Sacchetti, Franco
, Novelliere e lirico fiorentino (Ragusa, Dalmazia, 1332 o 1334 - San Miniato 1400) di antica famiglia guelfa (v.) ricordata in Pd XVI 104. Per commerciare compì da giovane lunghi viaggi. Nel 1363 si stabilì in Firenze, dove fu utilizzato per incarichi politici, come podestà in vari borghi e come ambasciatore. Gli ultimi suoi anni furono tristi per disgrazie e povertà, e lo resero molto amaro.
La prima sua opera, La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, in ottave, fu scritta fra il 1352 e il 1354. Nel 1363 a Firenze cominciò a raccogliere le proprie liriche per il Libro delle Rime, assai importante: di grazia raffinata nei temi amorosi della giovinezza, solenne o almeno impegnato nelle composizioni della maturità. Dopo il 1378 compilò le Sposizioni del Vangelo, e nel 1385 cominciò a pensare al Trecentonovelle, che sarà il capolavoro comico della narrativa popolana, anche se velato dalla tendenza a credere in declino la vita comunale.
Nel Libro delle Rime il S. rimprovera Firenze che non ha saputo dare degna sepoltura a Dante. Il tema della vergogna ritorna nella novella CXIV, testimonianza di come l'ultima generazione fiorentina del secolo, ormai lontana dalle lotte cittadine di Bianchi e Neri, sentisse grande e terribile la personalità di D., non aliena da una volontà di giustizia vendicatrice. Pur nella riduzione piccolo borghese del poeta, fatto amico dell'esecutore del tribunale, tipica del Trecentonovelle, sentiamo soprattutto qui la testimonianza di un lettore dell'Inferno, che vede nel grande poeta l'uomo incapace di accettare i compromessi con il fabbro di Porta San Piero o con F. Argenti, e per ciò predestinato all'esilio. Ancor più evidente nella novelletta dell'asinaio (CXV) la suggestione dell'altero vendicatore, e il ricordo del Vanni Fucci infernale.
Più esasperata la novella di maestro Antonio Beccari che entra " come disperato " in San Francesco, toglie al crocifisso le candele, e le pone alla tomba di Dante. Le assurdità topografiche e cronologiche (cfr. E. Levi, Maestro Antonio da Ferrara, Roma 1920, 17) mostrano la volontà di oggettivare nel gesto del rimatore il mito di opere " maravigliose sopra natura a intelletto umano ". Un sonetto (IV), infine, testimonia di un altro mito: quello della facilità creativa di D. (" Se fosson vivi mille e mille Danti / presti con penne... ").
Bibl. - R. Ramat, F.S. e la critica, in " Belfagor " I (1946) 46-72; L. Caretti, Saggio sul S., Bari 1951; M. Apollonio, D., Milano 1951, 1093-1095.