Francia
Non esagera M. quando scrive: «La corona e gli re di Francia sono oggi più gagliardi, ricchi e più potenti che mai fussino» (Ritratto di cose di Francia, § 1). Con questa constatazione, fatta e argomentata poco prima in termini simili da Claude de Seyssel (→), conosciuto personalmente da M. in legazione («Il Regno di Francia non fu mai così opulento, in pace, potente, glorioso e potente come oggi», Les louenges du roy Louys XIIe de ce nome, 1508, pp. 19-20), si considera in primo luogo il continuo ingrandimento e accentramento del territorio nei decenni precedenti. In particolare, l’acquisto della Borgogna (1477), della Provenza (1481) e infine della Bretagna (1491) cambiarono del tutto la fisionomia del regno. In precedenza, la guerra dei Cent’anni aveva contribuito all’emergere di un sentimento se non «nazionale» almeno unitario dietro alla figura del re. I regni di Carlo VII (1422-1461) e Luigi XI (1461-1483) furono segnati dal ritorno della pace, da una notevole crescita demografica ed economica, e da una serie di riforme fiscali e militari che rafforzò il potere monarchico. Dopo la sua vittoria sulla lega del Bene pubblico (1465), Luigi XI aveva imposto la propria autorità sui grandi principi feudali – i «baroni» diventati «ossequentissimi» secondo M. (Ritratto, § 4). Queste le premesse dell’avventura bellica italiana iniziata da Carlo VIII e proseguita dai successori Luigi XII e Francesco I.
Forte dei suoi diritti sul Regno di Napoli ereditati dal lontano antenato Carlo I d’Angiò, Carlo VIII ‘calava’ sull’Italia nel 1494, passava nel Regno «col suo vittorioso stuolo / […] qual falcon che cale / o uccel che abbia più veloce volo» (Decennale I, vv. 46-48) e dava così inizio ai «grandi spaventi», alle «súbite fughe» e alle «miracolose perdite» delle guerre d’Italia (Arte della guerra VII 237). In un primo periodo, i francesi «robusti e furiosi» (Decennale I, v. 85) incontrarono poca resistenza e devastarono il Paese. I fiorentini, che proprio con l’occasione dell’invasione francese avevano cacciato Piero de’ Medici e instaurato il Consiglio grande, rimasero da allora in dipendenza diretta delle armi e della sorte della F. nella penisola, fino alla caduta della Repubblica nel 1512.
M. lo notava già nel 1504: «per esser di Francia buon figliuoli, / non vi curasti, in seguitar sua stella, / sostener mille affanni e mille duoli» (Decennale I, vv. 106-08). Nel frattempo, dopo la morte di Carlo VIII (apr. 1498), sul trono era salito Luigi XII, le cui pretese dinastiche riguardavano anzitutto il ducato di Milano ‘ereditato’ dalla nonna Valentina Visconti. Dopo una prima conquista nel 1499, i francesi si insediarono stabilmente nel ducato dal 1500. Per aver esitato nell’appoggiare il re, la Repubblica fiorentina rischiò di inimicarselo e «fu per perdere lo stato» (Discorsi II xv 21). Firenze dovette accontentarsi di un accordo particolarmente gravoso, in un periodo reso assai critico dalla guerra contro Pisa, dalle conquiste di Cesare Borgia e dalle rivolte di Arezzo e della Val di Chiana. Sebbene favorisse il rafforzarsi del papa e di suo figlio nell’Italia centrale (in cambio dell’annullamento del suo primo matrimonio che gli permetteva di sposare Anna di Bretagna), il re, rimasto «el maestro della bottega» (M. ai Dieci, 10 genn. 1503, LCSG, 2° t., p. 546), poteva impedire a Cesare Borgia di attaccare Firenze nel 1501. Però, fin dal 1500, «conobbesi ’l vero, / come e’ Franzesi possono esser vinti» (Decennale I, vv. 278-79): tra gli ultimi giorni del 1503 e i primi del 1504, infatti, essi perdettero le ultime posizioni nel Regno di Napoli. Una tregua sancì per qualche anno una quasi partizione dell’Italia, francese a nord, spagnola a sud, ma dopo la vittoria di Agnadello (1509) Giulio II cominciò a considerare che la potenza dei francesi, padroni della Lombardia e alleati di Ferrara e Firenze, fosse troppo pericolosa. Una volta costituita la lega Santa, il grande alleato mise i fiorentini in una situazione difficile, soprattutto quando convocò un concilio a Pisa (nov. 1511), riacquistata al dominio. La guerra aperta tra lega Santa e re di F. si scatenò nel 1512. Dopo un inizio favorevole ai francesi con la battaglia di Ravenna (→), la morte di Gaston de Foix e la potenza dell’esercito spagnolo condussero al terribile sacco di Prato: i fiorentini non poterono far altro che aprire agli spagnoli e ai Medici. In Lombardia, i francesi sconfitti dagli svizzeri lasciarono l’Italia nel 1513.
Appena salito sul trono, Francesco I (→) si mosse «per la recuperazione dello stato di Lombardia» (Discorsi I xxiii 14), conseguita in effetti dopo la vittoria sugli svizzeri a Marignano nel settembre 1515. Ma, poco dopo, la formazione del nuovo impero di Carlo V rese precaria la situazione geopolitica dei francesi: l’insieme dei loro territori era circondato dai nemici asburgici, mentre la Lombardia rompeva la continuità territoriale dell’impero tra Nord e Sud. La guerra tra F. e impero prese avvio, nella penisola, dal 1521, e si risolse a favore del secondo: dopo la battaglia di Pavia (24 febbr. 1525), il re, fatto prigioniero, fu costretto a rinunciare a tutti i possedimenti italiani. Preoccupati dal rischio di una totale egemonia asburgica, gli Stati italiani, tra cui la Firenze e la Roma medicea di Clemente VII, nel 1526 si allearono con Francesco I nella lega di Cognac, andando incontro, l’anno seguente, a una definitiva sconfitta. Da allora in poi, per lungo tempo, la penetrazione francese nella penisola non poté varcare i confini del Piemonte.
L’insistenza sulla forza di un regno contrassegnato dal retaggio feudale, eppure saldamente unito dietro al suo sovrano, caratterizza l’intera produzione machiavelliana. Fin dal Discursus de pace inter imperatorem et regem (1501), scritto in seguito alla sua prima legazione in F. (1500), M. insiste sull’unità e sulla ricchezza dello Stato francese, in opposizione alla disunione dell’impero. Durante gli anni al servizio della Repubblica, questa analisi viene confortata sia dalle altre legazioni in F. (1504, 1510, 1511) sia dalla missione in Germania (1507-08), ed è ribadita nelle relazioni sui due Paesi scritte negli ultimi tre anni della Repubblica (Ritratto di Francia, Rapporto e Ritratto della Magna). Sebbene non si possa dubitare della lealtà intellettuale dell’analisi, va rilevata la funzionalità del discorso a motivi di politica interna: gli ottimati opposti a Piero Soderini puntavano sul rovesciamento delle alleanze; favorire la Francia significava anche difendere il gonfaloniere a vita.
M. dà giustamente molta importanza al ruolo svolto dai grandi feudatari: già fattore di fragilità, i «baroni» sono ormai un appoggio, le alleanze matrimoniali avendoli fatti «di sangue reale» (Ritratto di Francia, § 7). Nel cap. iv del Principe, la F. assume valore di archetipo: quello di un principato governato «per uno principe e per baroni». Dotato di minore «autorità» monarchica rispetto a «quelli stati che si governono per uno principe e per servi», un tale regno è più facile da invadere, «perché sempre si truova de’ mali contenti e di quegli che desiderano innovare»; ma all’invasore che vi si vuole mantenere, procura «infinite difficultà», «perché vi rimangono quelli signori che si fanno capi delle nuove alterazioni; e, non gli potendo né contentare né spegnere, perdi quello stato qualunque volta la occasione venga» (Principe iv 2-14). M. applica alla F. un ragionamento dialettico che, di nuovo, conduce a rovesciare in punti forti gli elementi inizialmente identificati come deboli. Simmetricamente, le debolezze dei francesi sono identificate da M. proprio nei settori in cui essi vantano una superiorità: la politica internazionale e l’arte militare. Fin dalla sua prima legazione, il diplomatico fiorentino notava che i francesi «sono accecati da la potenzia loro e da l’utile presente e stimano solamente o chi è armato, o chi è parato a dare» (M. alla Signoria, 27 ag. 1500, LCSG, 1° t., p. 443). Proprio durante quella missione, M. avrebbe rimproverato tale assenza di lungimiranza al cardinal Georges d’Amboise, primo ministro del re, a proposito del sostegno francese alle imprese del Valentino:
dicendomi el cardinale di Roano che gli italiani non si intendevano della guerra, io gli risposi che e’ franzesi non si intendevano dello stato: perché, s’e’ se ’ntendessino, non lascerebbono venire in tanta grandezza la Chiesa. E per esperienzia si è visto che la grandezza, in Italia, di quella e di Spagna è stata causata da Francia, e la ruina sua è suta causata da loro (Principe iii 48-49).
Si conclude così la narrazione dei «cinque errori» di Luigi XII, il quale «ha fatto il contrario di quelle cose che si debbono fare per tenere uno stato in una provincia disforme» (iii 31): in materia di politica militare e di strategia geopolitica la F. offre così la controprova delle regole già in parte teorizzate da M. nella sua lettera ai Dieci del 21 novembre 1500 (cfr. LCSG, 1° t., pp. 519-26). Tra il 1500 e il 1513, l’analisi iniziale, pur anche arricchita, fu sostanzialmente confermata.
A lungo termine, però, l’errore più grande dei re di F., da Luigi XI in poi, fu l’abbandono della fanteria permanente. Carlo VII aveva creato il primo esercito permanente del regno, con l’istaurazione delle Compagnies d’ordonnance nel 1445 e soprattutto dei Francs-archers nel 1448, considerati da M. uno dei migliori esempi di fanteria popolare (ottanta «fuochi» dovevano fornire un fante). Ma Luigi XI li aveva soppressi nel 1480. Ora, per M. si tratta di un punto fermo, ribadito nelle lettere così come nelle opere maggiori: la superiorità delle «populazioni armate» viene confermata sia dalle «perdite» sia dalle «vittorie» della Francia. Vincitore «mentre ha avuto a combattere con italiani e spagnuoli, che sono stati eserciti simili a’ suoi», il re perde «ora che li ha a combattere con le popolazioni armate, come sono li svizzeri e li inghilesi» (M. a Francesco Vettori, 26 ag. 1513, Lettere, pp. 289-90). Evocando Carlo VII, l’autore del Principe ricorda opportunamente che fu proprio chi seppe «con la sua fortuna e virtù» liberare la F. dagli inglesi a creare «l’ordinanza delle gente d’arme e delle fanterie» (Principe xiii 18). E afferma perfino che «il regno di Francia sarebbe insuperabile se l’ordine di Carlo era accresciuto o preservato» (Principe xiii 23), un parere ribadito poi nell’Arte della guerra: «non è alcuno [...] che non giudichi questo difetto essere in quel regno e questa negligenza sola farlo debile» (I 188).
In un periodo di riflusso e sconfitte, tale giudizio testimonia, e sia pure in controluce, una valutazione molto positiva del regno, la cui forza profonda risiederebbe nel senso della patria che unisce i sudditi al re. Così, due punti chiave del pensiero machiavelliano, il patriottismo popolare e la necessità del realismo, sono esplicitamente legati a esperienze vissute in prima persona durante i soggiorni in F.:
Dove si dilibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d’ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d’ignominioso; anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita e mantenghile la libertà. La quale cosa è imitata con i detti e con i fatti dai Franciosi per difendere la maestà del loro re e la potenza del loro regno; per che nessuna voce odono più impazientemente che quella che dicesse: “Il tale partito è ignominioso per il re”; perché dicono che il loro re non può patire vergogna in qualunque sua diliberazione, o in buona o in avversa fortuna, perché, se perde, se vince, tutto dicono essere cose da re (Discorsi III xli 5-6).
Una nota che, fra tante altre, permette di contestare sia le interpretazioni in chiave puramente repubblicana della preoccupazione machiavelliana per la salute della patria, sia le assimilazioni di un certo amoralismo machiavelliano a un indirizzo filotirannico. La F. monarchica si configura dunque come un modello di unità partecipativa tra governati e governanti, ma anche come un esempio di accettazione razionale delle necessità proprie all’esercizio del potere.
Vi è una differenza rilevante nell’approccio di M. alla F. durante e dopo l’esperienza di governo. Nei vari testi scritti negli anni della cancelleria e delle legazioni prevaleva l’interesse per la potenza interna ed esterna; post res perditas emerge nettamente il tema, appena abbozzato nel Ritratto di Francia, delle buone «constituzioni» del regno – una parola che M. riserva di solito ai fondatori delle repubbliche antiche. Prima prevaleva l’attenzione per i rapporti di forza o di sudditanza tra il re e i «grandi» (oltre a quella per le «armi» e la politica estera); nel Principe e soprattutto nei Discorsi è l’assetto istituzionale e giuridico del regno a offrire esempi positivi. Nel Principe, il Parlamento è presentato come la «prima» delle «infinite constituzioni buone» di quel regno «bene ordinat[o] e governat[o]» (xix 20). Un’istituzione però funzionale alla «sicurtà» del re, garanzia del suo potere contro i «grandi»: il Parlamento fa le veci di uno «iudice terzo» che «sanza carico del re» batta i grandi e favorisca i minori (xix 22). Certo personale e consona alla logica propria dell’opuscolo e alle posizioni filopopolari di M., tale formulazione non è però inadeguata al ruolo storico dell’organo centrale della giustizia regia che, in effetti, servì a imporre l’autorità giudiziaria suprema del sovrano sulle giurisdizioni signorili.
Nei Discorsi la funzione del Parlamento appare ben diversa. Nell’ambito della riflessione nota di M. sulla necessità, «a volere che una setta o una republica viva lungamente», di «ritirarla spesso verso il suo principio» (III i 1), il Parlamento si configura come l’istituzionalizzazione di questo medesimo principio, nello stesso modo in cui, per la Repubblica romana, lo «furono i Tribuni della plebe, i Censori, e tutte l’altre leggi che venivano contro all’ambizione e alla insolenzia degli uomini» (i 20). Ora prevale la funzione antiassolutistica del Parlamento: non sono più tanto i re a doversi proteggere contro i grandi, quanto il regno, di cui i parlamentari sono i guardiani istituzionali, a doversi proteggere contro le possibili deviazioni assolutistiche del re:
E si vede quanto buono effetto fa questa parte nel regno di Francia, il quale regno vive sotto le leggi e sotto gli ordini più che alcuno altro regno. Delle quali leggi e ordini ne sono mantenitori i parlamenti, e massime quel di Parigi; le quali sono da lui rinnovate qualunque volta ei fa una esecuzione contro a un principe di quel regno, e che ei condanna il Re nelle sue sentenze (i 36-37).
Quest’ultima affermazione è sicuramente eccessiva, nella misura in cui M. sembra scambiare per condanne le verifiche delle varie leggi e ordinanze emanate dal re, destinate a garantirne giuridicamente la validità. Il Parlamento «autorizzava» le leggi del re, partecipando così al processo legislativo: come scriveva de Seyssel ne La monarchie de France nel 1515, era sua prerogativa giudicare la civilité o incivilité delle lettere e dei rescritti dei re (C. de Seyssel, Les louenges du roy Louys XIIe..., in Histoire de Louis XII, cap. X), e questo proprio perché il principe era tenuto a sottomettersi volontariamente alla legge, in accordo con la costituzione Digna vox del Codice di Giustiniano (C. 1, 14, 4), particolarmente cara al diritto pubblico premoderno. Nondimeno il discorso di M. sta al passo con la dottrina parlamentare francese contemporanea. Proprio nei primi anni del regno di Francesco I – quelli della scrittura dei Discorsi – la Curia regis resiste energicamente alla volontà del nuovo sovrano di ridurla a mera esecutrice e ‘delegata’. Le opposizioni dei parlamentari diventano vive e sistematiche, soprattutto nelle materie più scottanti (militari, finanziarie ed ecclesiastiche). Si spiega forse così la scelta machiavelliana della parola condanna, certo eccessiva come traduzione di remontrances, e del tutto inappropriata alla relazione più armoniosa che esisteva tra il Parlamento e Luigi XII.
Nei Discorsi l’analisi va collegata più generalmente alla volontà di dare come esempio la fedeltà dei re di F. al principio di una obbligazione volontaria alle leggi: «In esemplo ci è il regno di Francia, il quale non vive sicuro per altro che per essersi quelli re obligati a infinite leggi, nelle quali si comprende la sicurtà di tutti i suoi popoli» (I xvi 27). È necessario che ogni Stato venga «regolato dalle leggi» (I lviii 8), secondo una concezione della legge come «freno» affine a quella presentata negli stessi anni da de Seyssel. Regno «moderato più dalle leggi che alcuno altro regno di che ne’ nostri tempi si abbia notizia», la F. dà l’esempio di re la cui «bontà» proviene dal fatto che essi non possano «rompere quel freno che gli può correggere» (lviii 9-10). È propria dei Discorsi, non dei testi precedenti, questa insistenza sul rispetto delle leggi da parte del sovrano francese, garantito da «ordini» che a loro volta, grazie alla loro antichità, permettono al principe di mantenersi perfino quand’è debole (xix 10) e garantiscono l’unità del Paese finanche quando il popolo risulta «corrotto» (lv 8). Perciò non convince la tesi secondo la quale, «proprio dalla costante riflessione sull’organizzazione costituzionale della Francia, Machiavelli abbia dedotto [la sua] teoria del ‘principato civile’» (Cadoni 1974, pp. 44-45). Nella delineazione datane nel cap. ix del Principe, il principato civile riguarda i principi giunti al potere «con il favore delli altri sua cittadini» (§ 1); per di più, al contrario del regno di F., rafforzato dall’antichità dei suoi ordini, tale principato è caratterizzato dalla fragilità, specialmente quando il principe governa per mezzo delle magistrature (§§ 23-24). In particolare, solo nei Discorsi M. si sofferma in modo decisivo sulla natura legalitaria dell’ordine costituzionale della Francia. Quest’ultima gli appare ormai esemplare per la sua «civilità» e si può fare l’ipotesi che il nuovo contesto fiorentino, con l’affermarsi del principato mediceo, non sia del tutto estraneo a questa evoluzione della sua riflessione sul regno. Gli esempi di principi dalla sovranità temperata sono particolarmente valorizzati, siano i re di F. o «quelli imperadori che vissero sotto le leggi e come principi buoni» (I x 16). Si tratta insomma, in un tempo di tramonto delle idee e speranze repubblicane, di avvalorare gli istituti e le pratiche che permettano di scongiurare i rischi di degenerazione assolutistica e tirannica e di preservare il «vivere civile» in ambito principesco.
Nel complesso del pensiero politico machiavelliano, con modalità diverse a seconda delle sue fasi, la F. costituisce uno dei modelli alla luce dei quali sono affrontate questioni essenziali: le «cose di Stato», cioè i rapporti di forza tra potenze, le armi, il principato e la «civilità». Un modello certo non paragonabile alla Roma antica, ma di primaria importanza nell’insieme dell’«esperienzia delle cose moderne» (Principe, lettera dedicatoria, 2).
Bibliografia: Fonti: C. de Seyssel, Les louenges du roy Louys XIIe de ce nom (1508), poi in Id., Histoire de Louys XII, Paris 1615; C. de Seyssel, La monarchie de France, Paris 1519.
Per gli studi critici si vedano: G. Cadoni, Machiavelli. Regno di Francia e ‘principato civile’, Roma 1974; C. Vivanti, introduzioni e note a N. Machiavelli, Opere, 1° e 2° voll., Torino 1997-1999; E. Sciacca, Principati e repubbliche. Machiavelli, le forme politiche e il pensiero francese del Cinquecento, Firenze 2005; G. Inglese, Per Machiavelli. L’arte dello Stato, la cognizione delle storie, Roma 2006; R. Descendre, Le cose di stato. Sémantique de l’État et relations internationales chez Machiavel, «Il pensiero politico», 2008, 41, pp. 3-18; J.-L. Fournel, L’écriture du gouvernement et de la force en France et en Italie au début du XVIe siècle, in Autour de Claude de Seyssel. Écrire l’histoire, penser la politique en France à l’aube des temps modernes, sous la direction de P. Eichel-Lojkine, Rennes 2010, pp. 99-116.
La fortuna di Machiavelli in Francia e in Svizzera. – Non è un caso che lo studio di Giuliano Procacci sulla fortuna europea di M., pubblicato nel 1995, abbia avuto la sua origine quarant’anni prima in un lavoro sulla fortuna francese di Machiavelli. Questa assume infatti, negli studi sul lascito di M., un valore paradigmatico. Per studiarla, come mostrò Procacci, bisogna interessarsi non solo alle letture di M., ma anche e soprattutto alle operazioni editoriali e al trattamento riservato alle opere da editori, traduttori e librai. In tale prospettiva, vanno accantonate le semplificazioni indotte dal binomio machiavellismo/antimachiavellismo, capitolo piuttosto ripetitivo della storia delle idee. In F., molto più della messa all’Indice (che ebbe invece una parte fondamentale nelle penisole italiana e iberica), a costituire uno spartiacque furono due eventi: la notte di san Bartolomeo, alla fine del mese di agosto 1572, fonte di un’ondata di anti-italianismo e dell’assimilazione di Caterina dei Medici e di suo figlio, il giovane e debole Carlo IX, a ‘tiranni’ ispirati dalla lettura di M.; due secoli dopo, la Grande Rivoluzione, che fece passare M. dalla parte dei ‘repubblicani’ e della ‘nazione’.
La fortuna francese di M. cominciò una trentina di anni prima di quel fatidico agosto del 1572, ossia negli anni attorno al 1540. Nel 1544 Jacques Gohory terminò la sua versione francese del primo libro dei Discorsi, mentre nel 1546 Jacques de Vintimille, legato al connestabile Anne de Montmorency, tradusse il Principe, lasciando però il suo lavoro manoscritto, e Jean Charrier pubblicò la sua traduzione dell’Arte della guerra. Il medico Guillaume Cappel (m. 1584) pubblicò a Parigi la sua traduzione del Principe nel 1553, e quasi contemporaneamente uscì quella di Gaspard d’Auvergne stampata in provincia, a Poitiers. Alla luce di questi pochi dati risulta quindi in parte strumentale la notazione di Innocent Gentillet (cfr. oltre) secondo il quale M. non era noto in F. sotto il regno di Enrico II (1547-59). Colpisce invece il fatto che M. non venga allora percepito come un maestro di vizi e di tirannide, tranne in pochi passi (per esempio in alcuni marginalia di d’Auvergne ai capitoli iii – «crudele Turcorum consilium» –, xiii – «crudele factum» – e xviii – «consilium alienum a christiana religione»). Interessava allora di più la sua lingua, asciutta e precisa (secondo Vintimille e Gohory), o la sua supposta figura di scienziato della politica. Tutti i traduttori francesi di M. sono d’altronde legati al gruppo della Pléiade e particolarmente attenti quindi alle considerazioni linguistiche e poetiche, nonché al ruolo che le traduzioni possono avere per arricchire la ‘giovane’ lingua volgare francese. M. non venne immediatamente ridotto agli schemi dell’antimachiavellismo e per decenni fu letto in F. come storico e come politico, senza pregiudizi polemici. Dopo Philippe de Commynes nessun francese aveva intrapreso una storia sistematica e non memorialistica delle guerre d’Italia: i fiorentini – M., ma anche Francesco Guicciardini – potevano aiutare a colmare questo vuoto. Così Cappel, nella sua Preface pour la traduction du Prince de Machiavelle, propone un elogio razionalista dell’opera, presentata come un capolavoro di saggezza politica. La politica vi è considerata l’«apice della filosofia», un sapere noto al solo principe e ai suoi magistrati che devono guidare il popolo. Si fa strada così una lettura aristotelica di M., il cui protagonista in F. è Louis Le Roy. Simmetricamente è resa possibile un’integrazione del pensiero di M. alla tradizione nazionale di una monarchia temperata dalle leggi e dai parlamenti: la F. può diventare addirittura l’esempio di una buona applicazione delle teorie di M., compreso l’impiego di «medicine forti», a volte utili alla ‘repubblica’. L’altro traduttore del Principe, il ‘provinciale’ d’Auvergne, critica in effetti M. per i supposti elogi del vizio, ma la notazione non si iscrive in una condanna dell’autore bensì nel compianto per la fragile condizione naturale dell’uomo e in una forma di pessimismo cosmico. Scopo del traduttore è quindi di conciliare la morale cattolica e i precetti di M., giustificando ciò che lui chiama «questi nuovi e crudi discorsi» in nome della salvaguardia del regno.
Accanto a questa fortuna dei ‘trattati’ politici di M., un discorso specifico va riservato alla ricezione del pensiero militare del Fiorentino, il quale, ben lungi dai luoghi comuni sulla presunta incomprensione machiavelliana della modernità militare, dimostra un’influenza di lungo periodo, diretta (grazie all’Arte della guerra, la cui traduzione comparve prima di quella del Principe e di quella integrale dei Discorsi) e indiretta (tramite i fortunati Instructions sur le faict de la guerre di Raymond de Beccarie de Pavie de Fourquevaux, del 1548, oppure il Parfaict capitaine di Henri de Rohan, del 1632).
Gohory, primo traduttore francese noto di M., apprezza il Fiorentino non per il suo linguaggio, alquanto «semplice», ma per «i segreti profondi del suo sapere»; poi, nel 1548 aggiunge alla traduzione integrale un sonetto di Jean-Pierre de Mesmes, il quale sottolinea che M. è apprezzato meglio in F. che in Italia. Un anno prima della strage di san Bartolomeo, ripubblicando la propria traduzione dei Discorsi con una «sua» traduzione del Principe (in realtà, plagio di quella di Cappel), Gohory inserisce nel paratesto considerazioni ancora più precise sulla lingua. Per lui, M. è il primo ad avere saputo associare «le parole proprie naturali» e «i termini di stato», rendendo così possibile una riflessione sul rapporto tra lingua d’uso corrente e lingua della politica. Ma soprattutto introduce nella stessa edizione una biografia di M. – la prima mai pubblicata – che propone una difesa appassionata del Fiorentino, paragonato a Plinio (con tutta verosimiglianza il Giovane) per la sua conoscenza della scienza politica. Sembra di rileggere qui quanto Jean Bodin scriveva nella Methodus tre anni prima, quando sottolineava che fino a M., per ben 1200 anni (all’incirca, da Agostino in poi), non c’era stato nessuno che avesse scritto de republica (seppure Bodin rimproverasse già a M. di fondare il suo discorso solo sugli storici romani). Tale lettura di M. – considerato fonte di sapere sul governo, ma anche sulla natura umana – suggerisce inoltre un’analisi che vada da Michel de Montaigne e Pierre Charron fino a Cartesio e a quel curioso apologeta di M. che fu Louis Machon (→): questi, a metà Seicento, loda M. per aver svelato il fondo nero dell’uomo, propenso al male e all’insolenza, secondo un filone protogiansenista nel quale si sovrappongono, con quella di M., le letture di Agostino, Charron e Blaise Pascal.
Tornando alla seconda metà del Cinquecento, contemporaneamente alle prime condanne da parte della curia romana – che giungeranno alla messa all’Indice degli opera omnia di M. nel 1557-1559 – un altro capitolo della storia di M. si apre in Svizzera, grazie all’impegno di stampatori italiani esuli per motivi religiosi, come Pietro Perna a Basilea che pubblicò nel 1560 una traduzione latina del Principe, dovuta a Silvestro Tegli da Foligno. Alla diffusione europea di quel testo si aggiunge anche la traduzione latina dei Discorsi, uscita a Montbéliard nel 1587 a opera del medico Nicolaus Stepanus. Per questi esuli italiani, M. – come poi il Guicciardini della Storia d’Italia – è una preziosa fonte storica per denunciare la corruzione della curia e dei papi. Sembra comunque, secondo Thomas Maissen (2010), che queste traduzioni di M. abbiano avuto un’influenza più significativa in ambito continentale che non propriamente elvetico. Tale notazione può valere anche per autori ottocenteschi, segnatamente per Jean-Charles-Léonard Simonde de Sismondi (si veda oltre) e poi per Jacob Burckhardt e la sua fortunata Die Kultur der Renaissance in Italien (1860), nella quale sul modello testuale del principe machiavelliano – nonché su quello storico dei signori italiani del Quattrocento – si pensava «lo Stato come opera d’arte».
Grazie alle stampe svizzere, saranno i protestanti francesi a suscitare una svolta radicale per la fortuna di M. nel loro Paese. Poco più di un anno dopo la ristampa dell’edizione Gohory dei Discorsi e del Principe, il massacro di migliaia di calvinisti nella notte di san Bartolomeo solleva un’ondata di anti-italianismo. In questa situazione il Principe diventa spesso (per i riformati prima, ma quindici anni più tardi sarà così anche agli occhi dei ‘ligueurs’ ultracattolici, dopo l’assassinio del duca di Guisa, nel 1588, da parte del ‘re-tiranno’ Enrico III) il breviario della tirannia, impersonata dalla regina madre Caterina dei Medici. Emblematici di questo antimachiavellismo dilagante saranno, nel 1576, i Discours sur les moyens de bien gouverner et maintenir en bonne paix un royaume [...] contre Nicolas Machiavel, del giurista Innocent Gentillet (→). I Discours non sono soltanto un manifesto antimachiavelliano, che conia la fortunata definizione dell’opuscolo come «alcoran dei cortigiani»: il trattato è prima di tutto una lettura di M. (che contribuirà paradossalmente anche alla diffusione del pensiero di M. in terra protestante) al servizio di un discorso su cosa sia un governo regale antitirannico. M. in tale caso è solo il nome dato ai soprusi di una monarchia francese che non rispetta le leggi e tradisce i propri doveri nei confronti del popolo. Negli stessi anni le opere di François Hotman, di Philippe Du Plessis Mornay o dell’anonimo Junius Brutus (con le sue Vindiciae contra tyrannos), pubblicate anch’esse in terra elvetica, vanno nella medesima direzione.
Ma anche da parte cattolica e legittimista la condanna di M. diventa un topos. Lo stesso anno dei Discours di Gentillet, Bodin (→) nella prefazione dei Six livres de la république (1576) proclama che la propria opera è concepita per proporre un’alternativa al pensiero machiavelliano, in quanto esso è troppo dissociato dalla tradizione giuridica e non può quindi pretendere di essere una fonte di «scienza politica». La prospettiva cambia solo alla fine del Seicento quando Abraham-Nicolas Amelot de la Houssaye (→) propone una nuova traduzione di M. (1683), decisiva per il pensiero illuministico, in cui offre una lettura parzialmente repubblicana del testo.
Nel Settecento l’opposizione fra una politica intesa come inganno e tirannia, e una politica razionale, scienza e strumento di libertà, continua a condizionare i dibattiti su M. e sulle sue presunte ‘colpe’. Nel 1740 nell’Anti-Machiavel (→) di Federico II, pubblicato con prefazione di Voltaire, si osserva che «M. corrompeva la politica con l’intento di distruggere i principi di una sana morale». D’altro canto le letture dette oblique permettevano di contrastare la condanna di M. come maestro di tirannide. Ben espressiva di queste letture è quella di Jean-Jacques Rousseau (→), nel Contrat social (III 6). Egli scrive che il Principe è «il grande libro dei repubblicani», poiché «facendo finta di dare lezioni ai re, ne ha date delle grandissime ai popoli». Vera e propria consacrazione dell’interpretazione in chiave repubblicana del Segretario fiorentino, la lettura del Principe non come elogio dei principi, ma come satira del potere tirannico, è anche quella di Denis Diderot (→), probabile autore della voce Machiavélisme nell’Encyclopédie. D’altronde, la preferenza data ai Discorsi visti come un manuale di vita civile costituisce uno dei tratti salienti dell’atteggiamento illuministico fin da Montesquieu (→). Se si può sicuramente affermare che l’opposizione tra machiavellici e antimachiavellici attraversa l’intero gruppo dei Philosophes, rimane d’altra parte innegabile che l’epoca dei lumi rappresenta in F. una fase di riabilitazione repubblicana di Machiavelli. In questo modo alla fine del Settecento, come osserva Procacci (1995), M. è «uscito dal chiuso delle università ed accademie per divenire patrimonio comune e acquisito della cultura europea» (p. 274).
Dopo la Rivoluzione francese, ciò che caratterizza in Europa il passaggio dalle interpretazioni settecentesche a quelle ottocentesche è essenzialmente l’abbandono della lettura obliqua e l’affermarsi di una concezione nazionale e patriottica del pensiero del Fiorentino. Il Principe e i Discorsi non sono più contrapposti e si tende piuttosto a considerare nella sua globalità il pensiero machiavelliano e i suoi principi, «uniformi e costanti», come recita la voce Machiavel, nel 1820, nella Biographie universelle Michaud. Tra gli altri elementi che caratterizzano in F. le letture di M. nell’Ottocento vanno rilevate, per un verso, la storicizzazione del suo pensiero e la sua contestualizzazione in un Cinquecento italiano che si definisce spesso come il secolo di M. (il che permette di distinguere il suo ‘genio’ dai suoi ‘errori’, come si trova nel titolo del libro di Alexis-François Artaud de Montor, Machiavel, son génie et ses erreurs, 1833), e, per altro verso, la questione dell’‘attualità’ di Machiavelli. In Francia, il legame tra la questione M. e il bonapartismo costituisce in effetti una costante della riflessione sulle opere del Fiorentino, ma la riflessione appare anche strettamente intrecciata a quella sul destino delle rivoluzioni, in particolare al momento della ‘primavera dei popoli’, attorno al 1848, considerato come il secondo ‘momento machiavelliano’ del secolo.
Esemplare di queste novità appare la lettura data da Charles-Philippe-Toussaint Guiraudet nella prefazione alla traduzione delle OEuvres complètes pubblicata in nove volumi nel 1799: nel Discours sur Machiavel dell’allora segretario del ministère des Relations extérieures, l’autore del Principe diventa ora un «ardente repubblicano» che aveva meditato sulle istituzioni romane e difeso l’importanza, in ultima istanza, della religione. Ormai lontano l’ateismo del periodo rivoluzionario, M. poteva giustificare all’epoca del Direttorio il Concordato e successivamente il colpo di Stato di Brumaio in nome della salvezza dello Stato. In questa fase ‘nazionale’ delle letture di M. – una fase che prefigura per l’Italia il Risorgimento – la prospettiva repubblicana era quindi destinata a non coincidere sempre con la prospettiva patriottica, nella misura in cui non sempre libertà politica e potenza della nazione venivano considerate compatibili. Nei testi del francese Pierre-Louis Guinguené (Histoire littéraire de l’Italie, 1811-1819) e dello svizzero Sismondi (De la littérature du midi de l’Europe, 1813), scritti in epoca napoleonica, è innegabile che sia quasi definitivamente tramontata la lettura obliqua, a beneficio di una visione storicizzata aderente alla biografia. Entrambi rimpiangono quindi che, nell’opinione comune, il nome di M. sia associato a un tipo di politica falsa e perfida. Di una lettura invece critica rispetto all’esperienza rivoluzionaria e napoleonica testimoniano nel 1816 gli apocrifi Commentaires de Napoléon pubblicati dall’abate Aimée Guillon de Montléon (→ Napoleone, pseudo) e il Machiavel et l’influence de sa doctrine sur les opinions, les moeurs et la politique de la France di F. Mazères. Senza distinguere il pensiero di M. dal «machiavellismo», Mazères intende denunciare «il cammino a ritroso percorso dalla Francia sotto l’influenza di Machiavelli», un’influenza che si sarebbe manifestata essenzialmente con la Rivoluzione.
È in un’ottica invece ben diversa che, nella rinata cultura repubblicana, M. viene letto alla luce del Quarantotto europeo. In Machiavel, juge des révolutions de notre temps, pubblicato in Francia nel 1849, Giuseppe Ferrari (→) afferma che dietro il M. dell’egoismo del successo ci sarebbe un M. segreto. Nel trasferire il pensiero dell’autore del Principe dal piano individuale al piano collettivo, l’esule italiano traccia, prima delle considerazioni di Antonio Gramsci sul partito-principe, il ritratto di un M. ‘rivoluzionario’. Mentre Ferrari, scrivendo a ridosso del Quarantotto, cercava in M. risposte a situazioni contemporanee, le principali considerazioni di Edgar Quinet su M. si trovano nel secondo volume delle Révolutions d’Italie, uscito nel 1851, post res perditas. Il Principe è definito addirittura «la Marsigliese del 16° secolo», rappresentante, sul piano filosofico, una «nuova epoca del mondo». Per il repubblicano francese, che pone una «incompatibilità assoluta tra il cattolicesimo romano e la libertà moderna», l’autore del Prince è visto come un patriota che aveva voluto salvare il proprio Paese malgrado la Chiesa.
L’ultimo testo dell’Ottocento in cui permanga un forte uso politico di M. – e forse il più incisivo di tutto il secolo – è il Dialogue aux enfers entre Machiavel et Montesquieu (1864) di Maurice Joly: la voce di M., che incarna la politica della forza opposta a quella del diritto, viene prestata a Napoleone III. Nella seconda metà del secolo si assiste tuttavia al proposito di chiudere definitivamente il processo al «grande accusato», in un’epoca in cui si vuole considerare che «l’istruttoria è finita e non resta che trarre le conclusioni» (P. Janet, Histoire de la science politique dans ses rapports avec la morale, 1872). Nella cultura positivistica si consolida l’idea di un M. teorico della politica sperimentale, un M. empirico studioso di diritto pubblico, creatore di una scienza nuova, quella della politica. Nell’Ottocento francese il ‘processo’ a M. sembra quindi in via di chiusura: il Fiorentino si è trasformato da ‘imputato’ a ‘testimone’ della sua epoca, e poi a ‘giudice’ delle rivoluzioni contemporanee.
Nella prima metà del Novecento, il tentativo da parte dei teorici del fascismo italiano di fare di M. uno dei loro ‘profeti’ e un precursore dello Stato nuovo istaurato dal Regime doveva riaprire la querelle. Passata l’epoca degli studi di inizio secolo di Charles Benoist (Le machiavélisme, 3 voll., 1907-1934), l’interesse per M. nella F. del primo dopoguerra si connette in effetti spesso molto da vicino alla riflessione sulla natura del fenomeno fascista in Italia e del nazionalsocialismo in Germania. Le ‘relazioni pericolose’ tra machiavellismo e totalitarismo vengono evocate drammaticamente in un libro dello storico e filosofo Henri Berr, Machiavel et l’Allemagne (1939), nel quale l’autore intende risalire alla fonte avvelenata e mostrare che M. «è stato il cattivo genio della Germania, tramite la Prussia». Allo scoppio della Seconda guerra mondiale, molti saranno coloro che denunceranno il legame tra la concezione machiavelliana dello Stato e la politica di potenza delle tirannie moderne e proclameranno, come Jacques Maritain, lo scacco del machiavellismo sulla lunga durata e la necessità di una Fin du Machiavélisme (1941). Per il filosofo dell’umanesimo integrale, dal machiavellismo di M. al machiavellismo «totale» (ossia, secondo lui, quello dei regimi totalitari), la transizione sarebbe inevitabile. Nello stesso periodo anche Raymond Aron (→) propone una critica articolata del «machiavellismo moderno»; nondimeno, il filosofo liberale riterrà sempre che le democrazie devono usare mezzi efficaci propri della politica, soprattutto quando sono minacciate da regimi pronti a ricorrere a ogni mezzo per pervenire ai loro fini.
Nell’immediato dopoguerra, Maurice Merleau-Ponty (Note sur Machiavel, 1949) rimpiangerà, in un testo breve ma importante, l’esistenza di una vera e propria «sconfessione di Machiavelli». Eppure fin dal 1942 il lavoro universitario di Augustin Renaudet (→) aveva aperto, per la F., la ricca stagione degli studi accademici del secondo Novecento. Mentre alcuni metteranno soprattutto in evidenza i pericoli che il pensiero machiavelliano contiene rispetto ai fondamenti della filosofia politica classica, altri invece considereranno che la voce di M. ci parla sempre, dalla sua inclassificabile ‘solitudine’ nel pensiero occidentale, con quella «strana familiarità» che Louis Althusser (→) continuerà a percepire negli anni Settanta. Come dimostra la storia della fortuna francese del Segretario fiorentino, e talvolta anche della sua ‘sfortuna’, la strada verso M. passa anche dalla letteratura su M., in un modo che è costitutivo di ciò che Claude Lefort (→) ha chiamato Le travail de l’oeuvre Machiavel (1972).
Bibliografia: J. Ferrari, Machiavel juge des révolutions de notre temps, Paris 1849 (nuova ed. 2003); A. Cherel, La pensée de Machiavel en France, Paris 1935; W. Kaegi, Machiavelli in Basel, «Basler Zeitschrift für Geschichte und Altertumskunde», 1940, 39, pp. 5-52, poi in Id., Historische Meditationen, Zürich 1942; A. Renaudet, Machiavel. Étude d’histoire des doctrines politiques, Paris 1942; M. Merleau-Ponty, Note sur Machiavel (1949), poi in Id., Éloge de la philosophie, Paris 2002, pp. 287-308; E. Weil, Machiavel aujourd’hui, 1951, poi in Id., Essais et conférences, Paris 1991, pp. 189-217; R. de Fourquevaux, The Instructions sur le faict de la guerre of Raymond de Beccarie de Pavie, sieur de Fourquevaux, ed. G. Dickinson, London 1954; G. Procacci, Studi sulla fortuna di Machiavelli, Roma 1965; E. Balmas, Jacques Gohory traduttore di Machiavelli, in Studi machiavelliani, Verona 1972, pp. 1-52; C. Lefort, Le travail de l’oeuvre Machiavel, Paris 1972; J. Macek, Machiavelli e il Machiavellismo, Firenze 1980; J. Maritain, La fin du Machiavélisme, in Id., OEuvres complètes, 8° vol., Paris 1989; R. Aron, Machiavel et les tyrannies modernes, Paris 1993; M. Del Corso, Le traduzioni del Principe di Machiavelli in Francia nel XVI secolo, Padova 1994; L. Althusser, Machiavel et nous (1972-1986), in Écrits philosophiques et politiques, 2° vol., Paris 1995, pp. 39-161; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; A.M. Battista, Politica e morale nella Francia dell’età moderna, a cura di A.M. Lazzarino del Grosso, Genova 1998; L. Perini, La vita e i tempi di Pietro Perna, Roma 2002; S. Anglo, Machiavelli - The first century: Studies in enthusiasm, hostility and irrelevance, Oxford 2005; J. Soll, Publishing the Prince. History, reading, and the birth of political criticism, Ann Arbor 2005; P. Carta, X. Tabet, Letture di Machiavelli nel XIX e XX secolo /Lectures de Machiavel aux XIXe et XXe siècles, Padova 2007; R. Gorris-Camos, Dans le labyrinthe de Gohory, lecteur et traducteur de Machiavel, «Laboratoire italien», 2008, 8, pp. 195-229 (http://laboratoireitalien.revues.org/80, 18 novembre 2013); T. Maissen, Why did the Swiss miss the Machiavellian moment? History, myth, imperial and constitutional law in the early modern Swiss Confederation. «Republics of letters: a journal for the study of knowledge, politics, and the arts», 2010, 2, pp. 105-20.