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MALHERBE, François de

di Diego Valeri - Enciclopedia Italiana (1934)
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MALHERBE, François de

Diego Valeri

Poeta e grammatico francese, nato a Caen, in Nomiandia, nel 1555, morto a Parigi il 16 ottobre 1628. Il padre, magistrato per tradizione di famiglia, s'era fatto protestante nel 1541, e protestanti furono quattro degli otto fratelli del poeta; ma egli, ch'era il primogenito, restò cattolico. Nel 1576 seguì in Provenza, come segretario, il duca d'Angoulême, governatore di quella regione. Quando il duca fu ucciso in duello da Filippo Altoviti (1586), egli ritornò in Normandia, e là trascorse alcuni anni in condizioni economiche disagiate. Aveva sposato nel 1581 la figlia d'un magistrato di Provenza, Madeleine de Coriolis, già due volte vedova, e ne aveva avuto tre figli; i quali gli premorirono tutti. Trasferitosi nuovamente in Provenza (1595), poté presentare (1600) in Aix, a Maria de' Medici, una sua ode (À la Reine, sur sa bienvenue en France), che gli procurò subito una bella rinomanza e fu considerata in seguito il primo monumento della nuova poesia francese. Nel 1605, presentato dal cardinale J. du Perron, entrava a corte come scudiere e gentiluomo ordinario di camera del re Enrico IV; e da allora tenne fissa dimora in Parigi. Godette della protezione e della liberalità di Maria de' Medici, reggente, e di Luigi XIII; da Richelieu fu creato tesoriere di Francia. Grande dolore ebbe a soffrire per l'uccisione in duello d'un suo figlio (1626); perseguì con implacabile energia gli uccisori, ma non poté riaversi dal colpo. Due anni dopo la morte del M., i suoi amici pubblicarono la prima edizione delle opere, seguita da una seconda nel 1631, e da una terza nel 1635. Del 1638 è l'edizione delle a Œvres complètes (l'edizione moderna e quella di L. Lalanne, nei Grands Écrivains, Parigi 1862-69).

Il M. ha valore e importanza soprattutto come riformatore della lingua e della tecnica poetica. In materia di lingua, egli condannava la licenziosa e confusa abbondanza degli epigoni della Pléiade; esigeva la purezza, la proprietà, la nobiltà delle espressioni, un rigoroso ordine sintattico, una composizione netta ed equilibrata. Gli arcaismi, gl'idiotismi, i neologismi, di cui s'erano compiaciuti i seguaci del Ronsard nell'illusione di arricchire il patrimonio linguistico, dovevano essere eliminati come inutile ingombro; e così i termini tecnici, le parole pedantescamente composte o derivate, e quelle di bassa estrazione, "plébées". Regola fondamentale del linguaggio è l'uso della corte, la quale elabora e raffina, spontaneamente, senza snaturarlo, il materiale offerto dal popolo di Parigi. Con questo criterio, il M. non ha incertezze nel riformare la lingua letteraria del suo tempo, sull'autorità dell'esempio vivo. La sua reazione alla Pléiade non porta alla restaurazione del linguaggio del primo Cinquecento, bensì alla discriminazione nel linguaggio presente di ciò che il popolo e la corte avevano conservato e assunto da ciò che avevano lasciato cadere. Le innovazioni della Pléiade non erano rinnegate in blocco, ma passate al vaglio dell'uso a una a una. Il risultato di quest'operazione è un linguaggio nudo, agile, senza pompe inutili, senza equivoci e controsensi: un linguaggio già pronto a esprimere il pensiero e il sentimento dei grandi scrittori - non solo poeti, ma anche prosatori - della seconda metà del Seicento.

Quanto alle forme poetiche, il M. si limitò a scegliere nel vastissimo repertorio della Pléiade quelle che meglio si prestavano, per la loro struttura regolare, ad accogliere docilmente un pensiero ben regolato (stanze di quattro o di sei alessandrini; stanze di dieci settenarî o ottosillabi), e s'industriò a perfezionarne il movimento ritmico, stabilendo i riposi interni, proscrivendo gli iati, le cacofonie, gli accavallamenti di un verso sull'altro. La rima doveva esser ricca e difficile, sia per dimostrare l'eccellenza del poeta, sia perché dall'incontro in rima di parole lontane e diverse possono nascere nuovi pensieri. Il merito di queste innovazione gli fu riconosciuto dal Boileau nel primo canto del suo Art Poétique ("Enfin Malherhe vint..."); e il riconoscimento di colui che impersona la coscienza critica del gran secolo ha ricevuto ormai la sanzione della storia. Il M. anticipa veramente la poesia classica della Francia; primo, anche se altri, come il Desportes e il Bertaut, già avevano reagito, sul finire del Cinquecento, alla moda poetica della Pléiade, semplificando, con intenzioni classiche, il vocabolario e le forme metriche. C'è in lui una sicurezza d'orientamento, una convinzione ostinata, un'attitudine a teorizzare, un vigore polemico, che quei predecessori non hanno. Egli è veramente il "tyran des mots et des syllabes", di cui parla Guez de Balzac (v.), e di cui la lingua e la poesia francese avevano assoluto bisogno per uscire dai contrasti e dalle contraddizioni del Cinquecento, ed entrare nel lucido ordine della letteratura classica.

Quel che sia e valga il M. come poeta è problema secondario. Già il Boileau e il La Bruyère lo posponevano, come cemperamento poeiico, al Ronsard; ed è inoppugnabile sentenza della critica moderna che ìl provvidenziale pedagogo era pressoché destituito di fantasia, di pensieri originali, e (nell'opera poetica, non nella vita) di sentimento. Cominciò con una brillante traduzione delle Lacrime di San Pietro del Tansillo (Les Larmes de Saint Pierre, 1587), seguendo la voga italianistica del secolo e particolarmente l'esempio del Desportes; nella famosa Consolation à Du Perier (1599) e nella citata ode a Maria de' Medici mostrò un gusto più personale, tendente alla sobrietà e alla nettezza; ma solo più tardi apparvero qua e là, nelle sue odi, tecnicamente perfette, certi tratti di forza orgogliosa che sono propriamente suoi e costituiscono tutto il suo bene di poeta. Del resto, la sua stessa poetica lo allontanava dalla poesia personale ed intima, volgendolo a temi d'interesse generale e legandolo alla catena del luogo comune.

Bibl.: Ch.-A. Sainte-Beuve, Tableau de la poésie franç. au XVIes., Parigi 1843; id., Causeries du lundi, VIII, 1855; G. Allais, M., Parigi 1891; F. Brunot, La doctr. del M., Parigi 1891; L. Arnoud, Anecdotes inéd. sur M., Parigi 1892; Duc de Broglie, M., Parigi 1897; E. Bini, Di un poemetto giovanile di F. de M. (Les larmes de Saint Pierre), Pisa 1903; A. Counson, M. et ses sources, Liegi 1904.

Vedi anche
Jean-Louis Guez de Balzac Balzac ‹balʃàk›, Jean-Louis Guez de. - Scrittore francese (Angoulême 1595 - ivi 1654). Integrò per la prosa la riforma letteraria operata nella poesia dal Malherbe, mirando all'ordine e alla chiarezza. Arbitro del gusto fino alla metà del Seicento, fece parte dell'Accademia francese dalla fondazione ... Pierre de Ronsard Ronsard ‹rõsàar›, Pierre de. - Poeta francese (castello della Possonnière, Vendôme, 1524 - Saint-Cosme-en-l'Isle, Tours, 1585). Fu il fondatore e capo riconosciuto della scuola poetica della Pléiade. La necessità di esprimere un'ampia varietà di temi e d'accenti portò Ronsard, Pierre de a rinnovare il ... Joachim du Bellay Poeta francese (Castello della Turmelière, presso Liré, 1522 - Parigi 1560). Con P. de Ronsard e Bellay, Joachim du-A. de Baïf costituì nel Collège de Coqueret il primo nucleo della "Pléiade", e per la riforma classicistica, cui il gruppo mirava, egli stese (1549) il manifesto, Deffence et illustration ... Jean de La Fontaine La Fontaine ‹la fõtèen›, Jean de. - Poeta e favolista francese (Château-Thierry, Champagne, 1621 - Parigi 1695). È ricordato soprattutto per le Favole (1668-94); ispirate di frequente da quelle di Esopo e di Fedro e caratterizzate da uno stile preciso e nitido, esse - spesso chiuse da un'esplicita morale ...
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    Poeta e critico francese (Caen 1555 - Parigi 1628). Dopo aver studiato giurisprudenza in Francia e in Germania, si pose al servizio del duca d'Angoulême (1576), trasferendosi a Aix, dove si legò a magistrati umanisti. Nel 1605 divenne poeta di corte. La sua opera non è copiosa: il poemetto, poi rinnegato, ...
Vocabolario
de
de 〈dé〉 prep. [lat. de]. – Forma che assume la prep. di quando è seguita dall’articolo, sia che si fonda con questo (del, dello, della, ecc.), sia che si scriva divisa (de ’l, de lo, de la, ecc.) come talvolta nell’uso letter. (è comune,...
de auditu
de auditu locuz. lat. – Espressione corrispondente all’ital. «per sentito dire»: riferire de auditu. Anche, «per avere udito direttamente», nell’espessione giuridica testimone de visu et de auditu (v. de visu).
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