
Quanto ai dialetti provenzali e franco-provenzali, v. queste voci.
Sarebbe arbitrario, come s'è visto dagli esempî, attribuire a questa divisione della Francia in dialetti un valore oggettivo assoluto. Solo per via di astrazione e di generalizzazione, e fondandosi su fatti storici e geografici più o meno estranei al criterio linguistico, si può parlare di dialetti. In realtà ogni fenomeno si estende su aree indipendenti, più o meno coerenti o continue, i cui limiti rispettivi s'intersecano in gran disordine, ciascuna continuando qualche antica unità linguistica.
Nonostante questa diversità, anzi in certo modo profittandone, il dialetto dell'Île de France ha fatto su tutto il territorio francese progressi continui dal Medioevo a oggi, come lingua culturale sopraordinata ai dialetti, e quindi come elemento corrosivo di essi. Anche fuori dei confini politici della Francia si nota lo stesso fenomeno: anzitutto nei territorî franco-provenzali della Svizzera (cantoni di Ginevra, di Vaud, di Neuchâtel, parte dei cantoni del Vallese e di Friburgo, la punta occidentale del cantone di Berna) e nel Lussemburgo e nel Belgio vallone: come lingua culturale, il francese è in attiva lotta col fiammingo, specialmente nella capitale, Bruxelles. In Corsica il francese è in progresso sui dialetti locali, di tipo italiano, e viceversa sul versante orientale delle Alpi i dialetti franco-provenzali (val d'Aosta, ecc.) cedono di fronte all'italiano. Nelle isole normanne l'inglese progredisce a spese del dialetto locale.
Nel 1931, il francese è parlato in Europa da una popolazione compatta di circa 41 milioni d'individui. Fuori d'Europa, un milione e mezzo circa di Canadesi, originarî soprattutto dalla Normandia e dalla Saintonge e stabiliti in America nei secoli XVII-XVIII, sono rimasti fedeli al francese, con parecchie caratteristiche arcaiche e dialettali e con anglicismi. Si può calcolare che circa 304 milioni d'individui parlino il francese nelle colonie (o antiche colonie) e paesi soggetti a mandato. Oltre ai gruppi di popolazione a cui serve di lingua culturale, il francese è molto noto nelle classi colte, particolarmente nel vicino Oriente (Romania, Grecia), nell'America latina, ecc. Dal tempo del trattato di Rastatt (1714), il primo trattato internazionale redatto in francese, fino ai giorni nostri, il francese è, di fatto, la lingua diplomatica. Ma la concorrenza di altre lingue si fa sentire fortemente (il trattato di Versailles è in francese e in inglese). Certo dal tempo in cui l'Accademia di Berlino bandiva un concorso sulle "cause dell'universalità della lingua francese" (1783) a oggi la posizione del francese è mutata e si è in parecchi paesi reagito contro la sua espansione. Il suo posto fra le principali lingue del mondo resta tuttavia considerevole.
Bibl.: F. Brunot, Histoire de la langue française, I segg., Parigi 1905 segg. (opera fondamentale; ivi ampia bibliografia); K. Vossler, Frankreichs Kultur und Sprache, Heidelberg 1929.
Gramm. storiche: K. Nyrop, Grammaire historique de la langue française, Copenaghen 1900 segg.; W. Meyer-Lübke, Historische Grammatik der franz. Sprache, I, 2ª ed., Heidelberg 1913; II, Heidelberg 1921.
Dizionarî storici ed etimologici: E. Littré, Dictionnaire de la langue française, voll. 7, Parigi 1863 segg.; A. Hatzfeld-A. Darmesteter-A. Thomas, Dictionnaire général de la langue française, voll. 2, Parigi [1900]; W. von Wartburg, Französisches etym. Wörterbuch, Bonn-Lipsia 1921 segg.; O. Bloch, Dictionnaire étymologique de la langue française, Parigi 1932.
Per la lingua antica: E. Schwan-D. Behrens, Grammatik des Altfranzösischen, 11ª ed., Lipsia 1919; F. Godefroy, Dictionnaire de l'ancienne langue française, ecc., voll. 10, Parigi 1880 segg.; A. Tobler-E. Lommatzsch, Altfranzösisches Wörterbuch, Berlino 1915 segg. Sulla lingua del '500: E. Huguet, Dictionnaire de la langue française du XVIe siècle, Parigi 1925 segg.
Per i dialetti v. la bibl. di D. Behrens, Bibliographie des patois gallo-romans, 2ª ed., Berlino 1893, continuata in Zeitschr. f. franz. Sprache u. Lit., XXV, p. 207 ecc. Fondamentale l'Atlas linguistique de la France di J. Gilliéron, Parigi 1905 segg. Sull'espansione del francese v. P. Foncin, La langue française dans le monde, Parigi 1900. Per i dialetti creolo-francesi, v. creole, lingue.
Folklore.
Per quanto concerne la letteratura popolare, i racconti di fate - dopo i Contes del Perrault che, nel sec. XVII, segnarono l'inizio di tutte le raccolte del genere - interessarono molto il pubblico durante tutto il sec. XVIII; ma solo nel successivo, sotto l'influsso del movimento celtistico e del romanticismo, l'opera di raccolta divenne veramente scientifica. Ora la Francia possiede una ricca letteratura intorno ai racconti popolari delle varie provincie; si stima che più di diecimila siano i conti pubblicati da Cosquin, Sébillot, Carnoy, Deulin, e circa seicento i temi letterarî rappresentati in queste raccolte. Tutti i generi della letteratura popolare sono rappresentati in Francia: conti di fate, meravigliosi, eroici (alcuni dei quali risalgono al Medioevo), faceti e comici, che provengono dai fabliaux medievali e appartengono allo stesso genere delle Facetiae di Poggio Bracciolini. Si sono raccolte anche numerosissime leggende, che appartengono alle serie note anche in altri paesi: leggende sui monumenti preistorici e romani, su castelli e chiese, su sotterranei e tesori, ecc.; infine, leggende agiografiche, che provengono per lo più dalle raccolte di miracoli di Gregorio di Tours e di Giacomo di Varazze, o dai celebri Exempla medievali (v. esempio). Per contro, i racconti orientali, come quelli delle Mille e una notte, non sono penetrati fra il popolo. Un fattore importante di diffusione sono stati i libriccini decorati di grossolane incisioni in legno e venduti per pochi soldi da colportori nelle campagne. Lo studio di questa letteratura popolare ha permesso di constatare che, in maggioranza, i conti francesi sono simili a quelli degli altri paesi dell'Europa e anche dell'Oriente. Tuttavia, nelle leggende si trovano spesso temi specifici, alcuni germanici (nelle Fiandre e nella Lorena), altri celtici (nella Bretagna); proprî della regione sono anche i temi raccolti presso i Baschi. Un fatto interessante è che alcune provincie (per es., quelle alpine: Provenza, Delfinato e Savoia) sono poverissime di conti, ma ricche di leggende.
Un'altra parte del folklore ricchissima in tutta la Francia è quella delle canzoni popolari. Le raccolte più antiche risalgono alla fine del sec. XV; nel XVIII, i canti contadineschi ebbero successo anche fra la nobiltà e alla corte: fin da allora, canzoni popolari vennero usate anche nelle opere o nelle commedie musicali; in seguito, grandi musicisti come il Berlioz, il Bizet, V. d'Indy, il Debussy, utilizzarono anche le canzoni della loro provincia natale. Lo studio scientifico di queste canzoni è stato fatto da parecchie generazioni di dotti; sono da ricordare, per la teoria generale, i nomi di L. A. Bourgault-Ducoudray, J.-J. Ampère (v.), T. Weckerlin, J. Tiersot, Tresch e Coirault e, per la raccolta, di J.-F. Bladé (1822-1900; Guascogna), L. Lambert (Linguadoca); F. M. Luzel (1821-1895; Bretagna), Servettaz e Pinck (cfr. Bibl.), ecc. Queste canzoni sono, nella maggior parte, le stesse in tutta la Francia; se ne conoscono solo pochissime particolari a una sola provincia o regione. Sono state diffuse dai compagnons du Tour de France (specie di confraternita di operai, continuazione delle più antiche confraternite segrete, rioganizzata nel 1848 dal falegname Agricol Perdiquier, detto Avignonnais-La-Vertu; cfr. il suo Livre du Compagnonnage, 1838, e il romanzo di G. Sand, Le Compagnon du tour de France, 1840), dai soldati, dai matrimonî. La raccolta è già molto abbondante, ma restano da pubblicare molte canzoni prima che si possa avere il Corpus completo dei canti popolari francesi.
Una serie speciale di canzoni è stata studiata con più cura: cioè quella delle canzoni cantate a Natale prima e dopo la messa di mezzanotte. Questa letteratura comincia, in latino, nell'alto Medioevo, ed è stata coltivata soprattutto in conventi e chiese, provvisti di organisti e di cantori. La sua origine è dunque solo in parte popolare. Ma spesso gli autori, fra i quali i più celebri sono il Saboly (1615-1675) in Provenza, il La Monnoye (1641-1728) in Borgogna, Nicolas Martin (1498-1566) in Savoia, prese le melodie al popolo, hanno adattato formule liturgiche e preghiere ad arie di moda al loro tempo. Anche scrittori e musicisti di prim'ordine non hanno sdegnato di comporre dei noëls (v.). I contadini, che li udivano nelle chiese, li hanno portati poi nelle loro capanne, dimenticando naturalmente il nome del poeta e del musicista. Oggidì i noëls si cantano sempre meno; ma si nota un ravvivarsi d'interesse, grazie al grammofono e alla radio.
Nel campo delle arti plastiche e delle vesti, è in primo luogo da segnalare la grande varietà e ricchezza dei costumi popolari. Un tempo il costume era diverso anche da una piccola regione all'altra. La maggior parte dei costumi rurali provengono da quelli di corte e delle classi ricche, imitati spesso con un ritardo di mezzo secolo e rimasti inalterati nelle campagne: così, in costumi moderni, si trovano sopravvivenze dei secoli dal XVI al XVIII. La persistenza è notevole soprattutto nelle forme del corpetto femminile e dei cappelli. Questi ultimi hanno subito d'altronde evoluzioni particolari, come hanno dimostrato il Bourilly per l'acconciatura delle donne di Arles, il Bigot per quelle della Bretagna. Sembra che in ogni villaggio si sia avuto per principio di inventare una piccola modificazione dell'acconciatura o del copricapo allo scopo di poter identificare subito, in una fiera o in un pellegrinaggio, la località d'origine d'ogni donna. Vi è in Savoia una valle della Moriana, quella degli Arves, dove l'acconciatura è diversa, non solo da paese a paese, ma da un casolare all'altro. Raccolte di costumi popolari esistono in Francia fin dalla metà del sec. XVII. Ma le più belle sono state fatte dopo la scoperta della litografia a colori. I più bei costumi popolari erano già scomparsi quando fu inventata la fotografia. L'evoluzione è stata ancora più rapida dopo la guerra mondiale: si potrebbe prevedere la scomparsa completa di tutti i costumi contadineschi, se certe società regionali non se ne fossero assunta la difesa. V'è infatti un movimento abbastanza forte per la conservazione e il rinnovamento delle tradizioni popolari nel vestiario, in Bretagna (v.), in Alvernia, in Savoia e in Provenza. Ma questi costumi sono carissimi e incomodissimi: sono ora un lusso e si possono conservare solo con mezzi artificiali.
I gioielli popolari non presentano, per lo più, originalità: talvolta si constata la persistenza della tecnica merovingica; ma per lo più, come forma, dipendono dal Rinascimento italiano. D'altronde, eccetto quelli d'argento, fatti nei villaggi, essi venivano acquistati nelle città, dove gli operai subivano l'influsso dei grandi centri. Un'altra parte dell'abbigliamento che un tempo presentava grande varietà era la calzatura: il Musée de Cluny (Parigi) ne ha una bella collezione. Ma fin dalla metà del sec. XIX la calzatura è divenuta uniforme in tutte le provincie e ora una certa varietà si nota solo nella decorazione degli zoccoli. Il costume maschile è divenuto ovunque uniforme molto più rapidamente di quello femminile.
Un campo in cui la Francia si è segnalata è quello delle immagini popolari. Quasi dovunque vi sono state delle vere scuole di incisori in legno, che, dal sec. XIV in poi, hanno fatto dei fogli volanti da distribuire tra il popolino delle campagne. Oltre Parigi, che ha avuto numerose botteghe importanti, bisogna citare quelle di Épinal, di Metz, di Lilla, soprattutto di Orléans (donde sono usciti veri capolavori), di Chartres, di Nantes, di Quimper. Le vera regione degli xilografi è stata il centro e l'est della Francia; ma vi sono state anche botteghe meridionali (Tolosa, Avignone, ecc.) la cui produzione è disgraziatamente in gran parte perduta. Gli operai cambiavano facilmente di bottega; per lo più, queste si copiavano senza scrupoli; infine, in caso di morte o di vendita, certe stamperie acquistarono interi fondi di legni incisi, e i nuovi proprietarî si accontentarono di scalpellare il luogo di origine. Questo rende spesso difficilissima l'identificazione delle antiche incisioni in legno. La maggior parte dei libriccini diffusi dai colportori era ornata da una o più figure del genere: soprattutto le stamperie di Chartres, Troyes e Lione si sono specializzate in questa produzione popolare e alcuni di quei legni sono veri capolavori di forza e di ingenuità.
L'arte popolare si manifesta anche nella terracotta e nella ceramica. Alcune fabbriche (Strasburgo e villaggi della Lorena; Rouen e regione; Nevers e regione; Marsiglia e regione) hanno acquistato grande celebrità e i loro prodotti si sono sparsi per tutta la Francia. Innumerevoli sono state le piccole fabbriche locali; ma lo studio di queste è appena all'inizio, benché musei e collezioni private posseggano ricche serie. Per le terrecotte, ogni regione aveva le sue preferenze: sono da segnalare soprattutto i prodotti della Provenza, le ampolle della regione di Avignone, le decorazioni da tetto in cotto del Morvan e della Normandia; i mattoni smaltati dell'Alsazia. In questa regione bisogna anche segnalare la fabbricazione delle grandi stufe di maiolica, del tipo diffuso in tutta la Germania e la Svizzera. L'arte dell'intaglio in legno è stata usata anch'essa per decorare utensili casalinghi d'ogni genere, soprattutto femminili, come conocchie e filatoi, bolli da burro, scatole, cofanetti e saliere; infine i mobili. La mobilia rurale, indigena nella materia, è raramente tale nella decorazione. I falegnami e gli ebanisti dei villaggi hanno lavorato soprattutto su ordinazione e quindi imitando i mobili dei nobili e dei ricchi del paese, i quali a loro volta seguivano il gusto delle corti locali o di Parigi. Ma la trasposizione degli stili è sempre avvenuta con un ritardo maggiore o minore; alla fine del sec. XVIII, nelle provincie più lontane da Parigi, si facevano ancora dei mobili negli stili Luigi XIII o Luigi XIV. Solo nei cofani si sono conservate le tradizioni più antiche. In Normandia e nelle Alpi, in Bretagna o nei Pirenei, ancora ai nostri giorni se ne trovano di decorati negli stili merovingico (a rosoni e ornamenti geometrici), romanico (a colonnette), gotico, ecc. Questi cofani per biancheria o per legname hanno subito in seguito l'influenza del Rinascimento italiano, soprattutto in Provenza e nelle Alpi, ma anche a Parigi e nella regione circostante. Tutti i musei di provincia contengono ricche collezioni di mobili locali: ma la visita di questi musei prova che pochissimi mobili detti rurali posseggono vere caratteristiche proprie in confronto di quelli parigini, eccetto che per l'essere meno belli e più grossolani. Tra questi musei locali, i più ricchi e meglio ordinati sono il Muséon Arlaten (Museo arelatense) di Arles, il museo alsaziano a Strasburgo; il museo basco di Baiona, il museo alverniate a Clermont-Ferrand. Ma quasi ogni città e numerosi villaggi hanno musei locali assai notevoli: così Quimper, Loches, Chambéry, Annecy, Marsiglia, ecc. Uno dei più belli e completi, il Musée champenois di Reims, fu bombardato e incendiato dai Tedeschi nel 1915.
Il teatro popolare che, sotto forma di misteri o di soties, di moralités o di allegorie (v. il paragr.: Letteratura) ha avuto una parte così importante nella Francia medievale, ai giorni nostri è rappresentato solo in qualche regione dal teatro delle marionette e dei burattini. Attualmente il centro principale di questa produzione, spesso in dialetto locale, è Lione; ma a Lilla e in altre città del Nord persiste anche una tradizione che ha i suoi migliori rappresentanti nelle provincie vallone del Belgio. Senza dubbio, i personaggi di questo teatro di marionette e burattini sono gente del popolo, che parlano la lingua del popolo; ma gli autori degli scenarî e delle commedie sono veri autori drammatici e gli scenarî stessi, come îattura e come psicologia, sono vicini al teatro maggiore o almeno alle farse di Molière. I burattinai ambulanti, che nel sec. XVIII, numerosissimi, percorrevano le fiere e i mercati di campagna e le vie delle città, sono completamente scomparsi da circa un secolo.
Una sezione del folklore che non è stata ancora studiata a fondo è quella dei giochi popolari degli adulti e dei fanciulli. Storicamente questo studio ha per base la lunga lista di Rabelais, che nel Pantagruel enumera i giochi con cui si trastullava il fanciullo Gargantua. Documenti medievali permettono anche di constatare che certi giochi ancora in uso erano già noti nel sec. XII, per es. quello della soule (pallone di cuoio riempito di crusca), uno degli antenati del moderno football (v. calcio), e quello della crosse (il bastone ricurvo a un'estremità) o della choule (la palla) da cui deriva il cricket (v.). È probabile che gl'Inglesi abbiano appreso questi giochi nella guerra dei Cento anni; in seguito, li hanno sistematizzati. Parimenti dal jeu de paume, gioco della palla lanciata prima con la palma della mano (onde il nome), poi con una rachetta, e che era "lunga" o "corta", secondo che si giocasse in luogo aperto o chiuso, è uscito il moderno tennis (v.). Alcuni giochi popolari hanno acquistato ai giorni nostri grande celebrità: il gioco della pelota (v.), o palla al muro, che si gioca con uno strumento speciale, la chistera, è un gioco proprio dei Baschi, in cui ancora si esercitano i giovani in tutti i villaggi. I giochi sportivi (come la "barra" o l'orso") sono sostituiti dagli sport autentici. Solo si sono conservati nelle scuole dei villaggi giochi già noti ai Romani, e che sono i più semplici: i cosiddetti "ossicini" (osselets), che si lanciano in aria raccogliendoli una volta sul dorso e l'altra sulla palma della mano, il saltare alla corda, il cerchio e i varî giochi con la palla.
Al folklore appartengono ancora la medicina e la farmacia popolari. Per lo più, i medicamenti usati in campagna provengono da formularî e farmacopee dei secoli passati, le quali a loro volta avevano preso molto all'antichità, soprattutto a Plinio. Ma, accanto a questo elemento, sopravvive quello magico, che talvolta proviene dall'antichità classica, talvolta s'è costituito in quei secoli del Medioevo o dell'età moderna in cui si credeva ancora alle streghe. La stregoneria sussiste ancora nelle campagne francesi, ma solo negli strati della popolazione a cultura più arretrata.
Non va dimenticata neppure la cucina popolare. Da qualche anno, grazie all'automobilismo, è sorta tutta una letteratura su questo argomento e in tutte le grandi città si sono impiantati ristoranti o trattorie che fanno della cucina regionale per i turisti. I Francesi sono sempre stati assai ghiotti e la varietà dei climi e dei prodotti del suolo ha permesso di fare della cucina, anche in campagna, una vera arte. Le cucine provenzale, basca, bordolese, lionese, savoiarda, borgognona, fiamminga, bretone, ecc. hanno caratteri proprî e alcune pietanze sono proprie di certe regioni: sicché s'è potuta stabilire una vera e propria geografia culinaria della Francia, dimostrando così l'ingegnosità di quei contadini.
Tipi di case. - Sono molteplici; tuttavia il Demangeon li riduce a 4 principali. La maison élémentaire o casa semplice riunisce in un unico fabbricato a un solo piano tutti i locali che servono per gli uomini, per il bestiame e per gli arnesi agricoli; vien costruita sia nelle regioni di plaines sia nei bocages, e suppone un sistema nel quale l'agricoltura si accoppia all'allevamento su una piccola estensione di terreno. Di tal genere sono le case della Lorena, dai tetti bassi generalmente ricoperti di mattoni, le quali formano villaggi che si estendono lungo una larga strada, avendo il letamaio dinnanzi a sé. Così si presentano le più antiche case coloniche bretoni, isolate in mezzo al bocage. La maison en ordre dispersé ha fabbricati distinti per i varî usi, a una certa distanza l'uno dall'altro. L'esempio più notevole si osserva nella Bassa Normandia (Pays de Caux): i varî fabbricati della fattoria sorgono qua e là in mezzo al plant, prato con filari di alberi fruttiferi. Fra i due tipi citati, ce n'è uno intermedio, assai comune nel nord e nel centro della Francia, che presenta i fabbricati ben distinti, ma raggruppati attorno a una corte quasi sempre quadrata e chiusa talvolta da un portone. Tali sono le case coloniche riunite in villaggi di molte parti della Piccardia, del Vexin francese, del Valois, del Hurepoix e della Beauce. Dalla parte della via esse non presentano che facciate senza finestre e grandi portoni. Questo tipo si osserva altresì nella valle della Saona (Bresse), nelle parti più fertili dell'Alvernia, ecc. La maison en hauteur è il tipo di casa proprio del mezzogiorno e della montagna: eccettuate la Savoia e una parte del Delfinato, è molto comune in quasi tutte le Alpi francesi, oltre che nella Provenza e nelle Cevenne, nella Linguadoca e nella maggior parte dei Pirenei. La sua caratteristica è di avere almeno un piano sovapposto al pianterreno; questo ha diversi uffici (quasi sempre di cantina o di stalla), a seconda del genere di vita degli abitanti. L'abitazione è al primo piano, ma in montagna, dove l'allevamento è di somma importanza, una parte di esso è occupata dal fienile, che ha un'entrata allo stesso livello nella parte posteriore della casa, posta su un declivio con pendenza da 10° a 20°.
Per altre notizie di carattere etnografico, v. al paragrafo Geografia: caratteri etnici della popolazione, habitat rurale, ecc.
Bibl.: Periodici: Revue des traditions populaires, Parigi 1886 segg.; Revue d'éthnographie et des traditions populaires, Parigi 1920 segg.; Revue du folklore français, Parigi 1930 segg.; Mélusine, Parigi 1878-1912. Opere generali: A. van Gennep, Le folklore, mœurs et coutumes des provinces françaises, Parigi 1924; id., Manuel de folklore français, ivi 1932; P. Sébillot, Le Folklore de France, voll. 4, Parigi 1904-07. Monografie regionali: A. van Gennep, En Savoie, Chambéry 1916; E. Sol, Le vieux Quercy, Durillac 1930; G. Rocal, Le viuex Périgord, Parigi 1927; J. M. Rougé, Folklore de la Touraine, Parigi 1911-12; G. Jeanton, Le Mâconnais traditionaliste, Mâcon 1920-21; A. van Gennep, Le folklore du Dauphiné, voll. 2, Parigi 1932. Letteratura popolare: G. Huet, Les Contes populaires, Parigi 1923; P. Saintyves, Les contes de Perrault et les récits parallèles, Parigi 1924; id., En marge de la Légende dorée, Parigi 1931; A. van Gennep, La formation des légendes, Parigi 1910; R. Guiette, La légende de la sacristine, Parigi 1928. Canzoni popolari: M. Tresch, Évolution de la chanson française savante et populaire, Bruxelles 1927; id., La chanson luxemburgeoise, Lussemburgo 1929; P. Coirault, Recherches sur notre ancienne chanson populaire traditionelle, Parigi 1928 segg.; G. Doncieux, Le romancero populaire de la France, Parigi 1904; C. Servettaz, Vieilles chansons savoyardes, Annecy 1910; L. Pinck, Lothringer Volkslieder, voll. 2, Strasburgo 1928; Poneigh, Chansons populaires des Pyrénées françaises, Parigi 1930; Barbillat e Touraine, Chansons populaires dans le Bas-Berry, voll. 4, Châteauroux 1930; F. Delzangles, Chants pop. d'Auvergne, Tournemire 1911; H. Grospierre, Chansons populaires du Jura, Parigi 1925; M. Gauthier-Villars, Chansons du Dauphiné, Parigi 1931; Aubanel, Nouvè provençau (Saboly, li Rèire, li Fellibre), Avignone 1927; Clamon e Pansier, Les noëls provençaux de N. D. des Doms, Avignone 1929; A. d'Agnel e L. Dor, Noël en Provence, Marsiglia 1927. Arte popolare: L'art populaire en France, pubblicazione annuale diretta da A. Riff, voll. 3, Strasburgo 1929 segg.; Collezione Massin, Le meuble d'art dans les collections particulières, voll. 18, Parigi 1911 segg.; E. Delaye, Le vieux costume Dauphinois, Lione 1926; E. Canziani, Costumes, mœurs et légendes de Savoie, Chambéry 1920; E. Roy, La vie, la mode et les costumes en Lorraine, Parigi 1924; M. Bigot, Les coiffes bretonnes, Saint-Brieuc 1929; J. Charles-Roux, Le costume en Provence, Lione 1927; J. Bourrilly, Le costume en Provence au moyen âge, Marsiglia 1929; P. Kauffmann, L'Alsace traditionaliste, costumes et habitations, Strasburgo 1931: Ph. de Las Cases, L'art rustique en France, voll. 4, Parigi 1920 segg.; J. Aurouze, Le Muséon Arlaten, Avignone 1909; A. Riff, Le Musée Alsacien, Strasburgo 1921; W. Boissel, Le Musée basque de Bayonne, Bayonne 1922 segg. Immagini popolari: P.-L. Duchartre e R. Saulnier, L'imagerie orléanaise et les provinces françaises, Parigi 1926; A. Martin, L'imagerie orléanaise, Parigi 1928; R. Perrout, Les images d'Épinal, Parigi 1923. Medicina popolare: P. Saintyves, Les origines de la médecine, Parigi 1920; id., La guérison des verrues, Parigi 1913; id., L'éternuement et le bâillement dans la magie et le folklore médical, ivi 1921; M. Réjà, Au pays des miracles, Parigi 1930; A. Aymar, Le sachet accoucheur et ses mystères, Parigi 1927. Cucina popolare: P. Dupin, Les secrets de la cuisine comtoise, Parigi 1928; La Mazille, La bonne cuisine du Périgord, Parigi 1929; H. Lapaire, La cuisine berrichonne, Parigi 1925, ecc. (già una ventina di monografie).
Per i tipi di case: A. De Foville, Enquête sur les conditions de l'habitation en France, voll. 2, Parigi 1894-1899; A. Demangeon, L'habitation rurale en France, in Ann. de géographie, 1920.
Arti figurative.
Età barbarica, merovingia e carolingia - La più antica iscrizione cristiana conservata nella Gallia è del 334; e già prima delle invasioni barbariche era stato costruito un certo numero di chiese. Al tempo di Clodoveo i vescovi avevano una grande importanza politica; rappresentavano l'ordine romano, e prolungarono sotto i nuovi padroni le tradizioni dell'antico regime. D'altra parte, se si eccettuino gli Ariani del Mezzogiorno, i barbari distrussero poco: le grandi devastazioni risalgono specialmente alle invasioni normanne dei secoli VIII e IX. Ma l'unità della Gallia finì: i Burgundî fondarono il loro reame ad E., i Visigoti a S., i Franchi, stabiliti nelle regioni settentrionali, si rivelarono i più intelligenti e conservatori.
Il battesimo di Clodoveo (496) segna la sua adesione a quanto rimaneva del sistema gallo-romano, i suoi figli davano dei giochi, vestivano come consoli, riprendevano la guardia sul Reno sfuggita alle deboli mani degli ultimi Cesari. Del resto, i Franchi erano troppo poco numerosi per potere modificare il substrato del paese. Invano si tenta di attribuire a questi figli delle foreste l'origine remota dell'architettura gotica, dalle vòlte fatte a imitazione delle gallerie di fogliame. Non avevano creato alcun monumento nei luoghi donde provenivano, e non ne crearono nella Gallia. Amavano i gioielli (tesori di Childerico, di Gourdon, nel Gabinetto delle Medaglie di Parigi: tesoro di Pouan, nel museo di Troyes; gioielli merovingi nel museo di Cluny), ma è provato che si tratta di oreficeria d'origine orientale (v. barbarica, arte) ché nel crepuscolo dell'Occidente durante i secoli V e VI brillava la luce di Bisanzio e della Persia sassanide.
I pellegrini portarono in Gallia l'arte detta bizantina, formata d'elementi greci e soprattutto orientali. Sappiamo da Gregorio di Tours, da Sidonio Apollinare che un grande numero di chiese furono costruite ai loro tempi. La fondazione di parecchie cattedrali francesi risale al sec. V, ma tutte furono ricostruite più volte in seguito, e quasi nulla si è conservato di quell'epoca. La chiesa di S. Pietro di Vienne (Isère), con quella di Néris (Allier), sono forse gli unici monumenti che risalgono alla fine del sec. V. La Basse-Œuvre di Beauvais sembra del sec. VIII. Alcuni monumenti minori - martyria, tombe, battisteri - come la cappella di S. Lorenzo a Grenoble, i battisteri d'Aix-en-Provence, di Riez, del Fréius, di Poitiers (secolo IV, rimaneggiato nel VII), di Vénasque (sec. VII), sono di quell'epoca. La cripta di Jouarre (Senna e Marna) dai delicati capitelli di marmo bizantini, forse scolpiti in Italia, conserva alcune tombe di badesse del sec. VII. Lo schema di queste chiese è generalmente basilicale, a tetto, con tre navate divise da colonne con matronei. Molte loro particolarid provenivano dall'Oriente: le piante concentriche, pur tanto diffuse nell'architettura romana, la pianta a doppia abside dell'antica cattedrale di Clermont (sec. V), così spesso imitata dagli artisti carolingi, le absidi fiancheggiate da cappelle o da ambienti quadrati. I Galli, eccellenti carpentieri, innalzarono sull'incrocio del transetto con la navata un'alta torre di legno (S. Martino a Tours; le cattedrali di Nantes e di Clermont). La muratura è di pietrame con ricorsi di mattoni. Nell'interno, le colonne strappate dai monumenti pagani, marmi, affreschi, mosaici, parati di seta, soffitti dorati, altari e candelieri splendenti d'oreficeria, rendevano sontuose le basiliche.
Ma una rapida dissoluzione fece decadere i Merovingi; il pericolo arabo incombeva; i barbari si agitavano. Tutti gli element dell'ordine, ancora esistenti in Gallia, si concentravano in qualche grande diocesi o monastero. Da quell'annientamento, la restaurazione carolingia tentò di ricreare un ordine e di consolidarlo. E fu quasi una prima Rinascenza.
Il Rinascimento carolingio nell'architettura si limitò quasi soltanto a mantenere e restaurare quanto minacciava rovina. Non si può annoverare Carlomagno fra i grandi costruttori; l'unica costruzione da lui commessa è la cappella palatina di Aquisgrana (v.), opera di Eudes di Metz (790-804), probabilmente ispirata al S. Vitale di Ravenna. La piccola chiesa di Germigny-des-Prés, costruita da Teodulfo vescovo di Orléans, fu male restaurata nel 1867. Il documento più prezioso pervenuto dell'architettura religiosa di quell'epoca è la famosa pianta di San Gallo in Svizzera (800 circa), con chiesa a due cori, due absidi con deambulatorio. Ugual pianta aveva l'antica abbazia di Saint-Riquier (Somme), e le stesse caratteristiche si ritrovano a Fontenelle, a Corbie; si conservano ancora a Nevers, Besançon e Verdun; si sono perpetuate nelle chiese renane.
I monumenti dei secoli IX e X, d'uno stile rude, sono appena una dozzina in Francia: S. Filiberto di Grandlieu (Loira inferiore), S. Generoso (Deux Sèvres), alcune parti di S. Martino d'Angers, la chiesa di Cravant (Indre et-Loire), ecc.; i più importanti avanzi, frammenti del 940, sono quelli di Jumièges. Questi edifici hanno numerosi elementi comuni che preludono all'architettura romanica: pilastri, vòlte, absidi fiancheggiate da absidiole, facciate con torre o campanile separato dal corpo della chiesa. La scultura in pietra, caduta dopo il sec. IV in uno stato di barbarie, rimase quasi abbandonata. Rifiorì invece nei piccoli intagli in avorio, ed ebbe caratteri distinti in diverse scuole (v. avorio): negli avorî, come nelle miniature (Bibbia di Godescalc, Bibbia di Carlo il Calvo, Biblioteca Nazionale di Parigi), si manifestò particolarmente lo spirito della Rinascenza carolingia. Disgraziatamente sono spariti gli affreschi; l'unico rimasto, raffigurante il martirio di S. Stefano e appartenente al sec. IX, fu scoperto nel 1927 nella cripta di S. Germano ad Auxerre. Il mosaico ebbe grande sviluppo durante i tempi merovingi (chiesa della Daurade, ecclesia deaurata, a Tolosa, sec. V, distrutta nel sec. XVIII); ma la bella tradizione antica si estinse con il mosaico di Germigny-des-Prés del sec. IX (v. carolingia, arte).
Epoca romanica. - Dopo un lungo periodo di crisi, nell'atmosfera morale cambiata si sviluppa e si consolida una nuova società; fra i suoi caratteri essenziali è la fondazione di ordini monastici: Grandmont, Cîteaux, Chartreux, Fontevrault, Prémontrés: indice di un grandioso movimento spirituale. La più nobile fra queste nobili abbazie è Cluny (v.), fondata nel 910. Non c'è bisogno di ricordarne l'immensa importanza politica, il prestigio, l'autorità, la splendida attività, il trionfo sulla potenza imperiale nella lotta per le investiture. Per centocinquant'anni essa fu sostegno della Chiesa; e da Cluny partì l'idea della Crociata. Cluny fu il centro dell'arte romanica francese. La sua chiesa dei Ss. Pietro e Paolo, distrutta dalla Rivoluzione, era la più grande della Cristianità: costrutta da Sant'Ugo nel 1089, era coperta a vòlta. L'insegnamento della scuola lombarda, già intenta al problema della costruzione di ampie vòlte, si era esteso in Francia attraverso la Borgogna e le valli della Loira e del Rodano; e Cluny ebbe una parte importantissima nella sua diffusione. Il cluniacense Guglielmo da Volpiano, lombardo, nominato abate di San Benigno a Digione, vi intraprese nel 1002 la costruzione di un edificio, coperto almeno in parte di vòlte, che in quell'epoca ebbe un'immensa rinomanza: e ne esiste ancora la "rotonda". Guglielmo, reso ardito dal successo, tentò di rinnovarlo in Lombardia, ma le sue idee vi incontrarono maggiori resistenze, mentre invece si propagavano nella valle del Rodano (chiese di Farges, Chapaize, Saone-et-Loire; Saint-Martindu-Canigou; Saint-Guilhem-le Désert, Hérault, Saint Vorles a Châtillon-sur-Seine).
La tecnica andò poi perfezionandosi; notevoli progressi si ottengono nel disegno dei pilastri, nel taglio delle pietre. Infine tutte le esperienze furono consacrate nella basilica di Cluny (1088). Della chiesa famosa non rimane che un frammento del transetto; ma se ne ha una copia nella chiesa di Paray-le-Monial, poiché essa fu modello ad altre chiese, in virtù della vasta autorità, dell'ordine del potente sistema di abbazie, di priorati disseminati lungo le vie seguite dai pellegrinaggi, della sua influenza sulle diocesi attraversate da quelle strade; e, in meno di mezzo secolo, tutte le chiese di Francia furono ricostruite e coperte di vòlte.
Intanto il nuovo contatto con l'Oriente, prodotto dalle crociate, portava tante forme orientali a mescolarsi alle romaniche: gli archi polilobati di Notre-Dame-du-Puy, con le sue porte musulmane; le porte a festoni del Dorat (Alta Vienne), di Moissac (Alta Garonna) o di Ganagobie (Basse Alpi), le arcate policrome di Vézelay, le vòlte persiane di Tournus, ecc.
Il movimento fu quasi simultaneo in tutta la Francia, pur rivestendosi, nelle varie provincie, di forme diversissime. Questo carattere regionale costituisce una delle bellezze della Francia romanica. In generale le chiese hanno pianta basilicale; ma tutte differiscono nella forma delle vòlte, dei pilastri e nel sistema di illuminazione, che, nelle costruzioni a vòlte, è problema della massima importanza. Le piante circolari, ormai rare, si conservano nei piccoli monumenti come le cappelle del Temple (un bellissimo esemplare è a Laon).
Nella scuola borgognona (v. borgogna: Arte), che vanta celebri monumenti (Autun, Charlieu, Paray-le-Monial, Beaune, Tournus, Vézelay, Langres, ecc.) le coperture sono in vòlte a botte a sesto acuto o a pieno sesto con archi trasversi; in vòlta a crociera (Vézelay, circa 1 125), in vòlte trasverse, come a Tournus (circa 1070). La decorazione è sovente di gusto classico: ad Autun si hanno pilastri scanellati; a Langres, Cluny, Charité-sur-Loire gallerie imitate dalla porta romana d'Arroux a Autun; ad Avallon colonne tortili. La decorazione plastica è esuberante, raffinata, piena di movimento, di stile espressionistico (lunette d'Autun, Vézelay, Charlieu, Anzy-le-Duc, ecc.).
Nella scuola provenzale, fu preferita la basilica a una navata (Digne, Cavallon, Notre-Dame-des-Doms di Avignone) coperta da una lunga vòlta a botte cieca, imposta su potenti contrafforti interni. Talora, come a Vaison, Saint-Paul-Trois-Châteaux, vi sono anche strette navatelle, spesso una timida cupola sorge all'incrocio del transetto. Le poche finestre accrescono l'aspetto severo e austero. La decorazione dei porticati è così permeata di romanità da parere opera della bassa antichità (Notre-Dame-des-Doms ad Avignone; cattedrale di Carpentras, ecc.); e talvolta sviluppa con magnificenza il vecchio tema degli archi di trionfo.
L'Alvernia ebbe un'architettura simile alle sue montagne. La massiccia vòlta a botte della navata principale pesa sulle navate secondarie (spesso ve ne sono due per parte), provviste di matronei; la luce, penetrante dalle finestre laterali, squarcia a fatica le tenebre dell'interno. Al centro si erge una torre simile ad un pozzo. In nessun altro luogo spira un mistero più fitto, un più sacro terrore (N.-D.-du-Port a Clermont-Ferrand; Brioude, Saint Nectaire, Orcival; chiese di Conques, Aveyron; S. Sernino di Tolosa, del tipo prettamente alverniate). All'esterno, invece, nulla di più bello di un'abside alverniate: piramide formata dai varî piani delle cappelle, un digradare di forme curve e piene, una maestosa musica di temi sordi su cui spicca la nota acuta del campanile. Il tufo, male adatto alla scultura, favorì invece tutte le combinazioni ed i mosaici di colori.
Nel Poitou, le navate sono di eguale altezza, coperte da lunghe vòlte a botte, sorrette da archi su pilastri quadrati o su file di colonne: la luce proveniente dalle navatelle fa risaltare le forme del colonnato, si diffonde nelle vòlte scintillanti di affreschi (Notre-Dame-la-Grande a Poitiers: Saint-Savin-sur-Gartempe, Vienne). All'esterno, un'esuberanza scultoria, un poco strana, si agita nella pietra tenera dando alle facciate un aspetto ricco ma enigmatico che ricorda vagamente l'arte indiana (notre-Dame la Grande; Aulnay-en-Saintonge; facciate d'Angoulême e di Santa Croce a Bordeaux; S. Eutropio, S. Pietro a Saintes, ecc.).
Audace e diffidente, la Normandia tardò lungamente ad adottare le coperture a vòlta; ma le sue facciate inquadrate da torri e coronate da guglie dovevano per la loro arditezza imporsi agli architetti gotici (Santo Stefano e la Trinità a Caen; S. Giorgio a Boscherville). La decorazione dei portali, quasi esclusivamente geometrica, è sovente di un lusso inaudito (chiese di Ouistreham, di Cagny; di Mouen, Calvados, Bazouges, Sarthe). L'antica Aquitania fu la terra delle cupole. Vi sono stati scoperti avanzi di peducci rimontanti al sec. IX. La sua scuola di architetti geometri sembra, nel coro dell'arte romanica, una famiglia di sognatori, discepoli di Pitagora, rapiti dall'armonia delle sfere. Nulla di più magnifico di quella musica astratta, senza alcun ornamento, ridotta ai numeri puri quale si rivela nelle cupole di Cahors, Souillac, Angoulême, e soprattutto nel capolavoro: il Saint-Front di Périgueux. Nell'Isola di Francia, essendo stati tutti ricostruiti i grandi monumenti, si può studiare l'attività della sua scuola soltanto nei minori, tuttavia molto numerosi: chiese di villaggio, di modeste dimensioni e di forme semplicissime, spesso di grande raffinatezza. I campanili, poco elevati, hanno una sagoma perfetta (Nogent-les-Vierges, Tracy-le-Val). Spesso la facciata è ornata di un delicato portico (Urcel, Mareil-enDôle). La scultura, d'aspetto normanno, quasi tutta geometrica, è di un gusto purissimo.
Tale è il prodigioso spettacolo che ci offre l'architettura nella Francia romanica. Ma, fin dal 1130, nella stessa regione parigina essa creava un nuovo stile, destinato a un'enorme fortuna.
Architettura gotica. - Le vòlte, a causa del loro peso, davano luogo a diversi inconvenienti; per limitarli, gli architetti medievali ricorsero agli archi di sostegno trasversali, archi trasversi, suddividendo così tutta la copertura in settori isolati. Non bastava. Si gettarono in ogni settore degli archi diagonali, le nervature o costoloni, che s'incrociano al sommo della vòlta, e furono dette "ogive" dal latino augere, o archi di soccorso perché, raccogliendo il peso della vòlta, ne raccolgono il peso nei quattro peducci e ne favoriscono la stabilità. Una terza serie di archi (incastrati nelle pareti) servì a collegare al disopra delle alte finestre quelli trasversali. Si ottenne così una solida armatura permanente, sulla quale la vòlta posa come un guscio. Tutta la costruzione divenne un organismo inscindibile, un complesso di forze e di resistenze: la massa muraria diventò superflua; fu possibile liberarsi dal peso inerte dei muri, che divennero sempre più traforati, fino a formare una successione di finestre. L'architettura gotica era nata (v. gotica, arte).
Si è discusso parecchio circa l'origine dell'ogiva, chiave di tutto il sistema. Di certo archi incrociati sotto le vòlte esistevano già nell'architettura romana e poi in quella musulmana e lombarda: ma le conseguenze statiche ed estetiche che furono l'architettura gotica appartengono alla Francia. Perciò l'abate di Wimpfeld, in Alsazia, facendo ricostruire nel 1269 la sua chiesa nello stile nuovo, lo chiama col suo vero nome: Opere francigeno basilicam ex sectis lapidibus construi iubet.
L'arco ogivale sembra sia apparso in Francia verso il 1120 ai confini dell'Isola di Francia (chiesa di Morienval, presso Compiègne), ma forse se ne hanno esempî più antichi in alcune chiese normanne, specialmente ad Airaines (Somma) e anche in qualche edificio normanno costruito in Inghilterra, come le cattedrali di Durham e di Peterborough, del 1093. Sporadico per qualche tempo, il suo uso divenne regolare verso il 1130 (navate laterali di Saint-Étienne a Beauvais). Ma fu per così dire ufficialmente consacrato nel 1140, quando il monaco Suger lo volle adottare per la ricostruzione della basilica di Saint-Denis presso Parigi. Da allora la formula francese iniziò il trionfale cammino che doveva durare quattro secoli.
Conviene distinguere dei periodi in questa lunga storia. Le più antiche cattedrali gotiche sorsero intorno a Parigi, quasi tutte nel Nord, cioè nella zona del dominio reale: la prima, Notre-Dame di Noyon apre la serie nel 1150 preceduta forse dal Saint-Étienne di Sens, cominciato contemporaneamente al Saint-Denis; Senlis segue nel 1153; Notre-Dame di Chalons nel 1157, poi Laon nel 1160, poi Saint-Remi di Reims, il cui coro fu rifatto nel 1162, indi Notre-Dame di Parigi, la prima pietra della quale fu posta nel 1163, lo stesso anno della consacrazione del coro del Saint-Germain des Prés, imitato poco dopo in quello della Maddalena di Vézelay. Fra questi monumenti, ciascuno dei quali vanta le proprie bellezze e le cui forme architettoniche sono strettamente affini, Notre-Dame di Parigi spicca per l'armonia delle proporzioni, per la maestà dell'aspetto, per tranquilla dignità; la sua facciata, quadrato perfetto, dominato da due torri, è una composizione d'insuperabile chiarezza, che esprime perfettamente le divisioni interne dell'edificio. In nessun'altra cattedrale si ha una più sapiente armonia della linea orizzontale con quella verticale, dell'equilibrio e dello slancio.
Col secolo XIII comincia a comparire un'altro gruppo di monumenti gotici. Nel 1194, eccetto il portale e il mirabile campanile, bruciò la cattedrale di Chartres (v.). L'architetto incaricato di ricostruirla ne fece un modello che s'impose a tutto il secolo. Lasciò intatta la facciata, ma modificò tutto lo schema interno, ridusse a tre il numero delle navate, soppresse i matronei sostituendovi il triforium e, spostando il punto d'appoggio che essi fornivano alle pareti esterne dell'edificio, inventò il contrafforte, o, piuttosto, l'arco rampante. Quest'artificio, annullando per mezzo di un organo appropriato la spinta delle vòlte, permetteva d'illuminare direttamente la navata centrale e di accrescerne quasi impunemente l'altezza; la crociera d'ogive ebbe così il suo completamento logico; si poteva abolire il peso inerte dei muri, ingrandire a piacere i rosoni e le finestre. Si ebbe una seconda fioritura dell'arte gotica; ogni costruzione fu fatta col nuovo sistema: Soissons l'adottò per prima, quasi contemporaneamente a Rouen che si affrettò a distruggere i matronei. Ma soprattutto la cattedrale di Reims, iniziata nel 1210, e quella di Amiens, nel 1220, dovevano celebrare la gloria della seconda generazione delle cattedrali francesi.
Rimaneva ancora il tiforium, loggetta residuo del matroneo, che per tanto tempo era stato indispensabile all'equilibrio delle vòlte, segnando una zona d'ombra, un piano inutile. Nel 1230 Pierre de Monterau, incaricato di ricostruire la navata di Saint-Denis, quando il re San Luigi volle farne il Pantheon della sua famiglia, decise di abolire quel rudimento d'una forma ormai inutile: conservò la galleria, ma soppresse il muro e lo sostituì con una finestra il cui disegno continua quello del piano superiore. E l'edificio intero non fu che un traforo, un disegno di una bellezza tutta matematica, realizzato con la massima economia di materiali. Da allora la formula gotica, giunta alla suprema padronanza dei proprî mezzi, sembra uno splendido giuoco, una scommessa di virtuosi per i quali non esistono più difficoltà tecniche. È l'epoca di quei capolavori che sono la Sainte-Chapelle (1243-48), le facciate laterali di Notre-Dame di Parigi, disegnate da Jean de Chelles nel 1258, la Collegiata di San Quintino, costruita da Villard de Honnecourt nel 1257, la cattedrale di Bourges, il coro della cattedrale di Mans, consacrato nel 1254, la cattedrale di Troyes e la meraviglia di Saint-Urbain (1262-66), opere di Jean Langlois, infine il prodigio del secolo, il coro di Notre-Dame di Beauvais (v.; 1247-1272) che, se il resto dell'edificio fosse stato completato, eclisserebbe la gloria stessa di Amiens e di Reims. Di rado al mondo si ebbe lo spettacolo di una simile febbre, d'un tale slancio monumentale: mai la Francia espresse meglio sé stessa; e fu allora scuola all'Europa.
Nella grande armonia unitaria della Francia gotica si trova nondimeno qua e là qualche varietà regionale. Per certe particolarità si distingue il gotico borgognone (Notre-Dame di Digione, Saint Père-sous-Vézelay, Semur-en-Auxois) da quello della Champagne. Le ardite sagome di Bayeux (v.), di Coutances (v.) fanno riconoscere da lontano il gruppo normanno. Il Poitou, con la cattedrale di S. Pietro di Poitiers, mantiene le tre navi di eguale altezza dell'arte romanica. L'Angiò combina con squisita eleganza la cupola aquitana con la vòlta ogivale, creando la vòlta cupoliforme (Angers, Candes, Cunault). La Linguadoca e la Provenza non accettarono che a stento la formula venuta da Parigi. La trasformarono, la semplificarono, togliendo i contrafforti, eliminando i pilastri, ingombranti per le loro spaziose navate: nacquero così le grandiose basiliche di Tolosa (1211), di Béziers (1215), di Santa Cecilia d'Albi (1282). Puramente gotiche in quelle regioni non sono che pochissime chiese, come S. Massiminio (Var), Saint-Bernard de Romans (Drôme), opere di artisti del Nord, o le cattedrali di Clermont (1248), Limoges (1273) e Narbona (1272), dovute tutte e tre allo stesso maestro, Pierre Deschamps. Ma è soprattutto fuori di Francia che si potrà seguire l'espansione di questo incomparabile stile francese.
Scultura e pittura nel Medioevo. - Il vasto movimento architettonico trascinò con sé anche le altre arti, e prima la scultura. La decadenza della scultura dopo la fine dell'Impero romano è connessa alla fine del paganesimo e alla penetrazione delle idee orientali. Sopravvive solo nei lavori di avorio e oreficeria (scrigno di Sens, dittici consolari, cattedra d'avorio di Ravenna, porta di S. Sabina a Roma). Il Rinascimento carolingio riuscì per un momento a galvanizzarne l'attività. Dopo il secolo IX, nell'Alvernia si cominciarono a modellare delle statuette di legno, sovente coperte d'oro e di gioielli, ornate come reliquiarî (statuette di Santa Fede a Conques, Aveyron, sec. X). Sono pure da segnalare le opere di fonditori renani e della Mosella: il paliotto d'oro della cattedrale di Basilea (1020; ora nel museo di Cluny), scrigni, avorî, pezzi isolati come la tomba di Hincmar (secolo IX), e quella d'Adalbéron, recentemente esumate a Reims. Ma la grande scultura è scomparsa. Si assiste per tutto il sec. XI ai tentativi di risveglio di quest'arte da lungo tempo assopita. Saggi, invero molto barbari, appaiono nella regione della Loira (Orchaise, Bourgueil, Azay-le-Rideau) e più sovente nei Pirenei (Saint-Paul-les-Dax, architravi di Saint-André a Sorède e di Saint-Genis-des-Fontaines, 1020). Si aggiungano i rozzi capitelli di Saint-Germain-des-Prés (circa 1010) e di Saint-Benoit-sur-Loire. Tutto ciò è più che primitivo, insignificante nel rilievo, mille volte più lontano dalla vita che non le più povere opere dell'uomo preistorico. Il monumento più curioso è il sepolcro d'Isarn, abate di S. Vittorio (m. 1048) ora nel museo di Marsiglia.
Anche nella scultura Cluny doveva prendere l'iniziativa. La scomparsa del suo portale, che conosciamo solamente attraverso i disegni, è una perdita irreparabile. Gli splendidi capitelli del coro, raffiguranti i fiumi del paradiso e le porte della musica, ora raccolti nel museo Orhier, non sembrano anteriori al 1130. Probabilmente primo focolare della grande scultura furono numerose abbazie e priorati della Linguadoca: Saint-Semin a Tolosa, La Daurade, Moissac, scaglionati sulla strada di S. Giacomo di Compostella o dipendenti da Cluny. Numerosi avanzi di opere antiche si tro. avano e certamente servirono da modelli. E nel territorio tolosano, impregnato di romanità, sotto l'egida dei grandi abati umanisti di Cluny, la scultura probabilmente si riaffermò da prima. Sono del 1080 circa i bassorilievi del coro di Saint-Sernin; il chiostro di Moissac esisteva nel 1100, quello de La Daurade è del 1105 e quello di S. Stefano del 1117 (frammenti nel museo di Tolosa). Quasi contemporanea è la porta Miègeville, a Saint-Semin; e il grande portale di Moissac non può essere posteriore al 1125. Il Cristo di Moissac, quello di Beaulieu (Dordogna), l'Ascensione di Cahors, i profeti tumultuosi di Souillac (Dordogna) sono opere straordinarie e insuperate. Un altro centro di opere anch'esse mirabili si trova in Borgogna: le più notevoli sono i due timpani e le meravigliose serie di capitelli d'Autun e di Vézelay (circa 1125-30), e soprattutto i capitelli di Cluny, apogeo dell'arte romanica borgognona. Fu allora che Suger chiamò i maestri meridionali a lavorare alla chiesa di Saint-Denis. Essi crearono, prima del 1114, il portale (noto solo per mezzo dei disegni del Montfaucon) con figure addossate alle colonne: il portale gotico era nato.
Il primo portale di questo genere rimastoci, e forse il più bello, è il "portale dei re" di Chartres (v.), detto così per i profeti o re di Giuda raffigurati, che data al più tardi dal 1130-60. Appena comparso esso fece scuola: i portali di Mans, Étampes, Angers, Saint-Ayoul de Provins, Vermenton, Saint Loup-de-Naud (circa 1180), il meglio conservato fra tutti, ne sono ispirati, come pure la porta Sainte-Anne a NotreDame di Parigi. L'antico tramezzo di Braisne e il portale di Senlis chiudono la serie. L'influenza di Chartres si estese anche nella Francia meridionale, dove i due grandi portali di St. Trofimo d'Arles (v.) e di Saint-Gilles (fine del sec. XII) ne sono una evidente imitazione pure sotto il loro stupendo aspetto di bassorilievi romani. A loro volta queste opere esercitarono un forte influsso sul grande scultore di Parma, Benedetto Antelami (v.). Un periodo di attività s'iniziò con la ricostruzione della cattedrale di Chartres dopo l'incendio del 1194. I triplici portali laterali, terminati nel 1220, ancora una volta furono la scuola della Francia. I profeti di quel mirabile poema biblico che è il portale nord vennero subito imitati a Reims. Verso il 1240 ai portali nord e sud fu aggiunto un atrio con una folla di nuove statue, fra le quali alcune, S. Teodoro e Santa Modesta, stupende. La cattedrale di Chartres con le sue sculture è, in certo qual modo la Summa del Medioevo francese: essa dà la misura delle più alte virtù morali e intellettuali raggiunte dalla Francia delle crociate.
Era l'apogeo del reame: e Reims con Amiens rappresenta l'età classica della scultura gotica. La statuaria della cattedrale di Amiens (v.) è soprattutto notevole per il suo carattere omogeneo. Certe statue di Reims, come il San Pietro, il San Paolo, il gruppo della Visitazione, si potrebbero credere appartenenti all'antichità. Tutta la decorazione plastica di Notre-Dame di Parigi è scomparsa, tranne quella della lunette. Ma verso la metà del sec. XIII gli apostoli della Sainte-Chapelle inaugurano uno stile nuovo più pittoresco, più libero, più mosso, con atteggiamenti più vivi, aggetti più decisi, ombre più pronunziate, in una parola uno stile più moderno, che si ritrova a Reims, nelle statue più popolari, nella Regina di Saba e nell'incantevole angelo detto il Sorriso di Reims.
Alla fioritura magnifica dell'architettura e della scultura fa contrasto la pittura. L'arte romanica ha lasciato in Francia un imponente numero di belle opere, che si dividono in due scuole: quella di Borgogna, regno di Cluny, che si ispira alla grande tradizione di Bisanzio (affreschi di NotreDame di Puy e di Berzé-la-Ville); quella del Poitou e del Berry, ove impera la tradizione popolare derivata dall'arte carolingia: ne è capolavoro la vòlta di Saint Savin (Vienne, sec. XI-XII). Altri affreschi coprono le pareti del battistero di Poitiers (sec. XII) di Notre-Dame du Liget, delle chiese di Vic e Montmorillon. L' architettura gotica, sopprimendo le pareti, soppresse la pittura, o almeno la costrinse a trovare una nuova estrinsecazione: le vetrate dipinte. Le più antiche vetrate (coro di Saint-Denis, facciata di Chartres, ecc.) risalgono alla metà del sec. XII, e sono d'una grande bellezza. Nella navata di Chartres cominciano le vetrate del secolo XIII (Chartres ha conservato quasi tutte le sue vetrate). Altre serie importantissime di finestre sono nella Sainte-Chapelle di Parigi, a Bourges, a Sens, a Lione, nel coro di S. Stefano di Mans, a Rouen, a San Quintino a Auxerre (v.). L'arte della vetrata ha delle esigenze particolari; la sua ottica richiede un'estrema stilizzazione. Tutto viene sacrificato alla chiarezza della composizione e soprattutto allo splendore della colorazione. Le limitazioni tecniche le impediscono di essere un'arte d'imitazione: una vetrata è anzitutto un tappeto di colori, una splendida decorazione, una festa di luci. La passione per quest'arte fece dimenticare ai nuovi maestri francesi che la pittura aveva un altro scopo oltre quello d'abbagliare: essi si perdettero in questo godimento proprio mentre in Toscana Giotto dipingeva i suoi grandi affreschi.
L'arte delle vetrate invase tutti gli altri campi del disegno. Per essa la cattedrale apre finestre sempre più ampie. Si ritrovano i suoi rosoni, le sue losanghe, i suoi medaglioni, la sua prospettiva convenzionale sulle miniature dei salterî, sui dischi d'avorio delle cassettine per unguenti e degli specchi; le sue vignette racchiuse in piccoli riquadri geometrici divengono fonte d'ispirazione per la scultura. La facciata di Amiens è decorata da cinquanta scene, rappresentazioni della Genesi e delle Stagioni, le quali non sono che reminiscenze delle vetrate. Medaglioni quadrilobi a figure rivestono i pilastri del portico sud di Chartres, la porta di Lione e quella d'Auxerre, ecc. La plastica di Auxerre, appartenente allo scorcio del secolo XIII, con scene della Genesi, la parabola del Figliuol prodigo, figure di Ercole e di Basso, è una delle creazioni più squisite della Francia.
Architettura civile. Avignone. Il Rinascimento del sec. XIV. - Il mondo feudale ha lasciato sparse nelle campagne le gigantesche rovine dei suoi castelli. Quelli dei crociati (Karitaena e Mistra presso Sparta, il Krak dei Cavalieri nel Libano); il Castello di Rodi e gli altri i cui ruderi sono disseminati nella Siria e nel Peloponneso, mostrano come i Francesi avessero saputo trarre profitto dalle lezioni dei Saraceni, eredi dei segreti militari dei Bizantini e dei Romani. Château-Gaillard, costruito da Riccardo Cuor di Leone per sbarrare la Normandia, è il primo esempio in Francia di questo genere di fortezze. Ben presto Filippo Augusto fece costruire il Louvre, poi demolito da Francesco I. Il mastio d'Étampes (sec. XII), formato da un fascio di quattro torri, è, insieme con quello di Provins, uno dei pochissimi ancora esistenti nei dintorni di Parigi. Il più formidabile era il mastio di Coucy (sec. XIII), ma essendo stato distrutto durante l'ultima guerra, non resta che citare le ampie rovine di Chateau-Thierry (Aisne) e quelle di Clisson nella Vandea. Il mastio di Vincennes (sec. XIII) è il solo che resti dei castelli reali dell'epoca di San Luigi. Quell'architettura militare non era fatta per la bellezza, e la comparsa dell'artiglieria la rese poi inutile; pure la nobiltà feudale vi rimase attaccata; a lungo ne conservò il vecchio schema - un muro di cinta fiancheggiato da torri - come conservò i tornei, le armi da parata e certe tradizioni cavalleresche. Le città invece, appena poterono, si sbarazzarono dei loro vecchi baluardi; a Parigi rimane il solo nome dello Châtelet, che difendeva la testa di ponte dell'isola della Cité, ed appena un tratto della cinta di Filippo Augusto (secolo XIII). Provins, Falaise, Dinant, Semur sono le principali città del Nord che abbiano conservato le loro mura; nel mezzogiorno, le tre più celebri sono Aigues-Mortes, Carcassonne (sec. XIII) e Avignone (sec. XIV). I papi, trasferendo la loro sede in Avignone, condussero con sé tutta una corte di dignitarî, d'artisti, di funzionarî d'origine italiana. Di già maestri italiani, Filippo Rusuti e il figlio, forse gli stessi ai quali si deve il mosaico della facciata di Santa Maria Maggiore, avevano lavorato a Poitiers al tempo di Filippo il Bello. Si sa che Simone Martini è morto ad Avignone nel 1344; disgraziatamente l'affresco che egli aveva eseguito nell'atrio di Notre-Dame des Doms è quasi scomparso. Negli appartamenti privati di Clemente VI, nella torre della Garde-Robe, restano squisiti affreschi rappresentanti scene di caccia dovuti a Matteo da Viterbo. Il palazzo dei Papi fu il punto d'incontro delle arti del Settentrione e dell'Italia. Per certi riguardi il sec. XIV, confrontato con i precedenti, è un secolo prosaico: il generoso idealismo dell'età delle cattedrali è ormai sorpassato. Le cattedrali di Évreux e di Saint Ouen di Rouen sono le ultime innalzate con le antiche proporzioni.
Ma quest'età dei primi Valois, moralmente tanto inferiore al secolo di S. Luigi, segna una feconda trasformazione. Il realismo si fa strada; appare il ritratto. Sono infatti di quel tempo il ritratto di Giovanni il Buono, attribuito a Girard d'Orléans (1355 circa), ora al Louvre; le statue di Carlo V e della moglie Bona di Savoia, già nel portone dei Celestini, e ora al Louvre; i ritratti degli stessi principi disegnati sul paliotto di Narbona (1370 circa; Louvre), e su una grandissima quantità di manoscritti; i ritratti sulle tombe di Saint-Denis: di Carlo V di André Beauneveu, ecc. Per l'architettura non abbiamo più che ruderi degli edifici costruiti per re Carlo V e i suoi fratelli, i duchi di Borgogna, d'Orléans e di Berry, come pure sono scomparsi il famoso Hôtel Saint-Pol, l'Hôtel des Tournelles a Parigi, il celebre scalone di Raymond du Temple al Louvre copiato poi a Blois (v.) e a Chambord (v.), la Bastiglia, il castello di Beauté nell'isola della Marna. Rimane una grande sala del palazzo di Poitiers, la torre dei duchi di Digione; e, del duca di Orléans, il castello di Pierrefonds (Oise) e i meravigliosi avanzi di quello a La Ferté-Milon (Aisne).
Sotto quei principi, Parigi, più ancora di Avignone, divenne una capitale delle arti, un centro d'attrazione dei pittori (André Beauneveu, di Valenciennes; Jacquemart de Hesdin; Jacques Coënne; i tre Malouel, detti i fratelli de Limbourg). I legami artistici con la Fiandra e con l'Italia si strinsero maggiormente in seguito al matrimonio del duca di Borgogna Filippo il Buono con l'ereditiera di Francia (1384), la più ricca principessa della cristianità. A sua volta, il duca di Orléans sposa una milanese, Valentina Visconti. La costruzione stessa del duomo di Milano non manca di contribuire ad attivare i rapporti artistici fra i due paesi. Parigi diventò così punto d'incontro di elementi provenienti dai Paesi Bassi, da Avignone e dalla Lombardia. Da questa mescolanza nacque un'arte nuova, di tendenze complesse, decorative e naturaliste. Ne è un esempio la splendida Incoronazione della Vergine (1390 circa) nel castello di La Ferté-Milon; ma l'opera essenziale di quest'epoca è il complesso di sculture della Certosa di Champmol a Digione, eseguite da Jean de Marville e Claus Sluter (morto nel 1404) per il duca di Borgogna. La Vergine e donatori, nel portale, e soprattutto i prodigiosi Profeti del Pozzo di Mosè sono opere concepite in uno stile singolare, ridondante, lirico, già quasi barocco. Quest'arte possente e impura, detta impropriamente borgognona, doveva dominare la scultura gotica per tutto un secolo. Si manifestano tendenze analoghe nella pittura e nella vetrata (vetrata di Carlo il Malvagio in Notre-Dame d'Évreux, vetrate della Sainte-Chapelle di Bourges, tappezzerie d'Angers, di Jean de Bruges e Nicolas Bataille). Con le Heures de Boucicaut, 1390 circa (Museo Jacquemart-André di Parigi) e le preziose Heures del duca di Berry, 1416, dovute ai fratelli Limbourg (museo di Chantilly), fa la sua comparsa il paesaggio, la riproduzione delle cose e dei luoghi. Le pagine del calendario che inizia in questo manoscritto segnano una data nella pittura, l'aurora del sentimento moderno della natura. I quadri della Certosa di Champmol, il trittico di Broederlam, ora nel museo di Digione, i pannelli di Jean Malouel e Henri Bellechose, ora al Louvre, hanno eguale importanza: preludono all'arte dei van Eyck, in essi è già lo spirito del "Rinascimento del Nord", cioè del Rinascimento fondato sul puro naturalismo.
Le traversie politiche del reame interruppero il corso di questo brillante avvenire, al quale, d'altronde, avevano tanto collaborato gli artisti delle Fiandre; Parigi perdette per due secoli il suo rango di capitale, l'arte francese si rifugiò nelle provincie; due centri importanti furono la valle del Rodano, la Borgogna e Avignone uno, la Loira, in Turenna, presso il re Renato d'Angiò, l'altro. Al primo si ricollegano alcune grandi opere di scultura: la tomba dei duchi di Borgogna (museo di Digione); quelle di Souvigny (Allier), del cardinale Lagrange (museo d'Avignone), di Pilippo Pot (1480 circa, al Louvre). In esse si rispecchia la nuova scuola borgognona, lo spirito della quale, espresso con maggiore dolcezza, si ritrova sulle sponde della Loira nella tomba dei figli di Carlo VIII (cattedrale di Tours) e in quelle dei duchi di Bretagna (circa 1500-10, cattedrale di Nantes) di Michel Colombe. La pittura è sempre dominata dall'influenza fiamminga; l'Annunciazione d'Aix (1444), la Natività d'Autun, le opere di Enguerrand Charonton (Incoronazione della Vergine, 1454, a Villeneuve-lès-Avignon) e di Nicolas Froment (Trittico degli Uffizî, 1470; Trittico d'Aix; il Roveto ardente; pala d'altare del parlamento, circa 1480, ora al Louvre).
Mentre la Francia si salvava per miracolo dalla dura prova del sec. XV, l'Italia viveva uno dei maggiori secoli della sua storia: il suo Rinascimento. Firenze si era posta alla testa di questo straordinario movimento; e andava foggiando un nuovo linguaggio, basato sullo studio razionale della natura, che non doveva tardare a relegare il gotico fra le anticaglie. Da quel travaglio sgorgò un concetto dell'umanità che, sostanzialmente, è ancora il nostro. Cominciavano i secoli durante i quali l'Italia sarà la regina delle arti.
Francia e Italia. Il Rinascimento. - In Francia si ebbe prestissimo conoscenza del rinnovamento che avveniva oltralpe. Dal 1454 il pittore Jean Fouquet è a Roma, dove dipinse anche un ritratto di Eugenio IV. S'innamorò soprattutto delle nuove decorazioni architettoniche e ne ornò tante scene delle sue miniature (Heures d'Étienne chevalier, Chantilly; ritratto di Juvenal des Ursins, Louvre). I prelati francesi presso la Santa Sede non tardarono ad uniformarsi al gusto dei tempi: e artisti e opere italiane già passavano in Francia (tomba del vescovo di Dol, eseguita da Giovanni Giusto, il tabernacolo di Fécamp, di Girolamo Viscardo; la tomba di Robert Lannoy, a Folleville (Senna Inferiore), di Antonio della Porta; tomba di Guillaume Fillastre, a Saint-Omer, di Andrea della Robbia (frammenti nella chiesa di Saint-Martin du Laërt). Lo scultore Francesco Laurana esegue l'altare delle Marie nella chiesa della Mayor a Marsiglia e la pala d'altare, Gesù che porta la croce, a Saint-Didier d'Avignone. Una Gonzaga, sposa d'un Borbone, recava fra i suoi doni di nozze, il S. Sebastiano del Mantegna, ora al Louvre dopo avere ornato a lungo la chiesa d'Aigueperse, in Alvernia. Le spedizioni d'Italia, iniziatesi col regno di Carlo VIII, precipitarono gli eventi: fu una pazza avventura, disastrosa nei risultati politici, nella quale la Francia si gettò a corpo morto. Già Carlo VIII aveva condotto dall'Italia molti giardinieri, ingegneri e artigiani. Il repertorio ornamentale del Rinascimento era apparso nel mausoleo dei suoi figli nella cattedrale di Tours, eseguito da Girolamo di Fiesole su disegni di Jean Perréal, artista la cui figura è tanto importante quanto mal nota e che fu certamente uno dei propagandisti dell'arte italiana in Francia. Verso il 1510 si ritrova il Perréal occupato a lavorare contemporaneamente alle tombe di Nantes e di Brou. Il primo importante centro d'influenza italiana si formò a Gaillon, dove artisti milanesi o lombardi lavorarono al castello del cardinale d'Amboise. Ne proviene la statua di Luigi XII (Louvre). A Parigi intanto era già aperto lo studio di Guido Mazzoni, l'autore di una statua equestre di Luigi XII, della facciata di Blois e della tomba De Commines al Louvre. A Tours lavorava la bottega dei Giusto, autori della famosa tomba di Luigi XII in Saint-Denis, capolavoro che creò un genere. Né si può dimenticare quel Domenico da Cortona, detto Boccadoro, che progettò il Palazzo comunale di Parigi, o fra Giocondo, editore di Vitruvio, il quale morì mentre dirigeva i lavori di San Pietro, dopo aver costruito in Francia il ponte di Notre-Dame (1508).
Un secondo periodo della penetrazione del Rinascimento italiano ebbe inizio dopo la battaglia di Marignano. Francesco I cercò sistematicamente d'introdurre la nuova arte nel suo regno. Chiamò Leonardo da Vinci e i suoi allievi Solario e Melzi; morto Leonardo (1519) prima di aver potuto realizzare qualcosa, il re, pur avendo perduto ogni influenza politica in Italia, accolse dopo il sacco di Roma (1527) numerosi artisti italiani, scacciati dalla tempesta, i quali crearono in Francia una nuova Italia. Il Primaticcio, morto nel 1570, capo di una schiera d'artisti quali il Rosso, il Cellini, Niccolò dell'Abate, Luca Penni, ecc., per quarant'anni assolse le funzioni di vero e proprio sovrintendente alle arti, ispirando e sorvegliandone tutte le opere. Il palazzo di Fontainebleau e gli altri castelli (Tanlay, Joinville, Ancy-le-Franc) divennero allora, per desiderio del re, quel che il palazzo dei Papi d'Avignone era stato due secoli prima: un modello, una scuola; e Fontainebleau ha avuto tale compito fino ai nostri giorni, poiché artisti come Eugène Delacroix conobbero in esso l'arte italiana.
Un terzo periodo della penetrazione italiana cominciò con la costruzione del nuovo Louvre dovuta a Pierre Lescot (1547), abbattendo l'antico mastio di Filippo Augusto con lo spirito rivoluzionario che ricorda la demolizione dell'antica basilica vaticana.
Il re, intendendo dar forma concreta al concetto di principe e di stato moderno, voleva anche nelle arti abolire il passato. Allora cominciò una generazione di maestri ispirata più all'arte antica che all'italiana, più a Roma che a Firenze. Agl'inizî del sec. XVI avevano soprattutto ammirate le decorazioni del Rinascimento, paghi d'adoperarne i motivi come un giuoco; ora lo spirito e il sistema del Rinascimento, una filosofia razionale delle cose, si affermavano con Philibert Delorme e Jean Bullant. Dagli elementi architettonici si traggono rapporti astratti, l'armonia dei numeri e delle proporzioni; si entra nel mondo delle leggi, si crede di scoprire il principio che deve governare le forme, la severa unità dell'universo e della ragione, di cui gli antichi avevano chiuso il segreto nelle loro opere. Queste opere si consultano come oracoli; da esse i Delorme e i Bullant traggono armonie per i loro palazzi delle Tuileries e d'Écouen, per il castello d'Anet (Eure-et-Loir) costruito per Diana di Poitiers, per il trionfale viadotto di Fère-en-Tardenois.
Nondimeno il Rinascimento non aveva sostituito bruscamente l'arte gotica, che anzi seguitò a esistere accanto ad esso per qualche tempo. Quell'arte, nella sua ultima espressione detta gotico fiorito, persistette nell'architettura sacra: il nuovo campanile di Chartres, di Jean Texier (1515); i rosoni gotici di Sens, i portali laterali di Beauvais e di Senlis, dei Chambiges (circa 1530), testimoniano la persistenza dello stile gotico. Dopo un lungo periodo di stasi, dovuto alla miseria conseguente alla guerra dei Cento anni, sorsero in quello stile gotico fiorito magnifiche chiese (Saint-Maclou a Rouen, Saint-Waast ad Abbeville, la chiesa di Les Andelys, le chiese di Troyes, il coro della cattedrale d'Auch) e tanto numerose come nel secolo XII. L'arte della vetrata le decorò con le sue ultime radiose opere dei laboratorî di Troyes e Beauvais (le più belle serie che si conservano sono quelle di Rouen, di Les Andelys, e delle cattedrali di Auch e di Metz). Nel 1568 sorge ancora sulla incompiuta navata di Beauvais la più ardita creazione dell'arte gotica, la guglia di Jean Wast, più alta di quella di Strasburgo, ma che crollò dopo solo cinque anni. A poco a poco i motivi ornamentali del Rinascimento si mescolarono, in quelle chiese, alle lussureggianti fioriture del gotico (v. S. Pietro di Caen, S. Michele a Digione, la chiesa di La Ferté-Bernard); si giunge perfino, come in S. Eustachio a Parigi, di Nicola Lemercier, a tradurre in forme classiche tutti gli elementi d'un pilastro, d'un contrafforte, d'una crociera ogivale. La parola sembra romana, ma la sintassi è ancora francese, strettamente tradizionale: la pianta, l'intero disegno restano quelli di NotreDame. La stessa disposizione si nota, nonostante qualche variante, nell'incantevole chiesa di Saint-Étienne-du-Mont.
La Francia, pur imitando molto, in quell'epoca tanto complessa, seppe restare sé stessa e non rinnegò la propria storia. D'altronde, tutte le critiche fatte contro il Rinascimento cadono quando si veda che quell'architettura fu veramente popolare; e con caratteri nazionali. Basta visitare i castelli della Loira, non soltanto i palazzi reali quali Blois e Chambord, ma specialmente le costruzioni private; basta vedere quel che si costruì in questa epoca in tutte le provincie, gl'innumerevoli "hotels" di Caen, di Rouen (casa Bourg-Théroulde), di Digione (casa Voguë, case della Rue des Forges), di Tolosa (casa Assézat, ecc.), d'Avignone, di Pézenas, e non si dubiterà che tanto slancio non avesse l'entusiastico assenso del pubblico. La Francia tutta aspirava all'ordine, alla tranquillità e così ricostruiva; né si può dubitare che la sua architettura non abbia allora il carattere francese. Nulla assomiglia meno di Fontainebleau a un palazzo fiorentino o romano.
Solo in un ramo delle arti il Rinascimento non fu sentito. La pittura francese del sec. XVI è anemica; il Primaticcio stesso non riuscì a formarvi buoni pittori. I Clouet (v.) e i loro emuli sono industriali del ritratto, disegnatori poverissimi se paragonati ai veri maestri. Il celebre Jean Cousin (v.) e suo figlio hanno maggior valore come arazzieri (Vita di San Mammete, a Langres) che come pittori. Così pure si dica di Antoine Caron, del Dubois, del Fréminet stesso e di T. Dubrueil, che formano la seconda "scuola di Fontainebleau". La scultura invece diede opere mirabili, come le Ninfe di Jean Goujon, nella Fontana degl'Innocenti (1549) o la tomba di Enrico II a Saint-Denis e quella del cancelliere di Birague (Louvre) di Germain Pilon. Certo, anche in queste opere il Rinascimento è costato qualcosa alla Francia: il sentimento, l'ingenuità che ancora verso il 1540 si scorgono nella leggiadra scuola di Troyes, e negli stalli dei cori d'Amiens (v.) e di Montréal (Yonne) non si ritroveranno più, inariditi come saranno in un freddo accademismo.
Formazione dell'arte classica. Versailles. - L'opera del Rinascimento fu ben presto compromessa e quasi annullata da trent'anni di discordie e di guerre religiose. Quando con Enrico IV tornò la pace, tutto era da rifare. E ancora una volta si dovette ricorrere all'Italia, come d'altronde faceva tutta l'Europa, poiché solo l'Italia possedeva maestri e modelli. Dal 1600 al 1660 la Francia, ancor più che al tempo dei Valois, può dirsi colonia artistica italiana. Mancando i maestri francesi, bisognò rivolgersi al Giambologna, per la statua equestre di Enrico IV, e a Daniele da Volterra per quella di Luigi XIII sorta sulla Place Royale. Per decorare la galleria del Petit-Louvre (sala degli antichi) e la galleria Mazzarino (Biblioteca Nazionale) fu necessario far venire l'allievo dei Carracci, il leggiadro Romanelli; invece la reggente, per le pitture del suo Lussemburgo, preferì chiamare il grande romano d'Anversa, il cavaliere Pietro Paolo Rubens. Inutile enumerare tutti gl'Italiani che vennero a Parigi al seguito di Maria de' Medici: il Concini, i Gondi, il cavalier Marino (l'Adone fu pubblicato a Parigi nel 1624), che indusse Nicolas Poussin a seguirlo in Italia, ingegneri, inventori di macchine, di giuochi d'acqua e giardini, i Ruggeri, i Francine, i Lulli, perfino il primo ministro Mazzarino. Gli artisti francesi sono in quest'epoca poco meno che italianizzati: Simon Vouet, N. Mignard, Ch. Le Brun, Ch.-A. Dufresnoy passarono vent'anni in Italia, il Poussin quaranta, Claude Lorrain quarantaquattro, cioè tutta la loro vita.
Specialmente l'architettura è completamente italiana. La cupola, apparsa finora solo per eccezione nella cappella d'Anet e sul mausoleo dei Valois a Saint-Denis, s'impone per tutto un secolo, quasi simbolo di Roma e del cattolicesimo; la prima compare nel 1620 ai carmelitani della Rue de Vaugirard, poi si ritrova a Saint-Paul, Saint-Louis, alla Visitazione di F. Mansart, alla Sorbona, sulla chiesa di Val-de-Grâce (dove P. Le Muet imitò la cupola di S. Maria della Salute), alle Quatre-Nations (Istituto), ecc.
La prima facciata costruita secondo il gusto italiano, con gli ordini sovrapposti, è quella di S. Gervaso (1617) di Salomon de Brosse; e il tipo ne resterà immutato fino alla facciata di S. Rocco, della metà del sec. XVIII. Il primo ciborio a baldacchino, imitato da quelli di S. Pietro, viene elevato in Val-de-Grâce: da esso derivano molti altri, ad es., quelli di Saintes e Angers. Il Palazzo del Lussemburgo, costruito da Salomon de Brosse per Maria de' Medici, è una replica dell'ordine rustico di Palazzo Pitti; la graziosa facciata ad emiciclo del collegio delle Quattro Nazioni elevato dal Le Vau per ordine di Mazzarino, deriva dalla chiesa di S. Agnese del Borromini.
Mai la Francia fu più italianizzata che in quell'epoca, né mai si costruì quanto allora. I due tratti caratteristici di quell'epoca sono: l'immensa attività degli ordini religiosi, che dappertutto fondano conventi, seminarî, noviziati, collegi; e la costruzione di un grandissimo numero di palazzi, per la nuova società. A Parigi sorgono interi quartieri (l'Île-de-Saint-Louis, il Marais). Il Palazzo di Rambouillet, ben noto per la sua importanza morale e letteraria, è come il simbolo di quell'attività. Notevoli poi, a Parigi, i palazzi Lambert, Lauzun, Lamoignon, di Châlon, ecc. In provincia si costruiscono innumerevoli castelli (più di duemila in Normandia): esempio, quello di Vaux-le-Vicomte (Senna e Marna) costruito da L. Le Vau nel 1654 per il soprintendente Fouquet.
Questo scopo pratico dell'architettura le imprime un colore che non è già più del tutto italiano. La Francia, malgrado gli elementi di origine italiana, non ha un vero e proprio barocco. Al barocco francese manca la fantasia, il capriccio, l'amabile delirio, il fascino dell'invenzione, in una parola la poesia che fa di certe facciate e cappelle romane, del Bernini, del Borromini o di Pietro da Cortona, una festa inesauribile. Prima di ogni cosa, la Francia chiede all'arte la regola, l'ordine, un aspetto distinto o una dignità elegante: le sono care soprattutto la simmetria, la misura, la regolarità. Esempio, le piazze circondate da palazzi uniformi: Place Dauphine (1605), Place Royale, Place des Victoires, Place Vendôme a Parigi; in provincia Rennes, Bordeaux, Lione, ecc., o la costruzione di nuove città in base a un piano teorico, come Richelieu o Charleville.
Si può dire che l'arte francese in quell'epoca sia un compromesso fra una concezione estetica e una politica. Quest'ultima si rivela chiaramente in un fatto d'importanza capitale: la fondazione dell'Accademia (1648). Le accademie erano una creazione italiana, differentissima dalle corporazioni e dalle gilde medievali. Divenendo francese, l'istituzione assume un nuovo carattere, diventa un'assemblea di professori incaricati dell'insegnamento, di fissare cioè regole o metodi, di definire lo scopo e le formule dell'arte, di promulgare una grammatica e una metrica; di redigere un codice delle consuetudini e una raccolta di esempî.
Le opere di Nicolas Poussin, note e ricercate a Parigi, possono definire quello che s'intendeva allora per virtù classiche. Il grande uomo, che viveva solitario a Roma, esercitava di lontano un'immensa autorità su tutta la Francia. Si apprezzava in lui soprattutto il pensatore cartesiano, il pittore ideologico, l'autore della Manna e dei Sette sacramenti; il vero artista, l'autore dei Baccanali, cioè uno dei più grandi lirici o elegiaci della pittura, non sembra fosse ben compreso.
I pittori di genere, come i fratelli Le Nain, gl'incisori come J. Callot e Abraham Bosse, restavano al difuori o in margine della cerchia classica; e anche l'amabile E. Le Sueur, il poetico decoratore dei saloni di palazzo Lambert, morto giovane, non senza appartenere all'Accademia. Verso il 1660, all'inizio del regno personale di Luigi XIV, rimase al governo delle arti Charles Le Brun, uomo di vaste vedute, temperamento dittatoriale: e, con il ministro Colbert, assunse la direzione dei lavori di Versailles. Versailles era la grande impresa del tempo. Nella grandiosa costruzione sono da distinguere: il piccolo castello di mattoni, già padiglione da caccia di Luigi XIII, la villa, specie di palazzo all'italiana, costruita da Louis Le Vau intorno al castello precedente (1665-69); il colossale palazzo di J. Hardouin Mansard (1672-80). Tutti concorsero all'opera: l'Accademia fornì i dirigenti; i Gobelins (manifattura dei mobili della Corona) impiegarono una squadra di specialisti, tappezzieri, orefici, ebanisti, fonditori, cesellatori: l'Accademia di Francia a Roma, fondata nel 1660, seminario di giovani artisti sottoposti a un severo regime, ebbe l'incarico di copiare opere antiche e moderne per ornare i giardini. Si voleva, a forza di metodo e disciplina, raggiungere lo scopo di nazionalizzare tutte le arti, facendo a meno del genio, poiché non sempre si può contare su esso, e dell'Italia, o almeno rendendosene sempre più indipendenti. Non si può negare che nell'insieme la meta non sia stata raggiunta. Nel gruppo degli artisti di Versailles si notano parecchi italiani (J.-B. Tuby, Domenico Guidi), e molti fiamminghi (van Obstal, van Clève, i fratelli Marsy, ecc.); ma sono tutti francesizzati. Il grande marsigliese Pierre Puget, oriundo genovese, l'autore delle magnifiche cariatidi di Tolone, non fu invece ammesso a Versailles; il suo Milone di Crotone, la sua Andromeda vi avrebbero stonato, sarebbero sembrati "barocchi". Fatto ancor più significativo: il Bernini stesso, chiamato a Parigi nel 1660 per disegnare il prospetto del Louvre, fu diplomaticamente eliminato dal Colbert e dal partito nazionale; nel 1670 il suo progetto fu sostituito dal famoso colonnato di Claude Perrault e nel 1686 il suo Luigi XIV equestre, splendido e lirico marmo, fu relegato all'estremità del laghetto degli Svizzeri, nel parco di Versailles.
Che anche a Versailles o al Louvre vi siano italianismi è evidente; basterebbe a rilevare l'influsso italiano la soppressione dei tetti, che fa pensare, secondo Saint Simon, a una casa "dont les combles auraient brûlé". Ma nell'insieme, Versailles, splendente scenografia di vittoria e d'apoteosi, affacciata sulle spianate, riflessa nei suoi bacini, in mezzo ai boschi, in una natura asservita, preceduta da un ventaglio di viali convergenti, è l'immagine sovrana della Francia classica.
Verso la fine del sec. XVII il lungo sforzo ebbe il suo coronamento: l'arte francese, padrona d'ogni mezzo e d'una tecnica perfetta, si esprime allora con la sua più pura grazia. Places des Victoires, Place Vendôme, il colonnato di Versailles (1699), ultime opere del Mansard, sono creazioni felici. Marly che le eclissava tutte, disgraziatamente non è più che un ricordo. Con gli allievi del Mansard, G.-G. Boffrand, J.-A. Gabriel, l'arte francese d'una sorridente grandiosità, adatta ai bisogni della vita, veramente parigina, sebbene in parte con influenze nordiche, s'emancipa del tutto dall'Italia, e comincia la conquista della provincia e dell'Europa. E si hanno le piazze reali di Rennes e Bordeaux, la porta di Francia a Lilla, il Peyrou a Montpellier, i giardini di La Fontaine a Nîmes, il palazzo di Rohan a Strasburgo (1730), i lavori delt Blondel a Metz, la piazza Stanislas a Nancy (1755), dovuta al Boffrand e al Heré, i castelli di Commercy e di Lunéville, innumerevoli case e castelli a Parigi e nelle provincie (Bordeaux, Montpellier, Aix-en-Provence) e in tutta la Renania. È un secondo periodo d'espansione che ricorda la gloria dell'arte gotica.
In pittura, i rivali o gli allievi del Le Brun, Mignard, La Fosse, Jouvenet, Coypel, F. Lemoine, F. de Troy ripetevano i Bolognesi o seguivano più o meno abilmente Pietro da Cortona. Ma il Watteau, morto nel 1721, trova un nuovo genere, da cavalletto, d'una esecuzione mirabile, di sentimento romantico, con un alito di poesia tra il sogno e la vita che può ricordare Giorgione. Non vide mai l'Italia, che fu per lui, come per lo Shakespeare, un sogno, un desiderio. La pittura s'adegua ormai alla vita privata, si fa intima, familiare; la grande decorazione rimanendo riservata agli arazzi col De Troy, col Natoire, col Boucher. L'istituzione regolare dei Salons dal 1737, le assicura il pubblico, la diffonde fra gli amatori; si forma infine l'atmosfera adatta alla pittura di genere. Nei Salons si forma la fama del Chardin, del Greuze, del Boucher, del Fragonard, di ritrattisti come il Tocqué, il La Tour, l'Aved, di paesisti come il Vernet. La scultura, più lentamente, seguiva lo stesso indirizzo delle altre arti. Non più tracce d'italianismo nell'incantevole Duchessa di Borgogna di A. Coysevox (1712), nel Bagno delle ninfe del Girardon, nei busti di J.-B. Lemoyne, nelle potenti opere di J.-B. Pigalle e di E. Bouchardon, il quale nella Fontana di via Grenelle (1739) riprende un modo di rilievo (rinnovando J. Goujon) che sarà poi quello di Cl.-M. Clodion.
La reazione neoclassica. Rivoluzione. Impero. - Nel 1737 si iniziavano i primi scavi d'Ercolano, che il Caylus (v.) fece ben presto conoscere in Francia; poco dopo avveniva il memorabile ritrovamento dei templi di Pesto. Quelle scoperte furono il segnale di una reazione generale, fecondissima di conseguenze, alla quale vanno uniti i nomi del Winckelmann e del Lessing.
Il barocco aveva avuto poca fortuna in Francia; la rocaille o il rococò erano serviti solo a decorare gl'interni, nei rivestimenti di legno e nei mobili, alterando ben poco le grandi linee dell'architettura. Ma anche in questo poco si vide una corruzione, un'offesa al gusto. Già Ch.-N. Cochin (v.), nella sua Supplication aux orfèvres (1755), predicando la semplicità, protestava contro le linee ondeggianti, serpentine, capricciose e manierate.
Il ritorno alla grandiosità, alle linee pure si nota in due importanti edifici del tempo: la facciata di Saint-Sulpice 1733-45) dell'italiano G. G. Servandoni, e la Sante-Geneviève (il Pantheon) di J.-G. Soufflot (1757-64); le colonne vi riprendono la funzione perduta da due secoli. La prima di queste costruzioni s'ispira ai prospetti del Laterano, e la seconda, per l'interno, ai modelli del Vanvitelli come Santa Maria degli Angeli, e poiché il secolo XVIII era l'epoca dell'anglomania, anche al S. Paolo del Wren.
Parlando di questo secolo, si ricorre troppo alle opere secondarie, al Piccolo Trianon (1763), alle Bagatelles di Fr.-J. Bélanger (1786), alle fantasie neoclassiche che popolano i giardini "all'inglese". Si dimentica che quello fu anche il secolo dell'Enciclopedia, dei vasti programmi architettonici e urbanistici. A tali concetti s'ispira l'opera grandiosa di J. A. Gabriel, la piazza Luigi XV (1757; oggi piazza della Concordia), la prima concepita con criterî moderni. Lo stesso carattere di grazia maestosa si trova in altre opere del Gabriel: la scuola militare (1755), il castello di Compiègne, il teatro di Versailles (1770); e in molte altre costruzioni dello scorcio di quel secolo: teatri di Bordeaux del Louis, e di Besançon del Ledoux; nell'Odéon del Wailly, nell'Hôtel des monnaies dell'Antoine, nella Scuola di medicina, ecc.
La Rivoluzione non spezzò il gusto dominante; e tranne qualche sfumatura, lo stile rimase inalterato fino alla metà del secolo scorso. L'architettura religiosa, in ossequio alla purezza antica, ritornò al tipo basilicale. Da Saint-Philippe-du-Roule, di Fr. Chalgrin (1783), a Notre-Dame de Lorette, di H. Lebas (1823), a Saint-Denis du Sacrement, del Godde (1835) e a Saint-Vincent de Paul persiste un identico schema. La chiesa di Chesnay, presso Versailles, quella di Saint-Germainen-Laye, Saint-Pierre du Gros-Caillou, a Parigi, tutte della stessa epoca, sono anche esse basilicali. La Madeleine, di Constant d'Ivry e P. Vignon, eretta quale tempio dedicato alla Gloria, fu imitata dal Partenone. Il cieco culto dell'antichità fece concepire costruzioni astratte, senza guardare al loro scopo; così H.-Th. Brongniart (1808) costruì la Borsa, che fu considerata ai suoi tempi come il più bell'edificio di Parigi. All'ossessione dell'antico che ebbero gli uomini dell'Impero, si devono due specie di monumenti: gli archi di trionfo e le colonne commemorative. L'Arco di trionfo del Carrousel, di Ch. Percier (1812), è una graziosa composizione derivata dall'Arco di Tito, ornata da numerose sculture di Cl.-M. Clodion e di J. Chinard; quello di Marsiglia, di M.-R. Penchaud, è una replica del primo, elevata dal partito legittimista. Ma l'Arco di trionfo per antonomasia, è quello dell'Étoile, a Parigi, dovuto al Chalgrin (1806-12); la colonna di Place Vendôme, del Goudouin (1806-1812), è un'imitazione in bronzo della Colonna Traiana; da essa derivano quella di Boulogne, di F. J. Bosio, la Colonna di Luglio, di J.-L. Duc (1835), ecc. Accanto a questi monumenti celebrativi, è da ricordare la cappella espiatoria, del Percier (1822), elevata sulla sepoltura della famiglia di Luigi XVI.
La scultura fu anch'essa tutta classicheggiante. Notevoli i bassorilievi di P.-Fr. Berruer nella Scuola di medicina e quelli del Moitte nel palazzo di Salm (oggi della Legion d'onore). Uno dei tratti caratteristici dell'epoca era il formarsi d'un nuovo pantheon, di un'agiografia laica ispirata a Plutarco, d'una religione umanitaria basata sul culto dei grandi uomini: lo scultore massimo fu J. A. Houdon, con la serie incomparabile dei suoi busti e col suo capolavoro, il Voltaire della Comédie-Française (1778). Ad egual sentimemo si devono il Descartes, il Bossuet, il Pascal di A. Pajou, il Fénelon di F. Lecomte, il Montesquieu del Clodion, il Racine di L.-S. Boizot, il Sully del Mouchy, il D'Aguesseau del Berruer, ecc.; più tardi il Vergniaud di P. Cartellier, il Maresciallo Ney di Fr. Rude, la serie delle vecchie statue del ponte della Concordia, a lungo confinate nel cortile di Versailles, e infine tutta l'opera di David d'Angers, riassunta nel suo famoso frontone del Pantheon.
La pittura si conclude tutta in un nome: J.-L. David (v.). Per quarant'anni, l'autore del Belisario (1785), di Socrate, degli Orazî (1787), delle Sabine (1800), di Leonida (1812), dell'Incoronazione dell'imperatore e della Distribuzione delle Aquile fu senza contrasto il re e il tiranno della pittura. Il suo esempio e gli allievi Guérin, A.-L. Girodet, Fr. Gérard, A.-G. Gros, assicurarono il trionfo delle idee del Winckelmann. Per mezzo secolo il dispotismo dell'antico s'impose alle arti. Ma il rigore stesso dell'accademismo provocò una focosa reazione, il Romanticismo.
Romanticismo e naturalismo. - Nella pittura, che in Francia aveva una grande fioritura, il primo segnale del Romanticismo fu dato fin dal 1812 da J.-L.-A. Géricault, il cui Radeau de la Méduse (1818) appassionò pubblico e artisti. Non è il caso d'insistere sulla lunga rivalità dell'Ingres e del Delacroix. Il primo dopo aver passato vent'anni in Italia, vi ritornò come direttore di Villa Medici: egli era un disegnatore mirabile, dotato d'uno squisito senso della forma e della bellezza. L'altro, più tormentato, più inquieto, nutrito delle letture di Dante, Byron, Goethe e Walter Scott, fu in fondo il vero classico; il viaggio al Marocco (1832) gli rivelò un'immagine viva dell'antico, ch'egli applicò nelle sue grandi opere decorative alla Camera dei deputati (1833-47), al Senato, al Louvre (Galleria d'Apollo), nella cappella degli angeli a Saint-Sulpice (1859) e in alcuni magnifici quadri, come la Medea di Lilla e la Giustizia di Traiano del museo di Rouen. Degno di succedergli poteva essere Théodore Chassériau, se la morte non l'avesse colto a trentasette anni. Sotto la Restaurazione la pittura si esplicò in due grandi imprese: la decorazione dei monumenti pubblici (soffitti del Louvre e dell'Hôtel de ville, Galleria delle battaglie nel museo di Versailles), alla quale si dedicarono Ary Scheffer, Horace Vernet, A. de Châtillon, L. Boulanger, ecc.; e quella delle chiese parigine e di provincia, dove lavorarono specialmente gli allievi dell'Ingres, E.-É. Amaury-Duval, il Mottez, l'Orsel, il Janmot, H. Flandrin.
Due importanti avvenimenti avevano concorso al rinnovamento della pittura: le campagne d'Egitto, di Morea e d'Algeria, che fanno nascere l'orientalismo (E. Delacroix, A.-G. Decamps, P. Marilhat, A. Dauzats, A. Dehodencq, E. Fromentin, ecc.), mentre un'altra brigata d'artisti scopriva il paesaggio moderno. In quest'ultimo movimento si distinsero due tendenze: un gruppo, da connettere con la scuola anglo-olandese, sulle orme di Louis Moreau e di Georges Michel andò alla scoperta della natura dei dintorni di Parigi: ad essa appartennero il Flers, il Cabat, il Dupré, il Diaz e sopra tutti Th. Rousseau, che formarono verso il 1830 il gruppo detto di Barbizon (v.). Gli altri, seguendo il Bertin, l'Aligny, il Michallon, rimasero fedeli alla campagna romana. J.-B. Corot è l'anello di congiunzione tra i due gruppi. Il Corot trasse molti temi dall'Italia; di suo mise l'angelica sensibilità, la grazia e la freschezza che lo rendono uno dei più magici, uno dei più poetici paesisti.
Fra i tanti dubbî risultati ottenuti dal Romanticismo, il paesaggio, riaccostando la pittura alla realtà, fu una conquista duratura. Lo stesso scopo raggiungevano, dal canto loro, il pamphlet illustrato, la "commedia umana" del Daumier e del Gavarni. Tutti sentivano il disgusto delle teorie, il bisogno di vivere. Sebbene la sommossa popolare del 1848 fosse ancora romanticismo, essa ebbe per effetto di relegare gli scenarî del Medioevo cari ai romantici accanto a quelli classicheggianti del David. Col 1849 i soggetti campagnoli di J. F. Millet (Contadino che zappa, Il vagliatore, l'Angelus, ecc.) ebbero immensa risonanza, cambiarono l'atmosfera degl'idillî rustici, rinnovandone per sempre i soggetti. Il Millet metteva nella sua pittura terrosa un soffio biblico e georgico. Nel 1850 il Funerale a Ornans di Gustave Courbet, non meno del suo Atelier nel 1855, lanciarono il manifesto del naturalismo. Il potente maestro compì nella pittura una rivoluzione paragonabile a quella del Caravaggio, ma in condizioni più favorevoli e tali che, nel passato, si erano presentate solo per il Velásquez e il Goya. Soppresse tutte le vecchie ideologie, la pittura non fu più che lo specchio dell'universo attraverso le sensazioni dell'artista. E queste sensazioni divennero tutta la realtà.
L'impressionismo. - Dal 1860 la pittura è quasi completamente dominata dal Corot, morto nel 1870, e soprattutto dal Courbet e dalla scuola spagnola, formata da L. J. F. Bonnat, da Th.-A. Ribot, da A. Legros, da J. P. Laurens, ecc. Rimasero isolate la pittura storica, derivata dagli Olandesi e da Paul Delaroche, i cui maggiori rappresentanti furono J.-L.-E. Meissonnier, J.-L. Gérome, É. Detaille, e che ebbe un enorme successo anche per l'interesse patriottico che suscitava; e una pittura accademica, niente affatto trascurabile, rappresentata da A. Cabanel, da Élie Delaunay, da P. Baudry, che dipinse il ridotto dell'Opera; essa è continuata poi da A. Besnard. Solitarî rimasero G. Moreau e Puvis de Chavannes.
L'interesse della storia della pittura si concentra soprattutto sui paesisti - Ch.-F. Daubigny (v.), il Lépine, E. Boudin, Jo.-B. Jongkind - e sui seguaci del Courbet. Cinque o sei maestri quasi coetanei, dai venti ai trent'anni nel 1860 - E. Manet (v.), H.-G.-E. Degas (v.), Cl. Monet (v.), il Bazille, P.-A. Renoir (v.), Th. Fantin-Latour, ritratti da quest'ultimo nel 1870 nel quadro Uno studio a Batignolles - formano un gruppo celebre. Il Manet ne fu il capo: fin dall'inizio (Colazione sull'erba, 1861; Olimpia, 1863) s'annunzia dotato d'un altissimo senso dello stile. Dal 1873, gl'indipendenti, venuti un po' da tutti i punti dell'orizzonte, si riunirono per esporre, al difuori dei Salons sotto il nome di gruppo impressionista; nome ispirato ad un quadro del Monet intitolato Impressione. L'ultima di queste esposizioni fu tenuta nel 1886. Si creò una specie di bottega, di laboratorio i cui componenti si votarono ad un lavoro concorde: si trattava non solamente di rinnovare i soggetti, ma il vocabolario stesso dell'arte, di rifonderne tutte le espressioni, di eliminare ogni retorica, di controllare tutti gli elementi del colore e del disegno. Nel corso di qualche anno si assisté così al totale rinnovamento delle forme. I prodigiosi studî d'un Degas sul movimento (cavalli, fantini, danzatrici, donne alla toletta) non hanno eguali dopo le analisi d'un Leonardo o d'un Pollaiolo; quelli del Monet sulla luce e l'atmosfera lasciano ben lontane le audacie cromatiche del Turner. Il Renoir s'impone specialmente per il lirismo, l'ingenuo sentimento, la tenerezza voluttuosa. Il Pissaro, il Raffaelli, il Caillebotte e sopra tutti l'incantevole Berthe Morizot completano l'ammirevole gruppo. La violenta decomposizione del tono, che era da quindici anni scopo precipuo del Degas e ancor più del Monet, divenne col Signac e col Seurat (morto nel 1892) il principio d'una specie di ricostruzione matematica; questi maestri cercano di dipingere con elementi di colore puri, come facevano gli antichi mosaicisti. Apparivano nello stesso tempo le prime ricerche astratte di equilibrî e di ritmi. Si voleva fuggire la volgarità, l'imitazione, il trucco, la copia della natura, e cambiare la rappresentazione in uno spettacolo d'arte. Intanto Paul Gauguin (morto nel 1903) e Vincent van Gogh (morto nel 1890) applicarono a grandi superficie il principio del colore puro e ricostituirono nel disegno delle figure la linea di contorno usata dagli antichi pittori di vetrate. In quella nuova arte geometrica appaiono già, in certe tele del Seurat (per es., Chahut, 1888), i germi del cubismo.
D'altra parte alcuni pittori, condannando quel che l'impressionismo aveva di troppo appariscente, bandivano il colore, rifugiandosi nella penombra e in un sordo chiaroscuro, dominio del pensiero e del sentimento (Eugène Carrière, Charles Cottet, R. Ménard). Altri infine, in disparte dal gruppo impressionista, cercavano solitarî le vie di un'arte classica ed eterna, quale si ritrova nei musei: così Odilon Redon, che in un fiore o in una conchiglia seppe spesso mettere tanta poesia, o il Cros, che raggiunse talvolta la grandezza degli affreschi, o il migliore di tutti, il provenzale Paul Cézanne (v.), geniale e timido, paziente e umile, maldestro e potente come un antico scultore romanico, che talvolta riuscì a eguagliare la nobiltà del Poussin (v. impressionismo).
Architettura e scultura moderna. - La scultura seguì con qualche ritardo il cammino della pittura. La scuola accademica vi durò più a lungo con il grazioso J. Pradier e i suoi rivali A.-A. Préault, É.-H. Maindron. Ma i due grandi artisti dell'epoca furono il borgognone François Rude, autore dell'epico bassorilievo dell'Arco di trionfo (1845), e il possente A.-L. Barye (v.), modellatore di splendidi animali. Con l'Ugolino di J.-B. Carpeaux (v.; 1861) appare il naturalismo integrale nella scultura francese. Il suo gruppo della Danza (1869), sulla facciata dell'Opéra, provocò uno scandalo. Ma A. Rodin (v.), che esordì nel 1864, doveva sorpassare la gloria del Carpeaux: con Età del bronzo (1878) e il San Giovanni Battista (1882) iniziò una vita di battaglie, dalle quali doveva escire una vecchiezza trionfante, circondata da una fama che nessun artista aveva conosciuto dopo Canova. La sua fama parve gettare nell'ombra tutte le glorie contemporanee, quelle dei delicati neo-fiorentini (Paul Dubois, Antoine Mercié), quella stessa di maestri vigorosi come J. Dalou (v.) e E. Frémiet (v.). Finché visse, non vi fu posto che per lui; soltanto dopo la sua morte si notò che egli non aveva potuto completare alcuno dei monumenti cominciati e non lasciava altro che nobili ruderi. Una reazione doveva seguirne contro i metodi che l'avevano sviato: si manifestò con l'Eracle (1907) e il Centauro (1912) d'Antoine Bourdelle. Ma i monumenti dello stesso Bourdelle (Alvear, 1924; Mickiewicz, 1929) non sfuggono alla critica. Maggior gusto, sentimento più puro, atticismo più naturale si ritrovano nelle opere di Aristide Maillol, mentre un Charles Despiau (v.) ritrova senza sforzo la bellezza francese delle statue del secolo XIII.
L'architettura è l'arte che ha più sofferto del Romanticismo. Grave danno le arrecò l'archeologia. Carichi di storia e di ricordi, gli artisti per molto tempo dimenticano cosa significhi creare: le loro opere non furono che un centone di stili del passato. La moda del Medioevo li condusse dapprima ad una incresciosa imitazione dei monumenti gotici. Alcuni si fermarono al Rinascimento (chiesa della Trinità, di Th. Ballu; palazzo Paiva; palazzi del parco Monceau). Contemporaneamente, con le prime costruzioni industriali, nasceva l'architettura del ferro (Ponte delle arti, 1810; Grande galleria del Louvre, di Ch. Percier, 1809). Le Halles di L.-P. Baltard (1859) e la grande sala di H. P. Fr. Labrouste nella Biblioteca Nazionale (1875) sono opere capitali di questo nuovo sistema, come la stazione del Nord di J.-I. Hittorff. Fra le maggiori imprese del sec. XIX in Francia fu la trasformazione di Parigi compiuta su progetti del barone E.-G. Haussmann. Purtroppo quei progetti riguardavano più il movimento stradale e il commercio che l'arte; nondimeno ad essi è dovuto l'aspettto moderno di Parigi, la sistemazione dei boschi di Boulogne e di Vincennes, dei parchi di Monceau, Montsouris e delle Buttes-Chaumont. A quei lavori si ricollega il compimento del Louvre in costruzione già da tre secoli. Il solo monumento nuovo di prim'ordine fu l'Opéra di Charles Garnier (1860-73), edificio pomposo e composito, d'un lusso da nuovi ricchi, come la società che rappresenta; non gli si può tuttavia contestare l'ingegnosità della pianta e della composizione. Con la cattedrale di Marsiglia, di L. Vaudoyer, con quelle d'Algeri e Orano, con la chiesa di Sant'Agostino, del Baltard, e soprattutto con le basiliche di Fourvière, di Notre-Dame de la Garde e del Sacro Cuore, l'architettura religiosa ha fatto grandi sforzi. Ma tutte queste opere esitano fra due stili d'altri tempi, bizantino o romanico, e nessuna vale l'incantevole chiesa di Montrouge, di J.-A.-É. Vaudremer. Sullo scorcio del secolo si poté credere al trionfo dell'ingegnere sull'architetto dinnanzi ai lavori dell'Eiffel, come il ponte dei Garabit e la torre di trecento metri: e conseguenza di quell'errore fu il Grand-Palais dei Champs Élisées (1900).
L'architettura periva a causa della banalità della decorazione. Intelletti geniali (É. Gallée, Chaplet, R. Lalique), vetrai, figurinai, gioiellieri, inventarono frattanto una nuova ingegnosa arte decorativa, che fu conosciuta verso il 1900, sotto il nome di "arte nuova" o di "stile moderno". Essa produsse ninnoli squisiti, ma non un vero mobile, e ancor meno una facciata.
L'arte aveva bisogno di una cura, di una quaresima di ornamenti: si doveva apprendere di nuovo a costruire prima di decorare. Un materiale nuovo, il cemento armato, offriva un nuovo campo alla esperienza. Un grande artista, Auguste Perret, se ne impadronì. Il suo Teatro dei Champs Élisées (1912), di linee così semplici e così potenti, fu il manifesto della nuova scuola. La chiesa di Notre-Dame du Raincy, dello stesso autore (1923), ne è fino ad oggi senza dubbio l'espressione più brillante: l'immenso edificio traforato, ottenuto con metodi modernissimi, eguaglia le estreme arditezze gotiche. Il linguaggio vi è moderno, lo spirito è quello della Sainte-Chapelle.
I contemporanei. Conclusione. - Dopo il 1900 la pittura indipendente continuò nella bizzarra avventura intellettuale cominciata con le esperienze dell'impressionismo. È difficile tracciare in poche linee una storia cosî complessa. Nella generazione degli anziani, due importanti maestri, Maurice Denis e G. Desvallières rappresentano, sebbene con diverso talento, la grande tradizione della Chiesa e dell'umanesimo. I loro coetanei, Vuillard, P. Bonnard, sono epigoni raffinati di Degas, di Renoir. Albert Marquet, X. K. Roussel, squisiti paesisti, sanno mettere nelle loro tele qualche cosa della musica d'un Debussy.
Ma da trent'anni la pittura è stata soprattutto commossa, quasi turbata da Henry Matisse e dallo spagnolo Picasso: due uomini prodigiosamente intelligenti che hanno lanciato, prodigato e logorato più formule che nessun altro maestro. Già il Gauguin, nel suo disprezzo per il naturalismo e nella sua passione per le arti semplici e primitive, era salito ai calvarî bretoni, agl'idoli maori. Il gusto della stilizzazione diffuse verso il 1905 la moda dell'arte negra. D'astrazione in astrazione, la pittura rifece in qualche anno il cammino percorso attraverso i secoli, dai tempi delle caverne fino a giungere al disseccamento, ai segni e agli schemi dell'arte geometrica. Fu l'epoca del cubismo, che imperversò dal 1910 fin verso il 1920, e che lascerà almeno un'arte decorativa (stoffe, carte da parati) e alcune gustose ed equilibrate opere di Georges Braque.
Dopo questa singolare crisi si manifestò in alcuni giovani artisti un nuovo accademismo, talvolta ispirato a David (André Lhôte, il Depas, J. Despuiols, il Poughéon). Altri, come il Bonhomme, G. Rouault, M. Gromaire, continuano il fauvisme e si riattaccano al Daumier o all'espressionismo dei pittori di vetrate. Tutti questi diversi movimenti, questa libertà d'osare, fanno di Parigi un centro preferito, un luogo di convegno degli artisti stranieri, che vi sentono un'ebbrezza, un'esaltazione spirituale, un'atmosfera elettrica. Così si può incontrarvi gl'Italiani Modigliani e G. De Chirico a fianco dei polacchi Zak e E. Kissling e specialmente d'un gran numero di russi come il Pascin e Marc Chagall.
Non è facile dire quale scelta farà l'avvenire in un simile caos. Sembra nondimeno che nell'insieme la gioventù francese, diffidente delle teorie e delle inutili ambizioni, si contenti oggi di tornare ad imparare a dipingere con coscienza. Certi paesaggi di M. Utrillo o del Waroquier, che spesso visitò l'Italia, certe figure di Othon Friesz, di Segonzac, di L. A. Moreau, certe scene familiari di Jean Marchand o di M. Asselin sono opere forti e tranquille, chiare e armoniose, che s'innestano con onore nella grande tradizione di Cézanne e di Chardin.
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Musica.
Il Medioevo. - Musica profana. - Lo splendore più vivo della musica francese si ebbe nel Medioevo insieme col fiorire della scultura e dell'architettura nel sec. XII e nel XIII. Già nel sec. X la musica era in grande onore presso monasteri e chiese: centri principali, S. Marziale di Limoges, Rouen, Saint-Denis, Soissons, Parigi e Reims, dove Gerberto (poi papa Silvestro II), rettore di quella celebre Schola, verso il 980 si occupava di perfezionare gli organi: tra i suoi discepoli fu il re Roberto il Pio. Baudry di Dol si occupò anch'egli della costruzione degli organi; nell'abbazia di Fécamp l'abate Guglielmo di Digione istituì la prima confraternita di jongleurs, che suonavano durante l'ufficiatura dei monaci; anche a Fécamp s'iniziò la pratica d'una nuova specie di organum, nel quale, abbandonata la diafonia, una delle voci svolgeva lunghi vocalizzi mentre l'altra (spesso affidata all'organo) eseguiva a note lunghe la parte del tenor. La notazione dei canti gregoriani (forse sotto l'influenza della scuola parigina) divenne più precisa mediante l'adozione del rigo; riforma ch'ebbe ardente propagatore Guido d'Arezzo (v.). Altri progressi furono compiuti nel sec. XI.
In margine della musica religiosa si sviluppava intanto la profana. Le prime canzoni che abbiamo risalgono al secolo XI ed hanno testo latino; per lo più canti goliardici celebranti la primavera e l'amore. Col fiorire delle lingue d'oc e d' oil, fioriscono poesia e musica: canzoni in forma di pastourelle, di sirventese, di jeu parti, si cantano ora su un'aria già conosciuta, ora su un'aria nuova trovata dall'autore. Trovatori e trovieri talvolta eseguiscono le proprie canzoni, più spesso le fanno eseguire da professionisti pagati, i jongleurs. Più tardi alcuni giullari divengono trovatori.
Nulla ci rimane dell'opera musicale di Guglielmo IX, conte di Poitiers e sono andate perdute le opere profane di Abelardo, al quale però è attribuita quella deliziosa prosa d'intonazione popolaresca, Mittit ad Virginem la cui melodia servì a tante strofette francesi. Trovieri e trovatori componevano anche canzoni a ballo che spesso si eseguivano sugli strumenti: carole, rondelli, ballate (con ripresa corale del ritornello), stampite, branles, virelais, ecc. Pochissimo anche è rimasto della produzione considerevole dei trovatori del sec. XII: Bernard de Ventadour, Rambaud de Vaqueiras, Jaufré Rudel, Marcabru, Gaucelm Faidit; mentre le poche canzoni rimaste dei trovieri più antichi (Gace Brulé, il castellano di Coucy, Conon de Béthune, Huon d'Oisy, Blondeau de Nesle, Gautier de Dargies, Montot d'Arras, Regnault), manifestano ingegno poetico e sono d'una deliziosa freschezza melodica.
Tutte queste canzoni, in cui il ritmo della melodia risponde a quello del verso, si cantano su tre modi ritmici: il primo, composto di trochei, e il secondo, di giambi, si compongono in una misura a tre tempi; il terzo, formato di gruppi trisillabi, corrisponde al nostro 6/4.
Al principio del sec. XIII assistiamo a una fioritura magnifica. È il tempo in cui Perotino il Grande inizia l'arte polifonica. Trovatori e trovieri però si contentano di purificare lo stile dei loro antecessori in un'arte meno potente, ma più cesellata e preziosa. Fra tutti si distingue il gruppo dei trovieri di Arras: Gauthier de Coincy nei Miracles de Notre-Dame inserisce una serie di canti religiosi, parte suoi, parte da lui adattati su nuovi testi, e meravigliosi per ingenua grazia. L'ultimo dei grandi trovatori, Guiraut Riquier, che viaggiò in paese "saraceno", trova accenti melodici d'un colorito tutto orientale. Maggiore la commozione e la grandiosità nei maestri del Mezzogiorno che in quelli del Nord, raggruppati intorno a Thibaut de Champagne (1201-1253), e amanti per lo più di canzoni snelle e vivaci. Citeremo Jean Bretel, Jehannet de l'Escurel, il celebre Gobbo di Arras, Adam de la Halle; i quali ultimi praticano lo stile polifonico. L'influenza dell'arte dei trovieri e dei trovatori si fa sentire in tutta Europa; Alfonso il Saggio di Castiglia compone canti di stile trovadorico e ospita Guillaume Riquier; in Italia si cantano dovunque le canzoni venute di Francia, pur rinnovandole secondo il genio melodico nazionale; in Germania i Minnesänger adottano la notazione dei trovieri francesi, quando in Francia essa è già abbandonata da tempo.
Musica sacra. - Nel sec. XII, appare in Francia il discanto, che al moto parallelo sostituisce il moto contrario. La seconda voce si avvia a maggiore indipendenza e sovrappone al canto principale veri e proprî melismi e ornamentazioni. Anche in questo tempo si comincia a praticare il falso bordone (inventato forse in Inghilterra) con le sue successioni di seste e terze. L'idea di comporre a più parti può certo esser derivata a Perotino dai canti importati in Francia da Inglesi alunni delle scuole parigine; ma in concreto lo stile di Perotino non assomiglia affatto al modo di cantare degl'Inglesi d'allora, e anzi l'arte inglese si affretta a imitare le sue innovazioni. Non si dimentichi che Perotino come il suo predecessore Leonino era organista e l'organo è lo strumento polifonico per eccellenza. Egli si valse di tutte le possibilità delle tecniche anteriori (organum, discanto, falso bordone); egli determinò le leggi concernenti il rapporto dei diversi intervalli e trovò una notazione che precisa il valore assoluto d'ogni nota e che, variamente perfezionata, è la base della notazione moderna. Dopo Perotino, l'Ars nova, in continua evoluzione, attira a Parigi i musicisti di tutta Europa. L'organista Pierre de la Croix (Petrus de Cruce), i due Franconi, Philippe de Vitry e Jean de Muris perfezionano ancora la notazione. Guillaume de Machaut riassume, continua e conclude l'opera dei trovieri e dei primi polifonisti; la sua opera geniale e feconda ispira i musicisti del sec. XV, e la sua Messa, monumento del genio musicale gotico, diventa il modello delle messe scritte nel secolo successivo.
Dal sec. XV al XVII. - La canzone e l'aria. - L'egemonia musicale passa alle Fiandre, dove i compositori fiamminghi, che risentono, tra gli altri, l'influsso della Cappella del re di Francia e di quella di Borgogna, compongono quasi tutte le loro canzoni profane su parole francesi. Alla scuola fiamminga appartennero anche i francesi Antoine de Févin di Orléans, Carpentras, Gascogne, Moulu. Sono da ricordare altresì tra i maestri della scuola franco-fiamminga Antoine Brumel, Loyset Compère, Clemens non Papa, Busnois, Pierre de la Rue. La maggior parte di questi musicisti, oltre a comporre pagine su testi sacri, illustravano la chanson française, ch'ebbe gran voga anche in Italia, e nella quale l'indipendenza delle voci è ottenuta senza nuocere all'effetto d'insieme e alla vivacità del ritmo. Questo genere, creato dai maestri del Nord, giunge all'apogeo a Parigi, a metà del '500, diventandovi descrittivo, satirico, in un lirismo popolareggiante. Il grande maestro della canzone francese è Clément Jannequin, le cui meravigliose sinfonie vocali: La battaglia di Marignano; Il canto degli uccelli; Le grida di Parigi; Il cicaleccio delle donne, ebbero successo enorme e furono imitate anche in Italia. Queste composizioni, piene di vivacità e di brio, hanno pagine di sentimento delicato e talvolta accenti eroici, e sono molto caratteristiche del temperamento francese. Altri musicisti che coltivarono questo genere sono Claudin de Sermisy, il delizioso G. Costeley, dalle trovate melodiche sorprendenti, de Bussy, Antoine de Bertrand, J. Bony, Carton, G. Arcadelt, La Grotte, Millot, Roussel, François Regnard, ecc.
Sotto l'influenza dei poeti umanisti della corte, Ronsard e Baïf, e dei madrigalisti italiani, la canzone francese divenne più dotta e più preziosa. La musica e la poesia erano considerate come due arti sorelle, indispensabili l'una all'altra; questa tendenza estetica condusse Antoine de Baïf a creare la "musica misurata" all'antica, che seguiva fedelmente i metri dei versi. In questo nuovo genere si segnalarono Claude le Jeune, famoso per i suoi salmi e la sua messa, Jacques Mauduit, F. Du Caurroy, Thibault de Courville. Questa innovazione ebbe grande influenza sull'ulteriore sviluppo della musica vocale in Francia e suscitò curiosità all'estero. Anche Monteverdi imitò questo genere nei suoi Scherzi musicali. Alla loro volta le arie misurate, abituando l'orecchio a ritmi più liberi, condussero a poco a poco i musicisti alla forma della cosiddetta aria di corte (air de cour) melodia lirica per lo più di carattere melanconico ed elegiaco, che alla fine del sec. XVI diventa una vera monodia. Fra gli autori di quest'ultima forma si distinguono Jacques Mauduit, Gabriel Bataille, specie Guédron e Antoine Boisset, Moulinié, Louis de Rigaud, F. de Chancy, Chevalier.
La forma melodica è spesso molto bella; caratteristica di queste arie è poi l'instabilità del ritmo che oscilla sempre tra i 3/4, i 4/4, i 2/4, i 6/4; prosodia e accento tonico sono del pari trascurati, soprattutto al principio del sec. XVII. In origine le arie di corte erano a quattro voci, ma ben presto si prese l'abitudine di cantare solamente la parte superiore, riducendo le altre per liuto; e così adattate si cominciarono a pubblicare dal 1571 dagli editori parigini Adrien Le Roy e Robert: Ballard.
Questi stessi autori scrissero anche i récits (declamati) per i balletti di corte, genere drammatico nato in Francia nel 1581 dagli sforzi compiuti dagli umanisti e dai poeti per ricostruire la tragedia greca. Rapidamente sviluppatosi, nel sec. XVII esso comprendeva un gran numero di declamati monodici, di arie e di cori, uniti alle pantomime e alle danze. Guédron scrisse per l'Alcine (1609), la Délivrance de Renaud (1617), Tancrède dans la forêt enchantee, Psyché, declamati di grande forza drammatica. Un altro genere, non meno caratteristico, è costituito dalla chanson à boire e dalla chanson à danser; molte, ispirandosi nei ritmi e nelle melodie ai canti popolari, ne composero Chancy, Sauvage, de Rosiers, Jean Boyer, Guillaume Michel, Louis de Mollier, ecc. Gli ultimi compositori di arie di corte furono Le Camus, Bénigne de Bacilly e Michel Lambert, che già annunzia per molti tratti il Lulli; la moda delle chansons à boire continuò per tutto il sec. XVII e il XVIII.
La musica sacra. - In confronto con le scuole fiamminghe del sec. XV e italiane del XVI, la scuola francese del Rinascimento, eccettuata l'opera geniale del vallone Orlando di Lasso, sembra un po' povera; solo ora si cominciano a pubblicare le messe e i mottetti di questa scuola. Tra i maestri francesi vanno ricordati: P. Cadeac, N. Gombert, Manchicourt, Mouton, Claudin de Sermisy, e poi Claude Certon, P. Clereau, Jannequin, Claude le Jeune, e C. Goudimel, che armonizzò le melodie d'origine popolare, sulle quali i riformati francesi cantavano i salmi nella versione poetica di Clément Marot e Th. de Bèze. Anche Claude le Jeune e P. Certon composero dei salmi.
La musica strumentale. - I liutisti francesi, discepoli degl'italiani Francesco da Milano e Alberto Rippe, si accontentarono dapprima di trascrivere per liuto danze e canzoni vocali. Guillaume Morlay, Varlet e poi J. B. Bésard e Antoine Francisque pubblicarono nelle loro intavolature molte di queste trascrizioni e qualche pezzo originale: fantasie, preludî, branles, gagliarde, volte, pavane, ecc. La grande scuola di liuto fiorisce in Francia tra il 1620 e il 1680, e la sua produzione è caratterizzata, come già nelle arie di corte, da un sentimento elegiaco, sognatore e melanconico. Salvo qualche danza vivace, le intavolature del sec. XVII contengono soprattutto dei lenti e gravi, preludî (senza misura stabilita e con ritmi instabili), tombeaux (brani funebri), sarabande, ecc., già liberi dal dominio italiano. I più celebri liutisti francesi furono i due Gautier, Pinel, Charles Mouton, Mésangeau; alcuni di essi ebbero fama anche all'estero e Jacques Gautier si stabilì in Inghilterra. Un po' più tardi, e soprattutto durante i primi anni del regno di Luigi XIV fu in voga la chitarra, in cui si segnalavano De Visé e Ph. E. Lesage de Richée.
Anche per l'organo e il clavicembalo i maestri francesi si limitano da principio a fare trascrizioni di opere polifoniche, ornandole di fioriture; ma nel sec. XVI si ha un rapido sviluppo, soprattutto per la perfezione raggiunta nella fabbricazione degli organi. Il primo grande organista francese è Jean Titelouze, nato a Saint-Omer nel 1563, organista della cattedrale di Rouen. Le sue opere sono interessanti soprattutto per un senso molto moderno della modulazione e per la nobiltà del sentimento. I suoi successori gli furono per lo più inferiori e non si possono paragonare con i grandi maestri contemporanei tedeschi e italiani. Sono da ricordare: Nicolas Boyvin, organista a Rouen dal 1674 al 1706; F. Roberday, Nicolas Gigault, entrambi maestri di Lulli; Antoine le Bègue (1630-1702), M. De la Barre, Buterne, G. Nivers, F. Marchand, F. Dandrieu, questi ultimi noti soprattutto come clavicembalisti. La scuola del clavicembalo comincia solo verso il 1630, molto dopo le scuole inglese e italiana; nel sec. XVIII si distinsero Louis Couperin, che risente ancora l'influsso dello stile liutistico, ma già mette in valore alcune particolari possibilità dello strumento, e André Champion de Chambonnières (1602-1672), grande virtuoso, creatore dello stile francese di clavicembalo, che contribuisce alla creazione della suite francese, facendo susseguire quattro danze di carattere differente: allemanda, corrente, sarabanda e giga. Resta da ricordare la musica composta dai violinisti della grande orchestra d'archi cosiddetta "dei Ventiquattro".
Ben poco rimane delle musiche eseguite nelle feste del sec. XVI dai violini e dagli strumenti a fiato, ma le danceries di Claude Gervaise, le Fantasie a quattro di F. Du Caurroy e di Claude le Jeune ci permettono di farci un'idea di quest'arte in certo modo decorativa. Durante il sec. XVII l'orchestra dei Violons du roi comprende musicisti di valore, tra i quali Guillaume Dumanoir e Mazuel. Le loro danze, dalla scrittura alquanto maldestra, e dal ritmo irregolare (il quale informa di sé anche la melodia) costituiscono un genere originale proprio della Francia, apprezzato anche in Inghilterra e in Germania, dove ebbero fortuna violinisti francesi quali Bocan e Louis Grabus. Lo stile strumentale dei Ventiquattro precorre lo stile del Lulli, nella cui opera si riassume tutta la musica francese della seconda metà del sec. XVII.
Da Lulli a Berlioz. - L'opera. - Giovan Battista Lulli, nato a Firenze nel 1632, giunto a Parigi quattordicenne si trovò a contatto con la musica di danza francese e assimilò ben presto lo stile dei violinisti che in seguito perfezionò e rese più morbido e più melodico. Il Lulli fuse con gusto assai accorto le stilistiche francesi e italiane, pur conservando alle sue creazioni un carattere eminentemente francese. Possedendo al più alto grado il senso del teatro, che mancava invece a tutti i compositori francesi di quel tempo, egli creò uno stile recitativo esattamente adeguato alle inflessioni della lingua francese e di tale perfezione che fu imitato almeno per un secolo. Le opere italiane di Luigi Rossi, C. Caproli e P. F. Cavalli, rappresentate tra il 1646 e il 1662, avevano suggerito ai musicisti francesi l'idea di comporre anch'essi commedie musicali. Nel 1669 il poeta P. Perrin si fece accordare un privilegio per aprire a Parigi un teatro d'opera francese, e nel 1672 fece rappresentare la pastorale Pomone, con musica di R. Cambert, opera graziosa composta di arie di corte e di canzoni, senza vero intreccio e nulla di propriamente teatrale. Il Lulli, impadronitosi dell'Académie Royale de Musique, vi fece rappresentare la sua prima tragedia musicale, Cadmus et Hermione, nel 1673, e altre sedici ne scrisse prima della sua morte (1687). Caratteristica del Lulli è il suo ritorno istintivo alla forma del melodramma fiorentino del principio del sec. XVII, allora completamente dimenticato. Il recitativo costituisce l'elemento principale, solo interrotto qua e là da frasi melodiche. Per rompere questa monotonia, Lulli moltiplica le occasioni di divertimenti che gli permettono d'introdurre canzoni, ariette, terzetti, cori, ecc. L'orchestra non solo accompagna quasi continuamente le voci (soprattutto nelle ultime opere: Roland, Armide, Acis et Galatéé), ma esegue sinfonie descrittive molto sviluppate e di forma originale. Le sinfonie cosiddeti e de sommeil (dal loro motivo scenico) e i notturni precorrono lo stile impressionista francese della fine del sec. XIX. Lulli ama anche le marce di guerra, i sacrifici, i trionfi, i combattimenti, le tempeste e disegna in questi casi vasti affreschi decorativi. A principio delle sue opere pone una Ouverture (v.) di cui egli ha creato per primo, nel Ballet d'Alcidiane (1657), il modello che farà il giro d'Europa.
Alla morte di Lulli segue un periodo di grande decadenza. Il grande edificio innalzato da lui è rispettato e l'architettura della tragedia musicale non muta fino a Gluck, ma nessuno dei successori di Lulli, nemmeno J.-Ph. Rameau, possiede il suo genio drammatico, sicché l'azione non è più che un pretesto per i divertimenti e per i balletti che in essa s'inseriscono. Solo con A. Destouches si hanno opere contenenti musica viva; tuttavia P. Colasse scrisse alcune opere interessanti nello stile di Lulli e Marc Antoine Charpentier lo imitò (mediocremente) nella Medée. La forma dell'opera-balletto è trattata da tutti i compositori di questo tempo, ma l'esempio più riuscito fu dato nell'Europe Galante (1697), dal provenzale A. Campra (1660-1744), il quale subì l'influenza dello stile italiano già in uso nelle cantate: gli ornamenti proscritti da Lulli prendono il sopravvento e l'armonia diviene più ricercata. Fra i più importanti predecessori e contemporanei di Rameau, bisogna citare Mathieu Marais, la cui opera Alcyone (1707) fu celebre per la sua sinfonia La tempête, F. Rebel e F. Francoeur, che scrissero in collaborazione innumerevoli balletti e opere, poi M.lle De la Guerre, J. M. Leclair, T. Bertin de la Doué, J. Aubert, Salomon, Matho, M. Montéclair, autore della Jephté e di belle cantate, Colin de Blamont e il delizioso J. Mouret che fu con Rameau il miglior rappresentante musicale dello stile Luigi XV. L.-N. Clérambault nelle sue cantate seppe restare assolutamente francese, pur trattando un genere importato dall'Italia, e trovare talvolta accenti patetici di grande bellezza melodica.
Musica sacra e da camera. - Nel periodo tra la morte di Lulli e l'Hippolyte e Aricie di Rameau (1733) i musicisti più interessanti si dedicano soprattutto alla musica sacra e da camera e risentono meno l'influenza di Lulli. Pur senza smarrire il carattere nazionale, essi sentono però il fascino della meravigliosa scuola italiana, mentre a Saint-André-des-Arts si eseguiscono mottetti di G. Legrenzi, G.-B. Scarlatti e A. Bononcini. I maestri francesi ricorrono volentieri a talianismi (ornamenti vocali, armonie dissonanti) e soprattutto usano le forme architettoniche inventate dai maestri italiani, pur restando fedeli al culto di Lulli e come lui (autore anche di mottetti) introducendo nelle musiche sacre il recitativo e la pompa propria dell'opera. Pur subendo talvolta l'influsso di G. Carissimi, il Lulli era rimasto nella tradizione della scuola francese di cui si può considerare come capo Nicolas Formé (1567-1638), che diede il primo esempio in Francia della scrittura a due cori. Thomas Gobert, successore del Formé nella cappella reale, usò per il primo uno stile meno semplice, più drammatico, e Henri du Mont (1610-1684) fissò definitivamente lo stile francese del mottetto a due cori. I 40 mottetti a gran coro di Michel de la Lande sono uno dei monumenti più caratteristici della musica francese; l'armonia, più ricca che nel Lulli, già preannuncia il Rameau; e, in assoluto contrasto con la musica sacra contemporanea tedesca e italiana, mancano effusioni mistiche e confidenze dolorose; è musica decorativa e trionfale adatta alla magnificenza della messa reale a Versailles. Nicolas Bernier, S. Brossard, L. Bourgeois ecc. composero anche numerosi mottetti nello stile del La Lande; più vicino alla maniera italiana è A. Campra nei suoi salmi e mottetti. Nel sec. XVIII si ebbe una fioritura assai ricca di musica religiosa: i mottetti di Rameau, Gilles, N. Bernier, ecc., ci dànno un'alta idea della scienza e delle doti dei maestri di cappella di questo tempo; purtroppo le loro opere sono disperse e poco studiate.
Nella musica da camera l'influenza italiana è assai forte. I seguaci di Lulli protestano contro questo stile straniero, e la folla non gusta le arditezze armoniche e ritmiche di Scarlatti e di Bononcini; ma i maestri ne approfittano, e d'altra parte la forza delle tradizioni permette alla musica francese di non perdere le sue caratteristiche. Si scrivono opere francesi nelle forme inventate dagl'Italiani: sonate e cantate invece di pièces e di arie. Il violino subisce l'influsso di A. Corelli e conta tra i compositori più personali Du Val, J.-F. Rebel, P. Senaillé e soprattutto J. M. Leclair, che lasciò quattro libri di sonate per violino e basso, di sonate a due violini, di concerti ecc., ed ebbe tra gli emuli J. Mondonville, P. Gaviniès, L'Abbé, J. B. Anet, P.-P. Ghignone. Nella Sonata francese si ritrova ancora lo spirito dell'antica suite, e predominano i pezzi in forma di danza. Il violino detronizza gli antichi strumenti a corda e specialmente le viole da braccio e da gamba, ma non senza lotta: ancora nel 1749 Hubert Le Blanc pubblicò una burlesca Défense de la Basse de Viole contre les entreprises du vioion et les prétentions du violoncelle, e la viola da gamba, prima di scomparire, ebbe ancora qualche momento di gloria per opera di Mathieu Marais, discepolo di Lulli, di A. Forqueray e di Caix d'Herveloix. Nel sec. XVIII, per il flauto che fu molto dì moda, La Barre, M. Blavet, Nandot, Caix d'Herveloix, scrissero sonate che hanno pagine di squisita bellezza.
La scuola francese di clavicembalo solo indirettamente e debolmente subì l'influenza italiana. A Louis Couperin e a Chambonnières seguì tutta una schiera di brillanti virtuosi e compositori: Hardelle, Étienne Richard, Melle de la Guerre, J. d'Anglebert. Nella seconda metà del sec. XVII la musica di clavicembalo si liberò definitivamente dall'influenza del liuto e si abbandonarono i curiosi preludî con ritmo ad libitum cari a Louis Couperin. Le Bègue, Nivers, Le Roux, Marchand, Louis Daquin, Dandrieu, subirono fortemente l'influenza di François Couperin il Grande, forse il genio più rappresentativo del gusto francese al tempo della Reggenza, il "Watteau della musica" e uno dei più delicati poeti del clavicembalo. Nei suoi quattro libri di Pièces de clavecin (1713-1730) nei Concerts Royaux, nelle Sonate in trio, egli si propone di piacere, d'incantare, di toccare il cuore, ma senza troppi sentimentalismi e rifuggendo dagli accenti lirici appassionati degl'Italiani. Nelle sue opere, sempre di carattere descrittivo, egli si compiace di disegnare caratteri (soprattutto femminili): L'Enchanteresse, L'Ingénue, La Prude, La Lutine, o s'ispira a scene campestri: Les Moisonneurs, Les Fauvettes plaintives, Les Abeilles, Le Rossignol en amour, ecc.
Rameau e Gluck. - Molto meno sensibile di Couperin, J. Ph. Rameau, tecnico ammirevole, fonde abilmente in opere costruite con grande sicurezza e vigore di accento la maniera francese e l'italiana, mettendo in uso i ritmi vivaci e le pungenti armonie d'un D. Scarlatti.
Rameau ebbe nel mondo musicale del sec. XVIII una parte paragonabile a quella di Voltaire in quello delle lettere. Ma fu soprattutto un teorico, che nella pratica dell'arte portò la preoccupazione costante di giustificare le sue teorie. A Parigi si stabilì solo nel 1733 dopo aver pubblicato il suo monumentale Traité de l'harmonie e anche in seguito non interruppe le ricerche, esposte in numerosi scritti. Fino ai 50 anni, non pubblicò altre opere musicali che i pezzi per clavicembalo; ma allora volle mostrare di che era capace e attrarre l'attenzione del pubblico sulle sue teorie, scrivendo un'opera. La rappresentazione di Hippolyte et Aricie (1733) fu un avvenimento considerevole non perché Rameau abbia cambiato la forma della tragedia musicale introdotta da Lulli, ma per la ricchezza musicale della partitura. Rameau non ha il lirismo profondo del Lulli, ma è uno dei più grandi maestri della forma: le sue danze, i suoi episodî sinfonici sono scritti con abilità meravigliosa. Un po' arido talvolta, eccelle nelle scene galanti e voluttuose; di rado si eleva fino al patetico, ma raggiunge talvolta il grandioso. Sebbene non abbia ignorato la musica italiana, non ne subì che indirettamente l'influsso: niente è più francese delle melodie di Rameau e della sua tendenza a evocare per mezzo della musica immagini, ritratti, ambienti. Come tutti i suoi contemporanei francesi egli cerca, secondo il precetto del Du Bos, di "imitare la natura". Combattuto a lungo dagli ammiratori in ritardo di Lulli, divenne il campione degli avversarî dei Buffonisti (v.) italiani, benché personalmente si dichiarasse ammiratore del Pergolesi. La rappresentazione della Serva Padrona di questi (1752), suscitò interminabili polemiche, a cui presero parte D. Diderot, J. D'Alembert, F.-M. Grimm, J. J. Rousseau. Le nuove generazioni erano stanche ormai dell'opera-balletto, con i suoi lunghi intrecci mitologici e preferivano la pittura di costumi familiari e di sentimenti semplici e umani. Gli Enciclopedisti sostennero con vigore i Buffonisti italiani e i loro seguaci francesi. Con Les Troqueurs di A. Dauvergne si ebbe la prima opera comica francese e il genere si nazionalizzò con tanta rapidità nelle mani di A. Philidor, di P.-A. Momigny e di A.-E.-M. Grétry, che alla fine del secolo l'opera comica, liberata dalle influenze straniere, venne a costituire una specialità francese: Richard Coeur de Lion e Le déserteur segnano il principio d'un genere che dopo un secolo produrrà ancora Carmen.
Intanto Gluck rinnovava la tragedia musicale di Lulli. Autore di opere comiche su libretti francesi ancor prima di stabilirsi a Parigi, con l'Iphigénie en Aulide (1774) tenta non senza pesantezza i recitativi di Lulli; nel 1777 mette in musica la stessa Armida già servita a Lulli, usando così materiali dell'opera francese, nella quale sa infondere nuovo spirito.
Da questo momento scompaiono i musicisti francesi; N. Piccinni, A. Sacchini, A. Salieri, poi Spontini e Cherubini si accaparrano il teatro pur secondando, come Gluck, i gusti e le abitudini del pubblico francese. Durante l'epoca rivoluzionaria sorse un grande musicista, J. Méhul, il cui Joseph resta un capolavoro di grazia semplice e ingenua. J.-F. Lesueur, il maestro di Berlioz, scrisse partiture colorite in cui sono i primi annunci del romanticismo musicale.
La musica strumentale. - Anche in questo campo, si compie una rivoluzione. Verso il 1755 infatti i clavicembalisti abbandonano i tradizionali pezzi liberi e di genere per scrivere sonate, probabilmente sulle orme di Alsaziani e Tedeschi stabilitisi a Parigi, tra i quali J. Schobert, J. G. Eckardt, N.-J. Hüllmandel, J.-F. Edelmann. Questi artisti esercitarono grande influenza sul giovane Mozart durante il suo soggiorno a Parigi. Parallelamente si evolve lo stile della sonata solista e a tre. Lo schema si modifica e la scrittura va semplificandosi, mentre i sonatisti si dànno sempre più all'arte di opporre e combinare tra loro due temi di carattere differente. I musicisti di Mannheim lavorano per Parigi, dove accorrono artisti da tutto il mondo e dove si elabora così, con la fusione degli stili italiano, francese, tedesco, la lingua internazionale in cui si esprimerà Mozart. I Francesi in questa preparazione hanno voce importante: il cavaliere di Saint-Georges, J.-B. Janson, F.-J. Gossec scrivono le prime sinfonie francesi, presto pubblicate a Parigi; fiorisce il concerto, e un illustre mecenate, A. de la Pouplinière, protettore di Rameau, incoraggia i tentativi nuovi. Verso il 1780 la Francia è in prima linea tra le nazioni musicali.
Ma la Rivoluzione interrompe questo sviluppo portando una grande decadenza nell'arte musicale francese. Gossec, Lesueur, Méhul compongono canti patriottici per cori immensi, talvolta con accompagnamento di salve d'artiglieria. Il favore del gran pubblico si volge al teatro; il violinista P.-F. Baillot farà udire, sotto l'Impero, i quartetti di Mozart, Haydn e Beethoven, ma sino alla metà del sec. XIX la musica da camera è coltivata solo in cenacoli. Sotto la Restaurazione, Rossini e i maestri italiani trionfano, avendo per rivali solo F-.A. Boïeldieu, le cui melodie dotate di grazia e di sensibilità saranno gustate in tutta l'Europa settentrionale, D.-F. Auber, stilista un po' freddo ma di notevole vivacità, L.-J. Hérold, F. David, J.-F. E. Halévy. Nel 1828 Auber dà con La Muette de Portici il primo modello del Grand Opéra romantico francese. L'anno seguente Rossini col Guglielmo Tell consacra definitivamente tale genere, in cui si fonde l'opera francese alla Gluck-Méhul, l'italiana alla Rossini e la tedesca alla Weber. Tale genere internazionale, detto "opera francese" o Grand Opéra ebbe gran voga in tutto il mondo e trovò la sua più avanzata manifestazione nelle opere di J. Meyerbeer, tedesco italianizzato e poi infrancesato, dotato di grande senso teatrale e di abilità nell'uso delle voci e degli strumenti. Roberto il Diavolo (1831), Gli Ugonotti (1836), Il Profeta (1849) sono modelli di questo genere grandiloquente e lontano dalla vera tradizione francese. Intanto H. Berlioz scriveva, tra l'indifferenza del pubblico, Beatrice et Bénédict e l'ammirevole partitura dei Troyens, che conobbe il successo dopo la morte dell'autore. Opera rivoluzionaria parve dapprima il Faust di Ch. Gounod, che oggi non ci sembra più tale, ma il fascino voluttuoso della melodia, la delicatezza della strumentazione hanno valso al Faust una popolarità non ancora cessata.
Berlioz e la scuola moderna. - Da Berlioz, come da Wagner in Germania, deriva tutto il movimento musicale moderno francese. Questo grande artista, ancora non abbastanza apprezzato, ruppe le convenzioni del classicismo aprendo tutte le vie per cui si misero i suoi successori. Nel 1829, con la Symphonie fantastique, egli inaugura nuovi processi di sviluppo (specialmente il sistema del motivo conduttore), crea il poema sinfonico e rinnova l'arte dell'orchestrazione. Egli rivendica i diritti della musica sinfonica in Francia quando sembrava non vi fosse posto che per il teatro. C. Saint-Saens e E. Lalo, iniziatori della rinascita che si manifesta dopo il 1870, sono in larga misura suoi discepoli ed eredi spirituali.
In questo rinnovamento della musica francese ebbe gran parte C. Franck, soprattutto per la musica da camera e la musica d'organo: mentre Lalo e Saint-Saens erano soprattutto brillanti armonisti, egli mantenne la tradizione della scrittura contrappuntistica. I suoi discepoli, V. d'Indy, E. Chausson, A. Magnard, G.-M. Witkowsky, J. Guy Ropartz, continuarono nella via da lui tracciata, salvando le tradizioni polifoniche e facilitando così quella ripresa di pratiche contrappuntistiche a cui oggi assistiamo.
Lalo con le sue ricerche orchestrali ed armoniche (soprattutto in Namouna), e E. Chabrier col suo senso squisito dell'armonia, e con le sue sottili combinazioni di timbri, aprirono la via a Gabriel Fauré, Claude Debussy e Paul Dukas.
Il teatro lirico si riapre ora ai Francesi. Succedendo a Gounod, che appare come un caposcuola, G. Bizet, Saint-Saëns e Massenet creano opere come Carmen, Samson et Dalila, Manon e Werther, che esercitarono grande influenza in tutta Europa. A questa scuola si riconnettono più o meno Gustave Charpentier (Louise, 1900), Alfred Bruneau, Georges Hüe, Gabriel Pierné, Raoul Laparra, Henri Rabaud, Gabriel Dupont, Samuel Rousseau, Henry Février, ecc. Nella musica leggiera si distinsero Léo Delibes e Emmanuel Chabrier, e l'operetta, con J. Offenbach, F. Hervé, A.-Ch. Lecocq, Claude Terrasse, André Messager, continuò la tradizione brillante, ancora oggi illustrata dalle partiture di Reynaldo Hahn e di M. Yvain. Tuttavia le grandi opere che hanno rinnovato in Francia la concezione del teatro lirico furono non di specialisti dell'opera, ma di compositori che ad essa si dedicarono incidentalmente: C. Debussy (Pelleas et Mélisande, 1902), P. Dukas (Ariane et Barbe-Bleue), M. Ravel (L'heure espagnole, L'Enfant et les sortilèges), A. Roussel, A. Honegger (Judith, Antigone), D. Milhaud, ecc.
Circa il 1890, molti artisti francesi si resero completamente liberi dall'influenza wagneriana, risalendo istintivamente alla tradizione abbandonata dei maestri del sec. XVII e del XVIII. A ciò contribuì anche l'influenza antigermanica dello Chopin. Gabriel Fauré, nelle sue liriche e nei suoi pezzi per piano, di scrittura raffinata, ottiene con una singolare tecnica della modulazione speciali effetti di colorito; Eric Satie nei pezzi pianistici trova un po' a tastoni aggregazioni di note che diventeranno ben presto d'uso corrente; infine Debussy scrive le sue mirabili melodie su poesie di Verlaine, il suo quartetto, il Prélude à l'Après-midi d'un Faune, e rinnova il genere della lirica vocale, la tecnica del quartetto, la forma del poema sinfonico e l'arte dell'orchestrazione. Egli impone una concezione della musica altrettanto nuova quanto i suoi procedimenti tecnici e rinnova il linguaggio musicale. Egli respinge il laborioso sviluppo classico, cercando una più immediata espressione lirica. Con poche note, con pochi accordi egli esprime i sentimenti più sottili, le impressioni più fuggevoli; e rifuggendo dalle manifestazioni esteriori della forza, sa esprimere con discrezione i sentimenti più intensi. Con lui le gamme e i modi dell'antichità e dell'Oriente rientrano nella musica.
Intanto anche M. Ravel, rivoluzionario che per innovare si fondava sul passato, come il suo maestro G. Fauré creava anch'egli nuovi mezzi d'espressione. La scuola detta "impressionista" ridusse però in formule le intuizioni meravigliose di Debussy mentre traeva ogni partito possibile dalle composizioni di Fauré e di Ravel; e sacrificò troppo alla sfumatura, si compiacque troppo delle tinte e della grazia. Igor Stravinskij venne a liberare dal cerchio magico i musicisti francesi, che ignoravano ancora l'esperienza di A. Schönberg e di Bela Bartók, mostrando loro la possibilità di effetti nuovi ottenuti con la politonalità, con l'uso d'una singolare polifonia opposta allo stile verticale degl'impressionisti, ma pur lontana dallo stile orizzontale della scuola franckiana, infine con l'adozione d'un dinamismo metrico che trasformava radicalmente la concezione del ritmo allora dominante. Lo Stravinskij, rimise in onore l'espressione brutale della forza.
È da notare che la scuola impressionista non rappresentava tutta la musica francese. P. Dukas costruiva in disparte la sua opera robusta, F. Schmitt erigeva architetture colossali, mentre V. d'Indy costruiva potenti drammi lirici. M. Ravel stesso nelle Valses nobles et sentimentales usava uno stile armonico che annunciava Stravinskij, e Debussy reagiva ai discepoli cercando ma musica più nuda, meno congestionata.
Dopo la guerra mondiale vediamo A. Honegger e D. Milhaud, reagire contro l'impressionismo facendo uso d'una vigorosa polifonia; il primo applica senza rigore l'atonalità, il secondo la politonalità, riducendo a sistema i procedimenti di Bela Bartók e di Stravinskij. Nelle loro opere si manifesta un nuovo romanticismo ed essi non temono di costruire oratorî di proporzioni colossali.
Altri giovani, tra cui F. Poulenc e G. Auric, con minori ambizioni, tendono a piacere (seguendo le direttive del vecchio Eric Satie) attratti dalla musica popolare e dal Jazz.
Intanto Maurice Ravel, impadronendosi dei nuovi mezzi offerti dalla politonalità e dal nuovo contrappunto, si conserva alla testa della scuola francese, mentre A. Roussel acquista importanza imprevista con opere vigorose e originali in cui mostra il doppio aspetto del suo ingegno, fatto d'energia e di grazia.
Se si consideri ora nel suo insieme il vasto quadro storico della musica francese, facilmente si potrà osservare come ad esso concorrano diversi e talora apparentemente opposti elementi, nati specialmente da due grandi tendenze: l'una rivolta alla semplicità e alla forza dell'animo popolare (Jannequin, Lulli, Méhul, Auber, Berlioz, Bizet, Charpentier, Honegger, Milhaud), l'altra al gusto e alla sensibilità più raffinati (Costeley, Couperin, Rameau, Fauré, Debussy, Ravel). E, a volere intendere lo spirito della tradizione musicale francese, va tenuto uguale conto di entrambe queste correnti storiche.
Bibl.: v. specialmente: P. Aubry, Les plus anciens monuments de la musique française, Parigi 1901; A. Bruneau, La musique française, Parigi 1901; J. Tiersot, Lettres de musiciens, écrites en français, du XVe au XXe siècle, in Rivista musicale italiana, 1910 segg.; id., Un demi-siècle de musique française (1870-1919), Parigi 1917, 2ª ed., 1924.
Letteratura.
Dalle origini al 1328. - Si è usi frazionare, per comodità di studio, le origini letterarie francesi in tanti particolari aspetti, l'uno staccato dall'altro, a seconda che si consideri il genere epico, o quello lirico, o quello narrativo, e a seconda che si esamini la letteratura in latino o quella in volgare. Ma, in realtà, il problema è unico, come si può argomentare dalla contemporaneità o dal sincronismo di tutte queste forme svariate, in cui si attua lo spirito della cosiddetta seconda rinascenza francese (dal secolo XI al secolo XIII), dopo quella di Carlomagno.
Le prime espressioni letterarie epiche, narrative, liriche, drammatiche sono pressoché contemporanee; e i rapporti fra la poesia latina e quella volgare sono poi così stretti e interferenti, che è impossibile, a ben guardare, distinguere un "mondo" dei chierici contrapposto a un "mondo" dei laici, come fossero due mondi chiusi, indipendenti, incomunicabili. La verità è che tutta la prima fioritura letteraria francese sorge da un rigoglio e da un'abbondanza di vita che rinnova la Francia al tempo delle prime crociate, quando i benedettini si dànno agli studî, quando fioriscono le scuole di Chartres, di Bec, di Angers, quando si fondano ordini monastici nuovi, come quello dei cisterciensi, e quando si propagano (testimonianza di fermento religioso) le eresie. Nello spazio di circa un secolo, nascono le Chansons de geste, i romanzi bretoni e d'avventura, la poesia amorosa, la poesia religiosa e il teatro: fioriscono, in questo periodo, così l'autore della Chanson de Roland (nella forma assonanzata giunta sino a noi), come gli autori del Couronnement Louis e del Pèlerinage de Charlemagne, così gli autori del Roman de Rou (Wace) e del Comput e del Bestiaire (Philippe de Thaon), come gli anonimi compositori dei "jeux" liturgici e del Mystère de l'Époux. Un secolo appena divide la Vie de Saint Alexis dai due Tristan di Thomas e di Béroul e dai Lais di Maria di Francia e dai romanzi di Chrétien de Troyes. È il periodo in cui la Francia coltiva con appassionato fervore gli studî filosofici e in cui si scrivono poemi in latino, come l'Alexandreis di Gualtiero di Châtillon. È il periodo in cui sorgono le più belle e insigni cattedrali francesi. La società si trasforma. Le relazioni con l'Oriente si fanno vive e feconde. La donna acquista un'importanza civile che per il passato le era stata contesa. Gli studî latini rinascono. Una nuova cultura impregna di sé tutta la vita del tempo.
Le stesse canzoni di gesta sono legate alla cultura chiericale più di quanto possa sembrare a un primo esame, perché alcune di esse si collegano a biografie latine del protagonista e altre a santuarî e a pellegrinaggi (v. canzoni di gesta). D'altronde, in esse, l'elemento profano è preponderante e non si può negare che in alcune sia passato qualche eco od influsso di scrittori classici latini, in particolare di Virgilio. Sotto un'illusoria apparenza di primitività, nascondono gli artifici di autori abbastanza consumati nel mestiere di narratore, perché, se anche si riallacciano a poemi e narrazioni francesi (o, più probabilmente, latine) anteriori, non pare che, nella forma in cui ci sono pervenute, possano essere dovute a rozzi e incolti scrittori, ma sì bene a verseggiatori addottrinati, che le hanno trasformate in opere nuove, con una loro intrinseca coerenza e unità: opere che risentono delle aspirazioni, delle idealità e dei gusti della seconda rinascenza francese.
Altre aspirazioni, altre idealità e altri gusti di quello stesso periodo si rispecchiano nei romanzi cosiddetti cortesi, destinati a una società più colta e aristocratica. Sono romanzi che si svolgono in un'atmosfera fittizia e irreale, dove gli eroi non hanno più quei caratteri e quei sentimenti che legano i protagonisti delle Chansons de geste alla società francese nobiliare o baronale del sec. XII. La loro bravura e la loro cortesia rispecchiano piuttosto qualità e virtù ideali che la società aristocratica ammirava, senza proporsi e senza sognarsi mai di metterle in pratica. Questi romanzi mancano d'unità. Sono un seguito di avventure slegate, sia che trattino argomenti classici (p. es. il Roman de Thèbes, il Roman d'Enéas, il Roman de Troie di Benoît di Sainte-Maure, che discendono più o meno da modelli latini, ma si muovono entro un clima cavalleresco e cortese e sono tutti pervasi d'una romantica spiritualità medievale), sia che si ispirino a temi d'origine greco-orientale, bizantina, o araba, ecc., sia infine che svolgano racconti d'avventure o di materia bretone e narrino la leggenda di Tristano e Isotta. Il maggior poeta di questo mondo maraviglioso e irreale, fantasmagorico e fatato, è Chrétien de Troyes, che ci offre nei suoi romanzi e nel suo "bel francese" una splendente, aurea catena d'episodî avventurosi, e, nonostante le sue lungaggini e prolissità, riesce ad interessarci per l'eleganza e la raffinatezza della lingua e, persino, per il suo sottile manierismo, che ha qualcosa di suggestivo e di dolce. È, insomma, Chrétien (specie in Yvain, in Cligès, in Erec et Enide), lo scrittore più significativo e rappresentativo della società francese aristocratica medievale, in cui brillavano le donne e le principesse, come Maria di Champagne, ispiratrice di alcuno dei suoi romanzi (Lancelot). C'era, nei racconti arturiani o bretoni e d'avventura, qualcosa di languido ed elegiaco che pareva fatto apposta per interessare la società colta femminile. Perciò, non c'è da stupire che sia sorta una letteratura per le donne. Ecco, così, il romanzo di Ille et Galeron scritto per Beatrice seconda moglie di Federico imperatore; quello di Guillaume de Palerne per Iolanda, figlia di Baldovino IV di Hainaut; quello della Violette per Maria di Ponthieu, ecc. Anche in Provenza, il famoso romanzo di Flamenca fu dettato appunto per le donne. Una delle più belle opere della letteratura francese di questo periodo, i Lais, sono di una donna: Maria di Francia. Alcuni romanzi d'avventura sono deliziosi, p. es. Floire et Blanchefleur, l'Escoufle, Guillaume de Dôle, la cantafavola di Aucassin et Nicolette. Non ci sono caratteri, non ci sono passioni violente forti e decise; ma c'è gentilezza ed amore, c'è un misto di raffinatezza e di schiettezza, di fantasia e di riflessione, che conquide e seduce.
Alla stessa società, alle stesse adunanze cortigianesche, alle stesse accolte baronali a cui si rivolgevano questi romanzi eleganti e cortesi, si indirizzò anche la lirica aulica, che s'irradiò dalla corte di Francia al tempo della regina Eleonora d'Aquitania (1137-1152). Era Eleonora della stessa schiatta del più antico dei trovatori provenzali (Guglielmo IX di Poitou), ed era madre di Maria di Champagne e di Adelaide di Blois, nelle cui corti, non meno che in quella di Parigi, era la sede del gusto e della cultura. Pare che il più dolce dei trovatori, Bernart de Ventadorn, abbia accompagnato Eleonora a Parigi. Certo, la poesia provenzale batteva le ali intorno al capo di questa regina, che guidò pure la musa di Provenza e di Francia alla corte dei Plantageneti e che si può considerare la maggior protettrice della lirica trovadorica in Francia. È il tempo di Gace Brulé, di Gautier d'Arras, di Conon de Béthune, di Chrétien de Troyes. Questa lirica cortese francese è pressoché identica a quella provenzale; ne ha gli stessi motivi, gli stessi toni, gli stessi pregi e gli stessi difetti. È lirica "feudale" o, in quanto riflette gli usi, le costumanze e il cerimoniale del feudalismo in un nuovo cerimoniale amoroso complicato, difficile ad essere rispettato, tanto che si sente il bisogno di codificarlo nei libri De Amore di Andrea Cappellano. Non è questo il luogo di indagare l'origine di questa lirica aulica e cavalleresca (v. cavalleresca, poesia): se venga dai canti popolari di danza, o si riallacci alla poesia latina medievale, o si debba ricondurre a una maggiore varietà di motivi primordiali: popolari, dotti, chiericali, ecc. Solo diremo che essa non rompe i suoi rapporti con la lirica latina medievale. Ci sono, infatti, in questa lirica latina, poesie che ricordano da vicino i modi di poetare in volgare. Della scuola di Angers faceva parte, a ragion d'esempio, Marbodo di Rennes, il quale cantò in latino le lodi di Adele figlia di Guglielmo il Conquistatore. Un suo scolaro, Baldrico di Bourgueil, tessé gli elogi di un'altra figlia di Guglielmo, Cecilia. E Ildeberto di Tours, Pietro di Blois, Stefano di Orléans, Ugo detto Primate sono tutti poeti in latino che hanno, qua e là, le movenze dei poeti in volgare. Abbiamo persino, nel sec. XII, esempî di "pastorelle" in latino, cioè d'un genere che pareva finora riservato alla lirica volgare.
Nello stesso tempo fiorisce una poesia scherzosa, di tono quasi satirico, ma senza collera e odio, una poesia caricaturale, realista, scritta da verseggiatori colti, ma indirizzata alla classe nascente dei borghesi, dei mercanti e anche al popolo, oltre che ai nobili, cioè la poesia dei fabliaux (v. favolello). Però l'opera veramente satirica di questo periodo è costituita dal Roman de Renard, che Svela e riconosce nelle qualità e nei vizî degli animali le qualità e i vizî degli uomini. Le origini di questa che fu detta "epopea degli animali", non sono popolari se non per qualche episodio, perché è probabile, se non sicuro, che le sue vere e proprie radici stiano affondate nella letteratura latina medievale.
La latinità fermenta nelle maggiori espressioni di questa rinascenza. Dai drammi liturgici latini nasce, nel sec. XII, il teatro volgare. Intorno al 1150 si scrive e si rappresenta, fra Limoges e Angoulême, il dramma dell'Epoux (o delle Vergini savie e delle Vergini folli), dove l'angelo Gabriele e i mercanti parlano in limosino e Cristo e le Vergini in limosino e in latino. Se questo piccolo dramma era destinato ad essere rappresentato in chiesa, il Jeu d'Adam, scritto in Normandia mezzo secolo dopo, doveva essere rappresentato, tutto in francese, fuori della chiesa, nel sagrato. Di poco posteriori sono il Jeu de la Resurrection (frammentario) e il Jeu de Saint Nicolas. Solo nel sec. XIII s'inizia il teatro comico, le cui origini sono oscure. Ne sono esempî caratteristici il Jeu de la feuillée e il Jeu de Robin et Marion di Adam de la Halle. Verranno, in seguito, i "misteri" la cui importanza sociale sarà profonda.
Nel duecento la seconda rinascenza francese perde la freschezza e il vigore che ne erano stati i caratteri principali nel secolo precedente. Sono coltivate le forme letterarie del sec. XII, ma una certa mollezza attenua l'ispirazione e la poesia si fa sempre più intellettualistica e di maniera. Trionfa l'allegorismo nell'opera (che fu definita un'"epopea simbolica psicologica") di Guillaume de Lorris e Jean de Meung, scritta per i chierici mondani del tempo della reggenza di Bianca di Castiglia: nel Roman de la Rose, il cui influsso si propaga rapidamente oltre i confini. Accanto a piccoli capolavori narrativi, quali il Lai de l'Ombre e la Chatelaine de Vergi, spesseggiano romanzi più pesanti e faticosi (p. es. Richard li Biaus, il Sone de Nansai, ecc.) ovvero fantasmagorici, con eccesso di tinte e con sforzo d'immaginazione, come il Cléomadès d'Adenet li Roi e il Méliacin di Girart d'Amiens. Le leggende e narrazioni bretoni passano dai poemi alle compilazioni prosastiche e si scrivono i romanzi in prosa di Tristan, il Meliadus e il Lancelot du Lac, in cui trova posto la storia del San Gral narrata in versi nel secolo precedente da Robert de Boron (Joseph) e da Chrétien (Perceval). Non soltanto si scrivono opere di storia (Joinville) come nel secolo precedente (Villehardouin), ma enciclopedie, trattati didascalici e morali (Nicole Bozon). Nasce e si consolida, intanto, la borghesia nelle città ricche della Piccardia e delle Fiandre. Per questa nuova classe sociale di mercanti e di uomini d'affari, scrivono verseggiatori quali Jacques Bretel e Pierre de Corbie, che imitano ancora, in fondo, la poesia convenzionale cavalleresca, la quale illanguidisce ormai in una monotona ripetizione di motivi. Ma in nuove "pastorelle", in nuove canzoni di malmaritata e in nuove ballate e "virelays" i poeti tentano di mettersi maggiormente in contatto con la vita. Colin Muset, con la sua poesia tenera e vivace, prelude a Rutebeuf e anche, per un certo rispetto, a quel singolarissimo e personalissimo scrittore che fu Villon.
Dal 1328 al 1315. - L'avvento dei Valois alla corona di Francia con Filippo VI (1328), e la conseguente guerra dei Cento anni, determinarono un periodo di squallore e di depressione in tutta la vita del paese. Le condizioni della cultura, che non erano fiorenti, rimasero prive d'ogni impulso nuovo, si estenuarono in brevi orizzonti: ché della tradizione medievale era già spenta la parte più viva, quella della grande poesia creatrice del sec. XII; delle chansons de geste, dei poemi cavallereschi, sopravviveva soltanto la trama delle avventure, rinarrate e divulgate nei romanzi in prosa; l'opera che dominava ancora gli spiriti, esaurendo in sé tutta la poesia dell'età precedente, era il Roman de la Rose. Un allegorismo esteriore, che si stilizzava in un'eleganza convenzionale; un proposito didascalico, ch'era forse il segno d'una curiosità intellettuale verso uno sviluppo ulteriore delle idee e degli studî, ma che non riusciva a liberarsi dalla pedanteria, e stagnava infecondo nella prolissità dei poemi e dei trattati: sono questi i caratteri che si osservano nella letteratura francese del Trecento.
I principali rimatori che si trasmettono i poveri segreti di quell'arte sono Guillaume de Machaut, Eustache Deschamps, Alain Chartier. Il Machaut, chierico, musicista, vissuto fra il 1300 circa e il 1377, elabora i tipi della ballade, del rondeau, del chant royal e d'altre forme chiuse della lirica, mentre nei dits, nei jugements d'amour, nei poemi allegorici, si attiene alla visione e ai concetti del Roman de la Rose: egli fu considerato il maestro d'una scuola poetica, della quale i Grands Rhétoriqueurs, alla fine del sec. XV, accolsero e difesero ancora il programma. Eustache Deschamps, che domina la seconda metà del Trecento, è un discepolo diretto del Machaut: la sua opera immensa e disuguale s'accompagna alla vita del tempo e ritrae dalle occasioni storiche e sociali che l'hanno ispirata alcuni elementi di rappresentazione realistica e satirica. Accanto al Deschamps, e più giovine di lui, sta Christine de Pizan, la quale, nella Cité des Dames, nel Livre des trois vertus e in altri poemi didattici e morali, svolse un ideale di sapienza e di cortesia femminile: nelle forme stesse del Roman de la Rose, ella reagiva contro lo spirito scettico di Jean de Meung, che, in una polemica letteraria scoppiata intorno al 1400, ebbe difensori Jean de Montreuil, Gontier e Pierre Col, mentre il Gerson, cancelliere della chiesa di Parigi, rafforzava la causa di Christine, ripigliando l'opposizione di carattere religioso, che si era già delineata nel Pèlerinage de la vie humaine di Guillaume de Digulleville. Alain Chartier reca nella poesia un più vivo senso di gentilezza, di cui rimase ad esempio la Belle Dame sans merci; nel Livre des quatre Dames cantò il lutto della Francia dopo la battaglia d'Azincourt, e nel Quadriloge invectif, ch'è un dialogo allegorico in prosa tra France, Noblesse, Clergé e Peuple, espresse l'intima agitazione del suo paese, anelante all'ordine ed alla giustizia.
Fra le opere in prosa che obbediscono alle stesse tendenze didattiche e morali, meritano ricordo il libro del cavaliere de La Tour Landry sull'educazione delle sue figliuole, il Ménagier de Paris, trattato di economia domestica, e soprattutto gli scritti storici: la Chronique di Jean le Bel, il Livre des faits de bon messire Jean le Maingre dit le Bouciquaut, la Chronique du bon Duc Loys de Bourbon, il Journal d'un bourgeois de Paris (prima metà del sec. XV), ed altri. Jean Froissart, che fu anche l'autore d'un vasto poema d'avventure, Méliador, di "detti" e ballate, occupa un posto analogo a quello del Villani nella letteratura italiana, per l'indole e la composizione delle sue Chroniques, che abbracciano quasi tutto il sec. XIV.
Le corti feudali protessero e premiarono la poesia d'amore; più d'un gentiluomo e d'un principe vi si provò, come attesta il Liv're des cent ballades, composto verso il 1390 sotto l'egida di Jean de Saint Pierre, siniscalco d'Eu; e le cose migliori di quest'arte elegante e manierata diede senza dubbio il duca Charles d'Orléans, che da una vita signorile, adombrata da una lunga prigionia di guerra presso gl'Inglesi (1415-1440), trasse un canzoniere tutto infuso di grazia amorosa e di nostalgia. S'ispira allo stesso mondo poetico, e a un sogno di cavalleria più manifesto e più illuso, il "roi René", conte di Provenza, il quale tenne corte e bandì tornei e fu l'autore del Livre du Cueur d'amour épris (1457).
Il teatro, specialmente sacro, dimostra in questi due secoli una crescente vitalità; fra i molti documenti che certamente andarono dispersi, un manoscritto del sec. XIV ci ha serbato una preziosa raccolta di quaranta Miracles de Notre Dame, brevi rappresentazioni in servizio d'una confraternita parigina: il leggendario della Vergine vi si atteggia in scene piuttosto rozze, ma efficaci, che rispecchiano talora da vicino i costumi borghesi e popolari (p. es., Une femme que Notre Dame garda d'être arse); l'azione è quasi sempre rapida, violenta, e improvvisi i mutamenti dell'animo; alcuni miracoli si collegano ai temi più diffusi e fortunati della tradizione novellistica (Amis et Amile, l'Empereris de Rome, La marquise de la Gaudine, Roberto il diavolo, la "Manekine", ecc.), sì da presentarci l'abbozzo di un dramma profano, di passione e di fantasia, concluso da un ammaestramento morale e religioso. Della fine del sec. XIV è l'estoire de Griseldis, semplice riduzione scenica della novella di Griselda, che la versione latina del Petrarca aveva fatto conoscere largamente in Europa. Nel sec. XV si svolge in forme sempre più ampie il "mistero" della Passione, esteso, non solo a tutti gli episodî della vita di Gesù, dalla nascita alla crocifissione, ma alle stesse ragioni dommatiche della Redenzione, in un solo ciclo che muove dalla creazione del mondo e comprende il peccato originale e il "procès de Paradis", cioè il contrasto fra la Giustizia e la Misericordia, risolto dalla sentenza divina che riapre all'uomo la via della salvezza. Da una Passione narrativa, che i giullari divulgavano con le loro recitazioni, e sull'esempio delle rappresentazioni drammatiche della Natività e della Resurrezione, dovettero formarsi i primi misteri della Passione, di cui ci rimangono alcuni testi, come quello della biblioteca di Sainte-Geneviève; d'altra parte, l'esistenza delle confraternite della Passione in varie città della Francia, fin dal 1371 a Nantes, e ben presto a Parigi, dimostra che il teatro sacro si veniva orientando verso quello spettacolo, in cui pareva adempirsi pienamente il suo compito di edificazione. Le tre grandi Passioni francesi del Quattrocento sono quella di Arras, attribuita con forti argomenti ad Eustache Marcadé, che v'incluse per il primo il "procès de Paradis"; quella che possiamo denominare di Parigi, ch'è meritamente la più celebre, ed ha per autore Arnoul Greban, e finalmente quella di Angers, dovuta a Jean Michel. Il Greban s'è valso dell'inquadramento e di alcune scene della Passion di Arras; Jean Michel ha lavorato sulla Passione del Greban, a cominciare dalla seconda giornata, insistendo sulle scene che potevano interessare maggiormente un pubblico popolare. Arnoul Greban, il quale attendeva a comporre il suo mistero intorno al 1450, mentr'era addetto alla cattedrale di Notre-Dame a Parigi, seppe ordinarlo in un tutto grandioso, non sempre immune dal difetto consueto a quel teatro, ch'è la prolissità e la sciatteria, ma animato da scene felici di artigiani e di pastori, sì da evocare un largo sfondo di umanità, concorde con quella de' suoi uditori, e nei momenti più drammatici ed elevati, come la disperazione di Giuda e il dolore della Vergine, giunse ad esprimere la sua commozione, ad un tempo rude e gentile. Il fratello di Arnoul, Simon Greban, ebbe parte nella redazione d'un secondo e ancor più vasto mistero sugli Atti degli Apostoli; e un altro ciclo, compilato alla fine del secolo, raduna numerosi episodî del Viel Testament, come un antefatto e una preparazione profetica della Passione. La rappresentazione della vita, e soprattutto del martirio dei Santi, occupò numerosi fatistes, o compositori teatrali; uno di questi, ignoto, sceneggiò Le mystère du Siège d'Orléans, avvenimento storico recente, che avrebbe dovuto suscitare passioni e sentimenti ancor vivi nell'animo dei contemporanei; ma, nel suo sviluppo pedestre e cronistico, l'opera non fu pari all'assunto: la stessa figura di Giovanna d'Arco vi ha una parte limitata e scialba. Alle leggende classiche, acquisite da lungo tempo alla cultura medievale, e sulle stesse fonti, volle risalire Jacques Milet con l'Histoire de la Destruction de Troye la grant.
La metà del sec. XV segna un notevole risveglio del teatro profano: alla farce, i cui primi esempî sono ben più antichi, ma assai rari, e che ora invece appare vivace e copiosa, si aggiungono la moralité (rappresentazione allegorica, a scopo istruttivo e morale) e la sotie, ch'è un breve giuoco scenico, recitato dai sots, nel loro costume variegato e col cappuccio a sonagli, attribuito alla personificazione della Follia: e i sots ripresero anche il monologo dei giullari e i sermons joyeux. Il vivaio della produzione comica s'ebbe nelle società festive della gioventù, come gli Enfants sans souci e la Basoche, che radunava i commessi di notaio e dei tribunali; e da quella cerchia venne fuori, intorno al 1464, il capolavoro del genere, cioè la farsa di Maître Pathelin: poche scene, che bastano allo sfogo di un'arguzia così viva, d'una maestria così sicura degli effetti del linguaggio comico, da giustificare la fortuna del tipo di Pathelin nella tradizione letteraria francese. La moralité valse a trattare gli argomenti più varî, simili talora a quelle novelle ch'erano già state sceneggiate nei miracles: di frequente, mirò ad un commento satirico della storia del tempo.
Il clamore giocondo che si leva dai palccscenici si confonde nell'inquietudine diffusa per tutta la società francese, presaga di un rinnovamento delle idee e dei costumi; e qui giova ricordare come la visione del Medioevo che i primi Romantici francesi si foggiarono e propagarono con l'opera loro (ad es., nel romanzo storico di V. Hugo, Notre-Dame de Paris) muova quasi per intero da questo periodo, dal regno di Luigi XI, cioè dal margine estremo del Medioevo: e per certe venature grottesche e paurose (suggerite da un'arte che appunto allora ebbe voga, e trovò la sua espressione tipica nella Danza macabra), e per la simpatia verso la figura dominante del clerc, dello studente spensierato, beffardo, geniale.
Questa figura è scolpita, a tratti più amari e drammatici, nel nome e nella leggenda, di François Villon, il quale si leva su tutti per l'impeto e la potenza della fantasia, ond'è rimasto uno dei poeti più originali della Francia. La vita di François de Montcorbier, poi Villon, ci è nota a bagliori fugaci, che la rischiarano sino ai trent'anni, cioè fino al 1461-62, dopo di che egli scompare nell'ombra. L'opera sua consiste in due poemetti, il Lais e il Testament, e in poche ballate sparse: evocazione sbrigliata della società fra cui visse il poeta, percorsa alternamente da un'intensa, briosa avidità di godere, e da un senso acutissimo di tristezza e d'abbandono, alla deriva delle passioni, della povertà, della morte. Il Testament, ch'è il suo scritto più importante e significativo, dopo un largo preludio, quasi un esame di coscienza del poeta ormai stanco, si snoda per una lunga serie di lasciti, che gli consentono di richiamare alla memoria esperienze d'ogni sorta, riassunte ciascuna nel volto d'un amico, d'un signore, d'una donna; Villon ne assapora l'acredine e la delusione finale; poi ne ride; e tra la folla dei ricordi, mimici e narrativi, emergono, come le vette del suo lirismo, come l'espansione del suo intimo cuore alcune ballate, delle Dames du temps jadis, della Madre (o Ballade pour prier Notre Dame), della Belle heaulmière, che sono i gioielli a cui rimase affidata la fama del Villon. Le sue poesie furono pubblicate per la prima volta nel 1489: certo ammirate e diffuse, come si rivela dal Marot e dal Rabelais, e come è confermato dalla leggenda che sull'"écolier parisien" si formò alla fine del secolo ed ebbe corso nelle Repues franches per lungo tempo attribuite allo stesso Villon. Il quale però ebbe pochi imitatori (e più d'apparenza che d'ispirazione, quali Guillaume Coquillart e Henry Baude): e il campo seguitò a tenerlo la scuola dei Grands Rhétoriqueurs, cioè dei rigidi e fermi "maestri cantori", per i quali tutta l'arte era governata da leggi artificiose e da formule di facile uso. La scuola fiorì soprattutto alla corte di Borgogna, nelle Fiandre, in Bretagna, e i suoi rappresentanti più insigni furono Georges Chastellain, Jean Meschinot, Octavien de Saint-Gelays, Jean Molinet, Guillaume Cretin, Jean Marot, Pierre Gringore, Jean Bouchet, varcando le soglie del sec. XVI, a cui non recarono se non l'ultima eco della tradizione allegorica della Rose, insieme con una vaga e sparuta velleità umanistica. Uno fra di essi, Jean Lemaire de Belges (nato circa il 1473; l'ultima sua notizia certa è del 1514), sentì più profondamente il contatto della cultura classica e italiana; oltre ai consueti rondeaux, scrisse, parte in terza rima e parte in alessandrini, la Concorde des deux langages, cioè del francese e del "toscan ou florentin", e in una prosa ricca, esuberante, colorita, Les Illustrations de Gaule et singularités de Troie, da cui il Ronsard trarrà l'argomento della Franciade.
E nella prosa dei novellieri e dei cronisti è forse da cercare l'attestazione più persuasiva delle qualità che si maturano nello spirito francese. Antoine de la Sale (1388-fin oltre il 1469), autore della Salade e della Salle, discorsi di politica e di morale, traccia alcune pagine d'una psicologia delicata nel Petit Jehan de Saintré, storia del noviziato sentimentale d'un paggio, sotto la guida di una bella dama che poi lo tradisce crudelmente. Anche le Quinze joyes de mariage, del tempo del La Sale, e a lui attribuite senza prove sicure, hanno una finezza d'osservazione, piena di malizia; le Cent nouvelles nouvelles risentono dell'esempio del Decameron.
Philippe de Commynes (1447-1511), che fu consigliere di Luigi XI e seguì Carlo VIII e Luigi XII nelle spedizioni d'Italia lasciò con i suoi Mémoires un'opera storica di grande valore: interprete avveduto dei fatti politici a cui prese parte, egli mira a scoprire le ragioni e gl'interessi che stanno, quale un congegno segreto, nel chiuso delle grandi imprese della diplomazia e della guerra; e l'intuizione immediata e profonda delle personalità storiche ci mostra com'egli sia già animato dallo spirito del Rinascimento.
Dal 1515 al 1559. - Durante i regni di Francesco I e di Enrico II Si precisa e prende coscienza di sé, sì da diventare uno degli aspetti caratteristici della vita nazionale, il moto di rinnovamento intellettuale e morale iniziatosi negli ultimi decennî del sec. XV. Continuano ad agire molte delle cause che lo hanno provocato: la decadenza degl'istituti che rappresentavano lo spirito del Medioevo; l'allargamento della cultura in seguito ai progressi della stampa; la maggiore e miglior conoscenza del patrimonio letterario e filosofico antico; i contatti più frequenti con l'Italia, cioè con una civiltà più raffinata, in possesso d'una letteratura e d'un'arte superiore, continuatrici della tradizione greco-romana; la coscienza della propria inferiorità culturale e l'aspirazione a uno splendore letterario e artistico che fosse in armonia con la grandezza della Francia. La generazione che entra in scena con Francesco I ha già dei maestri, nel senso più elevato della parola: Erasmo, G. Budé, Lefèvre d'Étaples. È il periodo cui spetta veramente il nome di Rinascimento, se con quel nome intendiamo non il semplice rifiorire degli studî e una più fervida ripresa delle tradizioni letterarie greco-romane, non, vagamente, tutta la letteratura moderna preclassica, non tutto il Cinquecento, ma l'epoca delle revisioni coraggiose e dei tentativi audaci per fondare su nuove basi tutta la vita dello spirito.
Contro gli eruditi che rivelando la civiltà antica schiudono nuovi orizzonti al pensiero e armano di nuove audacie la ragione, contro la stampa che laicizza il sapere e guadagna alla cultura, cioè alla libertà spirituale, un sempre maggior numero di reclute entusiaste, insorgono con energia i depositarî delle vecchie dottrine, l'Università, la Sorbona, e gran parte del clero. I roghi di Berquin (1529), di Dolet (1546), le persecuzioni della Sorbona contro un Lefèvre, contro la stessa Margherita di Navarra, le fughe di Rabelais, di Marot, degli Estienne, per limitarci a qualche esempio, non sono soltanto degli episodî della lotta contro la riforma. La lotta è contro tutta la rinascita; contro il libro che ne è l'espressione, ed ha quasi valore di simbolo il celebre editto del 13 gennaio 1535 che ordinava la chiusura di tutte le librerie e proibiva "d'imprimer aucune chose sous peine de la hart". Si aggiunga la forza d'inerzia del passato. Il Medioevo, spiriti e forme, resta pur sempre una realtà viva e vicina. La deliziosa biografia di Baiardo scritta dal "Loyal Serviteur" (1527), ha lo stesso sfondo ideale della Chanson de Roland: la fedeltà a Dio e al Principe. Si continua a ristampare il Roman de la Rose. Conservano un pubblico i vecchi romanzi di avventura ed ha un enorme successo la traduzione dello spagnolo Amadigi di Gaula fatta da Herberay des Essarts (1540-1556). Il vero e proprio teatro resta medievale: i misteri non riescono a sparire del tutto nemmeno dopo che li ebbe vietati un decreto del parlamento (1548). Resiste a lungo la fama dei Crétin, dei Molinet, dei Bouchet. Le grand et vray art de pleine rhétorique del Fabri, espressione teorica della scuola dei Rhétoriqueurs ha ancora sei edizioni tra il 1522 e il 1544. Il rinascimento è, insomma, la rivolta d'una élite e al Medioevo restano in più d'un modo legate quelle stesse intelligenze che allora tentano d'aprirsi nei varî campi un nuovo cammino. Ma quella élite si va facendo sempre più numerosa e interpreta bisogni sempre più largamente diffusi. Il movimento delle idee, il desiderio del nuovo sono al loro massimo. Colpiscono la vastità delle aspirazioni, l'amore alla vita, il senso gioioso delle possibilità aperte alla volontà e alla ragione, l'ansia di convertire in reale ricchezza per l'individuo e per la nazione le conquiste già realizzate dall'umanità. I progetti e le opere sono imponenti. "Toutes disciplines restituées, les langues instaurées", dice Rabelais verso il 1533. A tutte le iniziative dà il suo appoggio lo stato: ché con Francesco I il mecenatismo regio si trasforma in un vero e proprio programma statale di restaurazione della cultura. Si dà una particolare importanz. alle lingue che schiudono l'accesso al sapere antico; si arriva a reputare vergognosa in un dotto l'ignoranza del greco; l'ebraico prende posto tra le lingue classiche; tra i primi lettori del Collège royal - di cui Francesco I getta le basi nel 1530 appunto perché accolga di fronte alla tradizione teologica medievale la scienza nuova, cioè la filologia - c'è Guillaume Postel, un cultore di idiomi peregrini, cioè arabo, caldaico, ecc. Si pubblicano grammatiche, dizionarî (capitale il Thesaurus linguae latinae di Robert Estienne I, 1532-36). Si moltiplicano le stampe di testi antichi, specialmente greci. Continua la ricerca e la raccolta dei manoscritti. È l'età soprattutto delle traduzioni, eseguite e accolte come contributi alla grande restaurazione sognata, incoraggiate dallo stato, poste dal pubblico al disopra delle opere originali. Sono voltati in francese la maggior parte degli autori latini, parecchi di quelli greci. Notevole è la quantità delle opere tradotte dall'italiano. Ché l'Italia non cessa mai di eccitare e di alimentare il movimento coi suoi libri, con l'azione personale dei suoi filologi, dei suoi artisti, dei suoi poeti: la corte di Francesco I - cui appartiene per qualche anno Leonardo, dove diventa delfina nel 1536 Caterina de' Medici, dove primeggia come poeta l'Alamanni - è allora un magnifico centro d'irradiazione per gli spiriti multiformi della rinascenza italiana. Le traduzioni di questo periodo non sono quasi mai puri esercizî d'arte: sono reali arricchimenti dello spirito francese e segnano spesso storicamente delle date importanti. Oltremodo significativa, per citar qualche esempio, la versione del Nuovo e dell'Antico Testamento (1523 e 1528-30), del Cortegiano (1537), dei Dialoghi di Platone (dal 1544), dei Dialoghi sull'amore di Leone Ebreo (1549). Uno dei grandi avvenimenti letterarî dell'epoca sono le Vite di Plutarco volgarizzate dall'Amyot (1559).
Percepite direttamente o attraverso traduzioni, le voci che giungono dall'antichità e dall'Italia determinano vasti intrecci di risonanze. Si delineano correnti svariate: naturalismo pagano (Rabelais), platonismo (Margherita di Navarra; A. Héroet; tutta l'École lyonnaise), evangelismo (gruppo di Meaux), libero pensiero (Despériers), repubblicanismo democratico (La Boétie: pare che il Contre un sia del 1548), estetismo formale (poesia neolatina; Pléiade). C'è un primo momento nella Rinascenza in cui gli spiriti si aprono con gioiosa fiducia ad ogni aura avvivatrice, ad ogni promessa di esistenza più libera. È il momento in cui si può ancora sognare, intorno a Margherita di Navarra, un ritorno pacifico alla genuinità del Vangelo; in cui Rabelais lancia il primo libro del Pantagruel e il Gargantua e grida allegramente, alla sua maniera, contro l'ascetismo inerte e ignorante, contro la scolastica assurda, contro l'iniquità e la violenza, il suo amore robusto alla natura, alla scienza, all'azione socialmente proficua. Nell'ebbrezza delle prime emancipazioni non si sentono contrasti fra le varie tendenze del Rinascimento. In Margherita il misticismo platonico, l'amore alla libertà fisica e morale, la gioia d'amare si conciliano col tepido riformismo cattolico d'un Briçonnet e di un Lefevre; in Rabelais si trova accanto al naturalismo più sfrenato un ideale d'ordine, di solidarietà, d'elevazione che presuppone le migliori virtù cristiane; Marot è ad un tempo il poeta che anima d'una grazia nuova le arguzie cortigiane e il traduttore dei Salmi (1533-42). Tutti dominati, qualunque sia il loro credo, dal problema religioso e morale, radicati nella realtà contemporanea, gli scrittori di quel primo momento non si pongono in astratto il problema dell'arte. Trovano spontaneamente la piena espressione del loro ideale. Il loro stile concilia, come il loro spirito, il Medioevo coi tempi nuovi, le vecchie forme indigene con le lezioni dell'antichità e con gl'influssi dell'Italia, la mentalità erudita col rispetto e l'amore della realtà quotidiana. Il più grande di tutti, Rabelais, riesce a darci ad un tempo, nel suo incomparabile capolavoro, e tutto sé stesso e tutti i volti della Francia. Universale per i suoi fondamenti e per i suoi fini, non ancora dissociata dalla virtù italiana e dall'edonismo antico, la visione che li ispira resta lontana dalle pedanterie e dai fanatismi. L'atmosfera resta propizia agli ardimenti; Francesco I non ha ancora tradito la causa della Rinascenza; la sua protezione, quella della sorella Margherita restano efficaci. L'ambiente muta dopo il 1534. Il re si schiera con le forze conservatrici. L'evangelismo dei precursori - uno dei più genuini aspetti del Rinascimento in quanto critica delle fonti cristiane e studio indipendente della parola divina - si viene mutando decisamente, specie per effetto delle opposizioni incontrate e dell'esempio germanico, in riforma protestante. Rinascimento e Riforma diventano due mondi opposti e nemici: Calvino appartiene più al Rinascimento solo per la tempra classica del suo stile nella Institution chrétienne (1542) e per la scelta finale, in quelle sue tavole della nuova legge, della lingua laica, il francese. Si aggiunga che la Francia economica, politica, militare conserva bensì la sua coscienza di nazione, la sua intolleranza di primati altrui in Europa, ma va perdendo sempre di più la prima fede nel suo destino egemonico. Il Terzo libro di Rabelais, cascata di risate scettiche e prudenti, il Quarto libro, beffardo ed amaro, lontano dalla stoica rassegnazione definita nel nuovo prologo, fanno sentire che il primo Rinascimento è finito. La trasformazione si accentua quando vengono alla scena le generazioni più giovani, cresciute nell'orgoglio del Rinascimento senza averne vissuto i grandi problemi filosofici e umani. Quel moto continua, ma è ora esclusivamente contro le forme, non più contro gli spiriti del Medioevo. Viene spezzata l'unità iniziale di arte e pensiero. Infatuati come i loro anziani dell'antichità e dell'Italia, ma più preparati per la stessa larga penetrazione del Rinascimento, a sentire la bellezza delle opere antiche e italiane, i contemporanei del Ronsard confrontano con le grandi letterature idolatrate la produzione indigena della prima parte del secolo e ne riportano l'impressione che nulla ancora fosse stato compiuto. Era nell'aria l'aspirazione a una lingua nazionale e letteraria, a una letteratura in grado di gareggiare con quelle amate dalle classi colte e studiate nelle scuole. Si attendeva soprattutto il poeta: l'artista sapiente, melodioso, solenne, che fosse come la voce letteraria della Francia. Divenivano naturalmente meschine, di fronte a simile attesa, le figure d'un Marot e d'un Mellin de Saint-Gelais; del Rabelais si vedeva più che altro la maschera aristofanesca; tornava estraneo alla nazione il vasto tesoro di traduzioni accumulato con tanto entusiasmo. Ronsard e i suoi amici si mettono a fabbricare con giovanile baldanza la letteratura sognata. Sono fieri e convinti delle loro formule: imitazione in luogo di traduzione; adozione di generi, di metri, di abitudini tecniche; creazione organica d'un gruppo di opere che faccia da riscontro alla parte più reputata della letteratura italo-classica. Il nome di Brigade che assumono in sulle prime (1549-52) è un indice delle loro ambizioni. Il loro manifesto, la Deffence et illustration de la langue françoise del Du Bellay (1549) si chiude con un vibrante appello ai Francesi perché saccheggino un'altra volta il Campidoglio e il tempio di Delfi ed ornino delle "serve spoglie" i loro templi ed altari. Du Bellay si fa, o crede di farsi, l'introduttore in Francia del sonetto italiano; Ronsard introduce la grande ode pindarica e si prepara a dotare la Francia del grande poema, il poema epico. Nel 1552 la Cléopâtre del Jodelle dà la spinta al teatro di tipo classico. Sbocca nella Pléiade, per tramutarsi in poesia francese, l'importante filone, francese e straniero, della poesia neo-latina. Si affrontano con ardore problemi di tecnica pratica, di grammatica, di linguistica. In pochi anni, per il suo successo quasi generale, la Pléiade compie l'educazione classicistica del pubblico e rende completa, letterariamente, la separazione dal Medioevo. Festa giovanile di ritmi, orchestrazione di temi eruditi, ma in un tempo che l'erudizione era gioia e vita, opera d'artisti non privi d'una loro intima personalità lirica, la sua poesia realizza nel complesso il sogno iniziale: ha fornito i primi esempî di costruzione ampia, severa, armoniosa e ha dato col Ronsard al pubblico aspettante il poeta preconizzato dalla Deffence. Ma non è, in fondo, per la sua produzione poetica che la Pléiade appartiene al Rinascimento. Presto dimentichi del primitivo programma - la costruzione di un'arte uguale di forma e di valore all'antica - i singoli poeti si sono avvicinati a quel "naturel facile" contro cui erano insorti in nome di un'arte più laboriosa ed hanno lasciato che l'intimo sentimento, il loro piccolo mondo di voluttuosi petrarcheggianti, trionfasse delle reminiscenze erudite. Per quella via il Ronsard giunge all'originalità pensosa degl'Inni e il Du Bellay alla suggestiva tristezza dei Regrets; ma nel complesso la grande opera sognata si risolve soprattutto in un profluvio di versi amorosi (Olive di Du Bellay; Amours di Ronsard, di Baïf, di Jodelle, di Magny; Erreurs amoureuses di P. de Tyard, ecc.). Le grandi odi pindariche restano un fatto isolato nella stessa attività del Ronsard. L'opera si viene adattando ai bisogni del temperamento individuale e, quel ch'è peggio, abbassando al livello della mentalità cortigiana. Con Belleau si cade già nella frivolità descrittiva (Petites inventions, 1557). Al Rinascimento la Pléiade appartiene soprattutto per le sue idee. Col formulare una dottrina, col fissare una gerarchia dei generi letterarî, con l'aprire al volgare le sfere della poesia ritenute più alte, col predicare il rispetto della tecnica, del lavoro, essa è stata, nell'ora del comune entusiasmo, la coscienza letteraria della nazione. L'ideale estetico ch'essa si forma, sotto il fascino dei modelli classici e nel diluviare delle importazioni italiane, è in contrasto con le prime tendenze del Rinascimento: essa consacra, dopo la lirica sincerità d'una Margherita, d'un Rabelais, d'un Marot, il canone dell'imitazione (nel senso moderno di adattazione e di plagio), dopo l'ampio e umano realismo d'un Rabelais, la visione di un'arte aristocratica, erudita, lontana dal profanum vulgus, l'utopia d'una lingua da perfezionarsi in sé e per sé come strumento ai capolavori futuri. Ma è quello l'ideale che il Rinascimento lascia all'avvenire e di cui resteranno improntati tre secoli della letteratura francese: i tre secoli classici. Per lei il Rinascimento lascia alla Francia, con tutti i pregiudizî che gli sono connessi, il concetto esiziale che appartengano alla letteratura solo le opere di cui già esista un prototipo classico.
Dal 1559 al 1598. - La terribile crisi politico-sociale che si apre con la morte di Enrico II per chiudersi solo con la pace di Vervins e con l'editto di Nantes, si ripercuote in varia maniera nella vita letteraria. La guerra civile e le invasioni straniere non arrestano il movimento intellettuale: ne aiutano anzi l'indirizzo laicale e razionalistico. Le nuove e più rigide misure dei poteri conservatori contro la scienza e lo spirito della rinascita sono compensate dallo slancio che prendono, nel conflitto e nella rivolta delle coscienze, le teorie liberali e rivoluzionarie. Sono così stretti, a questo riguardo, i rapporti col periodo anteriore, che possono diventare opere attuali, armi nella lotta appassionata, il Contre un di La Boétie, l'Isle sonnante di Rabelais (forse residui, in parte, del materiale per il Quarto libro). Ma la Francia delle guerre civili va oltre. Non solo si elabora una vera dottrina delle libertà francesi (Hotman, Duplessis-Mornay per i protestanti; Bodin per i cattolici), non solo si arriva all'idea del contratto e della deposizione (Boucher, Du droit de déposer les rois, 1591), ma diventa comune e come normale il concetto di regicidio. Agli esaltatori del regicidio si associa la stessa poesia: si veda la Judith del Du Bartas (checché abbia detto contro tale interpretazione il poeta). Le necessità pratiche della lotta e il rinnovato spirito nazionale creano un largo interesse per la storia patria (E. Pasquier, F. Hotman, Du Tillet, Cl. Fauchet, i due Pithou, Du Haillant, P. Masson, ecc.) e dànno origine ai primi studî sul diritto francese (Du Moulin).