Hutcheson, Francis
Filosofo (Drumalig, Irlanda del Nord, 1694 - Glasgow 1746). Figlio di un pastore dissidente scozzese trasferitosi in Irlanda, ricevette la prima educazione in famiglia. Conseguito il dottorato presso l’univ. di Glasgow, a coronamento di studi di filosofia naturale, logica e teologia, tornò nel 1718 in Irlanda, dove fu ordinato ministro della Chiesa presbiteriana. A Dublino compose il suo capolavoro filosofico, An inquiry into the original of our ideas of beauty and virtue (trad. it. Ricerca sull’origine delle nostre idee di bellezza e di virtù), pubblicato nel 1725 e seguito nel 1728 dall’Essay on the nature and conduct of the passion and affections. With illustrations on the moral sense (trad. it. Saggio sulla natura e condotta delle passioni). L’eco suscitata da queste opere gli valse nel 1729 la nomina a prof. di filosofia morale all’univ. di Glasgow. Il suo insegnamento esercitò una profonda influenza, dentro e fuori l’ambiente accademico, su autori, quali Smith, Ferguson, Reid e lo stesso Hume, che sarebbero stati fra i protagonisti della stagione del cosiddetto Illuminismo scozzese. Morì durante un viaggio a Dublino. L’importanza di H. è legata in partic. alle sue ricerche di filosofia morale. In polemica con Hobbes e con quella che veniva definita la morale del selfish system, e soprattutto con Mandeville, che aveva attaccato l’etica sentimentalista di Shaftesbury, H. riprese da quest’ultimo la teoria del senso morale, liberandola dalle implicazioni platonizzanti e stoicizzanti del maestro mediante il ricorso all’analisi delle sensazioni avviata da Locke. L’idea di bene, come quella di bello (di qui il contributo di H. anche agli sviluppi dell’estetica settecentesca) non sono innate, alla maniera delle ‘nozioni comuni’ degli stoici, ma sono il prodotto di una forma specifica di sensibilità, non diversa nel suo operare dai sensi di cui aveva parlato Locke. Come questi, il senso morale è pronto a cogliere, senza alcun intervento della volontà, e a prescindere da considerazioni legate all’interesse personale, le ‘qualità’ morali percepite nelle azioni, approvando come virtuose quelle che vanno in direzione della «benevolenza universale»; la natura ‘istintiva’ del senso morale e delle affezioni disinteressate trovava così in H. giustificazione e stabiltà nell’ambito di un disegno provvidenzialistico volto dal creatore alla felicità delle creature. Questa impostazione, da una parte, ridimensionava, contro il razionalismo etico di autori come Clarke, il ruolo della ragione nei giudizi morali, dall’altra introduceva tematiche che avrebbero trovato significativi sviluppi in contesti diversi da quelli del sentimentalismo. Se le virtù approvate dal senso morale hanno in comune il fine di produrre il bene generale, allora una considerazione attenta della tendenza delle azioni a produrre conseguenze più o meno utili si prestava a stabilire un criterio di giudizio atto a chiarire e indirizzare meglio l’operare del senso morale, che restava comunque determinante sul piano normativo al di là del criterio di utilità. Spogliato dei suoi aspetti provvidenzialistici, il «calcolo morale», elaborato da H. per rendere conto del progetto divino della «massima felicità del maggior numero di individui», avrebbe caratterizzato nei decenni successivi le versioni più note dell’utilitarismo europeo da Beccaria a Bentham.