SACCHETTI, Franco
Scrittore, nato forse a Ragusa circa il 1330 da Benci di Uguccione, di famiglia fiorentina guelfa nobile e, secondo il Villani, antica; morì, pare, nel 1400. L'esercizio della mercatura, cui attese da giovane, gl'impose viaggi frequenti e in terre lontane, e contribuì ad allargare la sua conoscenza degli uomini e delle cose. Più tardi, stabilitosi a Firenze, ebbe dal comune importanti e onorevoli uffici: ambasciatore a Bologna nel 1376; nel 1381 ricompensato dalla signoria con 75 fiorini d'oro perché, nel ritorno da una legazione "in diversi paesi pericolosi..., fu saccheggiato dai Pisani in mare e toltogli il suo e ferito Filippo suo figliuolo"; nel 1383 membro degli Otto di Balia; nel bimestre marzo-aprile dell'84 priore per il quartiere di San Giovanni. Nell'ultimo periodo della vita fu podestà in parecchie terre della Toscana e dell'Emilia, e nel '98, poco prima di morire, capitano della provincia fiorentina a Portico di Romagna. Le circostanze della vita operosa e i molteplici doveri non gl'impedirono di formarsi una cultura, sia pur disorganica, farraginosa e frammentaria da autodidatta. Ma la sostanza più salda e profonda del suo carattere, come anche della sua personalità di scrittore, si fondò, piuttosto che sulla dottrina, su un buon senso sano ed equanime, su un'esperienza umana varia, larga e indulgente, sebbene non mai rilassata. Espressioni di questo buon senso nativo sono una moralità schietta e viva, non priva d'arguzia: qualche volta un po' rigida, ma non gretta né volgare; una fede intima e profonda, aliena da superstizioni e da ipocrisie, attenta più ai problemi etici che non ai dogmi e alle discussioni teologiche; uno zelo politico illuminato e prudente, nel quale al caldo affetto per la sua Firenze e all'odio delle cupide signorie che ne minacciavano l'indipendenza si congiunge una sincera preoccupazione per le sorti dell'Italia tutta e della cristianità.
Zelo politico, moralità, religione s'incontrano nelle Lettere, in talune delle Rime e più ancora in quelle Sposizioni di Vangeli, ch'egli prese a comporre dopo il '78 e, pur ritornandovi sopra a varie riprese, non riuscì mai a condurre a una forma organica e compiuta. Gli spunti più interessanti di queste meditazioni evangeliche sono certe acute notazioni psicologiche, che rivelano la coscienza scrupolosa, usa a riflettere sui proprî doveri e a discutere nell'intimo i dubbi e i problemi morali che la vita d'ogni giorno reca con sé. La materia del ragionamento di rado è arida e astratta, più di frequente è umana, dettata dall'esperienza, guidata dal buon senso pratico. Spesso anche, nelle Sposizioni come nelle Lettere e nelle Rime, l'atteggiamento è polemico: contro ogni forma d'ipocrisia e di fariseismo, specie nei chierici; contro l'ignoranza e la scarsa giustizia dei podestà e dei rettori, "che piuttosto rattori si potriano chiamare"; contro le soldatesche mercenarie, bande di ladroni barbari; contro i governi d'Italia, e soprattutto i tiranni cupidi e capricciosi, pronti a travolgere la penisola in lunghe e inutili guerre intestine. Il desiderio della pace che risuona con tante voci ora più ora meno eloquenti nell'oratoria poetica del Trecento; l'ansia dell'ordine e della giustizia così viva anch'essa nell'età di Dante e del Petrarca; il rimpianto, tutt'altro che infrequente, di un'ideale età dominata dalla cortesia e dai costumi cavallereschi, e la conseguente convinzione di vivere in un'epoca di decadenza, di costumi rilassati, di corruzione e di anarchia; la nostalgia infine di una religiosità più vivida, più schietta e più vicina all'essenza del cristianesimo, ben naturale negli anni che videro la cattività avignonese e lo scisma d'Occidente, sono altrettanti elementi dei discorsi morali o satirici, degli sfoghi o delle invettive del S. È una moralità, nel complesso, che risponde a convinzioni diffuse e un po' generiche, e rispecchia una mentalità che si potrebbe dire popolare; eppure essa si manifesta nel S. non senza spunti nuovi, arditi ed efficacemente personali. Questa moralità fatta di buon senso pratico, di onesto zelo e di arguta saggezza, ricompare anche, con accenti non diversi, nelle osservazioni che aprono o concludono le singole Novelle, e traspare persino dall'agile grazia dei madrigali e delle ballate; ma essa è ben lungi sempre dal costituire il motivo essenziale e direttivo dell'ispirazione artistica dello scrittore. Li aiuta a sentire, al di là del gioco, l'indole semplice e la salda umanità del novellatore e del poeta; ma non diventa mai la sostanza profonda e animatrice del gioco stesso narrativo o poetico. La poesia, in un uomo come il S., è svago e conforto delle ore di ozio, lieve e garbata effusione di sentimenti in tono minore, sorriso che fiorisce in margine a una vita onesta e operosa: la moralità e il buon senso le dànno un fondamento generico di saggezza e dettano talora il tono piano e bonario del discorso; ma il momento poetico consiste piuttosto in un senso di provvisoria e leggiera evasione dalla realtà d'ogni giorno, in un senso di distensione e di divertimento. Rimatore facile e anche abbondante, il S. ha lasciato grande copia di componimenti in versi, che si conservano in un codice autografo della Laurenziana: ma fra questi meritano attenzione, non le canzoni e i molti sonetti politici o morali o di corrispondenza, sì le ballate, i madrigali, le cacce, i componimenti per musica insomma (e taluni "intonati" dall'autore stesso), che sono tra le cose più belle della lirica minore del tempo. Della letteratura per musica, che ebbe tanta parte nei costumi e nella vita italiana del Trecento, queste rime del S. hanno i modi raggentiliti e aggraziati, il garbo spirituale e mondano e la delicata e tenue sensualità. Dalla tradizione borghese di Toscana derivano le forme rapide e snelle del discorso, la lingua vivace e colorita, il ritmo agile e spigliato. Tutte di Franco sono (e lo distinguono da un Alessio Donati o da un Niccolò Soldanieri, ad esempio, e in genere da quella maniera poetica) l'osservazione minuta e precisa della realtà, ritratta con occhi limpidi e penetranti; la franchezza incisiva delle descrizioni, e soprattutto quel sorriso arguto e bonario, nel quale consiste in gran parte la leggiadria delle sue cose migliori, come la ballata "O vaghe montanine pastorelle" ovvero la caccia "Passando con pensier per un boschetto". Povera cosa invece, di una comicità comune e pedestre, è il poemetto giovanile in ottave La battaglia delle belle donne di Firenze con le vecchie, notevole solo per certi rari spunti di colorito descrittivo e di vivacità rappresentativa, che hanno in sé il sapore di certe scene di rude vita plebea ritratte poi nelle Novelle.
Anche queste ultime, che sono certo l'opera letteraria più importante del S., debbono essere considerate, come le Rime, nella loro grazia modesta e umile, borghese e aneddotica: avrebbe torto il critico che vi cercasse un impegno profondo, un'atmosfera costantemente poetica, e quello che, a paragone con i capolavori de Boccaccio, ne accusasse la povertà del rilievo drammatico e la debolezza dell'intuizione psicologica. Altri, se pur più tenui, sono i pregi del S. novellatore: una comicità bonaria e pittoresca; una felice evidenza di particolari singoli; un linguaggio vivace e ricco, limpido e caratteristico, che ha il sapore della lingua parlata. Il S. prese a compilare la sua raccolta prima del 1378 e la condusse a termine dopo il 1395: negli ultimi anni ancora s'adoperò intorno ad essa per imporle un assetto definitivo e un certo ordine tutto esteriore e niente affatto sistematico. Si proponeva di assecondare l'umore della gente vaga di udir cose nuove, e spezialmente di quelle letture che sono agevoli a intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolino alcune risa". Nello scrivere egli stesso cercava una maniera di distrazione e di sollievo, e all'osservazione delle vicende umane s'accostava con animo piuttosto curioso che intento, per trarne motivo di riso e di godimento, pur breve, o di argute riflessioni. Della commedia umana non indagava le ragioni sotterranee, le segrete radici psicologiche; s'arrestava divertito a contemplare la varietà delle avventure, la stranezza dei tipi, dei ceffi e degli atteggiamenti. Di qui il carattere tutt'affatto esteriore, superficiale se si vuole, ma nei suoi limiti piacevole e interessante della rappresentazione, dove lo spunto di poesia più efficace è poi nella schietta e stupita e ingenua gioia del narratore di fronte agli oggetti della propria fantasia. I personaggi - quando non incarnano il buon senso pratico e l'arguzia del novellatore, come Rodolfo da Camerino "filosofo naturale di pochissime parole" o l'oste Basso della Penna con la sua "loica piacevole" - sono non più che caricature e macchiette, viste dall'esterno, nell'aspetto fisico anziché nelle ragioni spirituali, ma ritratte con disegno arguto e brioso. I temi narrativi sono elementari e privi di complessità: aneddoti, beffe, risposte abili e pronte, pettegolezzi da cronaca paesana: di rado sono attinti ai libri, quasi tutti derivano o dalla tradizione orale o, più spesso, dall'osservazione diretta della realtà; e sebbene non si possano considerare a guisa di documenti storici, tuttavia offrono, presi nel complesso, un quadro vario e mosso della vita borghese del Trecento, una miniera di notizie per la storia del costume. Quasi dovunque la trama si riduce a uno spunto scherzoso, e nei casi migliori s'illumina di un intimo sorriso arguto e sottile; ma più spesso s'appoggia, per divertire, alle qualità esteriori della materia rappresentata, strana, pittoresca o tumultuosa. Le situazioni sono viste sempre con prontezza, evidenza e alacrità di osservazione; certi particolari tratteggiati con acume, sia pure di non lunga lena; taluni ritratti delineati con mano sicura e incisiva; notevoli le descrizioni di alterchi, tafferugli, tumulti che, movendo da un nulla, s'espandono e mettono a rumore tutta una città. Quando il ritmo dell'azione incalza o il gusto dello scrittore si fa più curioso e divertito, anche la lingua assume un'andatura mimica e icastica, che ci richiama ai modi della tradizione burlesca e realistica della Toscana. Del resto anche le Novelle del S. hanno una loro intonazione artistica, diversissima da quella del Boccaccio, più affine ai modi della prosa popolareggiante, ma distinta anche da questa per una maggiore varietà e complessità di movenze, di strutture dialogiche e sintattiche, di modulazioni stilistiche. Purtroppo non era questa l'arte meglio adatta a corrispondere al gusto dei letterati umanisti: e questo spiega forse i guasti subiti dai pochi manoscritti delle Novelle già nel Quattrocento e l'oblio in cui rimase a lungo l'opera più importante del S. Oggi, dei trecento racconti che costituivano la raccolta completa, ne rimangono duecentoventitré soltanto, dei quali alcuni monchi o frammentarî.
Bibl.: L. di Francia, F. S. novelliere, Pisa 1902; id., Novellistica, Milano 1924, pp. 260-300; V. Rossi, Scritti di critica letteraria, II, Firenze 1930, pp. 231-270; B. Croce, Poesia popolare e poesia d'arte, Bari 1933, pagg. 94-105. Sulle rime per musica, v. G. Carducci, Musica e poesia nel mondo elegante italiano del sec. XIV, in Opere, VIII; E. L. Gotti e Pirrotta, Il S. e la tecnica musicale del Trecento italiano, Firenze 1935. - Sulle condizioni del testo delle Novelle, M. Barbi, Per una nuova ediz. delle Novelle del S., in Studi di filologia italiana, I (1927), pagine 87-131; sul testo delle Sposizioni di Vangeli, A. Chiari, in Convivium, II (1930), pp. 341-68.