FRANCIA (XV, p. 876; App. I, p. 620; II, 1, p. 969; III, 1, p. 670)
Popolazione. - In base al censimento del febbraio 1975 la popolazione della F. è risultata di 52.655.802 ab., con un aumento del 5,5% in confronto al censimento del 1968 (49.768.825 ab.). La ripresa demografica, iniziata negli anni successivi alla seconda guerra mondiale, è continuata fino a oggi: l'indice di natalità si mantiene, in media, fra il 15 e il 16‰, quello di mortalità sull'11‰. Nel periodo 1963-74 l'incremento annuo complessivo è stato di quasi lo 0,9%. All'aumento della popolazione ha inoltre contribuito un milione di francesi, a seguito dei mutamenti politici avvenuti nelle ex dipendenze coloniali francesi (particolarmente dall'Algeria). Nel contempo si è nuovamente elevato l' afflusso di popolazione straniera: il totale dei non francesi residenti in F., che era di 1.815.700 nel 1962, è salito a 4.196.134 nel 1976 (di questi ultimi circa un quarto sono italiani). Ciò per effetto della richiesta di mano d'opera industriale.
L'attuale distribuzione della popolazione (96 ab. per km2) è il risultato da una parte di un diverso comportamento demografico tra le varie regioni, dall'altra dei gradi di sviluppo dell'industrializzazione e dell'urbanesimo. Così si riscontrano le densità più elevate nel Nord (310-430 ab. per km2), nella media valle del Rodano intorno a Lione (440), nell'area di Marsiglia (320), in Alsazia (180), tutte zone più dinamiche per l'organizzazione industriale e commerciale. Ma abbiamo anche altre aree, come i Pirenei, l'Alvernia, il Limosino e la Dordogna, dove la bassa densità (30-50 ab. per km2) è il risultato delle sfavorevoli condizioni ambientali nonché di strutture in stasi dal punto di vista socio-economico. Un posto a parte ha la regione di Parigi, dove si hanno densità medie di oltre 800 ab. per km2, le più elevate della Francia. Si tratta, in realtà, di un'area organizzata in funzione della capitale, che svolge un ruolo sovrano nell'ambito del paese e che raccoglie da sola 9,9 milioni di ab., ossia circa un quinto di tutta la popolazione francese. Le altre grandi concentrazioni di popolazione si sono costituite nella regione del Nord (3,9 milioni di ab.), nella regione di Lione, di Saint-Etienne e di Grenoble (4,8 milioni), nella regione industriale della Lorena (2,4 milioni), nell'Alsazia (1,5), nella regione urbana e industriale di Marsiglia (1,6), negli estuari della Senna, della Loira e della Gironda (regione urbana e industriale di Bordeaux), ciascuno con oltre un milione di abitanti; in totale quasi 27 milioni di ab., cioè più del 50% della popolazione francese. Nel periodo 1962-75 soltanto 12 dipartimenti hanno visto diminuire la loro popolazione. L'organizzazione urbana si è ancora, nel corso dell'ultimo quindicennio, sviluppata secondo moti spontanei, non pianificati, determinando così gli elevati squilibri della metropoli parigina, che è stata la meta della gran parte della mobilità interna della popolazione e di quella venuta via dalle campagne (ove vivono oggi meno di 15 milioni di persone). L'area parigina raccoglie oggi le attività economiche e finanziarie più varie; forma una città-regione che i programmi di pianificazione tentano di rendere più aperta e policentrica, con la formazione di centri secondari nella sua grandiosa banlieue, oppure contrapponendo alla capitale una serie di poli di sviluppo nelle diverse regioni - le cosiddette "metropoli di equilibrio" - che debbono tendere a organizzare la F. secondo piani territoriali.
Le vicende demografiche dell'ultimo quindicennio pongono ancora la F. fra i paesi relativamente poco popolati nel contesto degli stati dell'Europa occidentale. È anche il paese meno urbanizzato, in quanto la popolazione rurale vi rappresenta ancora il 30% della totale, e in quanto presenta un solo agglomerato - Parigi - che supera il milione di abitanti.
Condizioni economiche. - L'economia francese ha avuto, specialmente dalla fine degli anni Cinquanta, profonde modificazioni: trasformando e ammodernando le sue strutture, la F. si è posta fra i paesi europei a più alto reddito. Il rilancio demografico, l'elevato abbandono delle campagne, la crescente urbanizzazione, l'inserimento nella CEE, hanno concorso a modificare il volto dell'apparato produttivo. Pur avendo la F. una struttura economica complessa ed equilibrata, per la presenza di buone risorse naturali e per i sistemi agricolo e industriale ad alto livello, il paese si è trovato a dover fronteggiare le incertezze e perturbazioni mondiali e interne, che ne hanno non di rado rallentato il processo di sviluppo. Le conseguenze di una molteplicità di avvenimenti sfavorevoli (riduzione della produzione per gli scioperi del maggio 1968, forte aumento dei salari e dei prezzi, elevato deficit della bilancia dei pagamenti, calo notevole delle riserve monetarie) hanno portato il governo francese nella necessità di procedere alla svalutazione della propria moneta (agosto 1969). Negli anni Settanta l'economia francese ha segnato un positivo progresso, superiore a quello degli altri paesi europei, che le permette di rivendicare il ruolo di leader tra le potenze di "secondo grado" in campo mondiale. I molteplici problemi che la F. deve affrontare, comuni alle società industriali più progredite, sono inseriti nei diversi piani di sviluppo, che dalla metà degli anni Cinquanta (fino al sesto piano del 1971-75) prevedono l'equilibrio e la ristrutturazione del territorio in connessione con il progresso del sistema economico e sociale. A questi presupposti ha inteso rispondere il progetto delle già ricordate "metropoli di equilibrio", collegate a una serie di città con funzioni di sostegno. Questi poli di sviluppo sono localizzati a Lilla-Roubaix-Tourcoing, Thionville-Metz-Nancy, Strasburgo, Saint-Etienne-Lione-Grenoble, Aix-en-Provence-Marsiglia, Tolosa, Bordeaux, Nantes - Saint-Nazaire. Come centri di attività terziarie, con funzioni di supporto, sono indicati Digione, Mulhouse, Besançon, Montpellier, Nizza, Limoges, Clermont-Ferrand, Rennes, Brest e Caen. Nel contempo si è affrontato il riscatto economico delle regioni ad antica organizzazione rurale, orientando il settore primario in funzione della richiesta dei prodotti da parte dei mercati interni ed esteri.
Il quadro economico presenta oggi un bilancio statale solido, con notevoli riserve valutarie, solo in piccola parte toccato dalle recenti crisi monetarie in dipendenza del problema mondiale energetico e della flessione del dollaro. Statisticamente il grado di sviluppo economico è dato dal reddito nazionale pro capite, che è di quasi 3200 dollari SUA, cioè vicinissimo a quello della Rep. Fed. di Germania e poco meno di due terzi di quello degli SUA. L'incremento demografico dell'ultimo trentennio ha determinato un aumento della popolazione attiva, che supera i 26,6 milioni di persone (1970), di cui solo il 10% (20,8% nel 1962) è occupato nell'agricoltura. All'industria si rivolge il 42%, mentre il settore dei servizi assorbe il 23,4% della popolazione attiva; gli addetti al commercio, banche e assicurazioni superano di poco il 16%. Le variazioni settoriali delle forze di lavoro presentano un quadro evidente dell'entità delle trasformazioni avute dall'economia francese in questi ultimi anni, inserita nei modelli di sviluppo caratteristici della nuova civiltà industriale.
Agricoltura. - Le trasformazioni economiche avutesi di recente hanno inciso nel settore agricolo con modificazioni strutturali e tecniche.
Si è inteso aumentare la produttività dell'agricoltura, che oggi rappresenta solo il 6% del prodotto nazionale lordo, per contenere l'esodo rurale, specialmente dei giovani, che è stato fortissimo nei decenni più recenti. Dall'ultimo censimento dell'agricoltura (1970) si rileva che il numero delle aziende diminuisce del 2,5% all'anno, e la superficie aziendale media è in continuo aumento secondo il programma di ricomposizione fondiaria. Quasi il 60% delle terre coltivabili è, infatti, occupato da proprietà oscillanti fra i 10 e i 50 ha, mentre il 24% risulta assegnato alle grandi proprietà (oltre 50 ha) e il 16% alle piccole proprietà (meno di 10 ha). I due terzi delle aziende agricole, che si estendono sulla metà del suolo, appartengono ai coltivatori diretti; le altre aziende risultano, generalmente, in affitto, mentre la mezzadria è in via di estinzione. L'agricoltura francese occupa ancor oggi una posizione di rilievo, anche nel contesto dell'integrazione economica della CEE, per il fatto che si svolge su un territorio agrario molto favorevole, con un'elevata diffusione dei fertilizzanti e una notevole partecipazione dei mezzi meccanici (1,2 milioni di trattori) alle condizioni di lavoro: l'aumento della produzione agricola nell'ultimo quindicennio può essere calcolato intorno al 7% annuo, nonostante la forte riduzione della superficie coltivata (da 21,5 milioni di ha nel 1960 ai 17 milioni di ha attuali). Vi sono, tuttavia, dei fattori di natura umana che rallentano lo sviluppo agricolo: in primo luogo è l'età dei coltivatori, il 50% dei quali superano i 55 anni.
Nel campo delle colture si nota un progresso di quelle orticole, degli alberi da frutta e dei fiori, mentre in diminuzione è l'area occupata dai cereali e dalla vite. Per moltissimi prodotti la F. detiene il primato in Europa (URSS esclusa) o si pone ai primissimi posti. Si hanno ancor oggi aree utilizzate da alcune specifiche colture (il Midi viticolo e frutticolo, il Nord cerealicolo), ma un'ampia parte della superficie è destinata attualmente al pascolo (prati e pascoli occupano il 25,5% del territorio francese) e alle colture foraggere destinate all'allevamento del bestiame, bovino in particolare. La produzione dei vini (da 50 a 65 milioni di hl annualmente) si alterna al primo posto nel mondo con quella italiana; ma se i vini di qualità si commerciano facilmente, i vini comuni incontrano varie difficoltà sui mercati esteri. Per questo è stata ristretta l'importazione dei vini dall'Algeria e ritardata l'applicazione delle norme comunitarie per contenere la concorrenza straniera ("guerra dei vini" con l'Italia nel 1975). La F. è sempre al primo posto in Europa per la produzione di frumento (una media annua di 150-160 milioni di q) e di orzo (80-90 milioni di q), mentre l'avena è in regresso (20-25 milioni di q) a vantaggio del mais (80-90 milioni di q), che è largamente impiegato per l'alimentazione del bestiame. Elevata è ancora la produzione di patate (80-90 milioni di q), ma in forte diminuzione rispetto a un quindicennio fa; particolarmente diffusa è poi la barbabietola, la più importante coltura industriale del paese e al primo posto in Europa (180-200 milioni di q), destinata all'industria dello zucchero, mentre i sottoprodotti vanno all'allevamento. La coltura del riso è da tempo sufficiente al consumo interno; quella del lino continua ad essere fra le più alte in Europa con 650-700.000 quintali. Gli ortaggi, in fase di aumento, provengono in genere da aziende agricole di media grandezza, da coltivazioni a pieno campo e dalle periferie delle grandi concentrazioni urbane.
L'evoluzione dei regimi alimentari ha determinato una crescente richiesta dei prodotti dell'allevamento, tanto che il reddito agricolo francese proviene oggi per il 71,5% (64,5%, nel 1961) dalla vendita dei prodotti animali (particolarmente delle carni) e per il 28,5% (35,5% nel 1961) da quelle dei prodotti vegetali.
Gli allevamenti di bestiame bovino (22,8 milioni di capi ma 19,5 milioni nel 1961) sono per quantità al secondo posto in Europa, dopo l'URSS. Notevoli anche i progressi dell'allevamento degli animali da cortile e dei suini, che tendono a concentrarsi in aziende industriali specializzate; pure in aumento è l'allevamento ovino. Si deve per converso registrare la decadenza del patrimonio equino e caprino: il primo per effetto della meccanizzazione del settore agricolo e l'altro in seguito alla riduzione della domanda dei relativi prodotti.
Pesca. - La pesca marittima, che svolge un ruolo di limitata importanza nel contesto economico del paese, tende a modernizzare i suoi metodi e mezzi (oltre 14.000 natanti). Il pesce sbarcato è, pertanto, in costante aumento (circa il 40% in più rispetto al 1962) per il sempre maggiore esercizio della grande pesca, largamente meccanizzata. Ma il progressivo ammodernamento della flotta peschereccia ha determinato una forte riduzione del numero degli addetti (oggi meno di 35.000). L'attività è maggiore sulle coste atlantiche e sulla Manica dove il porto di Boulogne-sur-Mer è il primo scalo peschereccio francese che raggiunge il 17% del pesce sbarcato.
Fonti di energia. - L'espansione economica francese dell'ultimo quindicennio ha tratto giovamento dalla diversificazione delle fonti di energia, con un accentuato aumento delle importazioni di combustibili liquidi e gassosi.
La produzione del carbon fossile tende a ridursi sempre più (25,7 milioni di t nel 1973 ma 55,3 milioni di t nel 1961) per le ben note caratteristiche naturali sfavorevoli, per la non ottima qualità del minerale e per la sempre accentuata difficoltà di reperire mano d'opera, compensata tuttavia dalle immigrazioni dai paesi mediterranei. Il rimodernamento degl'impianti da parte dello stato e i progressi tecnici sono stati però considerevoli (rendendo più razionale il lavoro e aumentando la produttività), tanto che il rendimento di estrazione è il più forte nell'Europa occidentale: una media di 4837 kg di carbone al giorno, per ogni minatore. Pur tuttavia gli alti costi di estrazione, rispetto al livello internazionale, e ancor più la scarsità di certe qualità, rendono necessaria l'importazione annua di 1520 milioni di t di prodotti carboniferi, in particolare dagli altri paesi della CEE. Dal settore degl'idrocarburi viene oggi circa il 70% (37% nel 1960) di tutta l'energia consumata. La produzione nazionale di petrolio grezzo, proveniente sempre dai giacimenti di Parentis-en-Born, Lacq e bacino di Parigi (1,3 milioni di t nel 1973, quantità che già si estraeva nel 1958), è insignificante rispetto ai consumi interni e quindi la F. ne deve importare grandissime quantità (115-120 milioni di t). Il petrolio, proveniente in massima parte dall'Algeria e dal Vicino Oriente (particolarmente dal Kuwait e dall'Iraq), viene raffinato in una serie di grandi stabilimenti situati in prevalenza nella regione parigina e presso le foci del Rodano: a Lavéra, nei pressi di Marsiglia, ha inizio l'oleodotto sud-europeo (797 km) verso Strasburgo e Karlsruhe (Rep. Fed. di Germania). Altri oleodotti collegano il porto atlantico di Gonfreville e la zona di Lacq rispettivamente alle aree industriali di Parigi e di Bordeaux. L'esportazione di una parte considerevole dei prodotti raffinati concorre ad attenuare il peso finanziario delle importazioni. Rilevante è, invece, la produzione metanifera francese, che supera ormai i 7,5 milioni di m3. Una diffusa rete di metanodotti collega Lacq a Parigi e ai grandi centri industriali della regione atlantica e della valle del Rodano: il 40% del metano estratto è assorbito dall'industria (soprattutto chimica), il 34% dalle centrali termiche, il 24% è immesso nella rete dei centri urbani e il 2% è usato come carburante. Dal gas si ricava, altresì, un forte quantitativo di zolfo (1,8 milioni di t). Per l'aumento interno dei consumi si è fatto poi ricorso all'importazione di ingenti quantità di gas dai Paesi Bassi e dall'Algeria.
Nel settore delle fonti di energia un elevato contributo è sempre dato dall'elettricità, tanto di origine idrica quanto termica e nucleare. L'intenso sfruttamento delle risorse idriche, a seguito di un piano di sviluppo attuato negli anni Cinquanta, un maggiore impiego nelle centrali termiche del carbone estratto (particolarmente in Lorena), e un generale potenziamento delle centrali nonché costruzione di altre hanno elevato fortemente la produzione di energia, che è stata negli ultimi anni di circa 150 miliardi di kWh (76,5 miliardi di kWh nel 1961), di cui 49 miliardi sono dati dalle centrali idroelettriche. I tre quarti dell'energia prodotta sono forniti dall'ente pubblico statale (Electricité de France); la restante dalla Compagnie Nationale du Rhône. Dalla produzione delle centrali idriche, il 60% proviene dalle Alpi, il 20% dal Centro e il resto dai Pirenei e dall'Alsazia. Dell'energia termica circa il 60% proviene dalle centrali statali, il 22% dalle centrali delle miniere di carbone e il 18% da quelle dell'industria siderurgica. Un ruolo sempre crescente ha assunto, infine, il settore dell'energia nucleare, che oltre all'uranio nazionale (per il quale la F. con 1200 t annue è al quarto posto nella graduatoria mondiale), si serve di minerali importati dalle ex colonie africane (specialmente dal Gabon). Alle prime centrali termonucleari di Marcoule e di Avoine (1958-59) hanno fatto seguito quelle di Chinon, Pierrelatte, Saint-Laurent-des-Eaux, Malvezy, La Hague, Le Bouchet, ecc. La potenza installata si aggira oggi sui 3 milioni di kW, mentre la produzione di energia nucleare è di quasi 14 miliardi di kWh; è previsto che in un prossimo avvenire le centrali nucleari potranno fronteggiare, da sole, l'aumento dei consumi energetici. Si hanno anche quattro reattori nucleari di ricerca: a Saclay, Grenoble, Cadarache e Fontenay-aux-Roses.
Industria. - La ricchezza della F. continua ad essere data dal settore industriale, che rappresenta il 47,2% del prodotto nazionale lordo (1972). Ma un gruppo di industrie da circa un quindicennio - anche in connessione con l'ingresso della F. nella CEE - ha subito una stasi o un declino: l'industria carbonifera per gli alti costi di estrazione rispetto al livello internazionale, con l'esclusione della Lorena, i cui costi sono competitivi; le industrie tessili tradizionali, soprattutto quella del cotone, perché subiscono la concorrenza dei paesi a bassi salari e nello stesso tempo quella dei tessili di origine chimica; la siderurgia interna, quella lorenese in particolare, per il sorgere di una siderurgia marittima che, alimentata con ferro ad alto tenore d'importazione, si localizza nelle aree portuali del Nord e del Sud; le costruzioni navali, per la forte concorrenza dell'industria cantieristica internazionale, ancor più giapponese. Ma non sono mancate trasformazioni e innovazioni industriali come quelle delle costruzioni meccaniche, dell'elettromeccanica e dell'elettronica, delle chimiche e delle parachimiche, e in particolare il complesso di industrie dei derivati del petrolio. Quando le piccole e medie industrie non sono state in condizioni di trasformarsi si è verificato l'assorbimento da parte di società maggiori, non di rado costituite con capitale estero (la metà degl'investimenti è dovuto a gruppi finanziari statunitensi). Si è, nel contempo, accentuata la partecipazione dello stato in vari settori industriali d'interesse collettivo.
L'industria siderurgica francese risulta geograficamente molto concentrata, in prevalenza localizzata presso i giacimenti di ferro e di carbone.
La F. è sempre ai primi posti in Europa per l'estrazione di minerale di ferro (30-35% di ferro contenuto), mentre la produzione di acciaio si colloca al sesto posto nel mondo con oltre 21 milioni di t nel 1975 (16% di acciaio Martin, 37% acciaio all'ossigeno, 35% Thomas, il rimanente ottenuto dagli altiforni elettrici) a cui sono da aggiungere 18 milioni di t di ghisa e ferroleghe. La regione dell'Est, con la Lorena, detiene il primato fornendo circa il 70% della produzione francese della ghisa e il 60% di quella dell'acciaio. Il Nord (30% della ghisa e 30% dell'acciaio) è l'area dallo sviluppo più recente, meglio favorita per la presenza del carbone e per la vicinanza della costa nonché della regione parigina. La più moderna siderurgia si è, dunque, localizzata sul litorale, nel porto di Dunkerque, ove è sorto nel 1963 il complesso siderurgico più grande della F., alimentato con materia prima d'importazione.
Nel settore metallurgico, che presenta una vasta gamma di prodotti, posizione rilevante ha sempre l'industria dell'alluminio (quasi 400 mila t annue), presente per la richiesta di energia elettrica nella regione alpina e pirenaica. I ricchi giacimenti metaniferi di Lacq hanno, nel contempo, determinato la costruzione di un grande stabilimento a Noguères.
Un posto di grande rilievo è andato sempre più occupando nel corso degli anni Sessanta, tra le industrie che producono mezzi di trasporto, quella automobilistica (che occupa 380 mila persone): in questo settore primeggiano la Renault (nazionalizzata, con oltre 155.000 dipendenti), la Citroën (100.000 dipendenti), la Peugeot (85.000) e la Simca (30.000). La produzione nel 1974 ha superato i 3 milioni di autovetture. I maggiori stabilimenti sono concentrati nell'agglomerazione parigina, ma la politica di decentramento industriale ha portato alla localizzazione di nuovi complessi a Le Havre, a Strasburgo, a Rennes, a Le Mans, ecc. La crescente motorizzazione ha determinato un pieno sviluppo dell'industria della gomma. Posizione di prestigio e nel contempo in notevole sviluppo è quella assunta dall'industria aeronautica, che produce sia per la clientela civile che militare, ponendo in primo piano l'alto livello tecnologico raggiunto da questa industria francese (aerei supersonici Caravelle e Concorde, caccia Mirage). Gli stabilimenti sono concentrati nella periferia di Parigi e nel Sud-Ovest del paese. I cantieri navali sono stati profondamente strutturati per cercare di fronteggiare la forte concorrenza internazionale.
La produzione industriale francese è rappresentata per il 10% dal settore della chimica, che si è distinta per il suo particolare dinamismo nell'ultimo quindicennio: la F. è in questo campo al quarto posto nel mondo. La ristrutturazione, fusioni e concentrazioni di questa industria hanno portato alla formazione di grandi complessi metallurgico-chimici, che dominano nel settore delle fibre artificiali e sintetiche.
La petrolchimica è ampiamente rappresentata presso le raffinerie e i giacimenti di metano; la carbochimica si è sviluppata nei bacini carboniferi della Lorena e del Nord; l'elettrochimica si è localizzata nelle Alpi del Nord e nei Pirenei centrali. Le produzioni di base e l'industria dei concimi chimici sono sorte specialmente presso le fonti di energia o di materie prime e nei pressi delle aree portuali ove si sbarcano gl'idrocarburi. Ingenti sono le produzioni di acido solforico (4 milioni di t), ricavato in parte da piriti nazionali e in parte da zolfo, dei coloranti e dei fertilizzanti; invece per i fosfati la F. dipende largamente dall'estero.
L'industria tessile occupa ancor oggi più di 371.000 addetti pur subendo delle ricorrenti crisi, da una parte dovute alla concorrenza delle fibre sintetiche e dall'altra al ridursi degli sbocchi commerciali, tanto che la produzione complessiva è rimasta quasi invariata nell'ultimo ventennio. La regione del Nord è sempre la più importante area tessile francese (lana, cotone e lino), mentre il Nord-Est ha complessi molto rilevanti per la lavorazione del cotone intorno a Mulhouse e a Épinal. Una ristrutturazione industriale ha avuto la regione tessile lionese, che ha saputo passare dalla lavorazione della seta naturale a quella delle fibre artificiali e sintetiche.
Comunicazioni. - I trasporti stradali nella regione francese si sviluppano contemporaneamente alle diverse attività economiche e hanno ormai il primato nel trasporto delle persone. Su 73.000 km di strade nazionali, appena 13.000 km assorbono il 50% del traffico. Ma non bisogna sottovalutare il movimento su quasi 290.000 km di strade dipartimentali e su oltre 420.000 km di strade comunali. La rete autostradale, sviluppatasi dopo il 1965, è di appena 3500 km (l'asse principale congiunge Marsiglia a Parigi e Lilla), per il fatto che la rete stradale è fittissima, generalmente con tracciati rettilinei e scarse pendenze; ma in rapporto allo sviluppo autostradale degli stati confinanti (esclusa la Spagna) è avvertita la mancanza di collegamenti con i grandi itinerari europei (di rilievo a questo proposito è stata l'apertura al traffico, nel luglio 1965, della galleria autostradale del Monte Bianco). L'attuale circolazione sulle strade francesi si compone di 15,2 milioni di automobili e di 2,2 milioni di veicoli commerciali e industriali.
Le linee ferroviarie hanno avuto trasformazioni profonde, ponendo in primo piano la comodità e la velocità dei trasporti sia per i viaggiatori che per le merci (i treni francesi sono tra i più veloci del mondo): quasi 9400 km risultano oggi elettrificati su una rete di oltre 35.100 km. Le ferrovie francesi assorbono attualmente circa il 58% dei traffici interni delle merci, mentre le strade ne rappresentano il 31% e la navigazione interna circa l'11%.
La trama delle vie d'acqua interne supera oggi i 7200 km: pur svolgendo un intenso traffico (oltre 110 milioni di t) di merci pesanti e non deperibili (cereali, idrocarburi, materiali da costruzione, prodotti minerari), è ormai troppo antiquata. L'unica opera recente è la canalizzazione della Mosella, compiuta nel quadro della CEE (1964): si è aperta una nuova fondamentale arteria per il trasporto dei minerali di ferro e di carbone.
Il commercio marittimo si avvale di una rilevante flotta mercantile (10,7 milioni di t), mentre il movimento dei porti supera i 240 milioni di t di merci, pari al triplo di quello del 1958. Al primo posto è sempre Marsiglia (33% del traffico), il più importante porto del Mediterraneo e al secondo posto in Europa dopo Rotterdam; seguono Le Havre (26%), Dunkerque (11%), Rouen, Bordeaux e Nantes. Il movimento dei passeggeri si aggira, annualmente, intorno agli 8 milioni di persone: circa il 40% è dato dal porto di Calais.
Grande sviluppo hanno avuto i trasporti aerei nell'ultimo quindicennio, sia nel settore passeggeri che in quello merci. Il movimento dei primi negli aeroporti francesi supera ormai i 12,2 milioni di persone: il 67% ha volato su aerei dell'Air France, la grande compagnia di bandiera, una delle maggiori del mondo per lo sviluppo dei collegamenti con i vari continenti e il trasporto di passeggeri e di merci. Le comunicazioni aeree all'interno della F. non hanno grande rilievo, al contrario delle rotte internazionali che fanno di Parigi, dotata di vari aeroporti fra cui il recentissimo e avveniristico aeroporto De Gaulle, il secondo scalo europeo dopo Londra.
Commercio e turismo. - Fino al 1958 la bilancia commerciale francese è risultata deficitaria, poi per alcuni anni si è avuta la prevalenza delle esportazioni sulle importazioni. Dal 1962 il deficit si mantiene su livelli accettabili con conseguenze positive per le riserve auree e la valuta pregiata. L'economia francese non presenta grandi carenze nei suoi diversi settori, a eccezione di alcune materie prime come i combustibili liquidi e taluni minerali, e di conseguenza non ha nel movimento commerciale con l'estero un settore veramente dominante. Negli ultimi anni poi la bilancia commerciale del settore agricolo è in fase ascendente per la politica comunitaria europea. Gli scambi più rilevanti sono tenuti con i paesi della CEE, fra cui la Rep. Fed. di Germania detiene il 21% dell'interscambio.
Un apporto assai cospicuo di valuta (oltre 8000 milioni di franchi) deriva dal turismo: la F. è visitata attualmente da oltre 14 milioni di stranieri (5,6 milioni nel 1960), che si dirigono in prevalenza a Parigi e sulla Costa Azzurra. Ma oltre al turismo balneare (ristrutturato con molteplici porti nautici), si è sviluppato nell'ultimo decennio il turismo invernale sulle Alpi (Savoia, Delfinato) e sui Pirenei.
Bibl.: P. Pinchemel, Géografie de la France, Parigi 1964; S. Hackett, Economic planning in France, Londra 1965; G. Chabot, Géografie régionale de la France, Parigi 1966; P. Pinchemel, La France, ivi 1969; I. B. Thompson, Modern France: A social and economic geography, Londra 1970; P. George, La France, Parigi 1970; J. Klatzmann, Géografie agricole de la France, ivi 1972; H. D. Clout, The geography of postwar France. A social and economic approach, Oxford 1972.
Economia. - Tradizionalmente, l'intervento statale ha caratterizzato l'economia francese, assumendo caratteristiche peculiari che conducono a parlare di "pianificazione di tipo francese". L'obiettivo del 3° piano (1958-61) fu quello di un sensibile miglioramento della produttività, unito a uno sviluppo della formazione professionale e dell'equilibrio degli scambi esteri.
Il 4° e soprattutto il 5° piano hanno posto l'accento sull'adattamento dell'economia francese alla concorrenza internazionale e ai cambiamenti che ciò comportava. Dal 1958, con l'avvio del Mercato comune europeo, la F. si è trovata aperta al commercio con l'estero, in una situazione di concorrenza. La competitività di un'economia poco industrializzata in rapporto ad alcuni dei suoi concorrenti (SUA, Germania e Giappone) è divenuta la preoccupazione principale della politica economica francese. La competitività è stata mantenuta al prezzo di molteplici svalutazioni, che riflettevano le necessità di riequilibrio dei conti con l'estero.
Nella ricerca di una via di sviluppo adattata al desiderio di ottenere il pieno impiego senza compromettere gli equilibri fondamentali, la F. ha progressivamente creato un sistema di economia mista, nel quale il ruolo del mercato resta essenziale, e l'intervento dello stato viene solo a correggere e completare il funzionamento del mercato. Anche in tale ottica limitata, lo stato ha però un'influenza profonda e continua sullo sviluppo economico; qualche cifra servirà di esempio: 33% degl'investimenti sono effettuati, sovvenzionati o controllati, dallo stato, più dei due terzi del credito passano per le istituzioni pubbliche e il 40% dei redditi sono prelevati per essere utilizzati o redistribuiti dall'amministrazione. Questo intervento è rimasto molto marcato, nel corso degli anni Sessanta, con la spinta ad adattarsi alle esigenze della situazione.
Tuttavia, agl'inizi degli anni Settanta, la F. era ancora tra i paesi poco industrializzati, il che spiega l'accento posto nel 6° piano (1971-75), all'obiettivo dell'industrializzazione e alla realizzazione di una forte eccedenza negli scambi dei prodotti industriali.
Tali finalità, già abbozzate nei piani precedenti, sono alla base degli attuali orientamenti. Si è infatti tentato di favorire la concentrazione delle imprese nazionali in grandi gruppi privati, concentrandone lo sviluppo a livello internazionale. Si è cercato, cioè, di creare multinazionali francesi in concorrenza con quelle americane. La recessione è giunta in un momento in cui questo obiettivo, che ha comportato notevoli investimenti sia pubblici che privati, non si era ancora realizzato, il che ha posto le imprese francesi in difficoltà.
Il credito figura tra gli strumenti privilegiati nel corso di questo periodo (1971-75): unita a una manovra di controllo negli scambi, la politica del credito si è infatti sforzata di smorzare, sul piano interno, gli effetti negativi che i movimenti di capitali, legati ai sussulti del sistema monetario internazionale, hanno determinato, cercando di conciliare le esigenze contraddittorie della lotta contro l'inflazione e di sostegno all'attività economica. La crescita della massa monetaria osservata nel corso di questo periodo ci dà tuttavia la misura delle difficoltà incontrate, indicando cioè che il potere pubblico non è sempre riuscito nel suo tentativo.
Ancora più difficili si sono dimostrati gli sforzi tendenti a ottenere un controllo sull'aumento dei redditi, sia per ragioni tecniche (insufficiente conoscenza statistica dei redditi non salariali e impossibilità, quindi, di combattere efficacemente le frodi fiscali) che politiche.
I limiti e le insufficienze degli sforzi appaiono nel persistere dell'inflazione e nel mantenimento del controllo dei prezzi, per tale periodo.
Il periodo del 4° e del 5° piano quinquennale, che abbraccia l'intero decennio degli anni Sessanta, è caratterizzato dal grande sforzo d'industrializzazione della Francia.
Anche se in questa situazione di concorrenza l'economia francese si è difesa bene, la sua competitività è rimasta incerta e il suo miglioramento ha necessitato numerosi aggiustamenti delle parità monetarie. Nel 1962-64, l'aumento della domanda seguito alla fine della guerra di Algeria, unito alla scomparsa dei benefici effetti delle misure monetarie del 1958, avevano determinato un pesante deterioramento della bilancia dei pagamenti, con una ridotta espansione della produzione.
Con il drastico piano di stabilizzazione messo in atto nel 1963 con il blocco dei salari, la crescita ha ripreso a un ritmo del 5-6% circa, per gli anni fino al 1967.
Già agl'inizi del 1967 però ci furono i primi segni di decadimento, quali il deterioramento della bilancia dei pagamenti, dovuto in parte a una diminuzione delle eccedenze delle partite invisibili (particolarmente i servizi e i trasferimenti privati), ma soprattutto per il deficit della bilancia commerciale, causato da un più rapido aumento delle importazioni sulle esportazioni. I tassi di utilizzazione dei mezzi di produzione nelle imprese si andavano sempre più abbassando e diminuivano quindi i nuovi investimenti.
I salari continuavano ad aumentare a un tasso d'incremento annuo del 6,5%. La riforma della Securité sociale, effettuata nell'autunno del 1967, aveva inciso fortemente sull'ammontare dei redditi familiari, e le agevolazioni fiscali accordate ai piccoli contribuenti nel corso dell'inverno non avevano compensato che in parte gli effetti di questa riforma.
Inoltre, la crescita del potere d'acquisto reale dei consumatori era stata limitata dall'accelerazione dell'aumento dei prezzi dovuto a un aumento delle tariffe dei servizi pubblici, a una diminuzione del rimborso nelle spese mediche e a un'estensione della TVA (IVA). La situazione del mercato del lavoro continuava a peggiorare, e agl'inizi del 1968 le persone in cerca di primo impiego erano 400.000, il 2,6% cioè della popolazione attiva. In questa situazione scoppiò un'ondata di scioperi che paralizzò l'attività economica francese per una settimana (giugno 1968) e che portò a un aumento dei salari molto superiore, però, al tasso di crescita tendenziale della produttività in quel periodo. In questa situazione il governo, basandosi sull'ampiezza delle riserve di mano d'opera e sull'ammontare delle capacità produttive inutilizzate, decise di non frenare l'aumento della domanda, al fine di facilitare un aumento della produttività che avrebbe aiutato il riassorbimento progressivo dell'aumento dei costi salariali, preoccupandosi soprattutto di dominare l'evoluzione dei prezzi, e concedendo degli aiuti finanziari alle imprese. Una delle principali preoccupazioni del governo fu di salvaguardare la parità del franco, con misure destinate ad agire direttamente sul commercio estero, cercando contemporaneamente di ristabilire il controllo dei cambi.
In questo contesto, nell'agosto del 1968 il governo annunciò la svalutazione del franco dell'11,1%. Questa politica riuscì a determinare una rapida ripresa dell'attività economica e il contenimento dell'aumento dei prezzi e del deterioramento della bilancia dei pagamenti, in limiti accettabili.
Tuttavia, durante la maggior parte del periodo successivo agli scioperi, continuò la spinta all'inflazione e la fuoriuscita di capitali. Quando, nel corso della crisi monetaria internazionale di novembre, provocata in larga parte dalla rivalutazione del marco tedesco e dalla svalutazione del franco, le ondate speculative sembrarono minacciare la parità monetaria nazionale, il governo modificò la sua politica economica. Rinforzò gli aiuti alle esportazioni, intensificò il controllo dei prezzi e adottò delle misure di bilancio e monetarie più rigorose; prese, a titolo temporaneo, delle misure di controllo dei cambi e di contingentamento di alcune importazioni, che durarono fino al novembre 1968. Le riserve pubbliche d'oro e di divise, tra la fine di aprile e il 25 novembre, diminuirono di 3,1 miliardi di dollari; solo con il ristabilimento del controllo dei cambi, attuato appunto il 29 novembre, si ottenne un riflusso dei capitali che fecero aumentare le riserve pubbliche di 260 milioni di dollari fino alla fine del 1968.
Gli scioperi, di ampiezza eccezionale, attuati nella primavera del 1968, influenzarono gli accordi di Grenelle; tali accordi, a carattere nazionale, hanno condotto a dei forti aumenti salariali e a una riduzione delle ore lavorative. Gli aumenti salariali, non essendosi completamente trasferiti sui prezzi di vendita, hanno aumentato la domanda di consumo, permettendo all'industria di utilizzare maggiormente sia il capitale che la mano d'opera. Quella che fu chiamata la "crisi di novembre" condusse il governo a elaborare un "piano intermedio" tendente soprattutto a restringere la domanda interna, per poter ridare stabilità al franco. Tale politica fu accompagnata da un'azione mirante a riequilibrare la bilancia dei pagamenti, attraverso un più rigoroso controllo dei cambi e delle modificazioni della fiscalità. Il clima psicologico agl'inizi del 1969, in conseguenza della nuova politica adottata, migliorò; scomparve la speculazione sul franco, ma si produsse egualmente un cambiamento nelle tendenze reali della domanda. Durante tutto il 1969 e anche il 1970 la crescita della domanda interna, in particolare del consumo privato, diminuì e le esportazioni, che già erano cresciute a un ritmo rapido prima della svalutazione, dopo la nuova svalutazione del franco nell'agosto 1969 divennero uno dei principali motori dell'attività industriale. Agl'inizi del 1970 l'aumento dei prezzi era però ripreso a un ritmo relativamente rapido, benché l'indice dei prezzi al consumo non avesse ancora sorpassato i limiti fissati dal governo l'estate precedente. Questo è il quadro economico nel quale si forma il 6° piano economico e sociale (1971-75), i cui deludenti risultati sono però in gran parte da ricollegarsi ai colpi che l'economia francese ha dovuto sopportare a causa degl'inattesi rincari del petrolio e della recessione mondiale, a partire dal 1974.
Il prodotto nazionale lordo in volume era aumentato, fino al 1973, a un tasso annuo del 5,8%, con fluttuazioni cicliche quasi del tutto annullate dal continuo incremento degl'investimenti, soprattutto nel settore produttivo. Per lo stesso periodo si era consolidato il riequilibrio della bilancia dei pagamenti, operato nel 1970. Un netto abbassamento del ritmo dell'attività economica si è prodotto nel 1974-75, in un clima di recessione mondiale e dopo che le autorità si erano impegnate a stroncare un'inflazione del 10%.
In una situazione d'indebolimento simultaneo della domanda sia interna che estera, la crescita in volume del prodotto nazionale lordo è sensibilmente diminuita nel 1974 (2,8%), per diventare negativa nel 1975 (−1,5%). Questa forte contrazione dell'attività si è accompagnata a una notevole diminuzione dell'occupazione e a un incremento del risparmio precauzionale. A ciò si deve aggiungere che il rapido aumento della disoccupazione ha causato una diminuzione dei consumi tale da deteriorare la situazione finanziaria delle imprese che si sono viste costrette a diminuire gl'investimenti.
Nel periodo 1970-75 la politica monetaria ha giocato un ruolo rilevante nella regolazione della domanda interna: dal 1970 al 1972 essa è stata relativamente flessibile, tendente ad aiutare l'espansione dell'attività economica. Dalla fine del 1972 alla fine del 1974 si è seguita una politica monetaria restrittiva, per frenare lo sviluppo delle tensioni inflazionistiche e il peggioramento della bilancia dei pagamenti corrente.
Dall'inizio del 1975 la politica monetaria è stata progressivamente modificata, per divenire, durante l'autunno, nettamente espansionista, al fine di stimolare l'attività economica. Dall'osservazione degl'indicatori della finanza pubblica si constata che la politica di bilancio ha avuto lo stesso andamento di quella monetaria.
Infatti, parallelamente con l'attenuazione intervenuta nella politica monetaria a partire dal 1970, la politica di bilancio dello stato aveva assunto una tendenza espansionista, divenendo neutra nel 1973, anno di restrizioni monetarie. Congiuntamente al rilancio monetario intervenuto nell'autunno 1975 per far fronte alla recessione economica è stato stan ziato un rilevante deficit nel bilancio statale. L'impiego di questi strumenti è stato completato, durante il periodo, da misure specifiche concernenti i prezzi. Un regime di programmazione dei prezzi, in gran parte fondato su procedimenti contrattuali, è stato applicato ai differenti settori dell'economia.
Queste politiche non sono riuscite a eliminare le conseguenze della grave recessione che ha colpito la F. a partire dal secondo semestre del 1974 e che ha fatto fallire il 6° piano di sviluppo. L'incremento del prodotto nazionale lordo è stato infatti, in media, del 3,6% annuo contro il 5,9% previsto; tale incremento, nel settore industriale, è sceso nel 1974 al 2,8% dal 5,9% del 1973, mentre nel settore agricolo è calato allo 0,8% dal 6%. Dal 1971 al 1975 gl'investimenti produttivi sono stati in media del 3,6% l'anno contro il 6,8% previsto dal piano; sempre in questi cinque anni l'incremento annuo medio delle esportazioni è stato dell'8,6% anziché del 10,3%, mentre quello delle importazioni è stato del 6,1% anziché del 9,8%. Per il 1975, l'attivo per merci e servizi è di circa 3,9 miliardi di franchi, con un calo rispetto agli 8 miliardi previsti. L'incremento della produttività industriale "è stato praticamente nullo" nel 1975, con una media annua del 4,2% per il periodo in esame, contro il 4,5% che il piano si prefiggeva.
I consumi familiari sono aumentati del 4,7% l'anno contro il 5,4%. I prezzi e i salari invece sono saliti più del doppio rispetto al previsto. L'aumento medio annuo dei prezzi al consumo è stato infatti dell'8,6% rispetto al 3,6% e quello del salario orario del 14,9% contro il 7%.
Questo il quadro economico della F. all'elaborazione del 7° piano (1976-80). La novità di questo piano, che è passato all'approvazione del Parlamento nel marzo del 1976, risiede nella costituzione del "Consiglio centrale di pianificazione", comprendente il presidente della Repubblica, il primo ministro, il ministro dell'Economia e delle Finanze, il ministro del Lavoro e il Commissario del piano. Dal governo si è spiegata questa costituzione come un tentativo per meglio integrare i problemi a breve termine nel processo decisionale del potere esecutivo.
Da altri invece ciò è stato interpretato come un disimpegno del governo; questi ultimi fanno notare infatti che sono stati chiamati a collaborare pochi esperti, in confronto ai 2000 degli altri piani, a conferma della perduta credibilità che la pianificazione ha assunto in Francia.
L'obiettivo principale del 7° piano è quello del pieno impiego, il che comporterà due fondamentali conseguenze: il tasso di crescita economico nel corso di questo quinquennio dovrà essere il più elevato possibile e si dovrà applicare una nuova politica dell'occupazione.
Storia. - La fine della guerra d'Algeria. - Il referendum dell'8 gennaio 1961, che vide prevalere i fautori dell'autodeterminazione dell'Algeria, se affrettò la ripresa dei contatti con l'FLN, spinse peraltro i sostenitori dell'Algeria francese a giocare il tutto per tutto. Ai loro occhi non c'erano dubbi: de Gaulle aveva deluso tutte le loro speranze e tradito la loro causa. In effetti per il presidente francese non esistevano più alternative a un' "Algeria algerina". L'autodeterminazione era l'unico esito possibile: vi si doveva dunque giungere, beninteso cercando di mantenere un rapporto d'associazione con il nuovo stato e garantendovi per quanto possibile le posizioni e gl'interessi francesi. Nel tentativo di bloccare il processo in atto, l'OAS (Organisation de l'Armée Secrète) moltiplicò gli attentati e gli atti di terrorismo; íl 22 aprile il generale Challe (fino a due anni prima comandante in Algeria, trasferito quindi al quartier generale della NATO) volò ad Algeri ponendosi alla testa di un putsch militare. Venne decretato lo stato d'assedio, i rappresentanti del governo centrale furono arrestati, si promise il deferimento a un tribunale militare di quanti avevano partecipato a quello che veniva definito un tentativo d'abbandonare l'Algeria e il Sahara. Con Challe erano i generali Salan, Jouhaud e Zeller. Il moto si estese e nonostante la pronta reazione di de Gaulle, che assumeva i poteri straordinari previsti dall'articolo 16 della Costituzione, si temette che i paras potessero tentare di occupare Parigi e si arrivò a organizzare la resistenza. Nonostante le evidenti fratture che erano intervenute, neppure a questo punto si ruppe quel rapporto di fedeltà dell'esercito alle istituzioni che de Gaulle, non a caso, s'era sforzato con vari mezzi di corroborare, anche di recente, sapendolo essenziale alla risoluzione del dramma algerino. Nel giro di pochi giorni, infatti, la situazione si sdrammatizzava; vari comandanti rifiutarono di seguire i ribelli. Salan e Jouhaud allora fuggirono, mentre Challe si costituì.
A distanza di poco meno d'un mese dal fallito putsch dei generali, il 20 maggio 1961, si aprì a Evian la conferenza tra la delegazione francese (capeggiata da Louis Joxe) e quella del governo provvisorio algerino (guidata da Belkacem Krim). Il 18 marzo 1962, dopo lunghe trattative, più volte interrotte e accompagnate da una recrudescenza impressionante di attività terroristiche e di attentati da parte dell'OAS - tra cui uno, fallito, il 9 settembre 1961 allo stesso de Gaulle - si giunse finalmente a un accordo. Col cessate il fuoco, esso regolava il periodo transitorio, fino all'esercizio da parte algerina del diritto d'autodeterminazione, affidandone la responsabilità a un commissario francese (designato in C. Fouchet) e a un esecutivo provvisorio di 12 persone: 3 francesi e 9 algerini, di cui 6 dell'FLN. L'accordo definiva e offriva garanzie circa la posizione dei residenti francesi. Inoltre la F. conservava per 15 anni la base di Mers-elKébir, e per 5 anni le basi per i suoi esperimenti nucleari nel Sahara; condizioni particolari le erano poi riservate per il petrolio sahariano. Naturalmente - e c'era chi nel generale sollievo non mancava di rilevarlo - tutto stava a vedere se e in quale misura gli accordi così raggiunti sarebbero poi stati applicati.
L'8 aprile gli accordi furono sottoposti a referendum. Nella metropoli per il no s'era pronunciata solo l'estrema destra di Bidault e Poujade; i sì furono quindi massicci, più del 90% dei votanti. In Algeria da parte dell'OAS si replicò promuovendo la tattica della terra bruciata: numerosi edifici, fra cui il municipio e l'università, furono dati alle fiamme, mentre quasi un milione di civili francesi lasciava precipitosamente il paese. Intanto Jouhaud a Orano e Salan ad Algeri erano arrestati. Finalmente, a partire da metà giugno, l'OAS rinunciò alle sue azioni e il 1° luglio gli Algerini poterono recarsi in tutta calma alle urne: il sì ottenne il 99,72% dei voti espressi. Due giorni dopo la F. riconobbe solennemente l'indipendenza dell'Algeria. Nel settembre successivo l'Assemblea costituente designò Ben Bella (che nel suo recente conflitto con Ben Khedda era stato appoggiato dalle truppe del colonnello Boumedienne) capo del governo della nuova repubblica democratica e popolare d'Algeria, ammessa all'ONU ai primi d'ottobre.
Se si tiene conto del clima in cui era avvenuto nel giugno 1958 il ritorno al potere di de Gaulle e del tipo di appoggi ch'egli aveva allora ricevuto, la conclusione nei termini indicati della guerra d'Algeria aveva certamente qualcosa di paradossale. La fine dell'Algeria francese - una fine sulle cui modalità lo stesso de Gaulle si era in realtà acconciato solo a tappe e per passaggi successivi - non andava tuttavia intesa a nessun costo come l'equivalente della fine, per la F., d'una grande politica estera. Tutto il contrario: per quanto dolorosa, l'operazione appena conclusa liberava finalmente la F. da un pesante fardello che l'aveva negativamente condizionata e indebolita sin lì. Per de Gaulle, uscito miracolosamente indenne dal nuovo attentato al Petit-Clamart del 22 agosto 1962, la soluzione della crisi algerina non appariva ormai se non come un punto di partenza.
Il referendum e le elezioni del 1962. - Una prima novità era già stata offerta dalla sostituzione, in aprile, del primo ministro Debré con Pompidou, ritenuto più docile e ligio alle direttive dell'Eliseo (v. la voce pompidou in questa App.). L'attentato di agosto offriva l'occasione per porre sul tappeto la questione dell'elezione del presidente della repubblica. Anziché da parte del collegio di notabili previsto dall'articolo 6 della Costituzione del 1958, de Gaulle proponeva che lo si designasse a suffragio universale, demandando la questione a un prossimo referendum. L'obiettivo di de Gaulle, ostile da sempre ai partiti e alle degenerazioni della vita parlamentare, era trasparente. Un presidente della Repubblica eletto a suffragio universale sarebbe stato investito di un grado d'autorità tale da porlo nettamente al di sopra dei partiti, divenendo il rappresentante diretto della Francia. Da parte degli avversari si reagì facendo approvare all'Assemblea nazionale (ed era la prima volta che accadeva) una mozione di censura in cui si dichiarava incostituzionale la procedura scelta per arrivare al referendum. Ma de Gaulle a sua volta replicò sciogliendo il parlamento e indicendo le elezioni legislative, da tenersi dopo il referendum. Questo ebbe luogo il 28 ottobre 1962 e vide la vittoria, sia pure non schiacciante, dei sì, pari al 62% dei votanti (tenendo conto del 23% delle astensioni, tale cifra equivaleva peraltro a solo il 46% degl'iscritti).
Trionfale fu invece per de Gaulle l'andamento delle elezioni del 18-25 novembre. Giustamente se ne è parlato come d'un vero e proprio regolamento dei conti con "il regime disastroso dei partiti". L'UNR ottenne infatti 233 deputati, cui si affiancavano a comporre una maggioranza stabile i 35 repubblicani-indipendenti del ministro delle Finanze Giscard d'Estaing. L'opposizione di sinistra totalizzò 117 seggi (66 i socialisti, 41 i comunisti). Il Centro democratico (ma qualche deputato MRP si sarebbe schierato col governo) 55; il Rassemblement démocratique di M. Faure e F. Mitterrand 39. Tra gli altri dati da non sottovalutare c'era il largo rinnovamento del personale politico: oltre un terzo dell'Assemblea nazionale era di nuova nomina, mentre fra i battuti figuravano personalità di primo piano, come P. Reynaud e P. Mendès-France.
Una nuova politica estera. - La F. - aveva scritto de Gaulle in un celebre brano delle Memorie di guerra - non poteva esistere senza grandeur, cioè senza proporsi obiettivi d'affermazione internazionale adeguati al suo passato e alle sue possibilità. Al regime dei partiti egli aveva appunto imputato, e continuava a imputare, l'oblio d'una simile, per lui incontrovertibile verità. L'impegno per restituire alla F. una politica estera degna di lei s'era posto quindi sin dall'inizio come prioritario.
La premessa era il ripudio dei rapporti di forza sanzionati dalla guerra e, più ancora, dai successivi cedimenti del dopoguerra. Con questo non s'intendeva negare una solidarietà di fondo col "mondo libero" di cui la F. continuava a far parte: lo si era dimostrato nel 1958 nel momento della crisi di Berlino, lo si dimostrava nell'ottobre 1962 in occasione della crisi di Cuba. Quello che non si accettava era l'istituzionalizzazione d'un rapporto d'inferioritá, era la subordinazione sistematica della F. agli Stati Uniti: era, più in generale, il predominio delle superpotenze.
L'alternativa a simile stato di cose andava realizzata anzitutto rivedendo la posizione della F. nell'ambito della NATO: salvando cioè l'alleanza politica ma promuovendo il disimpegno militare. Ciò in base al principio che una nazione deve dar prova della propria vitalità provvedendo in primo luogo da sé alla propria difesa. Altro punto nodale diventava perciò l'armamento atomico: nonostante l'evidente distacco dalle superpotenze, anche la F. doveva poter disporre in piena autonomia d'un sia pur ridotto potenziale nucleare. Più ancora che d'ordine strategico, l'obiettivo che si riteneva per questa via di poter raggiungere era chiaramente d'ordine politico. Rientravano in questa prospettiva il no alla costituzione d'una forza multilaterale atomica nell'ambito della NATO e successivamente il rifiuto di aderire al trattato di Mosca dell'agosto 1963 per l'interdizione degli esperimenti nucleari.
Nell'ottica gaullista il ridimensionamento del ruolo internazionale delle due superpotenze presupponeva la realizzazione dell'Europa: non però dell'Europa a suo tempo vaticinata da J. Monnet o da R. Schumann, dell'Europa dei federalisti o degli "eurocrati" di Bruxelles, dotata di poteri sovranazionali; bensì d'una Europa "delle patrie", confederazione di stati sovrani. Una simile Europa, per riuscire vitale - era un altro punto fermo - doveva a tutti i costi liberarsi della tutela americana. Il distacco dai progetti di un Kennedy che auspicava l'unificazione europea, ma all'interno del vincolo atlantico, non poteva dunque risultare più netto. Coerentemente con simili impostazioni, nell'Europa di de Gaulle non c'era posto per la Gran Bretagna. Nella conferenza stampa del 14 gennaio 1963 il presidente francese prese apertamente posizione contro l'ingresso britannico nel MEC: perché le possibilità di effettiva integrazione economica gli apparivano quanto mai remote, ma soprattutto perché nell'erigendo organismo europeo Londra avrebbe secondo lui agito da longa manus di Washington, e ciò andava a tutti i costi evitato.
Il delinearsi sempre più netto del contrasto con gli SUA ebbe immediate ripercussioni sui rapporti franco-tedeschi. Il riavvicinamento con la Germania di Adenauer era culminato nel trionfale viaggio oltre Reno di de Gaulle del settembre 1962 e nella stipulazione del trattato di cooperazione del gennaio successivo. Ma nell'ottobre 1963 Erhard prendeva il posto di Adenauer. A maggior ragione, a quel punto, l'ipotesi gaullista di realizzare, in prospettiva, la riunificazione tedesca nell'ambito d'una Europa liberata dall'ipoteca americana e pacificata "dall'Atlantico agli Urali" doveva risultare troppo aleatoria perché le si sacrificasse la protezione intanto assicurata dagli SUA e di recente ribadita nel corso del suo viaggio in Germania del giugno dallo stesso Kennedy.
Non per questo tuttavia de Gaulle rinunciava a proseguire per la sua strada. Mentre si concretava il disimpegno dall'organizzazione militare NATO, si moltiplicavano le iniziative dirette a sanzionare il ruolo autonomo ormai proprio della F. nella politica internazionale. Nel gennaio 1964 si procedeva al riconoscimento della Cina popolare; nel maggio 1965, al Consiglio di sicurezza dell'ONU, si condannava l'intervento americano a San Domingo; nel settembre-ottobre di quello stesso anno de Gaulle compiva un lungo viaggio nell'America del Sud. Parallelamente, a partire dal febbraio 1965, si moltiplicavano gli attacchi della F. all'egemonia del dollaro nel sistema monetario internazionale. E nel contempo era avviata col consueto risalto una politica di riavvicinamento verso l'Est, sia nei confronti dell'URSS (in particolare con la visita di Gromyko a Parigi dell'aprile 1965 e del ministro degli esteri Couve de Murville in URSS dell'ottobre-novembre dello stesso anno), sia nei riguardi di altri paesi dell'Europa orientale, Romania, Ungheria, Polonia.
L'atteggiamento della F. gaullista negli organismi europei apparve caratterizzato da un analogo stile. Quando nel marzo 1965 la Commissione esecutiva della CEE presieduta da W. Hallstein, propose (con una procedura secondo alcuni non ineccepibile) di dotare la Comunità d'un bilancio proprio, aumentando i poteri del parlamento europeo (ciò che si sarebbe tradotto in un passo avanti nel senso della sovranazionalità), da parte francese ci si oppose duramente. Fallita ogni possibilità d'intesa su un regolamento finanziario, il 1° luglio il rappresentante permanente della F. a Bruxelles fu richiamato in patria: dovevano trascorrere vari mesi prima che tornasse a occupare la sedia rimasta vuota.
Le elezioni presidenziali del dicembre 1965. - Nel settembre 1963, ritenendosi le elezioni presidenziali più prossime di quel che in realtà non sarebbero state, dietro lo schermo d'un "Monsieur X" di cui si taceva ancora il nome, prese il via ad opera di alcuni settori della sinistra democratica il lancio della candidatura del sindaco socialista di Marsiglia G. Defferre. A sostenerla erano anzitutto, con un gruppo di giornalisti (tra cui J.-J. Servan Schreiber dell'Express), gli animatori dei clubs (in particolare il Jean Moulin, il Cercle Tocqueville di Lione, Démocratie nouvelle di Marsiglia, Citoyens '60), i quali firmarono in dicembre un manifesto per auspicare che le elezioni si risolvessero in un'occasione di rinnovamento politico. Sulle prime l'operazione (che nasceva dunque fuori dagli ambiti tradizionali e dagli apparati dei partiti) parve avere successo. Rispetto ai comunisti Defferre partiva dal presupposto che, non potendo disporre con speranze di vittoria d'una candidatura propria, essi avrebbero finito per forza con l'appoggiarlo contro i gaullisti. Esclusa ogni negoziazione con loro, ottenuta nel febbraio 1964 (a dire il vero non senza qualche difficoltà) l'investitura ufficiale da parte della SFIO, Deffere cercò di dar vita a un più vasto schieramento cui partecipassero anche i centristi dell'MRP (presieduto ora da J. Lecanuet). Nell'aprile la Convenzione delle istituzioni repubblicane - che comprendeva, con i rappresentanti dei club della sinistra, personalità radicali e socialiste - propose la costituzione d'una federazione che in effetti nei mesi successivi Defferre cercò di realizzare. Ma né Mollet, segretario della SFIO, né Fontanet, segretario dell'MRP, vedevano con favore un progetto di superamento dei partiti. Nel giugno Defferre dovette pertanto ritirare la propria candidatura.
Nell'ambito della sinistra fu allora Mitterrand ad avanzare, nel settembre, la sua candidatura, costituendo nel contempo una Fédération de la gauche démocratique et socialiste chiusa al centro. A differenza di Defferre, Mitterrand poté ottenere l'appoggio comunista, mentre per il Centro - venuta meno la possibilità d'una candidatura Pinay - scendeva in lizza Lecanuet: e sarà proprio la sua presenza, con i voti così sottratti a de Gaulle, a costringere il presidente francese (il quale aveva annunciato la sua candidatura in novembre) all'onta imprevista del ballottaggio, dopo una campagna elettorale in cui ebbe un particolare risalto l'utilizzazione da parte dei candidati dello strumento televisivo.
Nella F. metropolitana i risultati dello scrutinio del 5 dicembre davano il 43,71% dei voti espressi a de Gaulle, il 32,23% a Mitterrand, il 15,85% a Lecanuet, il 5,27% a Tixier-Vignancour (candidato d'estrema destra). Il ballottaggio si svolse il 19 dicembre e diede il 54,50% dei voti a de Gaulle, contro il 45,49% a Mitterrand.
Riconfermato presidente della Repubblica, de Gaulle sviluppò gl'indirizzi di politica estera già noti, tra l'altro decidendo nel marzo 1966 l'uscita della F. dalla NATO; recandosi in URSS nel giugno e accentuando il significato dei legami con Mosca (che non escludevano lo sviluppo di paralleli rapporti con le altre capitali dell'Est); compiendo nell'agosto-settembre successivi un lungo viaggio intor- no al mondo durante il quale, nella sosta in Cambogia, si pronunciò pubblicamente per il ritiro degli americani dal Vietnam; condannando l'azione di Israele in occasione della guerra "dei sei giorni", abbandonandosi infine a dichiarazioni favorevoli ai francofoni del Québec durante il viaggio in Canada del luglio di quello stesso anno. Sul fronte interno, in vista delle elezioni legislative, da parte della maggioranza fu lanciato un Comité d'action pour la Ve République che comprendeva anche i repubblicani indipendenti: non senza però che il loro leader Giscard d'Estaing, che non faceva più parte del governo, non marcasse a più riprese le loro distanze. A sinistra Mitterrand si sforzava per parte sua di consolidare la Fédération de la gauche démocratique et socialiste, approfondendo i temi programmatici, costituendo nel maggio 1966 un governo ombra sul modello britannico, addivenendo a un accordo con i comunisti a vantaggio del rispettivo candidato meglio piazzato dopo il primo scrutinio.
Le elezioni del marzo 1967 videro un risultato positivo per i gaullisti nel primo scrutinio (37,8% dei voti), che però non si ripeté nel secondo. L'accordo elettorale delle sinistre diede infatti buoni risultati. I comunisti che al primo turno avevano raggiunto il 22,5% dei voti, ottennero 72 seggi (+31), la Fédération di Mitterrand e il PSU 120 (+ 31), mentre la maggioranza governativa raggiunse a fatica (grazie ai voti d'Oltremare e alla confluenza di qualche isolato) i 245 seggi, di cui 43 andarono ai giscardiani.
Il maggio 1968 e le dimissioni di de Gaulle. - Preceduta da alcune avvisaglie nel novembre 1967, nel gennaio 1968 la contestazione studentesca raggiunse anche la F., con primo epicentro il campus di Nanterre, alla periferia parigina. Nel maggio, chiusa Nanterre, il centro dell'agitazione si spostò alla Sorbona. Nella notte tra il 3 e il 4 maggio, dopo che la polizia era intervenuta a sgombrare l'università, avvennero gravi incidenti al quartiere latino. La Sorbona fu chiusa. Alcuni degli studenti arrestati furono condannati, mentre il moto si gonfiava. Il 7 maggio migliaia di studenti sfilarono davanti alla tomba del milite ignoto cantando l'Internazionale. Nuovi, più seri scontri tra studenti e forza pubblica, con l'erezione di barricate, avvennero nella notte tra il 10 e l'11 maggio, mentre anche altri centgi universitari del paese erano teatro di disordini. La riapertura della Sorbona, decisa da Pompidou l'11, al suo ritorno da una visita in Iran, portò all'occupazione dell'ateneo. Il 14 maggio, il giorno dopo lo sciopero organizzato dai sindacati CGT e CFDT il moto si estese alle fabbriche. Gli operai occuparono le officine Sud Aviation a Nantes, Renault a Cleon, Flins a Billancourt, Rhodiaceta e Berliet a Lione; contemporaneamente le astensioni dal lavoro si estesero a tutti i settori della vita nazionale. Il 20 maggio si calcola che gli scioperanti fossero dieci milioni.
Il discorso radiotelevisivo del 24, con cui de Gaulle, ritornato una settimana prima da un viaggio in Romania, preannunciò un prossimo referendum sulla partecipazione, legando alla prevalenza dei sì la propria ulteriore permanenza all'Eliseo, non modificò la situazione, potendo anzi apparire come un ulteriore sintomo della dissoluzione ormai in atto del sistema gaullista: se non addirittura, come sognavano i gauchistes, del sistema borghese. Nuovi, ancor più violenti scontri si svolsero nel centro di Parigi nella notte tra il 24 e il 25; manifestazioni e disordini erano contemporaneamente segnalati a Lione, Bordeaux, Strasburgo, Nantes e in altre città.
Pompidou cercò allora di scindere le rivendicazioni operaie dai moti studenteschi, trovando in ciò l'appoggio dei dirigenti sindacali, a loro volta ostili alla pretesa studentesca di scavalcarli. Gli accordi raggiunti nel negoziato a tre - governo, padronato e sindacati - svoltosi dal 25 al 27 maggio presso il ministero degli Affari sociali in rue de Grenelle non furono però approvati dalla base operaia. Il 28 maggio Mitterrand annunciò allora la propria candidatura alla presidenza della repubblica in caso di vacanza della medesima, conseguente alla vittoria (che a quel punto si poteva effettivamente ritenere possibile) dei no al prossimo referendum, proponendo nel contempo che si conferisse la presidenza di un governo provvisorio a Mendès-France, l'uomo politico che, come sembravano dimostrare le accoglienza ricevute il 27 maggio alla grande manifestazione allo stadio Charléty organizzata dall'UNEF, dal PSU e dalla CFDT, appariva l'unico in grado di controllare la situazione.
Ma proprio a quel punto, tra il 29 e il 30 maggio, maturò l'inversione di tendenza. Dopo essere "sparito" per un giorno (recandosi in segreto a incontrare il generale Massu, comandante delle forze francesi in Germania) e aver creato così un motivo di enorme suspence, de Gaulle riapparve e pronunciò alla radio un efficacissimo messaggio in cui annunciava che non si sarebbe ritirato, che il referendum sarebbe stato rinviato e che invece sarebbe stata sciolta l'Assemblea nazionale. Di fronte alla minaccia in atto, di fronte al tentativo di dissolvere lo stato per imporre, nella generale rassegnazione, il potere, dapprima mascherato, poi esclusivo e trionfante, del "comunismo totalitario", la F. doveva reagire, l'"azione civica" doveva organizzarsi ovunque: la risposta a simile appello fu immediata. Nel pomeriggio di quello stesso 30 maggio diverse centinaia di migliaia di persone sfilarono dalla Concorde all'Étoile. Nel corso del successivo giugno il lavoro progressivamente riprese, mentre invano da parte dei gauchistes si cercava di arrestare il fenomeno. Si verificarono anche scontri fra operai e studenti. Il 16 giugno la Sorbona, occupata fin lì, fu fatta sgomberare e il 23 giugno si svolse il primo turno elettorale.
L'avanzata dei gaullisti dell'UDR (Union des Démocrates pour la République, come ora si chiamavano) fu particolarmente rilevante, ascendendo al 43,6% dei voti. E questa volta, a differenza dell'anno prima, non ci sarebbero state defezioni o delusioni ai ballottaggi. I gaullisti ottennero infatti ben 292 seggi (la più alta maggioranza mai registrata nella storia parlamentare francese); i repubblicani indipendenti seguivano con 61 seggi; 33 seggi andarono ai centristi di Progrès et Démocratie moderne, mentre le sinistre uscivano duramente battute: la Fédération di Mitterrand ottenne 57 seggi, i comunisti 34.
Le tensioni che avevano lacerato la compagine gaullista nei giorni drammatici di maggio sboccarono tuttavia nella mancata conferma, alla testa del governo, di Pompidou, ritenuto da molti il vero artefice del successo elettorale. De Gaulle lo rimpiazzò con Couve de Murville, ministro degli Esteri dal 1958, mentre E. Faure, andato a dirigere l'Educazione nazionale, ebbe l'incarico di riformare l'università, le cui carenze e arcaicità avevano alimentato la protesta di maggio. Non senza fortissime resistenze nell'ambito della maggioranza Faure riuscì in effetti a varare a tempo di record, già nell'ottobre, una legge fortemente rinnovatrice. L'altro campo nel quale al governo toccava provedere era quello dell'economia. La crisi di maggio s'era inserita su una situazione già caratterizzata da vari segni di malessere. Alcune misure furono adesso prese per contrastare l'inflazione, la caduta degli investimenti, l'esodo dei capitali. Non si osò tuttavia decidere la svalutazione del franco, pure a un certo punto ventilata come indispensabile per sostenere le esportazioni.
Frattanto, nel gennaio 1969 e poi di nuovo il mese dopo, Pompidou, che gli avversari avevano cercato di coinvolgere in uno scandalo, annunciò la propria disponibilità a succedere a de Gaulle. Il 27 aprile 1969, allorché i Francesi si recarono finalmente a votare per il referendum sulla "partecipazione" annunciato sin dal maggio precedente e vertente su due punti concreti - la realizzazione delle regioni e una modifica nell'ordinamento del Senato -, de Gaulle non disponeva dunque più dell'arma di pressione, risultata sin lì tanto efficace nei confronti della F. moderata, costituita dall'apparente mancanza di alternative tra il suo sistema e il salto nel buio di cui si sarebbero giovati i comunisti. Questa volta fallì il tentativo (ché come tale va giudicato) di far leva sui moti di maggio - cioè su un momento di crisi in cui, non diversamente da quanto era accaduto dieci anni prima per l'Algeria, si era arrivati alla soglia della dissoluzione - per indurre i Francesi ad accettare la sua visione della F. e del suo futuro. I sì erano appena 10.901.753 (47,58%) contro 12.007.102 no (52,41%). Coerente con le premesse, convinto che ormai anche per la F. non c'era più nulla da fare, de Gaulle, il 28 aprile cessò di esercitare le sue funzioni di presidente della Repubblica. Per la F. era veramente un'epoca che si chiudeva.
Il "dopo de Gaulle": da Pompidou a Giscard d'Estaing. - Alle elezioni presidenziali dell'1-15 giugno Pompidou risultò facile vincitore. A differenza di quanto era accaduto nel 1965 le sinistre, profondamente divise, non erano in grado di presentare un candidato unico e distribuirono perciò al primo turno i loro suffragi tra Duclos (che raccolse la quota all'incirca ormai stabilizzata dei voti comunisti: il 21,5%) e Defferre (che ebbe appena il 5,1%), mentre ai due candidati che si richiamavano alla contestazione del maggio 1968 (Rocard, segretario del PSU e Krivine) toccarono rispettivamente il 3,7% e l'1,1% dei suffragi. Dietro Pompidou (che ottenne il 43,9%), il secondo posto fu così conquistato dal presidente del Senato Poher (23,4%) il quale soccombeva nettamente al ballottaggio. L'avvento di Pompidou all'Eliseo, pur nella conclamata continuità rispetto a de Gaulle, vide l'introduzione di alcuni motivi che gli osservatori non mancarono di rilevare. Alla presidenza del Consiglio era chiamato J. Chaban-Delmas, il quale si presentava come il promotore d'un vasto progetto rinnovatore e modernizzatore di "nuova società", mentre erano riprova dell'allargamento verso il centro della maggioranza la riconciliazione con Giscard d'Estaing, che riassumeva il dicastero delle Finanze e dell'Economia, e l'ingresso nel governo di Pleven, Duhamel e Fontanet. La svalutazione del franco (ventilata, ma non adottata sotto de Gaulle) fu adesso decisa, nell'agosto 1969.
In politica estera la decisione di maggior risultato fu costituita dalla fine del veto all'ingresso della Gran Bretagna nella CEE, nel quadro d'un rilancio della politica europea che trovò la sua sanzione nell'incontro dei nove capi di stato europei tenuta a Parigi nell'ottobre 1972. Differenze significative, che non erano solo di stile, rispetto a de Gaulle erano altresì riscontrabili nell'interpretazione nell'insieme più morbida che Pompidou dava alla politica di grandeur. Ai buoni rapporti con l'URSS (ulteriormente sanciti dal viaggio dell'ottobre 1970, seguito dalla venuta, l'anno dopo, di Brežnev a Parigi) fece inizialmente riscontro una certa détente nei confronti degli SUA (incontro con Nixon del dicembre 1971), poi però complicato dagli sviluppi della crisi del sistema monetario internazionale e dal nuovo conflitto tra gli Arabi e gli Israeliani, che vide Pompidou attestato su posizioni favorevoli ai primi. Nel settembre 1973 il presidente francese compì un viaggio in Cina. Nel maggio 1974 incontrò in Russia Brežnev, trattando con lui i temi della Conferenza sulla sicurezza europea. Sul piano interno, dopo il mezzo insuccesso del referendum dell'aprile 1972 sull'ingresso della Gran Bretagna nella CEE, l'esaurimento dell'esperienza riformatrice di Chaban-Delmas (osteggiata dal gaullismo più ortodosso) fu segnato dalla sua sostituzione nel luglio 1972 con P. Messmer, interpretata altresì come l'indizio d'una ulteriore accentuazione del ruolo dell'Eliseo. L'esito non troppo soddisfacente delle elezioni legislative del marzo 1973 (che videro un recupero dei socialisti e dei comunisti, uniti dal giugno 1972 da un programma comune di governo) e il fallimento del tentativo di ridurre a cinque anni il mandato presidenziale, dettero d'altra parte l'impressione di crescenti difficoltà. Il 19 gennaio 1974 fu presa la decisione di lasciar fluttuare il franco fuori dal "serpente" comunitario, mentre misure contro l'inflazione furono adottate nel marzo successivo.
Alla morte di Pompidou, avvenuta il 2 aprile 1974, le sinistre disponevano della candidatura di Mitterrand, riemerso dopo la parziale eclissi succeduta alle vicende del maggio 1968 e del giugno 1971, primo segretario del rinnovato Partito socialista. Da parte gaullista scendeva in lizza Chaban-Delmas: ma a scompaginare il quadro intervenne l'8 aprile il lancio della candidatura di Giscard d'Estaing, evidentemente deciso a realizzare il suo progetto d'una più larga maggioranza aperta verso il centro (per la carriera politica di Giscard v. la voce relativa in questa App.). Egli ottenne in effetti l'appoggio di Lecanuet e al primo turno del 5 maggio si piazzò secondo, col 32,93% dei voti dietro a Mitterrand (43,35%) e davanti a Chaban-Delmas (14,76%). In vista del ballottaggio qualche gaullista di sinistra prese posizione per Mitterrand, ma nell'insieme la gran parte dell'elettorato che s'era appoggiata a de Gaulle e aveva dato la fiducia a Pompidou mostrò d'accettare il "cambiamento senza rischio" promesso da Giscard, che, sia pure di misura, il 19 maggio prevalse col 50,66% dei voti, contro il 49,33% di Mitterrand. A partire da questo momento, la lotta politica è stata caratterizzata dallo sfaldamento progressivo della maggioranza, divisa tra gaullisti e giscardiani, dal raggiungimento di una apparentemente solida intesa fra socialisti e comunisti e da un'avanzata delle sinistre. Dopo le sue dimissioni dal governo, l'ex primo ministro J. Chirac (sostituito alla testa del governo da R. Barre) non ha esitato ad attaccare frontalmente Giscard d'Estaing, puntando al municipio di Parigi in concorrenza col candidato presidenziale. Mentre il presidente proponeva ancora una volta il suo programma di una società "liberale avanzata" (con la pubblicazione del saggio Démocratie française, nell'ottobre 1976), i risultati delle elezioni municipali del marzo 1977 hanno registrato un successo delle sinistre che ha superato le previsioni anche nelle regioni tradizionalmente conservatrici e nelle zone rurali. I dissensi nel fronte delle sinistre clamorosamente emersi nel settembre successivo introducevano tuttavia un elemento nuovo nel quadro politico francese. Infatti, il proseguire delle polemiche nella sinistra, l'appello del presidente Giscard al paese alla vigilia della prima giornata elettorale (12 marzo 1978), il peso della situazione internazionale hanno determinato il successo della coalizione governativa che sosteneva R. Barre. I risultati del ballottaggio (19 marzo) sono stati i seguenti: maggioranza: 290 seggi (gollisti del RPR: 153; giscardiani dell'UDF e altre liste: 137); opposizione di sinistra: 201 seggi (socialisti: 104; comunisti: 86; radicali di sinistra: 10; estrema sinistra: 1).
Bibl.: J. Fauvet-J. Planchais, La fronde des généraux, Parigi 1961; A. Grosser, La politique extérieure de la Ve République, ivi 1965; R. Barillon, La Gauche française en mouvement, ivi 1967; R. Aron, La révolution introuvable, ivi 1968; Epistemon (D. Anzieu), Les idées qui ébranlèrent la France, ivi 1968; Centre d'étude de la vie politique française, Le Communisme en France, ivi 1969; F. Mitterrand, Ma part de vérité, ivi 1969; Centre d'étude de la vie politique française, L'élection présidentielle de 5 e 19 décembre 1965, ivi 1970; id., Les élections législatives de mars 1967, ivi 1970; J. Charlot, Le phenomène gaulliste, ivi 1970; C. de Gaulle, Discours et messages, voll. III-V, ivi 1970; Y. Courrière, La guerre d'Algérie, ivi 1968-71; C. de Gaulle, Mémoires d'espoir, ivi 1970-71; P. Viansson-Ponté, Histoire de la République Gaulienne, ivi 1970-71; M. Couve de Murville, Une politique etrangère. 1958-1969, ivi 1971; A. Dansette, Mai 1968, ivi 1971; A. Malraux, Les chênes qu'on abat..., ivi 1971; J. Chapsal, La vie politique en France depuis 1940, ivi 19723; G. Dupeux, La France de 1945 ò 1969, ivi 19723; E. A. Kolodziej, French international policy under de Gaulle and Pompidou. The politics of grandeur, Ithaca 1974; S. Hoffman, Essais sur la France, Parigi 1975; G. Pompidou, Entretiens et discours 1968-1974, ivi 1975 segg.; A. Cavallari, La Francia a sinistra, Milano 1977. I volumi de L'Année politique, economique social et diplomatique en France offrono cronache assai ampie e dettagliate. Altrettanto si dica per la Revue française de science politique.
Letteratura. - Il fenomeno più vistoso e più significativo della letteratura francese di questi ultimi quindici anni è senza dubbio la "nouvelle critique". Non solo la critica letteraria mai come in questo periodo ha goduto di robusta e aggressiva salute, ma è riuscita a condizionare o a far emergere con più incisiva evidenza le metamorfosi e un nuovo concetto di letteratura, con modifiche essenziali di termini, di strutture, di espressione. È la critica soprattutto che negli anni Sessanta prende chiara coscienza delle trasformazioni radicali della società e quindi della cultura nel secondo dopoguerra, e ne trae tutte le debite conseguenze, invadendo e mettendo in crisi anche gli altri domini letterari, attenuando la distinzione fra i vari "generi", e auspicandone se mai una rifondazione, ponendosi sullo stesso piano di creatività e d'invenzione della letteratura. Il fenomeno non è certo né del tutto nuovo, né limitato alla Francia. La critica d'identificazione inquieta di un Rivière, o di approssimazione di un Du Bos, l'approccio già più problematico e consapevole di un Raymond e di un Béguin - De Baudelaire au Surréalisme (1933) del primo e L'âme romantique et le rêve (1937) del secondo sono due opere capitali e capostipiti della nuova ricerca critica -, attestano già una divergenza piuttosto netta dalla critica tradizionale, e dal "lansonismo" meccanicistico di molti discepoli - ed epigoni - del grande storico della letteratura francese. Ma è nell'immediato dopoguerra che si pongono le premesse più determinanti di quel rivolgimento, che il concetto di letteratura cambia ed evolve fino a negarsi e a restituirsi in forme assai diverse. La grande frattura della guerra, della resistenza, del collaborazionismo coinvolge la letteratura in un vasto dibattito ideologico, sollevando una serie di interrogativi stringenti, di sollecitazioni politiche e morali. Si pensi soprattutto al saggio di Sartre Qu'est-ce que la littérature? (1947), non tanto per le proposte che formula, di una letteratura in stretta connessione con la storia, e che agisca sulla storia, ma per le domande stimolanti che pone e che si pone, sulla qualità, sul destino, sugli strumenti della letteratura. Ed è di pochi anni posteriore il primo libro di Barthes, Le degré zéro de l'écriture (1953), che mentre sembra per alcuni aspetti ribaltare e superare le postulazioni sartriane, segna l'inizio della modernità dalla ricerca di una letteratura impossibile (da Flaubert in poi), in quanto presa di coscienza di uno stato di drammatico contrasto fra la volontà di "creare" una scrittura neutra o bianca, rarefatta in uno spazio vuoto, libera da complessi sociali, e i vincoli di una lingua tradizionale, i clichés verbali della società borghese: il "grado zero" è quindi quello della scrittura di un'assenza, o dell'assenza di una vera scrittura, che si potrà avere soltanto in uno stato "assolutamente omogeneo della società". Questa mise en question della letteratura comporta già nello stesso periodo una nuova coscienza critica, con nuove ipotesi e proposte, che spostano l'attenzione dai contenuti, dall'espressione, al linguaggio, alla "scrittura", o assumono i contenuti in un rapporto nuovo con il testo, con l'opera letteraria, sia per quanto riguarda la relazione fra il critico e l'autore (lettura-scrittura), sia per gli strumenti con cui quegli stessi contenuti vengono analizzati, o ri-creati, dal critico, con un'incidenza ora non più misconosciuta o ignorata delle nuove correnti di pensiero, e delle scienze umane. Il marxismo, l'esistenzialismo, il freudismo, l'erotismo, la linguistica, l'antropologia ora soccorrono o determinano l'approccio critico, in una visione assai più complessa dei fatti letterari, aggrediti non più dall'esterno (la vita dell'autore che spiega l'opera), ma dall'interno (è l'opera semmai che spiega la vita), con la ricerca di fitte trame di corrispondenze.
Occorre qui ricordare anzitutto l'opera critica di M. Blanchot (v. in questa App.), da Comment la littérature est-elle possible? (1942) fino a Le livre à venir (1959), che esprime la tragica consapevolezza di una letteratura come pura creazione di linguaggio, cioè come distruzione dell'oggetto, come morte e silenzio; e quella di G. Picon (v. in questa App.), che mentre non disconosce la necessità di ricollocare il fatto letterario nel suo contesto storico, accentra la sua attenzione sul testo in sé, come valore autonomo e struttura originale (L'écrivain et son ombre, 1953). Né è da trascurare l'incidenza che ha avuto su queste discussioni e sui loro ulteriori sviluppi la pubblicazione del Contre Sainte-Beuve di Proust (scritto intorno al 1908, edito soltanto nel 1954), che accredita l'opera d'arte come prodotto di un io diverso da quello meramente "biografico", e in un tempo e in uno spazio differenti. Ed è con queste nuove tendenze che si accorda e coincide per taluni aspetti la cosiddetta "école de Genève", che riconosce nei due critici svizzeri già citati, Raymond e Béguin, i suoi più diretti maestri, e che nei suoi caratteri generali si presenta come una reazione alla "scuola lansonista", nella predilezione della ricerca dei "temi" fondamentali di un'opera, e inerenti all'opera stessa, e della forma aperta del "saggio": ci riferiamo naturalmente a J. Ronsset, a G. Poulet, a J.-P. Richard, a J. Starobinski (per tutti questi, v. in questa App.).
Ma è certamente nella F. degli anni Sessanta che queste varie influenze trovano il loro punto di convergenza, con una configurazione del fenomeno più netta, anche per una clamorosa polemica che costituisce essa stessa un importante fatto letterario, e trascende di molto i termini della questione. Già nel 1957 J. Pommier, professore alla Sorbona, aveva criticato severamente il Michelet par lui-même (1954) di Barthes e il saggio su Baudelaire di Richard, raccolto nel volume Poésie et profondeur (1955): sotto accusa veniva messo il metodo arbitrario e restrittivo, e la mancanza di chiarezza, della "giovane critica". Ma è lo stesso Barthes che nel 1963 attacca la critica "universitaria", cioè tradizionale (si vedano i suoi Essais critiques, 1964); nel 1965 risposta di un altro "professore", R. Picard, Nouvelle critique ou nouvelle imposture, che stronca il Sur Racine (1963) di Barthes; nel 1966, repliche di Barthes (Critique et Vérité), di Doubrovsky (Pourquoi la nouvelle critique. Critique et objectivité), di Weber (Néo-critique et paléo-critique), e strascichi fino al 1968 di questa nuova "querelle des anciens et des modernes" (J. Pommier, La Querelle, in Revue d'Histoire littéraire de la France, gennaio-marzo 1967; P. Daix, Nouvelle critique et art moderne, 1968), che del resto nemmeno oggi può dirsi del tutto spenta o sopita. Il divario profondo non è tanto fra critica universitaria e critica militante o antiaccademica (molti critici "moderni" sono anch'essi professori universitari, e molti professori universitari, anche della generazione precedente, sono da tempo su posizioni "moderne"), ma è nella qualità di metodi assai diversi, addirittura opposti, che appare nettamente (anche se polemicamente) nel lucidissimo libello di Barthes, Critique et Vérité, i cui dati più importanti possono essere così sommariamente indicati: la letteratura è un fatto di linguaggio, di "scrittura", cioè essenzialmente formale e strutturale; e la lingua non è uno strumento di espressione, un veicolo di contenuti, ma è essa stesso ll soggetto dell'opera letteraria; non esiste un "fondo", un "segreto" dell'opera, da ricavare, da studiare, da spiegare, in quanto il "fondo" di un'opera letteraria è essa stessa come tale, ed è anzi assenza di un oggetto (e la sua distruzione); pertanto un libro è un mondo con una sua organizzazione completa, autonoma, unica; il critico dunque non deve e non può "tradurre" dei contenuti che non esistono, non può spiegare o chiarire il senso di un'opera, ma creare dei sensi, continuare, in un'anamorfosi coerente e rigorosa, le metafore simboliche che l'opera propone.
Naturalmente non tutta la "nouvelle critique" si riconosce in queste formule, ed è assai agevole, come è stato fatto più volte, distinguere vari filoni, da quello ancora "antropomorfico", umanistico ed esistenziale, che pone sempre al centro dell'indagine l'uomo, l'autore, ma ne ricostruisce dall'interno il mondo sensibile, i miti, le ossessioni, e ricorre alla psicanalisi e agli schemi suggestivi di Bachelard (v. in App. III, 1, p. 198) - e citiamo Richard, Poulet, Mauron e lo stesso Sartre, che ha dedicato a Flaubert un libro-summa, di cui sono usciti i primi tre grossi volumi (L'idiot de la famille, 1971-72) -, a quello più dichiaratamente sociologico (Goldmann; v., in questa App.); ma indubbiamente l'indirizzo più consistente è proprio quello "formalista" - e ricordiamo, oltre allo stesso Barthes, Genette, Todorov e un gruppo di linguisti, di teorici, di studiosi di "scienze umane", quali Jakobson, Cohen, Foucault, Lévi-Strauss, Althusser, Derrida, che esercitano anch'essi la critica letteraria, o le cui opere sono costantemente tenute presenti e discusse in ambito letterario e da una rivista d'avanguardia come Tel Quel (1960 segg.) -. Questo dibattito ha in certo senso condizionato gli sviluppi della letteratura francese degli ultimi quindici anni, ma a sua volta ne è stato condizionato e compenetrato, in una fitta rete d'interferenze, specie nella narrativa.
Non è che il romanzo tradizionale e, al limite, di struttura ottocentesca, non abbia avuto ancora i suoi autori e il suo pubblico. C'è anzi da registrare il favore abbastanza largo con cui sono stati accolti gli ultimi romanzi di scrittori già pienamente affermati nel periodo fra le due guerre, o dell'immediato secondo dopoguerra: mentre Malraux (morto nel 1976; v. in questa App.) ha definitivamente rinunciato al romanzo, per dedicarsi, negli ultimi anni, dopo i suoi studi sull'arte, alla politica attiva e alle sue "antimemorie" (Antimémoires, Les chênes qu'on abat..., Lazare, Hôtes de passage), Mauriac ha interrotto la sua intensa attività di giornalista per tornare al romanzo autobiografico con Un adolescent d'autrefois, pubblicato appena un anno prima della sua scomparsa (1970), e che può essere considerato una continuazione, su un altro piano, delle sue "memorie interiori" (1959-65). E fra romanzo e autobiografia si sono mossi molti scrittori nati alla fine del secolo scorso, o nei primi anni del Novecento, e che in questo periodo scompaiono o sopravvivono a lungo a sé stessi: ricordiamo, più che G. Duhamel (1884-1966), J. Romains (1885-1972), che ha ancora arricchito di romanzi e di saggi la sua già vasta produzione; H. de Montherlant (1896-1972), che ha proseguito fino all'ultimo tragico atto (è morto suicida) la sua multiforme, "eroica" carriera di romanziere, di saggista, di drammaturgo, di poeta, cedendo anche a una più o meno aperta confessione nei Carnets e nel suo ultimo scritto, Mais aimons-nous ceux que nous aimons? (1972); P. Morand (1889-1976), che dopo avere aggiunto altri romanzi, saggi, novelle ai suoi innumerevoli libri, ha scritto ancora un "viaggio autobiografico", Venises (1971); R. Queneau (1903-1976), che ha protratto e conchiuso in questi anni la sua vena umoristica di poeta e di romanziere, antiaccademico e "barocco", con Zazie dans le métro (1959), Les fleurs bleues (1965), Courir les rues (1967), Battre la campagne (1968), Fendre les flots (1969), La chute d'Icare (1970); e infine M. Jouhandeau (nato nel 1888) e J. Green (nato nel 1900), che hanno infittito di schede il loro doppio registro autobiografico del "diario" e del romanzo: e citiamo del primo il Mémorial (7 voll. fino al 1972), e gli Journaliers (19 voll. fino al 1973); del secondo, che ha anche ripubblicato in edizione definitiva alcune sue opere (Années faciles e Si j'étais vous..., nel 1970), i romanzi Chaque homme dans sa nuit (1960) e L'Autre (1971), la vasta ricognizione autobiografica in quattro volumi: Partir avant le jour (1963), Mille chemins ouverts (1964), Terre lointaine (1966) e Jeunesse (1974), e la continuazione del Journal (VIII vol. nel 1967, IX nel 1972; il X è stato pubblicato alla fine del 1976): un'attività di scrittura assai intensa, e sempre scavata e drammatica, quella di Green, che in questi ultimi anni ha ottenuto anche alcune consacrazioni ufficiali, come l'elezione all'Académie française (1971) e la raccolta delle opere complete nella "Bibliothèque de la Pléiade". A tutti questi scrittori già da tempo famosi è da aggiungere almeno J. Giono (morto nel 1970: v. App. I), che nel secondo dopoguerra ha conosciuto una notevole ripresa, d'invenzione e di successo, approfondendo soprattutto la sua vena stendhaliana in un'altra serie di opere: Le Hussard sur le toit (1951), Voyage en Italie (1953), Le bonheur fou (1957), Angelo (1958), Le désastre de Pavie (1963), Deux cavaliers de l'orage (1965), Ennemonde (1968), L'Iris de Suse (1970).
Al romanzo di tipo tradizionale, che segue ancora il filo di una narrazione cronologica e le collaudate convenzioni dell'"intrigo", sia pure già con una coscienza diversa degli strumenti linguistici, della rappresentazione obiettiva, e della stessa "funzione" letteraria, si sono rivolti anche numerosi scrittori della generazione del dopoguerra, e di questi ultimi anni, senza giungere tuttavia a risultati originali, o di "rinnovamento nella tradizione", semmai con un'illusoria ripresa fuori tempo di mode o di scuole, lontane e recenti, mutate o superate. E c'è da registrare anzitutto l'insistere di un filone "naturalista", che si combina con le suggestioni di una letteratura impegnata (Sartre, Camus), e di critica sociale dichiarata e di parte: è il caso per es. di R. Vailland (1907-1965; v. in questa App.), che ha avuto però le sue oscillazioni, e di R. Merle (nato nel 1908); di A. Lanoux (nato nel 1913), il cui romanzo Quand la mer se retire (1963) ottiene il Prix Goncourt; di M. Druon (nato nel 1918), che dopo il successo enorme di Les grandes familles (1948; Prix Goncourt), non solo ha continuato in questa direzione, fino alle novelle Le Bonheur des uns (1967), ma ha tentato il romanzo e la rievocazione storica in opere di grande impegno (Les Rois maudits, 1955-66; Les Mémoires de Zeus, 1967), ed è stato eletto nel 1966 all'Académie française; di H. Bazin (nato nel 1911), che ha continuato a scavare, con virulenza satirica, la sua indagine sulla famiglia e sulla società del dopoguerra (Au nom du fils, 1960; Chapeau bas, 1963; Le Matrimoine, 1967; Cri de la chouette, 1972); e ancora di R. Rembauville, di G. Sigaux, di C. Roy, di G.-E. Clancier (che è anche critico e poeta), di B. Clavel. Né sono da trascurare in questo settore, pur con le differenze di estrazione culturale, di maturazione, e di sensibilità personale, i romanzi che hanno continuato a pubblicare un Aragon (v. in questa App.), la cui opera s'incrocia con quella di E. Triolet (morta nel 1970; v. App. III, 11, p. 984), di cui ricordiamo il ciclo L'âge du nylon (1959-63), e Le grand jamais (1965), Le rossignol se tait a l'aube (1970); e un Vercors (v. App. III, 11, p. 1080), che ha dato ancora Sylva (1961), Zoo ou l'assassin philanthrope (1963), adattamento teatrale dei suoi Animaux dénaturés, i ricordi di La bataille du silence (1967).
Per alcuni aspetti si avvicinano a questo tipo di romanzo le testimonianze documentarie e sociologiche sulla guerra, sui campi di sterminio (Le dernier des justes, 1959, di A. Schwarz-Bart), sulla civiltà contemporanea (C. Rochefort, Les petits enfants du siècle, 1960) e sui costumi più moderni, un tema quest'ultimo sempre ripreso e approfondito nell'opera di S. de Beauvoir (v. App. III,1, p. 213), che ha ancora pubblicato Les belles images (1965) e La femme rompue (1967), oltre alla continuazione della sua inchiesta autobiografica: La force de l'âge (1960), La force des choses (1963), Une mort très douce (1964), La vieillesse (1970), Tout compte fait (1972). Di romanzo storico o anche archeologico si parla invece non solo a proposito di M. Druon, ma di M. Yourcenar (nata nel 1903; v. in questa App.), di W. de Spens (nato nel 1911), di J. Roy (nato nel 1907 in Algeria), che dopo una lunga attività di romanziere e di saggista ha dato dal 1968 un romanzo ciclico, Les chevaux du soleil (6 voll. fino al 1975), mentre sotto l'etichetta della "disinvoltura" sono di solito raggruppati alcuni romanzieri che nella spregiudicatezza delle situazioni e del linguaggio, nell'ironia e nel cinismo, hanno non solo reagito all'engagement dell'immediato dopoguerra, ma anche espresso, talora con drammatica coscienza, più spesso con disincantato, e voluto, distacco - se non con superficialità - l'angoscia del nostro tempo: e citiamo non tanto il "caso" F. Sagan (nata nel 1935), che non ha ottenuto in questi ultimi anni, con altri romanzi (Les merveilleux nuages, 1961; La Chamade, 1964; Le garde du cøur, 1968; Des bleus à l'âme, 1972 Le lit défait, 1977), e altre opere di teatro (La robe mauve de Valentine, 1963), il successo strepitoso degli anni Cinquanta (Bonjour, tristesse, 1954; Un certain sourire, 1956; ecc.), ma di un gruppo di scrittori, detti anche "néo-classiques", quali R. Nimier (1925-1962; v. in questa App.), A. Blondin (nato nel 1922), B. Pingaud (nato nel 1923), M. Déon (nato nel 1919), F. Nourissier (nato nel 1927), del quale i romanzi di quest'ultimo periodo (Un petit bourgeois, 1964; Une histoire française, 1966, premiato dall'Académie française; La Crève, 1970, premio Fémina; L'Allemande, 1973), hanno avuto notevoli riconoscimenti. Un altro "caso" in questo settore è quello di C. Saint-Laurent (pseud. di J. Laurent, nato nel 1919) che dopo aver dato tutta una serie di romanzi popolari (Caroline Chérie), e libelli contro l'esistenzialismo, ha pubblicato romanzi di buona fattura, tradizionali e di destra (Les bêtises, 1971).
A questa sopravvivenza, non sempre passiva e piatta, di temi e di formule tradizionali, corrisponde già negli anni dell'immediato dopoguerra una consistente spinta innovatrice, che tende non solo o non tanto a trasformare quegli schemi, ma a rovesciarli, a negarli, fino a tentare un "a-romanzo" o "anti-romanzo", e comunque un esperimento narrativo nuovo, che supera il concetto stesso di genere romanzesco per ricollegarsi al grande dibattito sulla letteratura, sulle strutture, sul linguaggio di cui si è detto all'inizio. Il fenomeno non va limitato al "nouveau roman" (v. App. III, 1, pp. 682-83), una "scuola" assai vaga e a cui si ascrivono di solito scrittori dalla personalità diversa, ma comprende molte altre "esperienze", fondate essenzialmente su tutta una gamma di "rapporti differenti"; la narrazione non rinvia a qualcos'altro, alla vita, alla realtà esterna, a un soggetto, a un programma politico; rinvia a sé stessa; non è una relazione, un'espressione, ma costituisce essa stessa il fatto nuovo di cui si parla e che parla. La scrittura diviene il campo unico e privilegiato della costruzione e dell'indagine, un'armonia di segni, che se possono coincidere con le rivelazioni dell'inconscio e del subconscio, non si pongono meno per questo, ontologicamente, come pura invenzione verbale. Anche qui naturalmente c'è da distinguere fra la posizione di un Blanchot, che si pone soprattutto il problema del rapporto fra autore e scrittura (od opera) sul piano della morte e della distruzione della scrittura stessa, e quella di un Bataille (v. in questa App.), che sente e assume la letteratura come "comunicazione", ma comunicazione di verità assoluta, quindi del Male, perché la letteratura è il Male (e di qui il suo tragico "erotismo").
A Blanchot, a Bataille, come a M. Leiris (nato nel 1901) o a Céline, che conosce negli anni Cinquanta un nuovo successo (v. in questa App.), e quindi alle esperienze più lontane di Sade, di Lautréamont, di Kafka, di Joyce, di Proust stesso (per la tecnica del monologo interiore), si rifanno alcuni dei romanzieri più nuovi e originali di quest'ultimo periodo, da M. Duras e P. Klossowski, ad A. Pieyre de Mandiargues, a Beckett (v. tutti in questa App.), e ancora Y. Régnier (n. 1918), L.-R. des Forêts (nato nel 1918), R. Pinget (nato nel 1920), per non dire del grande successo postumo - e che è un altro indizio della svolta nella narrativa - di uno scrittore come B. Vian (1920-1959; v. in questa App.), mentre J. Gracq (v. App. III, 1, p. 771) ha continuato la sua esperienza solitaria, passando dal romanzo-poema alla novella-poema (La Presqu'île, 1970). I personaggi, la trama, la successione cronologica, la descrizione realistica, l'antefatto, l'analisi delle situazioni, il "messaggio", tutti questi espedienti tradizionali sono liquidati, come imitazione o interpretazione della realtà, della vita: un concetto ora, del tutto rifiutato nell'invenzione assoluta della parola, che scompone, rovescia, mescola, interseca le vie abituali e piane del racconto. Sono questi i principi a cui si sono ispirati anche i romanzieri del "nouveau roman" o della "école du regard", uniti più dal desiderio di rinnovamento che non da un programma comune, e che considerano il romanzo soprattutto come "un'opera aperta", una ricerca della scrittura, attuata e completata nel rapporto con il lettore: e citiamo N. Sarraute, A. Robbe-Grillet, M. Butor, C. Simon (v. in questa App. e nell'App. III), mentre per il gruppo di Tel Quel - P. Sollers, J. Ricardou, J.-L. Baudry, J. Thibaudeau - che svolge anche un lavoro di gruppo, con precipui interessi linguistici, antropologici, strutturalisti, il romanzo - se di romanzo nel senso tradizionale sì può ancora parlare - diviene un discorso che "riscrive" il mondo, o lo "ri-crea". E sempre in un'invenzione di "scrittura", che tuttavia non si pone come alternativa del ritmo della vita, ma si colloca su un piano di espressione sensoriale, di estasi materiale e panica, che trova appunto nella scrittura il suo sbocco e la sua esistenza, deve registrarsi l'opera di J.-M.-G. Le Clézio (nato nel 1940), uno dei romanzieri più giovani e impegnati in questo rinnovamento o ribaltamento dei codici narrativi (Procès-verbal, 1963; La fièvre, 1965; Le Déluge, 1966; Le livre des fuites, 1969; Terra amata, 1967; La guerre, 1970; Les géants, 1973).
Questa "rivoluzione" letteraria sembra avere toccato meno il campo della poesia in senso stretto; ma anzitutto è da tener conto della minore popolarità della poesia rispetto al romanzo e al teatro, e quindi del suo isolamento; inoltre, è da considerare che mentre per il romanzo le innovazioni si sono verificate con una certa lentezza, e sotto l'insistenza di una tradizione molto forte, la poesia, dal 1945 a oggi, si è trovata già più condizionata dalla "rivoluzione surrealista", di cui ha per molta parte sviluppato le premesse fino a conseguenze estreme, e per tal via anche dal recupero di situazioni già assai moderne della stessa tradizione francese, dalla seconda metà dell'Ottocento fino al Surrealismo appunto (e non è un caso che Nerval, Baudelaire, Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé, Apollinaire abbiano conosciuto in questi trent'anni un'eccezionale fortuna).
Negli anni sessanta c'è anzitutto da registrare, accanto alla scomparsa di molti poeti formatisi nel clima delle avanguardie del primo Novecento e del Surrealismo (P. Reverdy, morto nel 1960; B. Péret, morto nel 1959; J. Cocteau, morto nel 1963; A. Salmon, morto nel 1969; J. Supervielle, morto nel 1960; P. Fort, morto nel 1960, e lo stesso A. Breton, morto nel 1966), la continuazione e il compimento di notevolissime esperienze poetiche, già avviate o consolidate fra le due guerre mondiali o nel secondo immediato dopoguerra; alcune, nate in ambito surrealista, hanno seguito poi strade diverse, e divergenti: ricordiamo Aragon (v. in questa App.), R. Char (nato nel 1907; v. App. III, 1, p. 356), che ha aggiunto ancora raccolte di poesie alla sua nostalgica ricerca di autenticità (La parole en archipel, 1962; Commune présence, 1964 - antologia per temi della sua poesia -; L'âge cassant, 1965; Dans la pluie giboyeuse, 1968; Le nu perdu, 1971; La nuit talismanique, 1972), J. Prévert (v. App. III, 11, p. 483; morto l'11-4-1977); altre sono maturate lontano da ogni scuola, e dalla stessa F., come quella di Saint-John Perse (1887-1975; v. App. III, 11, p. 647), con Chronique (1960), L'ordre des oiseaux (1962), e le opere complete (1972), dopo avere ottenuto nel 1960 il premio Nobel per la letteratura; altre ancora hanno verificato nell'inquietudine moderna i valori della tradizione cristiana, o più generalmente spiritualista, e citiamo l'opera di Pierre Jean Jouve e di Pierre Emmanuel (v. App. III,1, p. 541), che ha pubblicato ancora Èvangéliaire (1961), Les jours de la passion (1962), Le monde est intérieur (1967), Jacob (1970), Sophie (1973), e che è stato eletto nel 1969 all'Académie française; altre infine, come quella di F. Ponge (nato nel 1899; v. in questa App.), che, noto soprattutto fino al 1960 per alcune preziose plaquettes, illustrate dai suoi amici pittori (Braque per i Poêmes, 1948), ha pubblicato in questi ultimi anni la maggior parte della sua opera.
E non è un caso che alla poesia di Ponge, poesia della cosa, dell'oggetto, e dall'oggetto condizionata nella sua forma nuova, si rifanno tanto alcuni esponenti del "nouveau roman" (Robbe-Grillet), quanto del gruppo di Tel Quel (Sollers). E in realtà, nella sua dimensione di creazione critica, di poesia che si vuole provvisoria e abbozzata, non finita, e si riconosce nel lavoro di "costruzione" di parole-oggetto e nel controllo di questo lavoro, l'opera di Ponge è assai vicina ad alcune fra le espressioni più recenti della poesia, tentata anch'essa dalla linguistica, dalla germinazione del linguaggio, che procede per analogie, associazioni, rapporti matematici, sistemi, e per scomposizioni, in sillabe, in lettere (il "lettrisme" di I. Isou, nato nel 1925, e lo "spatialisme" di P. Garnier), e oscillante fra fiducia nella parola, sia pure in una tensione ironica, e diffidenza, ma certo ora lontana da ogni forma d'impegno, e se mai avviata a restringersi in qualche caso in una sfera di astrazione, e di voluta non comunicazione. Il taglio del verso, della "misura", del ritmo, e le forme fisse tradizionali non sono scomparsi; è venuta meno se mai la facile accettazione di quei moduli, senza il dramma continuo di risentirli e di ri-giustificarli. Più frequente è il discorso sciolto da ogni vincolo, così come l'aspirazione al libro di poesia, più che alla raccolta. E così non sono scomparsi del tutto dalla poesia i "temi" - dall'ispirazione religiosa o biblica alla Natura -, ma oggetto della poesia si è appalesato sempre più la poesia stessa, con la sua angoscia di dire, rompere il silenzio, raggiungere i confini dell'ineffabile.
Dei poeti dell'ultima generazione, che hanno avuto trenta o quarant'anni dal 1960 al 1975, ricorderemo soprattutto A. Bosquet (nato nel 1919) che, oltre a romanzi e saggi, ha pubblicato in questi ultimi tempi altre poesie: Maître objet (1962), Quatre testaments et autres poèmes (1967), in cui unisce a una versificazione tradizionale un corrosivo spirito di demolizione e di rivolta, al limite del nichilismo; J. -Cl. Renard (nato nel 1922), d'ispirazione cristiana (Incantation des eaux, 1961; Incantation du temps, 1962; La terre du sacre, 1966; La braise et la rivière, 1969); Y. Bonnefoy (nato nel 1923), che con M. Deguy (nato nel 1930), e J. Garelli (nato nel 1931) è impegnato in una dimensione metafisica della ricerca poetica; e poi ancora M. Pleynet (nato nel 1933) e D. Roche (nato nel 1937), del gruppo di Tel Quel; e Ph. Jaccottet (nato nel 1925), e J. Roubaud (nato nel 1932) che dal suo libro intitolato curiosamente ∈ (1968), propone quattro letture diverse, come segno di libera apertura al lettore su questa sua teoria degl'insiemi. Altri poeti, già affermatisi nel secondo dopoguerra, hanno continuato ad approfondire le loro esperienze: L. Estang, J. Cayrol, A. Frénaud, J. Grosjean, P. Seghers, al quale ultimo si deve la collezione, di monografie critiche e di antologie, dei Poètes d'aujourd'hui.
Anche al surrealismo, almeno per gli evidenti caratteri d'irrealtà, vanno accreditate le innovazioni più importanti del teatro contemporaneo, che se appare ancora dominato, negli anni Sessanta, da alcune forti personalità di scrittori in certo senso tradizionali e "classici", come Montherlant o Anouilh (v. in questa App. e in App. III), e dalle sopravvivenze, ancora vitalissime per il largo pubblico, del teatro "boulevardier", ha tentato e percorso altre strade in direzioni analoghe o parallele a quelle del romanzo o più generalmente della letteratura d'avanguardia. Teatro "impegnato", di idee, e didattico, negli anni Cinquanta (Sartre, Camus), o teso fra impegno e distruzione (Genêt; v. App. III, 1, p. 716 e questa App.), ha recuperato negli stessi anni, e quindi in quest'ultimo periodo 1960-75, anzitutto la sua essenziale dimensione di "spettacolo": più che rivolgersi al pubblico, lo coinvolge, lo assume in sé come parte integrante del suo gioco scenico, non più affidato ora quasi esclusivamente alla parola, nella sua letterarietà, ma al gesto, alla mimica, anche al canto, alla musica, al colore, e in un décor non solo ridotto, ma irrealistico, simbolico, che deve rendere in concreto non una presenza, ma un'assenza, lo spazio di un mito, di una parabola, che sia non espressione ma manifestazione in atto del tragico della vita contemporanea, dell'assurdo dell'esistenza. E di "teatro dell'assurdo" - ma anche di "a-teatro" o di "anti-teatro" o ancora di "nouveau théâtre" - si parla soprattutto a proposito di Ionesco (v. in App. III, 1, p. 890), di Beckett (v. in questa App.), di Adamov (1908-1970), di M. Duras, di R. Pinget, di F. Billetdoux, di R. de Obaldia, di F. Arrabal, pur con le distinzioni fondamentali fra l'apertura ottimistica sulla stessa funzione del teatro che si ritrova nelle ultime pièces di Adamov (e di Billetdoux, di G. Michel), la caduta di ogni speranza nel vuoto totale dell'assoluta vanità dell'esistenza che si percepisce nel teatro di Beckett, e l'umorismo tragico, tanto più spietato quanto più affidato a una comicità paradossale e grottesca, di Ionesco, che dopo i successi degli anni Cinquanta ha ancora dato alle scene Le roi se meurt (1962), Le piéton de l'air (1963), La soif et la faim (1967), Jeu de massacre (1970), Macbett (1972), Ce formidable bordel (1973), oltre a pubblicare le sue riflessioni, Notes et Contre-notes (1963) e Journal en miettes (1967), e un romanzo, Le solitaire (1973), e che è stato eletto recentemente all'Académie française.
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Archeologia. - Nel quadro generale dell'arte romana provinciale occupa una posizione del tutto particolare la provincia Narbonense (Provenza attuale), il cui centro Narbo Martius (Narbona) fu la prima colonia dei cittadini romani al di là delle Alpi. In questi territori infatti era da secoli penetrato un vivo riflesso di cultura ellenica tramite l'antica stazione commerciale greca di Massalia (Marsiglia). Il riflesso dell'arte ellenistica è stato ora maggiormente documentato dagli scavi archeologici. I nuovi scavi fatti a Marsiglia in occasione di vari lavori nella città hanno fornito ulteriori dati per la conoscenza topografica e per la storia di Marsiglia: la città comprendeva due quartieri, l'acropoli e la città bassa, riservata all'attività commerciale; i due quartieri erano separati da un'arteria est-ovest, che si trasformerà in seguito nel decumanus romano. Gli scavi, attualmente in corso, hanno in particolare rivelato tratti di fortificazione con una porta e due torri massicce e una via lastricata, cisterne e una darsena munita di banchina in pietra per il rifornimento delle navi. Lo studio stratigrafico di questa darsena mostrerà l'evoluzione del porto dall'epoca greca a quella romana. L'attività commerciale del porto in età romana è attestata anche dal numero degli horrea riconosciuti sul litorale della città bassa, per un fronte di m 400. Il centro della regione era, si è detto, l'antica Narbo o Naro, per la quale le fonti letterarie attestano l'importanza fin dal 6° secolo a.C., confermate ora dai primi scavi relativamente sistematici, anche se non completi. L'antica Naro, capitale del regno degli Elysici, è stata identificata con sicurezza con l'oppidum di Montlaurés, a km 4 dalla località dove sorse la colonia romana, che riprese il nome indigeno. Ricerche e scavi sono stati effettuati negli ultimi decenni in molte zone della provincia: ad Arles la fotografia aerea ha permesso uno studio sulla centuriazione della città e una revisione cronologica dell'impianto urbano; a Glanum (Saint Rémy de Provence) è stato possibile distinguere chiaramente il susseguirsi di tre fasi, e i recenti studi condotti sui monumenti hanno contribuito a stabilire al 39-38 la data del tempio del dio Glan, delle Matres Glanicae e alla Valetudo, mentre tra il 35 e il 25 si colloca la costruzione del mausoleo dei Giulii. Anche l'archeologia sottomarina ha rivelato, e sta continuamente rivelando, una considerevole quantità di materiale che mostra l'esistenza di correnti commerciali fra l'Italia e la Gallia meridionale. Tale fatto era noto da lungo tempo, ma gli scavi degli ultimi decenni hanno fatto progredire ampiamente le nostre conoscenze, creando inoltre una serie di problemi relativi alla classificazione del nuovo materiale. Questo consiste principalmente nella ceramica cosiddetta campana e nelle anfore vinarie e, in minor misura, olearie degli ultimi secoli della repubblica (deposito sottomarino dell'isola di Pomègues, di fronte a Marsiglia, ecc.). Intensi rapporti fra Marsiglia e le popolazioni indigene caratterizzarono, negli ultimi decenni prima della conquista romana, la regione dalle Alpi Marittime al Rodano. Fondamentali, per la conoscenza dell'area celto-ligure, sono stati i risultati degli scavi compiuti nei centri-santuari di Entrémont, Roquepertuse, Fontaines Salées e negli oppida di Ensérune, Vienne, ecc. Gli esemplari di statuaria locale in calcare scoperti nel santuario di Entrémont, distrutto dai Romani nel 123 a.C., ripropongono il problema di questo tipo di plastica, in cui alcuni riconoscono elementi della tradizione culturale greca, altri sottolineano la matrice indigena. Il centro di Ensérune è stato oggetto di uno studio dettagliato; alla luce dei recenti scavi si possono identificare tre stadi, nel cui ultimo l'insediamento diviene un oppidum e rivela un'architettura civile basata su modelli greco-romani. A Vienne gli scavi del 1967 hanno permesso di fissare, attraverso lo studio delle tracce preromane, i limiti della città gallica; questa rivela l'esistenza, nel 4° secolo a.C., di rapporti commerciali col mondo ellenistico, che si effettuavano attraverso Marsiglia e la valle del Rodano. Campagne di scavo condotte a Fontaines Salées hanno messo in luce un santuario delle sorgenti indigeno la cui origine deve rimontare a un'installazione pre-hallstattiana. Al di là della particolare situazione della Narbonense, negli altri distretti della Gallia che corrispondono alla F. odierna (Aquitania e parte della Lugdunense e della Belgica) la produzione artistica che seguì alla romanizzazione del paese assunse forme del tutto caratteristiche, assorbendo i persistenti elementi della civiltà celtica. Anche in questo caso centri urbani e di produzione artistica sono stati ampiamente documentati dai nuovi scavi, che hanno permesso, per es., di chiarire definitivamente lo sviluppo topografico di Lutetia Parisiorum (Parigi), dove tracce precise dell'occupazione gallica sono emerse durante i lavori di sistemazione presso Notre Dame; a Lugdunum (Lione) sono stati messi in luce l'odeon, il teatro, il tempio di Cibele, il foro, e si è ripreso lo scavo dell'anfiteatro delle Tres Galliae; così anche a Burdigala (Bordeaux), ecc. Gli ultimi scavi hanno confermato in Francia l'originalità delle manifestazioni architettoniche gallo-romane. Dopo l'affermazione della tecnica e dello stile ellenistico-romano, la tradizione indigena trova gradatamente il modo di esprimere il suo stile. Il caso più dimostrativo è certamente quello del tempio celto-romano, di cui erano già noti numerosi esemplari. Santuari gallo-romani del tipo a cella quadrata od ottagonale e galleria a colonne sono venuti alla luce a Champallement, Belbèze en Comminges e Allonnes. Anche nell'architettura privata le abitazioni presentano certe caratteristiche originali. Ne sono conferma le ville campestri trovate negli ultimi anni, quelle di Montmaurin, di Roquelaure, di La Papinière, ecc. che, pur accogliendo il lusso della villa romana, mostrano in facciata, come caratteristica strutturale, due ali riunite da una galleria a portico e nella parte posteriore una grande sala comune. Per quanto riguarda l'industria ceramica, gli scavi effettuati a Bauchéporn hanno messo in luce un'officina estremamente importante che sembra iniziare sotto Claudio e dove, in epoca flavia, compare un nuovo gruppo di maestri-vasai diretti da un Saturnino. I maestri vasai Saturnino e Satto diressero, all'inizio del 2° secolo, anche le officine di Chémery e Mittelbronn. Scavi recenti hanno messo in luce a Geurgon un'officina di notevole importanza, con un periodo di produzione dal 2° al 4° secolo, e diversi ateliers a Leroux, nella Gallia Centrale, databili a partire dall'età tiberiana.
Bibl.: J. J. Hatt, Kelten und Galloromanen, Monaco di Baviera 1970; J. P. Clébert, Provence antique: l'époque gallo-romaine, Parigi 1970; P. M. Duval, la Gaule jusqu'au milieu du Ve siècle, ivi 1971; id., Recherches d'archéologie celtique et gallo-romaine, Parigi-Ginevra 1973; R. Chevallier, Gallia Narbonensis, in Aufstieg und Niedergang der römischen Welt, II, 3, Berlino 1975; Céramique en Gaule Romaine, in Dossier d'Archéologie, 8, Parigi 1975.
Arti figurative. - Gli anni Sessanta segnano una svolta nella vita artistica francese: si viene manifestando una progressiva disaffezione dei giovani artisti nei confronti dell'arte astratta, cui corrisponde, di contro, un crescente interesse per la figura.
Questo spontaneo ritorno alla figurazione accomuna, all'inizio degli anni Sessanta, tendenze assai divergenti.
Vi s'incontrano, da un lato, ex pittori figurativi tradizionali come P. Rebeyrolle (nato nel 1926) che non aveva cessato di rappresentare, per le generazioni più giovani, la guida di una nuova arte figurativa, avendo tra l'altro partecipato alla creazione del Salon de la June Peinture (1949) che, in polemica contro l'astrattismo, ebbe un ruolo importante nel formarsi della volontà di un ritorno a un'arte realista e umanitaria. vi s'incontrano anche pittori provenienti dall'astrazione, come P. Alechinsky (nato nel 1927) o che tentano ancora di realizzare l'impossibile sintesi di astrazione e figurazione, come R. Lapoujade con le sue Emeutes (1961). Vi s'incontrano poi alcuni artisti più anziani che la voga dell'astrazione aveva posto in ombra, ma che avevano continuato a dipingere e a esporre, seguendo una loro vena figurativa alquanto barocca ed espressionistica, in cui domina il colore, come nel Lapique (nato nel 1898) oppure il movimento, come nel Pignon (nato nel 1905). Tra questi, va ricordato ancora quel maestro dell'arte astratta, poi convertitosi alla figurazione nel 1939, che è J. Hélion (nato nel 1904), di cui si riscoprirà l'importanza verso la fine degli anni Sessanta, come testimoniano le numerose esposizioni e retrospettive che, in quel periodo, gli sono state dedicate.
D'altro canto, questa nuova figurazione, quasi nel timore di affermarsi come tale e nel tentativo di rendersi meglio accetta in un contesto ancora dominato dall'astrazione, si camufferà, per un certo tempo, sotto vesti prese a prestito dalla tradizione espressionista o fantastica. A questa tendenza appartengono la figurazione allucinata di un Lebenstein o di un Maryan, le caricature improntate alla smorfia di un Giromella, i paesaggi popolati di mostri dello iugoslavo Dado (nato nel 1933), i collages umoristici e graffianti di un Baj.
Assai presto tuttavia, in parte sotto l'influsso della Pop art inglese e americana, di cui gli artisti francesi cominciano a conoscere la produzione, si manifesta un bisogno di oggettività che farà dimenticare allusività e deformazione a vantaggio di una contemplazione del reale nella sua bruta presenza. Si ha così, da un lato, l'irrompere dell'oggetto, il manufatto elevato a rango di opera d'arte; si ha, dall'altro, lo svilupparsi di un'arte del soggetto e dell'aneddoto.
La prima corrente si sviluppa attorno al Nouveau Réalisme - com'è stato battezzato dal critico P. Restany - la cui prima esposizione ha luogo a Parigi nel giugno del 1960: raggruppa un certo numero di artisti i quali pretendono di appropriarsi della realtà così com'è, nella sua beffarda immediatezza. Si tratta di Arman (nato nel 1928) con le sue accumulazioni di oggetti d'uso comune; di César (nato nel 1921), con le sue compressioni, successive alla fase delle veneri; di Spoerri (nato nel 1930), che "intrappola) gli avanzi del pasto, incollandone i diversi elementi sul piano di una tavola che egli così trasforma in bassorilievo; e infine degli affichistes, Heins (nato nel 1926), J. Villeglé (nato nel 1926), Dufrêne (nato nel 1930) e dell'italiano M. Rotella (nato nel 1918), i quali espongono manifesti laceri, prelevati da muri e palizzate. Questa stessa attrazione verso gli oggetti del folklore quotidiano della società opulenta si ritrova in una generazione posteriore, alcuni rappresentanti della quale saranno talvolta detti gli objecteurs. Si possono citare M. Raysse, con i suoi articoli da bazar riuniti in modo da assumere dignità di ambiente poetico, e J.P. Raynaud (nato nel 1939), con i suoi "psico-oggetti" che, col loro aspetto gelido e igienico, costituiscono un'anticipazione dell'estetica iperrealista e, ancora, A. Dufo (nato nel 1934) con le sue curiose pitture trompe-l'oeil.
Alquanto vicina a questa corrente - su un piano però che non è più quello dell'assemblage tridimensionale, ma quello dell'immagine piana - sono i rappresentanti del Mec art o arte meccanica, i quali utilizzano, come già prima di loro gli americani Rauschenberg e Warhol, il riporto fotografico su tela e i procedimenti d'impressione fotomeccanica. È il caso, per es., di A. Jacquet (nato nel 1939) la cui opera più nota rimane l'elaborazione di un classico tra i più famosi del realismo pittorico, The swimming pool di T. Eakins.
La seconda corrente - quella tesa all'aneddoto, al racconto, alla narrazione, alla cronaca - prende il nome di "figurazione narrativa", nome assegnatole dal critico G. Gassiot-Talabot il quale, nel luglio del 1964, riunì alcuni dei suoi rappresentanti in una mostra intitolata "Mitologia quotidiana". Ciò che questa sua iniziativa faceva emergere era, col venir meno di un'estetica dell'espressività, l'affermarsi di un'estetica del documento; era, in contrapposizione alla bellezza soggettiva e appassionata dell'astrattismo, il nascere di una bellezza gelidamente oggettiva. La pittura, di nuovo, si metteva a raccontare, e a raccontare il quotidiano, con procedimenti narrativi mutuati, il più delle volte, dai fumetti, come si può constatare, per quel periodo, in artisti quali B. Rancillac (nato nel I931), P. Faldès (nato a Budapest nel 1924), F. Arnal (nato nel 1924), Y. Gaitis (nato ad Atene nel 1923), J. Voss (nato nel 1936), Télémaque (nato nel 1937) e P. Saul (nato nel 1934).
In questo ritorno alla figurazione e al racconto si possono dunque distinguere due atteggiamenti fondamentali.
Da una parte, l'immagine figurativa viene presa essa stessa come oggetto del processo creativo: attraverso procedimenti di scomposizione, di accumulazione, ecc., se ne analizzano le leggi costitutive, le strutture sintattiche, le soglie di leggibilità e così via: insomma, è tutta una retorica o, meglio, una semiotica dell'immagine che viene elaborata. Tra gli esponenti di questa prima tendenza, che potremmo chiamare formalista, si possono citare: P. Stömpfli (nato nel 1937), le cui gigantesche immagini di pneumatici d'automobile o di altri artefatti della società tecnologica si rifanno, nel loro carattere enfatico, al linguaggio dei manifesti pubblicitari; Erro (nato nel 1932), i cui procedimenti di accumulazione e d'incollaggio di immagini eteroclite, tratte dai repertori più disparati, i più prestigiosi come i più triviali, ne neutralizzano le connotazioni, immergendole in una sorta di moto perpetuo, che è poi quello dell'odierna civiltà delle immagini; Télémaque (nato nel 1937), le cui emblematiche figure di oggetti d'uso comune sono ispirate da un lato, nel modo che hanno di unirsi le une alle altre, alla tecnica surrealista, dall'altro, nel loro taglio estremamente essenziale, all'estetica del fumetto; J. Kermarrec (nato nel 1939), per il quale, analogamente, il tableau diviene table, piano su cui disporre in bell'ordine gli elementi di un sapere fatto a pezzi. Per tutti, ciò che conta è non tanto l'ordine immediato delle cose descritte, quanto il remoto ordine del discorso che può esser fatto su di esse: le relazioni cioè che le collegano, anche in mancanza di un senso dato a priori ai diversi elementi che vengono così posti in relazione. Più classico resta invece il linguaggio del Cremonini con i suoi effetti di ridondanza, di riflessi e di echi.
Dall'altra parte l'immagine è usata, all'opposto, in funzione transitiva, è mezzo di narrazione. Questa può essere di ordine personale, anche intimo. L'opera di J. Monory (nato nel 1934), per es., si sviluppa quasi come un album di foto-ricordo, di immagini-schermo, di souvenirs reali o fantasmatici, cui la monocromia blu conferisce un'apparenza di totale irrealtà. Nella sua produzione più recente, l'immagine si fa più ossessiva, sfuggendo alla ruminazione solitaria per aprirsi a preoccupazioni di ordine maggiormente sociale, come nei Premiers numéros du catalogue mondial des images incurables (1974). L'opera di G. Gasiorowski (nato nel 1930), con la sua monocromia grigia, è il fissarsi di istanti vissuti, di sprazzi di coscienza, di reminiscenze ossessive, come se la tela non fosse che il residuo di una coscienza, la lastra sensibile di una proiezione mentale. La colorazione è talvolta nostalgica e proustiana, come in Albertine disparue (1974), talvolta sarcastica, come ne Les Impuissances (1974). In Velickovic, di origine iugoslava (nato nel 1935), l'oggettività dell'immagine cede il passo di fronte alle deformazioni barocche di un grafismo pronto a illustrare le fantasie più morbose.
Contrapposta a questa imagérie soggettiva si è sviluppata una pittura politica che intende porre l'immagine al servizio della denuncia dei mali della nostra società. Cosi G. Alliaud (nato nel 1928) sviluppa, sotto l'apparente oggettività delle sue scene di giardino zoologico, un'opera che si colloca in un ambito di realismo critico e vuole simboleggiare il destino dell'artista nella società o, più in generale, dell'uomo alienato nella società borghese. Va ricordato, a proposito di Alliaud, che egli, in compagnia di E. Arroyo e di A. Recalcati, è stato il primo a partecipare a un'opera collettiva e 'a programma', La Fin tragique de Marcel Duchamp (1965), una serie di otto tele che, così si assicurava, segnavano il trionfo della nuova figurazione impegnata sulla linea delle correnti "decadenti" dell'informale e dell'anti-arte.
Collettiva e a programma è anche l'opera della Coopérative des Malassis che raggruppa cinque pittori (H. Cueco, Fleury, J.-C. Latil, M. Parré, G. Tisserand) i quali operano di concerto alla realizzazione di immensi affreschi di denuncia sociale. Loro opera principale rimane Le Grand Méchoui ou douze ans de politique en France (1972), serie di 45 tele, tipica espressione di un'arte in cui l'uso di simboli e allegorie di massa è tutto rivolto a fini critici e in cui, evidentemente, i problemi di riuscita formale sono subordinati a obiettivi propagandistici.
Altrettanto sarcastica, ma dettata questa volta da un humour non più rosso ma nero, nel senso anarchico del termine, è la figurazione dei pittori del gruppo Panique, i quali portano avanti a livello plastico gli stessi intendimenti che, nel cinema o nel teatro, caratterizzano l'opera di artisti come Jodorowsky e Arrabal. Dalla crudeltà fantastica di Roland Topor (nato nel 1938), al delizioso nonsense di Olivier O. Olivier (nato nel 1931) e ai calembours visivi di C. Zeimert (nato nel 1934) si dispiega tutto l'inquietante universo, proprio dell'"homme Panique".
Impegnata anch'essa alla critica di una certa condizione sociale, ma in maniera più serena, la pittura di G. Schlosser (nato nel 1931) si caratterizza come cronaca della vita quotidiana in F. tra le classi lavoratrici, realizzata a partire da documenti fotografici, alcuni particolari dei quali sono ingranditi e riportati su tela, talvolta ai limiti della leggibilità.
Con Schlosser si giunge alle correnti più recenti, presentatesi al dibattito culturale negli anni Settanta, come il fotorealismo e l'iperrealismo (anche se fin dal 1965 Gasiorowski aveva realizzato delle tele già interamente ascrivibili a quest'ultima tecnica). Il 5° Documenta di Kassel doveva rivelare al pubblico l'opera di J.-O. Hucleux (nato nel 1923), pitture su legno minuziosamente realizzate in scala 1:1 e con un impressionante trompe-l'oeil. Va citata anche, assai vicina a questa, l'opera di A. Raffrey (nato nel 1925). Più convenzionale è invece quella di P. Klasen (nato nel 1935), la cui fredda esecuzione con l'aerografo rinvia alla freddezza stessa dei temi: scene di ospedale, vagoni blindati, un universo impersonale e tecnico. Più caldo e umano è l'universo dell'ungherese T. Csernus (nato nel 1927): scene di strada parigine, colte al teleobiettivo e riportate su tela, ma trattate poi con una tavolozza estremamente ricca e grassa, spesso con effetti di chiaroscuro con richiami espliciti al realismo caravaggesco.
Questa inaspettata cura del fatto pittorico, il bisogno - che abbiamo visto manifestarsi qui per la prima volta - di un realismo che sfugga alla freddezza della pura registrazione e a una certa impersonalità di fattura per riappropriarsi delle tecniche tradizionali, sono cose che si ritrovano frequentemente nella generazione più giovane. In contrasto con l'estetica anti-artistica o neo-dadaista dei fautori del nuovo realismo o con la tecnica funzionale di quelli dell'iperrealismo, s'incontra qui un'arte che nuovamente si abbandona ai piaceri dell'occhio e attinge alle fonti più classiche.
L'influsso di Balthus, ma anche quello di Corot e di Courbet, caratterizza, per es., l'opera di G. Barthélemy (nato nel 1940): ritratti, paesaggi, scene di genere, trattati in piccoli formati e con una pasta grassa e lucida. Simili riferimenti classici - ma ispirati, questa volta, soprattutto al repertorio romantico, in particolare a C.-D. Friedrich - sono presenti nei quadri del giovane ceco I. Theimer (nato nel 1944): vasti paesaggi spazzati dal vento, dalle lontananze azzurre, trattati a vernice alla maniera antica. Si assiste così a una curiosa reviviscenza della pittura di genere, di cui vanno citati altri due esempi: la pittura di animali di Gobernatori e la pittura di nudo - un nudo trattato nel gusto manieristico di un Pontormo e con "terribilità" michelangiolesca - del pittore di origine cilena Caballero. Questo ritorno all'"ordine" e alla tradizione, con una ben marcata nostalgia per i maestri antichi e un gusto del tocco pittorico sempre più liberamente affermato, li si ritrova anche in alcuni artisti che furono già esponenti di una certa avanguardia pop o neo-realista. È il caso di S. Buri (nato nel 1935) che, dopo le sue trame ottiche, si è dedicato alla produzione di pastelli e acquarelli di stile puntinista; e di M. Raysse con i suoi pastelli in omaggio di C. Monet.
Il panorama sarebbe incompleto se non venisse segnalata una stupefacente rinascita del disegno, tanto ricca e completa che molti artisti hanno limitato la loro opera a questo solo campo.
È il caso di G. Titus-Carmel (nato nel 1942) che mescola l'efficacia illusionistica del disegno all'utilizzazione, con precisione da architetto, della tecnica prospettica, per svolgere un suo apologo sulle alterazioni della materia e sulle illusioni dei sensi; o, ancora, di W. Gaefgen (nato nel 1936) i cui disegni di vestiti o di terre lavorate sono eseguiti con una tecnica iperrealista di un'efficacia allucinante.
Questa voga nel disegno ha rimesso pienamente in luce l'opera misconosciuta di un grande artista, appartenente a una generazione meno giovane, A. Arikha (nato nel 1929), tecnico squisito dell'inchiostro e della punta d'argento. Analogamente, è la tecnica del pastello a essere ripresa, con esuberanza e autorità, nell'opera di S. Szafran (nato nel 1934); e quella delle matite colorate negli studi di piante e di funghi di Gérardiaz (nato nel 1938). Questo gusto per l'osservazione naturalistica lo si ritrova nell'opera di V. Jordan-Roman - e va notato che in tutti questi giovani artisti vi è un rinnovato quanto inatteso gusto per l'osservazione diretta della natura. Vanno segnalati infine due incisori di eccezionale maestria: C. Fossier (nato nel 1934) e J. Ortner (nato nel 1940).
La scultura figurativa sembra invece segnare il passo. Prima di morire, nel 1966, A. Giacometti porta a termine i suoi ultimi capolavori, tra cui i tre busti del cineasta E. Lotar. César realizza in bronzo saldato la sua Victoire de Villetaneuse nel 1965, per poi rivolgersi a una scultura iperrealista ante litteram, consistente nell'ingrandire fino a dimensioni monumentali il calco del proprio pollice (Pouce, 1967) o quello di un seno (Sein, id.). J. Iposteguy (nato nel 1920) continua un'opera di tipo classico con il suo Alexandre devant Ecbatane (1965) e la sua Femme au bain (1966) e, più recentemente, con uno sbalorditivo pezzo barocco, La Mort du Père.
Nella generazione più giovane sembra invece manifestarsi un notevole disinteresse per la figura, se si fa eccezione per il già citato I. Theimer il quale si cimenta con l'arte del ritratto e del paesaggio scolpito.
Nel corso degli anni Sessanta anche nell'ambito dell'arte non figurativa con le ricerche di arte cinetica, tecnologica e di strutture primarie si ha una presa di posizione nei confronti dell'astrattismo "classico", tanto geometrico quanto lirico, che tuttavia continua a suscitare vivi interessi come mostrano le grandi esposizioni parigine dedicate a Mathieu nel 1963, a Soulages nel 1967, a Bram van Velde nel 1970 e, nello stesso anno, a Poliakoff (morto nel 1969), per citarne solo alcune. Già negli anni Cinquanta nel campo ottico cinetico avanzate erano le ricerche di vasarely, Agam, Soto, Tinguely (si pensi anche all'esposizione tenuta nel 1955 presso la galleria Denise René con il titolo Mouvement), tuttavia la corrente cinetica che si manifesta dopo il 1960 s'impone con delle caratteristiche specifiche, prima fra tutte la ricerca di una creazione collettiva, della quale l'espressione più significativa viene data dal GRAV (Groupe de Recherche d'Art Visuel), fondato nel 1960. Il gruppo, i cui principali esponenti sono F. Morellet (nato nel 1926), J. Le Parc (1928; premiato alla Biennale di Venezia nel 1968), H. Garcia-Rossi (1929), F. Sobrino (1932), J. Stein (1926) e Yvaral (1934), fino al suo scioglimento nel 1968 partecipa alle più importanti manifestazioni internazionali con una gamma di realizzazioni che vanno dalla pittura programmata alla creazione di environnements. Una ricerca autonoma, ma in qualche modo parallela alle tendenze minimaliste americane, è quella del gruppo Support-Surface (mostra al Museo d'arte moderna di Parigi nel 1970), che ha come principali animatori C. Ciallat (nato nel 1936), L. Cane (1934), A. Valensi (1947).
Bibl.: Oltre ai testi citati sotto i movimenti specifici (Nouveau Réalism, Ottico-cinetica arte, ecc.), v. G. Marchiori, Sculpture moderne en France, Parigi 1962; M. Ragon, Vingt-cinq ans d'art vivant. Cronique vécue d'art contemporain, de l'abstraction au pop-art, Tournai 1969; Depuis 45. L'art de notre temps, 3 voll., Bruxelles 1969-72; Douze ans d'art contemporain en France (catalogo mostra), Parigi 1972; J. Clair, Art en France, une nouvelle génération, ivi 1972; A. Tronche, H. Gloaguen, L'art actuel en France, ivi 1973; M. Ragon-M. Seuphor, l'art abstrait, ivi 1973; La nouvelle peinture en France, catalogo mostra, Musée d'art et d'industrie, Saint-Etienne 1974.
Architettura e urbanistica. - La politica di assetto territoriale, che ha preso ufficialmente il via negli anni Sessanta, si basa su criteri e istituzioni nuove a livello di coordinamento interministeriale e di decentramento regionale.
La DATAR (Délégation à l'Aménagement du Territoire et à l'Action Régionale), creata nel 1963, ha il compito di coordinare le decisioni governative e l'azione delle amministrazioni tecniche in vista della realizzazione degli obiettivi definiti dal Commissariato generale del piano. Il ministero delle Attrezzature e dell'Alloggio (Ministère de l'Equipement et du Logement), creato nel 1966 sulle tracce dei precedenti ministeri delle Costruzioni e dei Lavori Pubblici, riunisce le attività dello stato in materia edilizia, fondiaria e urbanistica e ha il compito di realizzare le politiche previste.
La politica di pianificazione regionale è coordinata da un organo strettamente legato al governo centrale: il prefetto di regione, che ha l'incarico di mettere in atto la politica governativa concernente lo sviluppo economico e l'assetto del territorio della sua circoscrizione. Con lui collabora la Commission de Développement Economique (CODER) che è un organismo regionale, essenzialmente consultivo, in cui i rappresentanti eletti dalle comunità locali si affiancano ai rappresentanti delle attività economiche e agli esperti governativi. Dal 1972 le regioni sono costituite in enti pubblici e sono amministrate da un Consiglio regionale.
La strategia ufficialmente adottata nella politica territoriale è quella delle "metropoli d'equilibrio", il cui obiettivo è di dotare le grandi città di provincia di una rete di servizi tale da consentire alle regioni circostanti di non dipendere in tutto dalla capitale: si tratta dei sistemi di St. Nazaire-Nantes, Lille-Tourcoing-Roubaix, Metz-Nancy, Strasbourg, Lyon-St. Etienne-Grenoble, Marseille. Ciò comporta la cessione, da parte di Parigi, di alcuni servizi (banche, centri internazionali di scambio, università), una politica dei trasporti indipendente dal nodo della capitale - quale quella che è indicata nel piano regolatore dei grandi collegamenti viari (1971) - un'efficace politica di infrastrutture urbane.
Un esempio singolare di sviluppo territoriale concentrato è costituito dall'attrezzatura della costa del Languedoc, per una lunghezza di 180 km a est della frontiera spagnola. Intesa a contrastare l'attuale distribuzione dei flussi turistici nel Mediterraneo, l'operazione già in avanzato stato di realizzazione è destinata a creare, entro gli anni Settanta, ben 400.000 posti letto e 20 porti turistici. L'iniziativa è controllata dallo stato, che conserva la proprietà dei terreni, e ha trasformato radicalmente - anche se in modo largamente discusso - un territorio già depresso. Iniziative di questo tipo sono previste anche per la Corsica e l'Aquitania.
La politica regionale di riequilibrio territoriale, pur se lentamente, sembra ottenere qualche interessante risultato: è rallentato il ritmo di crescita della regione parigina, si è affermato un costante flusso migratorio dalla capitale verso la provincia di dimensioni non molto dissimili da quelle del flusso opposto, le metropoli d'equilibrio - con l'eccezione di Lille - mostrano un tasso di accrescimento superiore a quello di Parigi.
Le regioni del Rodano e della Provenza si sviluppano intensamente, grazie alla crescita industriale la prima e turistica la seconda. Le stesse regioni dell'Ovest e del Sud-Ovest mostrano una promettente inversione di tendenza in materia di emigrazione e formazione di posti di lavoro. Se questi indici, di origine troppo recente per poter essere assunti come definitivi, si affermassero stabilmente, l'intero assetto territoriale del paese verrebbe a modificarsi profondamente - per la prima volta dai tempi della rivoluzione industriale - a dimostrazione che una società capitalistica avanzata trova la più corretta espressione spaziale in una struttura tendenzialmente decentrata.
L'impegno della pubblica amministrazione nei settori delle attrezzature urbane e dell'abitazione e, più in generale, la concentrazione delle iniziative immobiliari, si sono tradotte in importanti occasioni d'intervento per l'architettura francese.
In operazioni quali il rinnovo urbano a Parigi, la realizzazione di giganteschi programmi turistici (Languedoc-Roussillon, Avoriaz) la costruzione delle villes nouvelles (Cergy-Pontoise, Vallée de la Marne) si ritrovano le più interessanti e significative esperienze degli ultimi anni.
Il panorama architettonico degli anni Sessanta è caratterizzato dall'affermazione delle grandi agences d'architecture (Zehrfuss, Lopez), strettamente legate alla grande committenza pubblica e privata. Queste, imponendo sul mercato una riduttiva versione delle teorie corbusieriane e funzionaliste degli anni Trenta, hanno di fatto impedito lo sviluppo di una ricerca critica originale.
L'insegnamento di Le Corbusier, morto in piena attività nel 1965, viene ripreso con rigore solo dal suo antico collaboratore A. Wogenski (Casa della cultura, Grenoble 1966), mentre è grossolanamente tradito nel monumentalismo speculativo delle ristrutturazioni parigine (Défense, Maine-Montparnasse) o di alcuni insediamenti turistici (La Grande Motte).
Molto più vitale e ricca di risultati positivi appare la ricerca di tipologie flessibili e aggregantisi secondo trame continue, come nell'opera di G. Candilis, architetto greco trapiantatosi con successo a Parigi (Toulouse Le Mirail, 1961; Freie Universität di Berlino, 1963-73; Barcarès-Leucate, 1967, uno dei pochi interventi architettonicamente validi dell'operazione Languedoc).
Su una linea progettuale avanzata si muove anche il gruppo AUA, uno dei più interessanti fra quelli recentemente affermatisi, la cui realizzazione più nota, il quartiere dell'Arlequin a Grenoble (1973), sottolinea, anche attraverso un accurato uso della grafica e del design dell'arredo urbano, i valori di un ambiente caratterizzato dalla continuità e dall'articolazione degli spazi pubblici piuttosto che dalla monumentalità dell'architettura.
A un uso ricco di fantasia e significatività della grafica e della decorazione fa appello anche E. Aillaud nel quartiere della Grande Borne a Grigny, ove l'elementare semplicità delle cellule edilizie contrasta singolarmente col disegno sinuoso degli edifici. Vedi tav. f. t.
Bibl.: Conseil de l'Europe, Aménagement du territoire problème européen, Strasburgo 1969; l'expérience française des villes nouvelles, Parigi 1970; P. George, la France, ivi 19723; J. Tenem, L. Di Qual, Économie régionale et aménagement du territoire, ivi 1972; J. Monod, PL. De Castelbajac, l'aménagement du territoire, ivi 19732; L'architecture d'aujourd'hui, luglio-ag. 1974; Concorso per la nuova città di Marne la Vallée, in Lotus International, 10 (1975), II.