Franco Venturi
Franco Venturi è stato lo storico italiano della seconda metà del Novecento di maggior rilievo internazionale, tanto per i suoi studi sulla Russia dell’Ottocento, tra cui, principale, Il populismo russo, quanto per i suoi studi sul Settecento, tra i quali l’imprescindibile Settecento riformatore.
Nato a Roma il 16 maggio 1914, Franco Venturi visse a Torino, dove il padre, Lionello (1885-1961), insegnava storia dell’arte presso la locale università. Arrestato per un breve periodo nel gennaio 1932 perché sospetto di attività antifascista, raggiunse subito dopo il padre – «dispensato dal servizio» per non aver prestato il prescritto giuramento di fedeltà al regime nel proprio insegnamento – che si trovava a Parigi. Qui concluse gli studi liceali, intraprese gli studi storici presso la Sorbona, dove fu allievo di studiosi come Pierre Renouvin, Henri Hauser, Gustave Glotz, Charles Seignobos, Daniel Mornet, Henri Bédarida, e conseguì la laurea nel 1936, anno del suo primo viaggio in Unione Sovietica.
Successivamente, si segnalò per una serie di studi che affrontavano in modo nuovo l’Illuminismo francese, mettendone in luce il valore politico e non solamente quello filosofico o letterario. A questa visione dell’Illuminismo lo portava anche il suo appassionato antifascismo. Sin dal 1933, infatti, aveva avuto inizio la sua collaborazione con il movimento di Carlo Rosselli, il settimanale «Giustizia e Libertà» e i suoi «Quaderni», espressione di un antifascismo nuovo, inteso a superare, nell’accordo tra la pulsione egualitaria del socialismo e quella alla libertà del liberalismo, le debolezze dei vecchi partiti italiani, sconfitti nel 1922, e prospettando la liberazione dell’Italia dal fascismo attraverso una vera e propria rivoluzione democratica. Di «Giustizia e Libertà» Venturi diverrà uno dei dirigenti, con specifici incarichi per quanto concerneva la stampa dell’omonimo settimanale dopo l’assassinio di Rosselli. Particolarmente importante, sul piano intellettuale e politico, fu allora per lui l’amicizia con Aldo Garosci e Leo Valiani.
Venturi non poté discutere la sua thèse sull’illuminista piemontese Francesco Dalmazzo Vasco a causa dell’ingresso a Parigi delle truppe tedesche. Nel tentativo di lasciare la Francia fu arrestato al confine spagnolo mentre cercava di arrivare in Portogallo, da dove avrebbe raggiunto i genitori negli Stati Uniti. Detenuto per cinque mesi nelle durissime carceri spagnole, fu estradato in Italia nel marzo 1941, imprigionato nel campo di concentramento di Monteforte Irpino e poi confinato ad Avigliano, in Basilicata. In quegli anni ebbe anche inizio la sua collaborazione con la casa editrice Einaudi di Torino.
Lasciato il confino dopo il 25 luglio 1943, fu, nell’agosto, tra i partecipanti alla fondazione del Movimento federalista europeo. Tornato in Piemonte, a partire dal settembre 1943 partecipò alla costituzione delle prime formazioni partigiane in Val Pellice. Prese parte a tutte le fasi della Resistenza al nazifascismo in Piemonte come membro del Comitato esecutivo del Partito d’azione, ispettore delle formazioni piemontesi Giustizia e Libertà e responsabile della stampa azionista subalpina. Particolarmente importanti, tra le pubblicazioni da lui curate, sono «Voci di officina» e i «Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà». Dopo la Liberazione diresse, sino all’aprile 1946, il quotidiano azionista torinese «Giustizia e Libertà».
Dal 1947 al 1950 fu addetto culturale presso l’ambasciata italiana di Mosca. Al suo rientro in Italia intraprese la carriera universitaria come docente, prima, presso l’Università di Cagliari (1951-55), poi di Genova (1955-58) e, infine, di Torino, dove coprirà la cattedra di storia moderna sino al 1984. Nel 1959 successe a Federico Chabod nella direzione della «Rivista storica italiana». Ricchissima di contatti, in ogni parte del mondo, fu la sua vita di studioso. Tuttavia egli rimase anche fedele a un più ristretto circolo di relazioni intellettuali in gran parte costituitosi nella giovinezza e nella Resistenza. Lo componevano personalità di studiosi come Garosci, Valiani, Carlo Dionisotti, Arnaldo Momigliano, Alessandro Galante Garrone, ai quali si aggiunse Giorgio Agosti. Con l’eccezione di Momigliano, un gruppo ‘azionista’ durato quanto la vita dei suoi componenti, anch’esso caratterizzato, però, da un forte cosmopolitismo. La «Rivista storica italiana» (della cui direzione Momigliano e Valiani furono a lungo magna pars) costituì per molti decenni l’ambito nel quale si concretizzarono spesso elementi di ricerca e discussione che ritroviamo negli scambi epistolari e nelle loro discussioni. Professore emerito dell’ateneo torinese, Venturi si spense a Torino il 14 dicembre 1994.
«Per professione ed attitudini, Venturi era un intellettuale, ma fu anche, fin dai primissimi esordi, uomo d’azione», ha osservato Michael Confino (Franco Venturi e la Russia, 2004, p. XVI). In effetti, l’attività intellettuale di Venturi è inseparabile da quella politica. Nella sua formazione, più che gli studi alla Sorbona, contarono i contatti, attraverso il padre, con personalità eminenti del mondo politico e intellettuale italiano: da Benedetto Croce a Gaetano Salvemini a Francesco Saverio Nitti, a Luigi Salvatorelli e, soprattutto, a Carlo Rosselli. Con Rosselli e gli uomini di Giustizia e Libertà egli sviluppò la sua passione politica e per gli studi storici, intesi come costantemente collegati (mescolando la lezione crociana e quella salveminiana) alle problematiche politiche del presente. Dalle giovanili letture gobettiane gli provenne l’attenzione agli individui e, in particolare, all’intelligencija, vista come quel gruppo sociale che possedeva la capacità di elaborare, proporre e cercare di introdurre nella vita politica e sociale dei popoli migliori condizioni per una libera esistenza. La centralità della figura dell’intellettuale nella propria concezione della storia fa anche sì che Venturi adotti largamente nel suo lavoro la forma della biografia politico-intellettuale dei suoi personaggi.
Nell’Illuminismo egli individuò il grande movimento modernizzatore della società europea e, come affermerà in un interrogatorio di polizia, l’origine delle idee democratiche moderne. Esatto opposto delle tirannidi che allora venivano prevalendo in Europa. Ne colse anche la caratteristica di religione laica e umanistica, fatta di lotta contro la Chiesa, di passione, di vitalismo immanente, di entusiasmo, di impulso morale. In contrasto con l’interpretazione filosofico-letteraria dell’Illuminismo allora prevalente in Francia (Hazard, Mornet) e in Germania (Ernst Cassirer), Venturi puntò quindi a illustrarne l’aspetto politico. Egli riprendeva sì quella histoire des idées viva tra gli storici letterari francesi degli anni Venti e Trenta, ma vi innestava un’acuta sensibilità politica. La sua impostazione storiografica, definibile come una ‘storia politica delle idee’, non discendeva però da una teorizzazione aprioristica. Al contrario, essa non esiste in quanto definizione-descrizione del proprio operare: «fare storia delle idee era per Venturi una sfida metodologica permanente, da accogliere ad ogni nuova ricerca – ha scritto Bronislaw Baczko (Curiosità storica e passioni repubblicane, in F. Venturi, Pagine repubblicane, 2004, p. X) – Tutto accade in concreto, nella ricerca stessa».
Diffidente rimase sempre nei confronti di troppo astratte riflessioni sulla metodologia storica, fu fortemente polemico verso le teorie marxiste della storia, il cui teleologismo gli riusciva inaccettabile e il cui economicismo vedeva all’origine della tirannide sovietica. Pur tra i primi a introdurre in Italia la lezione delle «Annales», diffidò poi delle successive evoluzioni in senso cliometrico e poi antropologico della storiografia francese, così come della psicostoria e della microstoria. Dichiarerà in uno dei suoi rarissimi interventi sulla stampa quotidiana («La Repubblica», 23 ottobre 1984):
Non appartengo a quella numerosa schiera di studiosi che, in Italia e fuori, sembrano continuamente scusarsi di essere soltanto degli storici, lasciando intendere in mille modi di essere poi in realtà dei filosofi, degli economisti, dei sociologi, degli antropologi, degli etnografi, ecc. ecc. Personalmente mi pare che la storia senza additivi sia del tutto sufficiente a riempire tutta intera una vita di ricerche e di studio.
Rivelatore della sua visione politica è il saggio intitolato Socialismo di oggi e di domani (comparso nei «Quaderni dell’Italia libera», dicembre 1943, 17, a firma Leo Aldi). Era un attacco alla «tendenza a ripartire dalle posizioni di vent’anni fa», dal socialismo sconfitto dal fascismo o degenerato nel totalitarismo sovietico. «Il socialismo moderno – così invece lo disegnava Venturi – non può infatti non essere profondamente antitotalitario», «non può non essere costruttivo» e «costruttivo – precisava – in primo luogo [in senso] politico ed istituzionale», superando il classismo marxista: «un peso schiacciante, perché gli impedisce di porsi al centro della società, di raggruppare intorno a sé tutto il mondo del lavoro, di porsi e risolvere i problemi di ricostruzione e di libertà, centrali oggi».
Nella vasta produzione di Venturi si possono distinguere tre momenti principali, il primo dei quali è costituito dal periodo dell’esilio e della Resistenza: centro dei suoi studi fu l’Illuminismo francese con la figura di Denis Diderot e il mondo dell’Encyclopédie. La più nota di queste opere è senz’altro Jeunesse de Diderot (de 1713 à 1753), ultimata nel 1938 e pubblicata a Parigi nel gennaio dell’anno successivo:
Per opera di Diderot e dei suoi – scriveva Venturi – l’Illuminismo prese al centro del XVIII secolo un aspetto politico che parve agli spauriti tradizionalisti un complotto, e che era invece la nascita di una nuova forza ideale e pratica (Jeunesse de Diderot, 1939, trad. it. 1988, p. 203).
Diderot era così strappato alla posizione di letterato di seconda fila, di pensatore senza sistema e restituito al piano nel quale emergeva la sua grandezza: quello politico. Il volume voleva appunto essere una «storia politica di Denis Diderot» (p. 23), «considerato come uno dei più notevoli tra gli uomini che seppero dare un significato politico all’illuminismo francese» (p. 22) e dar vita a un capolavoro che aveva «più di venti volumi in folio ed [aveva] un titolo che ha dato il nome a una scuola e ad un’epoca: l’Enciclopedia» (p. 22). Al mondo dell’Encyclopédie.si riferiscono inoltre anche altri studi che avrebbero dovuto costituire una seconda parte del volume diderottiano, ma vedranno la luce solo nel dopoguerra: Le origini dell’Enciclopedia (1946) e L’antichità svelata e l’idea di progresso in N.A. Boulanger (1722-1759) (1947), voluto da Croce per i tipi di Laterza. Il ruolo dell’URSS nell’Europa fascistizzata imponeva in quegli anni una riflessione sul comunismo. Era possibile che, andando alle sue radici settecentesche, vi si potesse cogliere una possibilità di sviluppo anche in senso non totalitario, seguendo le suggestioni di Élie Halévy? Dagli scritti di Dom Deschamps e di Filippo Buonarroti Venturi avviò allora la ricerca di una risposta che si prefisse di elaborare in una mai conclusa Storia del comunismo.
Di quella ricerca fa parte anche un’opera fra le sue più significative: lo studio su Alberto Radicati di Passerano (1954). Per quanto apparso molto più tardi, esso era frutto di un lavoro avviato almeno dal 1937, in parallelo con quelli su Francesco Dalmazzo Vasco, tanto che Venturi prospettava allora a Croce «una edizione degli illuministi piemontesi (raccolti intorno alle due figure principali di Radicati e di Vasco) che da molto tempo mi interessano» (Croce, Venturi, Carteggio, 6 febbraio 1938, 2008, p. 13). Un intento perseguito anche nell’immediato dopoguerra con la traduzione, mai pubblicata, di molti scritti del Radicati.
Venturi partì per l’Unione Sovietica anche con l’intento di studiare l’impero zarista nel Settecento. Un altro, però, se ne profilò ben presto: «vorrei scrivere – comunicava ad Agosti – un libro, magari soltanto di carattere cronachistico, sul populismo russo» (3 settembre 1948, F. Venturi, Lettere da Mosca, in Franco Venturi e la Russia, 2004, p. 105). Il risultato del suo serrato lavoro alla biblioteca Lenin di Mosca furono, al suo rientro in Italia, i due volumi pubblicati di Il populismo russo (1952) con i quali inaugurò la seconda fase dei suoi studi. In essi si ripercorreva il lungo cammino di quella che Venturi definiva «una pagina di storia del socialismo europeo», il movimento populista, appunto, dai suoi ispiratori, Aleksandr I. Herzen, Michail A. Bakunin, Nikolaj G. Černyševskij, sino alle organizzazioni Zemlja i volja («Terra e libertà») e Narodnaja volja («Volontà popolare») e all’attentato contro Alessandro II, nel 1881. Un’opera seguita, per quasi un decennio, da altri studi, Il moto decabrista e i fratelli Poggio (1956), Esuli russi in Piemonte dopo il ’48 (1959), uno studio su Herzen e, soprattutto, dal dialogo/dibattito con lo storico Nikolaj M. Družinin e altri colleghi sovietici, al quale presero parte, con Venturi, nelle pagine della «Rivista storica italiana» del 1961-1962, Momigliano e Pietro Rossi. Tutte tappe di un’attenzione e di una volontà di forzare le chiusure sovietiche che non rimasero senza echi nella stessa Unione Sovietica. Gliene derivò una larga e duratura notorietà nel campo della russistica che pure non costituì l’ambito principale della sua attività storiografica. La pubblicazione della traduzione francese e dell’edizione riveduta italiana (1972) diede poi a Venturi l’opportunità di discutere le osservazioni dei molti recensori in un’amplissima introduzione.
Il progetto a lungo covato di realizzare una storia dell’Europa dei lumi venne trasformandosi negli anni. Si fece maggiormente centrato, inizialmente, sulla realtà dell’Italia del 18° secolo. Ma nel corso dei decenni, sotto il titolo di Settecento riformatore, la grande opera della maturità venturiana, si vennero racchiudendo una pluralità di intenti. In parte quest’opera si collega fortemente anche ai volumi di Illuministi italiani, curati da Venturi per La letteratura italiana, storia e testi, diretta da Raffaele Mattioli, Pietro Pancrazi e Alfredo Schiaffini per l’editore Ricciardi tra il 1958 e il 1965. Questi volumi antologici comprendevano ampi brani delle opere degli intellettuali riformatori italiani del Settecento, con robusti profili biografici. Per riformatori erano intesi soltanto coloro che avevano avuto un contatto diretto con il mondo dell’economia, dell’amministrazione, delle cose e, quindi, non puri teorici dell’economia o puri esecutori e amministratori: piuttosto, i progettisti e propugnatori di riforme. La questione era centrale poiché «il moto riformatore è il filo rosso del nostro Settecento», e «quello dobbiamo seguire se vogliamo stabilire un vivo contatto con i problemi dell’Italia di quel secolo» (Settecento riformatore, 1° vol., 1969, p. XV). Occorreva cioè fare
la storia del formarsi e svilupparsi, del distinguersi e ritrovarsi di quella volontà di riforma che animò allora individui e gruppi, portandoli ad esplorare e capire la realtà che li circondava e a cercar di modificarla (p. XV).
Non però in senso namieriano (per quanto Venturi ammirasse sir Lewis Bernstein Namier). Al centro del suo interesse stavano le peculiarità del pensiero del singolo personaggio e non, come in Namier, le costanti, per es., di ceto. Nel primo volume, sottotitolato Da Muratori a Beccaria, si ripercorrevano del 18° sec. italiano gli anni tra la metà dei Trenta e la metà dei Sessanta. Fin dall’inizio, però, come già Venturi aveva prospettato nel suo intervento sulla Circolazione delle idee al Congresso di Storia del Risorgimento del 1953, nel quale molti videro l’enunciazione di un piano di lavoro che l’avrebbe impegnato per il resto della vita, il caso italiano veniva considerato solo nel generale quadro dell’Illuminismo europeo, come elaborazione autonoma nell’ambito di un fenomeno pluricentrico quale fu l’Illuminismo, cosmopolitico per la sua stessa essenza. Anche per questo egli dichiarava subito di aver volto «le spalle, fin dai primi passi, ad ogni sentiero che rischiasse di condur[lo] in Parnaso» (p. XIII). Intento al quale rimarrà fedele: invano cercheremmo, trent’anni dopo, il nome di Carlo Goldoni nell’indice dei nomi dell’ultimo volume dell’opera pubblicato, dedicato alla Repubblica di Venezia.
Dopo un secondo volume, La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1976), che analizzava il riaprirsi, negli anni Sessanta, del conflitto tra società civile e organizzazione ecclesiastica e il mutarsi del giurisdizionalismo in volontà di riforma, il terzo segnò un mutamento profondo. Non erano più solamente singole personalità di riformatori a costituire la trama dell’opera, che si spostava piuttosto sull’analisi della formazione di una moderna opinione pubblica nell’Italia della seconda metà del Settecento. La svolta che Venturi coglieva al passaggio tra gli anni Sessanta e gli anni Settanta e Ottanta non si poteva più seguire «continuando unicamente a descrivere lo sviluppo delle idee e dei gruppi nei diversi centri della penisola», ma solo considerandola «anche nel suo assieme, in uno spaccato che permetta di cogliere le azioni e le reazioni del paese di fronte ai problemi che dominavano tutt’intera l’Europa di quegli anni» (p. XI). Anni che segnavano, come recitava il titolo del volume, La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776) (1979), per la quale più degli archivi diplomatici contavano le gazzette, i viaggiatori, i pubblicisti, i «progettisti e economisti» (p. XV).
Settecento riformatore illustrava quindi il ritmo dello spirito riformatore del secolo nel suo misurarsi con fenomeni che lo superavano e travolgevano in misura talora definitiva. L’ampia visione dell’Illuminismo che Venturi aveva prima delineato in importanti interventi congressuali (fondamentale quello al Convegno internazionale di Stoccolma, nel 1960) e poi nelle George Macaulay Trevelyan Lectures del 1969, tenute a Cambridge e pubblicate nel 1970 con il titolo di Utopia e riforma nell’illuminismo (e nel 1971 in inglese), veniva a confluire nell’opera sua maggiore che proponeva al lettore di porsi dal punto di vista con il quale un suo simile, vivente nella penisola italiana tra gli anni Settanta e Ottanta del Settecento, poteva guardare quel grande moto che attraversava l’Europa. Moto che egli aveva indagato nelle Lectures ponendolo «sotto le luci incrociate di alcuni problemi della storia delle idee», tra i quali era centrale «il problema del valore della tradizione repubblicana nella formazione e lo sviluppo dei lumi», arrivando poi «al cuore stesso del rapporto tra utopia e riforma», sia pure «da un solo punto di vista […], quello del diritto di punire», per concludere con «un tentativo di ripercorrere la distribuzione geografica e il ritmo differenziato di sviluppo dell’illuminismo nell’Europa settecentesca» (p. 27). Al tempo stesso, quelle lezioni segnavano l’ultima tappa nel percorso venturiano: al tema «rivoluzione» (indicata con il termine utopia), stava succedendo ormai quello di «riforme», in un nesso univoco con i «lumi». Quasi un’ideale cerniera si può quindi individuare nella sua edizione, nel 1965, del Dei delitti e delle pene di Cesare Beccaria.
Negli stessi anni Venturi scrisse anche il poderoso saggio, L’Italia fuori d’Italia (1973), inserito nel terzo volume della Storia d’Italia einaudiana, che esponeva come, dal Settecento fino all’Unità, lo spazio italiano e i suoi problemi fossero stati visti dal mondo intellettuale europeo, ribaltando quindi l’ottica assunta nell’opera maggiore.
Quella osservazione degli eventi mondiali attraverso le fonti relative alla formazione di un’opinione pubblica nella penisola, acquisterà massimo rilievo nel volume successivo di Settecento riformatore, La caduta dell’Antico Regime (1776-1789) (1984), due ampi tomi che percorrevano lo spazio tra le due rivoluzioni atlantiche, per riprendere la terminologia di Robert R. Palmer. «Anche questo – sottolineava l’autore – come gli altri volumi del Settecento riformatore, intende guardare queste realtà cosmopolitiche attraverso l’Italia […]. L’Italia è come un prisma attraverso il quale si è cercato di scomporre e ricomporre, di analizzare la realtà politica che giunge d’Oltralpe e d’Oltremare» (pp. XIII-XIV). La crisi dell’antico regime vi veniva colta soprattutto nelle rivolte delle periferie, a partire da quella americana.
Venturi si volse solo allora a completare, con gli anni Settanta e Ottanta, il quadro dell’Italia riformatrice del Settecento; e anche questa seconda parte si dilatò ben oltre un solo tomo. Tre sarebbero stati, intitolati L’Italia dei Lumi, secondo quanto l’autore stesso indicava introducendo brevemente il primo di essi: La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni sessanta. La Lombardia delle riforme (1987). Nel secondo sarebbe stato «ripreso il problema delle arcaiche repubbliche italiane, di Venezia e Genova» (p. XII). Il terzo sarebbe partito «dal Piemonte per passare allo Stato pontificio, per trovare infine il proprio centro in quello che fu, con la Lombardia e la Toscana, l’altro polo dell’Italia settecentesca, la Napoli illuminista degli anni della crisi finale dell’Antico regime» (p. XIII). Ma quando, nel 1990, comparve il tomo successivo, La Repubblica di Venezia (1761-1797), alla Serenissima, appunto, esso si limitava. L’anno prima, in una seduta dell’American historical association, Venturi aveva ancora ribadito le costanti del suo lavoro. Ricorderà Robert Burr Litchfield:
Il suo scopo in Settecento riformatore non era solo quello di delineare le vicissitudini dei riformatori attraverso gli sviluppi politici e le crisi degli ultimi decenni dell’Antico Regime, ma anche di illustrare il carattere cosmopolita ed internazionale dell’opinione pubblica europea nell’età dell’Illuminismo (The English translation of “Settecento riformatore” and its Anglo-American reception, «Rivista storica italiana», 1996, 2-3, p. 357).
Venturi non poté completare Settecento riformatore. Il cerchio della sua operosa vita si chiuse con un ritorno a Buonarroti. Avendo trovato un curioso scritto a lui attribuibile, ne trasse un articolo e, poi, insieme con Galante Garrone, un volumetto (La riforma dell’Alcorano). Esempio, nella fase estrema della sua vita, di quella circolazione delle idee che costituiva la base dell’opera sua. Senza, però, trascurare mai il dato concreto: «giovani e meno giovani – aveva ammonito nel suo ultimo discorso pubblico, alle soglie della morte –, pensate sempre che le radici locali e le grandi idee che spazzano il cielo dell’Europa non possono mai essere separate» («Linea d’ombra», 1995, 101, p. 15).
Amplissima fu la discussione internazionale sull’opera di Venturi, come può illustrare anche una brevissima rassegna, limitata alla discussione delle sue maggiori opere.
La sua Jeunesse de Diderot riscosse apprezzamenti da Lucien Febvre («C’est le travail d’un homme vivant sur le porteur d’idées vivantes»,«Annales d’histoire sociale», 1940, 2, p. 46) e da recensori sulle maggiori riviste francesi. In Italia lo elogiò, nella crociana «Critica», Adolfo Omodeo, che vi intravide con favore la nascita di «una più adeguata interpretazione del secolo dei lumi». Arthur M. Wilson, nel «Journal of modern history», la definì «an important contribution to the intellectual history of the eighteenth century» (1940, 12, 2, p. 246).
Ancor più rilevante fu l’eco internazionale del Populismo russo. Isaiah Berlin ne introdusse l’edizione inglese (1961), ma già ne aveva scritto a Venturi, nel 1953, come di un capolavoro. Negli Stati Uniti Alexander Gerschenkron definì l’opera «without precedent in any language, Russian not excluded», George Hugh Nicholas Seton-Watson sottolineò anch’egli il fatto che si trattasse del «first comprehensive study in a western European language» sul tema, auspicandone una rapida traduzione in inglese e francese (quest’ultima comparirà però solo nel 1972). Diversi gli echi in Unione Sovietica. A livello ufficiale, Serafim A. Pokrovskij, nell’autorevole «Voprosy istorii» (Questioni di storia), ammise «l’attento studio» e il «profondo interesse» evidenziato nell’opera. Grande colpa, però, rimaneva l’aver «trascurato gli straordinari lavori di Lenin». In Occidente Leonard Shapiro interpretò questo parziale riconoscimento come derivante dalla condivisione, in URSS, del giudizio negativo di Venturi sul liberalismo russo ottocentesco. Negli anni krusheviani, ha riferito Valentina A. Tvardovskaja, poco mancò che un capitolo del Populismo venturiano venisse pubblicato a Mosca ed ebbe una risonanza notevole, tra gli studiosi sovietici (ovviamente del tutto ufficiosa), anche il già ricordato dibattito che si accese, nelle pagine della «Rivista storica italiana» e di «Istorija SSSR», su temi come quello della libertà nelle rivoluzioni russe e del marxismo-leninismo quale strumento conoscitivo della storia, come ha illustrato Vladimir V. Pugačev.
In Italia i volumi di Venturi riscossero grande apprezzamento, ma anche riserve significative in una discussione prevalentemente storiografica e ideologica, ben testimoniata da Giuseppe Berti che, con l’occhio dello storico marxista, sottolineò nell’opera la mancanza di un «esame approfondito delle differenziazioni economiche e di classe» («Rinascita», maggio-luglio 1952).
Internazionale fu anche la discussione su Utopia e riforma, favorita dalla pressoché immediata edizione inglese. Keith M. Baker, per es., segnalò l’opera come destinata a «surely become a classic». Il tema del repubblicanesimo nel Settecento – che avrà ampi sviluppi nella storiografia internazionale dei decenni successivi – venne subito colto come uno dei centri focali del volume e Michael Wilks rilevò come sarebbe stato necessario meglio precisare tale concetto, mentre sottolineava come il lavoro contenesse anche «una rassegna splendidamente distruttiva della […] vasta letteratura sull’argomento recentemente prodotta dagli studiosi» («The English historical review», 1973, 88, p. 600), connettendolo anche con i saggi venturiani di Europe des Lumières: recherches sur le 18e siècle, comparsi contemporaneamente.
Vastissima l’eco dei volumi di Settecento riformatore. A essi vennero dedicate non solo singole recensioni, ma anche più ampie discussioni e tavole rotonde, come, con particolare riferimento al terzo volume, il seminario tenutosi presso la Fondazione Luigi Einaudi di Torino l’8 dicembre 1985. Negli Stati Uniti, poi, nel 1989, l’American historical association aveva tenuto una seduta – sopra ricordata – a San Francisco, organizzata da Brendan Dooley, della Harvard University, intitolata The Eighteenth century of Reform: a roundtable discussion of Franco Venturi’s “Settecento riformatore”, del quale era stato allora tradotto in inglese il terzo volume, poi seguito dai due tomi del quarto. Accanto agli elogi alla gigantesca opera, vennero in quegli anni delineandosi anche osservazioni che rispecchiavano bene come il mutare dei tempi rendesse più difficile accoglierla senza alcune riserve. In particolare, tornò quella relativa all’«isolamento» dei riformatori venturiani: nell’età della contestualizzazione il fatto che Venturi lasciasse pochissimo spazio alle forze conservatrici veniva sempre più difficilmente accettato. In una certa misura gli intenti che avevano mosso la ricerca storica di Venturi, radicati nella cultura europea e italiana dei decenni centrali del 20° sec., venivano colti con sempre maggior fatica.
Una bibliografia (con 519 titoli) delle opere di Franco Venturi, a cura di Paola Bianchi e Leonardo Casalino, si trova in Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di L. Guerci, G. Ricuperati, Torino 1998, pp. 441-78. Si indicano di seguito solamente le opere più significative:
Jeunesse de Diderot (de 1713 à 1753), Paris 1939 (trad. it. Palermo 1988).
Francesco Dalmazzo Vasco (1732-1794), Paris 1940.
Le origini dell’Enciclopedia, Roma-Firenze-Milano 1946 (seconda ed. riveduta, Torino 1963).
L’antichità svelata e l’idea di progresso in N.A. Boulanger (1722-1759), Bari 1947.
Jean Jaurès e altri storici della Rivoluzione francese, Torino 1948.
Il populismo russo, Torino 1952 (nuova ed. con l’aggiunta di una Introduzione, Torino 1972).
La circolazione delle idee, «Rassegna storica del Risorgimento», aprile-settembre 1954, 2-3, pp. 203-22.
Saggi sull’Europa illuminista, I, Alberto Radicati di Passerano, Torino 1954 (nuova ed. con il titolo Alberto Radicati di Passerano, a cura di S. Berti, Torino 2005).
Il moto decabrista e i fratelli Poggio, Torino 1956.
Illuministi italiani, 3° vol., Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1958; 5° vol., Riformatori napoletani, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli 1962; 7° vol., Riformatori delle antiche repubbliche, dei ducati, dello Stato pontificio e delle isole, a cura di G. Giarrizzo, G. Torcellan, F. Venturi, Milano-Napoli 1965.
Esuli russi in Piemonte dopo il ’48, Torino 1959.
C. Beccaria, Dei delitti e delle pene. Con una raccolta di lettere e documenti relativi alla nascita dell’opera e alla sua fortuna nell’Europa del Settecento, a cura di F. Venturi, Torino 1965.
Historiens du XXe siècle. Jaurès, Salvemini, Namier, Maturi, Tarle et Discussion entre historiens italiens et soviétiques, Genéve 1966.
Settecento riformatore, 1° vol., Da Muratori a Beccaria, Torino 1969; 2° vol., La chiesa e la repubblica dentro i loro limiti (1758-1774), Torino 1976; 3° vol., La prima crisi dell’Antico Regime (1768-1776), Torino 1979; 4° vol., La caduta dell’Antico Regime (1776-1789), t. 1, I grandi Stati dell’Occidente, t. 2, Il patriottismo repubblicano e i grandi imperi dell’Est, Torino 1984 (trad. inglese, Princeton 1989-1991); 5° vol., L’Italia dei lumi (1764-1790), t. 1, La rivoluzione di Corsica. Le grandi carestie degli anni Sessanta. La Lombardia delle riforme, t. 2 La Repubblica di Venezia (1761-1797), Torino 1987-1990.
Utopia e riforma nell’illuminismo, Torino 1970 (trad. ingl., Cambridge 1971).
L’Italia fuori d’Italia, in Storia d’Italia, 3° vol., Dal primo Settecento all’Unità, Torino 1973, pp. 987-1481.
Raccolte dei suoi scritti pubblicate dopo la sua scomparsa:
La lotta per la libertà. Scritti politici, a cura di L. Casalino, Torino 1996.
Saggi preparatori per Settecento riformatore, con una nota introduttiva di E. Gabba e A. Venturi, «Atti della Accademia nazionale dei Lincei. Memorie», s. IX, 2002, 14, 2, pp. 41-183.
Pagine repubblicane, a cura di M. Albertone, Torino 2004.
La vastissima corrispondenza di Franco Venturi è stata parzialmente pubblicata in varie sedi. Le più ricche sono:
L. Valiani, F. Venturi, Lettere (1943-1979), a cura di E. Tortarolo, introduzione di G. Vaccarino, Scandicci 1999.
Il carteggio Venturi-Cantimori dal 1945 al 1955, in G. Imbruglia, Illuminismo e storicismo nella storiografia italiana. In appendice il carteggio Venturi-Cantimori dal 1945 al 1955, Napoli 2003, pp. 361-478.
F. Venturi, Lettere da Mosca [a cura di A. Viarengo], in Franco Venturi e la Russia, con documenti inediti, a cura di A. Venturi, Milano 2004, pp. 27-130.
B. Croce, F. Venturi, Carteggio, a cura di S. Berti, Napoli-Bologna 2008.
A. Galante Garrone, F. Venturi, «La logica dell’amicizia e della ricerca storica convergono». Corrispondenza, 1947-1985, in A. Galante Garrone, F. Venturi, Vivere eguali. Dialoghi inediti intorno a Filippo Buonarroti, a cura di M. Albertone, Reggio Emilia 2009, pp. 129-72.
Numerosissimi sono stati i saggi su Venturi. Molti sono raccolti negli Atti di tre significativi convegni di studio:
Il coraggio della ragione. Franco Venturi intellettuale e storico cosmopolita, a cura di L. Guerci, G. Ricuperati, Torino 1998.
Franco Venturi e la Russia, con documenti inediti, a cura di A. Venturi, Milano 2004.
Il repubblicanesimo moderno. L’idea di repubblica nella riflessione storica di Franco Venturi, a cura di M. Albertone, Napoli 2006.
A Franco Venturi. Politica e storia, è stato dedicato il fasc. 2-3, maggio-dicembre 1996, della «Rivista storica italiana».
L’attività politica di Venturi è illustrata in L. Casalino, Influire in un mondo ostile. Biografia politica di Franco Venturi (1931-1956), Aosta 2006.
Furio Diaz (Livorno 1916-ivi 2011), dopo una formazione filosofica e dopo essere stato assistente a Pisa di Guido Calogero (1904-1986), passò all’insegnamento della storia e della filosofia nei licei. Militante antifascista, fu sindaco di Livorno nell’immediato secondo dopoguerra (1944-54); nel 1957, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria (1956), uscì dal Partito comunista italiano, riprendendo gli studi storici come libero docente di filosofia della storia presso l’ateneo pisano. Nel 1959 entrò nella direzione della «Rivista storica italiana»; molto legato a Franco Venturi, al quale lo accomunava una metodologia simile nell’impostare la ricerca storica, Diaz collaborò attivamente alla rivista diretta dallo stesso Venturi, intervenendo con numerosi articoli (alcuni dei quali sarebbero stati raccolti in Per una storia illuministica, 1973) e recensioni.
Nel corso degli anni Sessanta si stabilizzò la sua posizione di docente all’Università di Pisa: nominato professore incaricato nel 1963, divenne ordinario nel 1966 nella facoltà di Scienze politiche, dove insegnò sino al 1975-76. Alcuni anni prima (1968), divenne docente di storia alla Normale di Pisa.
Il campo di ricerca privilegiato dallo storico livornese fu il Settecento e, in particolare, la storia della Francia, della Toscana (di cui tracciò un ampio profilo storico in Il granducato di Toscana, 1° vol., I Medici, 1976; 2° vol., con L. Mascilli Migliorini e C. Mangio, I Lorena: dalla reggenza agli anni rivoluzionari, 1997) e dell’Illuminismo. La sua attenzione verso le tematiche illuministiche risaliva almeno agli anni Quaranta quando, sul periodico «Rinascita», pubblicò diversi articoli tra cui quello del 1949 con un titolo dal forte sapore voltairiano «Ecrasez l’infâme», nelle cui pagine Diaz sottolineò che l’antilluminismo si prefigurava come il lascito teorico dell’idealismo storicistico italiano. Uno dei frutti conclusivi di questa lunga e intensa stagione di riflessione teorica sul significato politico e sociale dell’Illuminismo – che aveva visto Diaz entrare in polemica con Cesare Luporini (1909-1993), Ernesto Sestan, Giorgio Falco e talora con lo stesso Venturi, studiosi accomunati, secondo il suo parere, da una tendenza idealistica di stampo crociano –, era stato il volume Voltaire storico (1958). In questa monografia Diaz esaminò «i nodi fondamentali della concezione storica illuministica e, in particolare […] il problema […] del rapporto tra ispirazione politica e ricostruzione storiografica» (M. Simonetto, Riletture illuministiche: Furio Diaz, «Studi storici», 2009, 2, p. 428). Passando al setaccio l’intera opera storica, e non solo, di Voltaire Diaz ravvisò nel Siècle de Louis XIV (1752) un’interpretazione razionale del progresso, mentre nell’Essai sur les mœurs (1756) individuò l’armamentario teorico attraverso cui Voltaire avrebbe condotto la sua lotta in difesa della libertà e della tolleranza. Pochi anni dopo lo sguardo dello storico livornese assunse una prospettiva più ampia dando alle stampe Filosofia e politica nel Settecento francese (1962), in cui offrì un quadro organico e omogeneo dei rapporti tra la cultura e la politica nella Francia della seconda metà del 18° sec. circa. Ponendo il pensiero illuministico al centro della propria analisi, Diaz giunse alla conclusione che l’efficacia politica della philosophie era stata fondamentalmente irrilevante.
In un altro suo testo di notevole rilievo, Dal movimento dei lumi al movimento dei popoli (1986), affrontò il problema della rappresentanza, ritenendo che Montesquieu, sostenitore del rafforzamento del potere dei corpi intermedi, aveva portato avanti un progetto di conservazione illuminata.