RABELAIS, François
Nato nel 1494, o poco prima, nel territorio di Chinon (in Turenna), probabilmente alla Devinière, casa di campagna della sua famiglia, compì almeno una parte dei suoi studî ad Angers. Le prime notizie sicure della sua biografia ce lo presentano, alla data del 4 marzo 1521, frate francescano nell'abbazia di Fontenay-le-Comte nel Poitou; ma era già in corrispondenza col grande umanista Guillaume Budé e fornito di buona cultura latina e greca; partecipava alle dotte riunioni di uomini di toga, fra i quali André Tiraqueau, che gli si legò di lunga amicizia. Dai francescani, passò a un ordine che aveva migliori tradizioni di studio, entrando nel convento benedettino di Saint-Pierre di Maillezais, di cui era abate Geoffroy d'Estissac, prelato di grande ingegno e autorità, che fece del R. il suo segretario. Al seguito dell'Estissac, ebbe anche modo di viaggiare; abitò a lungo nel priorato di Ligugé, presso Poitiers, e vi frequentò uno dei "grands rhétoriqueurs", Jean Bouchet, al quale rivolse un'epistola in versi, "traictant des ymaginations qu'on peut avoir attendant la chose désirée". Fra il 1528 e il 1530, si dovette procurare dei centri universitarî, compreso quello di Parigi, la conoscenza diretta che si rivelerà ben presto nelle pagine del Pantagruel; il 17 settembre 1530 s'immatricolava studente alla facoltà di medicina di Montpellier, e conseguiva dopo soli tre mesi il grado di baccelliere; presso quell'università commentò dalla cattedra i libri d'Ippocrate e di Galeno, nel testo greco. Nella primavera del 1532 era a Lione, e vi pubblicava nel giugno, per le stampe del Grifio, le lettere latine del medico Giovanni Manardi da Ferrara; indi curò un'edizione degli Aforismi d'Ippocrate e dell'apocrifo Testamento di Cuspidio. Eletto il 1° novembre medico dell'ospedale di NotreDame-de-Pitié, si mescolò alla vita intellettuale, allora assai fervida in Lione, conobbe Étienne Dolet, Mellin de Saint-Gelais e altri studiosi e poeti; affrontò egli stesso la letteratura, con un ardore giocondo, e alla fine di quell'anno operoso presentava al pubblico, sotto l'anagramma di Alcofribas Nasier, Les Horribles et espovantables faitz et prouesses du très renommé Pantagruel, roy des Dipsodes, cioè il primo libro del suo romanzo, che diverrà più tardi il secondo, in quanto che il successo del Pantagruel lo indusse a scrivere poco dopo La vie très horrificque du grand Gargantua, cioè del padre di Pantagruel: la cosa si spiega perché il R. aveva preso lo spunto burlesco della sua storia in un libretto popolare, le Grandes Cronicques du grand et énorme géant Gargantua, che narravano le ridicole prodezze di un gigante leggendario: il Pantagruel n'era in certo modo il seguito; ma, dopo aver dato all'opera sua un tono ben diverso, una levatura e un'originalità, che venne subito compresa e applaudita (sì che il R. preparò in breve, per sfruttare il successo, una Pantagrueline Prognostication... pour l'an Mil DXXXII), gli parve giusto di sostituire al grossolano racconto delle Grandes Cronicques un suo proprio Gargantua, che fosse l'inizio più degno e coerente della sua impresa di scrittore. Il Gargantua uscì per le stampe nell'autunno del 1534; frattanto, il R. aveva compiuto un viaggio a Roma, fra il gennaio e l'aprile di quell'anno, al seguito del vescovo di Parigi, Jean Du Bellay: in Italia, s'occupò di botanica e d'archeologia, abbozzando una topografia di Roma antica, a cui rinunciò per dare un'edizione lionese della Topographia di Bartolomeo Marliani. L'università di Parigi aveva condannato il Pantagruel come libro immorale; il Gargantua apparve mentre i contrasti religiosi erano più acuti e violenti, sì che il R., indiziato come spirito troppo libero, e compromesso dalle sue relazioni personali con alcuni protestanti, si allontanò da Lione nel febbraio del 1535 e fece smarrire per qualche tempo le sue tracce. Ma, protetto dal Du Bellay, ora cardinale, il quale ripartiva per Roma, il R. era per la seconda volta al suo seguito fra il 1535 e il 1536: del nuovo soggiorno romano approfittò per ottenere l'assoluzione della sua "apostasia", cioè dell'abbandono dell'abito monastico; di ritorno in Francia, il cardinale gli largiva un canonicato nell'abbazia di Saint-Maur-les-Fossés presso Parigi. Nel 1537, il R. conseguì a Montpellier il dottorato in medicina, e riprese a esercitarla a Lione; l'anno seguente, compreso nel seguito di Francesco I, assisteva all'incontro del re con Carlo V ad Aigues-Mortes. Quale medico di Guillaume Du Bellay signore di Langey, che assumeva in quel tempo il governo del Piemonte, soggiornò in due riprese a Torino fra il 1539 e il 1542; morti, a breve distanza l'uno dall'altro, due fra i suoi protettori, il signore di Langey e Geoffroy d'Estissac, il R. dovette cercare qualche appoggio nell'orbita della corte: sappiamo che gli fu conferito, se non altro, il titolo di "maître des requêtes du Roi". Nella primavera del 1546 pubblicò Le tiers livre des faicts et dicts héroïques du bon Pantagruel, che fu condannato dalla Sorbona; R. riparò a Metz, cioè fuori del regno di Francia, e fu assunto come segretario del comune; sul principio del 1548 veniva in luce a Lione un'edizione parziale del Quart livre. Il cardinale Du Bellay richiamò presso di sé il suo medico per un altro viaggio in Italia, e fra il 1548 e il 1549 il R. faceva il suo terzo, ed ultimo, soggiorno a Roma. Le Quart livre des faicts et dicts héroïques du noble Pantagruel usciva completo nel febbraio 1552: scritto mentre il nuovo re di Francia, Enrico II, era in aperto conflitto con la Santa Sede, esso contiene più di un tratto satirico assai violento contro la Chiesa: ciò che provocò la sua interdizione da parte dei teologi parigini. Il cardinale Du Bellay lo protesse tuttavia, e gli assegnò nuovi benefici; da uno di essi (il reddito della parrocchia di S. Martino, a Meudon, nella diocesi di Parigi) proviene il titolo di "curato di Meudon" che la tradizione tenne vivo accanto al nome del R., sebbene questi non abbia mai atteso alle sue funzioni e non abbia neppure preso dimora a Meudon. L'ultimo documento sicuro della sua vita è la dimissione delle due cure di Saint-Martin di Meudon e di Saint-Christophe-du-Jambet (nella diocesi del Mans), alla data del 9 gennaio 1553; il i° maggio 1554 non era più di questo mondo: e i suoi biografi, sulla fede di attestazioni piuttosto tardive, ma crèdibili, accettano come data approssimativa della morte i primi giorni d'aprile del 1553. Della sua vita privata non sappiamo quasi nulla, se non che, intorno al 1540, gli moriva, a due anni, un figlio naturale, di nome Teodulo, che aveva avuto a Lione.
Gli scritti minori del R. comprendono, oltre la già citata Pantagrueline Prognostication (vaticinio burlesco per l'anno 1533, in cui si annunziano come prodigi le cose più naturali del mondo, che i ciechi non vedranno né i sordi udiranno, e nell'estate farà caldo, e freddo nell'inverno, ecc.) una serie d'almanacchi di cui non ci restano che i frammenti per gli anni 1533, 1535 e 1541; un gruppo di lettere, fra le quali importanti quelle scritte da Roma nel 1535-36, e la Sciomachie, descrizione di una festa, a guisa di battaglia, offerta al popolo romano dal cardinale Du Bellay nel marzo 1549 in occasione della nascita del duca d'Orléans, figlio di Enrico II. Fra le poche rime attribuite al R., è senza alcun dubbio sua l'epistola al Bouchet; apocrifa, invece, sembra l'Epistre du Lymosin de Pantagruel (cioè dello studente limosino, che "scorticava" la lingua latina in un gergo pedantesco, Pantagr., cap. 6°), che fu pubblicata per la prima volta nell'edizione lionese del 1558.
Dopo la morte del R., nel 1562, vennero in luce sotto il suo nome, e col titolo L'Isle Sonante, i primi sedici capitoli di un ultimo libro dell'opera iniziata nel 1532: libro che apparve poi intero nel 1564 (Le cinquiesme et dernier livre des faicts et dictz heroïques du bon Pantagruel). L'autenticità ne fu, ed è ancor oggi, contestata; tanto più che altre operette, certamente non sue, gli venivano nello stesso tempo attribuite da editori poco scrupolosi: così, Les songes drolatiques de Pantagruel, où sont contenues plusieurs figures de l'invention de maistre François Rabelais et dernière øuvre d'iceluy pour la récréation des beaux espritz (raccolta di disegni grotteschi, senza un nesso reale col romanzo del R.) e Le Cresme philosophale des questions enciclopédiques de Pantagruel (in appendice all'edizione dei cinque libri, Lione 1567). Il "Quinto libro" contiene qualche accenno ad avvenimenti posteriori alla morte del R.: ciò che basta a dimostrare l'intervento di una mano estranea; la satira antipapale, e anticattolica, rivela un'acrimonia ingiuriosa, a cui il R., nelle sue pagine più audaci, non era giunto; d'altra parte, la composizione generale, lo stile colorito e, convien dire, rablesiano, di alcune parti, soprattutto l'uso di certe fonti, ad es., il Sogno di Polifilo, ch'erano familiari al R. (come risulta dai libri certamente suoi), lasciano supporre che la trama del lavoro fosse già disposta e in più luoghi intessuta dal R. stesso, e che altri, dopo la sua morte, abbia riveduto e rimaneggiato il suo manoscritto con l'intenzione di giovare al partito protestante.
Vissuto in un'età di lotte civili e di crisi spirituale, il R., come Margherita d'Angoulême, Clément Marot, e la maggior parte dei letterati francesi della prima metà del sec. XVI, partecipò ad una aspirazione generica verso una riforma religiosa, aspirazione che prendeva le mosse del rinascimento della cultura classica, e dalla conseguente svalutazione di tutto ciò che pareva in ristagno per colpa dell'ignoranza medievale. L'umanesimo francese, che si volse con interesse profondo alle questioni morali, preparava gli spiriti inquieti e accesi di novità ad una considerazione più libera del problema religioso. Il R., che, nel suo naturalismo entusiasta e radicalmente ottimista, non fu mai un nemico della religione, ebbe a temere più volte l'ira dei teologi della Sorbona, e contro di essi non risparmiò i suoi strali; ma in essi combatteva essenzialmente se non unicamente, il formalismo e la pedanteria e la cecità intellettuale dinnanzi alla cultura moderna. Nel suo lungo duello con la Sorbona, il R. che intendeva sostenere le proprie idee, com'egli diceva ironicamente, "fino al rogo escluso", si mostrò molto abile, ricorse in tempo alla protezione di principi e di alti prelati, corresse e temperò le espressioni più ardite dei suoi libri (nell'edizione lionese del 1542 del Gargantua e del Pantagruel). E se, per un verso, i dottori parigini lo sospettavano di eresia, per l'altro, Calvino lo attaccava da Ginevra, e riusciva difficile al R., a quando a quando coinvolto nelle polemiche e nelle persecuzioni, salvare intatto il suo ideale di tolleranza e di umanità. Ma questo fu in lui sincero: monaco dapprima, indi medico, egli rimase per tutta la vita l'uomo appassionato dello studio, della cultura classica, che gli sembrava recare un messaggio di saggezza, derivato dalle forze eterne della natura.
E nella sua visione calda, simpatica, tumultuosa, dell'umanità, nello spirito del Rinascimento, fervido e fiducioso, nel gusto della vita, assaporata in ogni sua espressione, fino alle più volgari, fino alle più basse, si deve cercare l'intimo organismo dell'opera sua, ch'egli incominciò e proseguì senza un disegno preciso, sì da imprimere a ciascuno dei libri che veniva scrivendo e pubblicando un carattere particolare, suggerito volta per volta da una intensa e volubile curiosità del suo ingegno. L'esempio del Pantagruel gli era dato dalle storie popolari di giganti, che piacevano per l'enormità delle figure e le loro strane gesta, all'immaginazione popolare: e la statura gigantesca di Pantagruel, di suo padre Gargantua, di suo nonno Grandgousier, domina infatti i due primi libri e forma la meraviglia e la comicità di varî episodî. Ma a poco a poco, l'elemento psicologico prevale sulla rappresentazione esteriore di quei corpi smisurati, e il suo Pantagruel si fa più simile agli altri uomini, sviluppa la sua indole buona, generosa, la sua intelligenza aperta alle nuove correnti della cultura e della scienza.
Nel disegnare il gruppo di Pantagruel e dei suoi compagni (Panurge, Epistémon, Eusthènes, Carpalim), quale ci appare nel 2° libro, che in realtà fu il primo, il R. ebbe presenti le Maccheronee di Teofilo Folengo, in cui il gigantesco Baldus ha d'intorno a sé Cingar, Fracasso e Falchetto: e nel Pantagruel noi assistiamo all'educazione del principe gigante (il cui nome deriva da quello di un diavoletto che spargeva il sale in gola alla gente per assetarla), alle sue peregrinazioni attraverso le università francesi, fin che viene a Parigi, dove incontra Panurge, e poi alla guerra ch'egli conduce contro i Dipsodi, che avevano invaso le terre di Gargantua. Pantagruel, coadiuvato dai compagni, sconfigge i Dipsodi, atterra il loro capitano Loupgarou, e, spodestato il presuntuoso re Anarche, si mostra benevolo col popolo dei vinti. Su questa trama molto semplice, il R. innesta numerosi episodî, che si riferiscono alla vita studentesca parigina e dànno risalto soprattutto alla figura di Panurge, emulo vivacissimo del Cingar folenghiano, astuto, spiritoso, birbante, macchinatore d'ogni sorta di frodi e di beffe. Dopo la battaglia finale, Panurge rappicca la testa ad Epistémon, a cui l'avevano tagliata i nemici, e così il morto risuscitato è in grado di fare ai suoi compagni una descrizione dell'inferno, nella quale il R. s'è ispirato alla satira lucianesca del Menippo.
L'azione del Gargantua offre evidenti analogie con quella del Pantagruel: viene dapprima narrata l'infanzia e l'adolescenza del gigante (e qui il R. pone a contrasto i metodi pedanteschi della scuola medievale di fronte a un'educazione più libera e umanistica, che mira allo sviluppo armonico di tutte le facoltà); anche Gargantua si reca a Parigi (e l'episodio di Janotus de Bragmardo è una derisione dei dottori "sorbonagri"); poi s'impegna una guerra fra il padre di Gargantua e il prepotente re Picrochole, avido di conquiste, privo d'ogni senso di umanità e di giustizia: la guerra, condotta da Gargantua, si svolge su di un terreno che corrisponde esattamente al paese nativo del R., sì che tutto il racconto assume un tono pittoresco e realistico che tempera gustosamente il tema consueto dei romanzi eavallereschi.
Tra i fatti d'arme emerge un nuovo personaggio che si può dire la vera creazione del R. nel Gargantua com'era stato Panurge nel Pantagruel: il frate Jean des Entommeures, coraggioso, schietto, violento, e buono in fondo al cuore. Il R., che aveva fuggito il monastero come un carcere, ha voluto riscattare nel giovine fra' Gianni tutta l'energia e lo squallore della vita claustrale, avvivando quel carattere di un'energia primordiale, semplice e sana. La guerra si conchiude con la sconfitta del bilioso e fastidioso Picrochole, e Gargantua, per premiare il frate, edifica l'abbazia di Thélème, ariosa, doviziosa, dove tutta la regola si riassume nella prescrizione: Fa quel che vuoi.
Al termine del Pantagruel, il R. aveva tracciato un sommario della continuazione che si proponeva di scrivere; ma non ne tenne più conto, e accingendosi al "Terzo libro", mentr'era viva fra i letterati la "querelle des femmes" eioè una disputa accademica pro e contro la donna, immaginò una grande inchiesta di Panurge intorno al matrimonio. Panurge vuole prender moglie, ma non vorrebbe essere tradito; e ricorre ad ogni sorta di consulti (sorti omeriche e virgiliane, interpretazione dei sogni, ecc.); interroga la sibilla di Panzoust, il vecchio poeta Raminagrobis, il teologo Hippotadée, il medico Rondibilis, il filosofo Trouillogan, il giudice Bridoye, il buffone Triboulet. Tutti i responsi gli sono contrarî, ma ogni volta Panurge mette in opera i suoi sofismi per trarre un senso che gli giovi e lo rassicuri; infine delibera di consultare l'oracolo della "Dive Bouteille". Pantagruel acconsente, e tutta la compagnia s'imbarca verso il lontano paese dove ha il suo tempio quella strana deità. Mentre s'apparecchia la nave, il R. trova il modo di esporre un ampio elogio dell'erba chiamata "Pantagruelion", ch'è poi la canapa, umile e preziosa compagna dell'uomo, dalle fasce del neonato fino al sudario che lo ravvolge dopo la morte.
Il "Quarto libro" ha per argomento le navigazioni di Pantagruel; la sede dell'oracolo che interessava tanto Panurge era verso il Catai, e la ricerca del passaggio di nord-ovest (ricerca a cui si doveva la recente scoperta del Canada per opera di Jacques Cartier) occupava la mente dei geografi e degli esploratori. Lungo il viaggio, la nave approda nei paesi più straordinarî: nelle isole di Medamothi, di Ennasin, di Cheli, di Thohu e Bohou. Il R. ha fuso la tradizione dei viaggi fantastici e meravigliosi (a cominciare dalla Vera storia di Luciano) con la satira più vivace delle credenze e dei costumi del suo tempo: così, nel paese di "Procuration", Pantagruel e la sua brigata incontrano gli Chiquanous, la gente che vive dei litigi; e più oltre, l'isola dei "Papefigues" e quella dei "Papimanes", gli uni nemici, gli altri idolatri del papa. Fra i numerosi episodî che variano il racconto della navigazione, sono famosi quello dei montoni di Panurge (ripresa comicissima di un aneddoto delle Maccheronee: Panurge, per vendicarsi di un mercante che l'aveva schernito, compra da lui un montone, indi lo getta in mare, e fa annegare così tutto il gregge che si precipita dietro al montone, e i mercanti e i pastori che cercavano di salvare il gregge), quello della tempesta (che sconvolge di paura l'anima di Panurge, con un mirabile effetto tragicomico), quello curiosissimo (non nuovo, ma rinnovato dalla fantasia del R.) delle parole congelate nell'aria e disciolte al fuoco. Fra le allegorie, di solito assai chiare, di cui il R. ha rivestito le sue concezioni morali, merita specialmente un ricordo quella di Physis ed Antiphisie: egli celebra nella prima, cioè nella Natura, la madre della Bellezza e dell'Armonia; condanna nella seconda ogni forma di superstizione, per sé stessa antinaturale e nociva.
Nell'ultimo libro, postumo, e non tutto, certamente, opera del R., la navigazione di Pantagruel prosegue verso nuove terre; l'isola sonante, per il clamore delle campane, raffigura la chiesa cattolica; l'isola del Guichet, abitata dagli Chats fourrés, è una satira della magistratura. E dopo l'isola degli Apedefti, e il regno della Quintessenza, detta Entelechia, e il paese delle Lanterne, ed altri minori, i viaggiatori raggiungono finalmente il tempio della Diva Bottiglia: li investe e li esalta un soffio dionisiaco, e l'oracolo tanto cercato (che però non è tale da risolvere i dubbî di Panurge) chiude il lungo racconto con il semplice consiglio di bere (Trinch): bere forse anche, oltre che al boccale dell'osteria, alle fonti di una gaia scienza, di cui Pantagruel propagava la sete negli spiriti.
Il libro del R., che vien chiamato di solito un romanzo, raduna una quantità di elementi, non sempre concordi, a volte ancor grezzi, e persino pedanteschi; nell'entusiasmo del sapere antico, l'autore non ha voluto, né potuto, eliminare le scorie della sua dottrina; molta parte ne aggrava le sue stesse burle, nell'illimitata amplificazione di certi giuochi stilistici, che riescono troppe volte, e tanto più ai giorni nostri, di lettura difficile e faticosa. Ma, diffuso, turgido, fangoso qual è per tanta parte, quel libro si è salvato per la foga geniale della fantasia, che ha preso forma in alcune creature spiranti la gioia di vivere; il mondo rablesiano è pervaso di un'energia ilare e fiduciosa. Il R. non sacrifica nulla della realtà che lo interessa; anzi, nel rispecchiarla in sé, par che dilati ogni realtà, e l'impingui, e l'avvivi di colore e di suono. Il suo stile serba la pienezza, l'esuberanza di una pianta spontanea, che non finisca mai di germogliare. La singolarità di quest'opera, proprio alla soglia della moderna prosa francese, che doveva assurgere a modello di chiarezza, di equilibrio ragionato, di vigile misura, spiega le esitanze e le contraddizioni della cririca; l'arte del R. non fu quasi mai considerata nel suo giusto valore, nel suo fervore immaginoso, nella sua forza creativa, ma piacque, o dispiacque, secondo la tempra e le prevenzioni concettuali dei lettori.
In Francia, il R. ebbe una fortuna non mai intermessa, ma assai varia. Da poco egli era morto, e già i suoi compaesani lo figuravano come un gagliardo e ridente ghiottone, come un altro Gargantua; il Ronsard compose un epitaffio burlesco per la tomba dell'instancabile bevitore. Con tale spirito, nel Seicento, ne proseguirono la lettura i libertini, i borghesi ed i poeti curiosi d'un vecchio stile colorito: meno di quanto si creda il Molière, più di tutti il La Fontaine. Il La Bruyère ne lasciò quel classico giudizio, che distingue nella "mostruosa miscela" il diletto della canaglia e la vivanda dei più raffinati. Indi il Fontenelle trasse dall'opera del R. alcuni spunti satirici contro la Chiesa: che fu vezzo comune al Voltaire ed a più altri scrittori del sec. XVIII. Ma con la rivoluzione francese il R. assurge alle altezze di uno spirito profetico, e col Romanticismo la sua gloria par degna di affrontarsi con quella dello Shakespeare: a ciò mira per primo lo Chateaubriand, che nello Shakespeare include tutta l'anima inglese e saluta nel R. il creatore delle lettere francesi. Charles Nodier lo nominò l'"Homère bouffon"; Victor Hugo lo assimilò a Dante e l'esaltò come un "sacerdote del riso", come un veggente e un animatore; il Balzac, che ne imitò studiosamente la lingua e lo stile nei Contes drôlatiques, lo giudicava "il più grande spirito dell'età moderna". Alla trasfigurazione ideale del R. contribuiva una disposizione, già antica, dei suoi interpreti a riconoscere nell'opera sua una quantità di simboli e di significati reconditi: il R. stesso, nel prologo del Gargantua, era ricorso all'immagine dell'"osso midollare", del "sostanzioso midollo" nascosto nei bei libri "de haulte gresse"; e l'edizione variorum, apparsa nel 1823, per cura di É. Johanneau e Esmangart, soffocò ogni pagina del R. sotto un commento arbitrario e fantastico, il quale pretendeva di chiarire le allusioni storiche e le intenzioni allegoriche, per la massima parte inesistenti, dell'autore. La Société des études rabelaisiennes, fondata nel 1903 da Abel Lefranc, Henri Clouzot e Jacques Boulenger, diede valido impulso alle ricerche filologiche, pubblicò una rivista speciale e promosse l'edizione critica, giunta ormai a tutto il "Terzo libro".
La Germania ebbe le traduzioni di J. Fischart (1575: con molte parafrasi e digressioni), di G. Regis (1832), di Gelbcke (1880), Hegaur e Owlglass (1907); uno scrittore noto soltanto con lo pseudonimo di Claudio Gall'Italo pubblicò una traduzione olandese nel 1682. Assai notevole è la versione inglese di Th. Urquhart (1653), condotta a termine, nel 1693-1694, dal Le Motteux; un'altra fu compiuta da W. F. Smith nel 1893. Il Goethe volle dare un seguito alle navigazioni di Pantagruel col Viaggio dei figli di Megaprazon. Numerose reminiscenze del R. s'incontrano nella letteratura inglese (dallo Shakespeare e Thomas Nashe fino allo Sterne e allo Swift).
In Italia, il R. fu pressoché ignorato fino al sec. XIX; gli nocque certamente, in un paese cattolico, la taccia di avere spianato la via agli eretici. La prima traduzione italiana, di Janunculus (G. Perfetto) s'incominciò a pubblicare nel 1886 (ripresa, fino al 3° libro, fra il 1914 e il 1928); una traduzione completa allestì G. Passini per i Classici del ridere (Roma 1925-1930, voll. 6).
Ediz.: Øuvres de F. R., ediz. critica diretta da A. Lefranc: t. I-II, Gargantua, Parigi 1912-1913; III-IV, Pantagruel (1922); V, Tiers livre (1931); Øuvres complètes de R., a cura di J. Plattard, voll. 5, Parigi 1929 (collez. Les Textes français); Øuvres complètes, a cura di J. Boulenger, Parigi 1934 (Bibliothèque de la Pléiade).
Bibl.: P.-P. Plan, Bibliographie rabelaisienne, Parigi 1904; J. Plattard, État présent des études rabelaisiennes, ivi 1927. L apiù larga base d'informazione è data dalla Revue des études rabelaisiennes, voll. 10, 1903-1912 (Tables générales, a cura di E. Clouzot e H. Martin, Parigi 1924), proseguita nella Revue du seizième siècle, che si pubblica tuttora.
Biografia e critica: P. Stapfer, R.: sa personne, son génie, son oeuvre, Parigi 1889 (4ª ediz., 1906); É. Faguet, Seizième siècle, ivi 1894; F. Brunetière, Histoire de la littér. franç. classique, I, ivi 1904; A. Tilley, F. R., Londra 1907; P. Toldo, L'osso midollare del "Pantagruel", in Mem. R. Accademia d. scienze di Bologna, 1914-1915, p. 87 segg.; W. F. Smith, R. in his writings, Cambridge 1918; P. Villey, Les grands écrivains du XVIe siècle, I, Marot et R., Parigi 1923; A. France, Oeuvres complètes, XVII, ivi 1928 (ediz. postuma delle conferenze sul R.); J. Plattard, La vie de F. R., Parigi-Bruxelles 1928 ( in nuova ediz., col titolo F. R., Parigi 1932).
Studî particolari: J. Plattard, L'adolescence de R. en Poitou, Parigi 1923; F. Brémond, R. médecin, voll. 4, ivi 1877-1911; A. Bertrand, R. à Lyon, Lione 1894; A. Heulhard, R., ses voyages en Italie, son exil à Metz, Parigi 1891; E. Gilson, R. franciscain, in Rev. d'histoire franciscaine, I (luglio 1924), riprod. nel vol. Les idées et les lettres, Parigi 1932, p. 197 segg.; A. Lefranc, Les navigations de Pantagruel, ivi 1905; L. Sainéan, Problèmes littéraires du seizième siècle (sull'attribuzione del 5° libro), ivi 1927.
Lingua: L. Sainéan, La langue de R. (t. I, Civilisation de la Renaissance; II, Langue et vocabulaire), Parigi 1922-23; Ed. Huguet, La syntaxe de R. comparée à celle des autres prosateurs de 1450 à 1550, ivi 1894.
Fonti: A. Luzio, Studi folenghiani, Firenze 1899, p. 11 segg.; B. Zumbini, Gli episodi dei montoni e della tempesta presso il Folengo e presso il R., Napoli 1903 (per nozze), riprod. in Studi di letterat. comparata, Bologna 1931, p. 193 segg.; L. Thuasne, Études sur R., Parigi 1904 (Les sources monastiques du roman de R.; R. et Érasme; R et Folengo; R. et Francesco Colonna); J. Plattard, L'oeuvre de R. (Sources, Invention et Composition), Parigi 1910.
Fortuna: J. Boulenger, R. à travers les âges, Parigi 1925; L. Sainéan, L'influence et la réputation de R., ivi 1930; F. Neri, La dubbia fortuna del R. in Italia, in Revue de littér. comparée, XII (1932), p. 577 segg.