principali, frasi
Nell’ambito della frase complessa (costituita cioè da almeno due frasi minori; ➔ frasi nucleari), la frase principale (detta anche, semplicemente, principale; ingl. main clause) è quella che non dipende sintatticamente da nessun’altra (per questa ragione essa è detta anche indipendente). La principale è sottolineata nei casi seguenti:
(1) Giovanni è un bravo scolaro perché si applica
(2) Giovanni va a scuola per imparare
L’indipendenza della frase Giovanni è un bravo scolaro (così come quella di Giovanni va a a scuola) è dovuta alla sua «autonomia sintattica e semantica» (Serianni 19912: 529): essa può fungere anche da frase semplice nucleare, non abbisognando di alcuna aggiunta per formare un enunciato grammaticalmente corretto e dotato di senso. La causale dipendente (➔ causali, frasi) perché si applica e la finale (➔ finali, frasi) per imparare, invece, hanno bisogno di una testa a cui appoggiarsi, e questa testa è costituita proprio dalla principale (Giovanni è un bravo scolaro / Giovanni va a scuola).
Se dunque sono accettabili enunciati come (3) e (4):
(3) Giovanni è un bravo scolaro
(4) Giovanni va a scuola
non si può dire lo stesso di (5) e (6):
(5) *perché si applica
(6) *per imparare
a meno che il contesto del discorso non consenta di supporre l’➔ellissi contestuale di una principale, come nel caso di un dialogo botta e risposta:
(7) – perché Giovanni è un bravo scolaro?
– [Giovanni è un bravo scolaro] perché si applica
(8) – perché Giovanni va a scuola?
– [va a scuola / ci va] per imparare
L’autonomia tipica di una principale è soprattutto sintattica; da un punto di vista semantico, è possibile infatti che la compiutezza dell’enunciato richieda l’apporto di una frase argomentale; si consideri (9):
(9) Giovanni sa che imparare è importante per il suo futuro
Come è evidente, Giovanni sa, pur essendo grammaticalmente corretta, non costituisce da sola un enunciato dotato di senso; la lacuna è colmata dalla completiva che imparare è importante per il suo futuro.
È possibile vedere la frase principale come il nucleo di un enunciato che, attraverso l’aggiunta di altre frasi (chiamate tecnicamente espansioni), dà luogo a una frase complessa (chiamata tradizionalmente periodo; ➔ sintassi). Non necessariamente queste espansioni seguono i meccanismi della subordinazione (➔ subordinate, frasi), cioè della dipendenza sintattica dalla principale; a quest’ultima è altresì possibile coordinare altre frasi, sintatticamente dotate della medesima indipendenza (➔ paratassi):
(10) Giovanni studia ma lo fa controvoglia
(11) Giovanni va a scuola per imparare e studia con impegno perché sa che sarà importante per il suo futuro
L’enunciato (10) è formato da due principali coordinate per mezzo della congiunzione avversativa ma; in (11) è la congiunzione copulativa e a coordinare le due principali, ciascuna delle quali regge a sua volta una subordinata (rispettivamente finale e causale).
Benché si tenda a usare i due termini come sinonimi, non è inutile precisare una differenza fondamentale fra il concetto di principale e quello di reggente (detta anche, meno spesso, sovraordinata o matrice), etichetta che qualifica una qualsiasi frase che ne regga un’altra (Serianni 19912: 531), indipendentemente dal proprio status di principale o secondaria.
Nell’esempio seguente:
(12) Giovanni va a scuola per imparare cose che gli saranno utili da grande
la frase per imparare cose è sovraordinata alla frase che gli saranno utili da grande, ed è pertanto reggente di una relativa, ma essa è a sua volta subordinata alla principale (Giovanni va a scuola).
Le frasi principali possono essere classificate secondo l’atto linguistico che codificano (➔ illocutivi, tipi; ➔ pragmatica). Che costituisca da sola una frase semplice o che faccia parte di una struttura complessa, di solito è infatti la principale a proiettare la propria forza illocutiva sull’intero enunciato, definendo il tipo di atto prodotto da quest’ultimo; siccome le subordinate sono di per sé prive di forza illocutiva, è nella scelta delle forme della principale che si gioca l’attuazione del fine comunicativo desiderato.
Molteplici possono essere le strade che conducono a ciascuno di questi obiettivi; fra gli strumenti a disposizione dei parlanti si possono menzionare i cosiddetti tipi sintattici di frase (Favre 2001: 41 segg.): modelli definiti dalla presenza, nella proposizione principale, di elementi (grammaticali, lessicali, intonazionali) ricorrenti, ai quali sono associati valori semantici e pragmatici codificati.
Gran parte delle frasi principali appartiene al tipo sintattico dichiarativo, che potremmo definire non marcato (➔ ordine degli elementi):
(13) L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro (Costituzione della Repubblica Italiana, art. 1, comma 1)
Il tipo interrogativo è usato per formulare una domanda. Queste frasi sono quelle chiamate ➔ interrogative dirette:
(14) Che fai, tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai,
silenziosa luna? (Giacomo Leopardi, “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, in Id., Opere, a cura di S. Solmi, Milano-Napoli 1956, p. 103)
La frase ottativa esprime un desiderio, segnalato dal modo verbale (per lo più il congiuntivo) o da particolari marche lessicali (avverbi come magari, almeno; ➔ modalità):
(15) Vedrai Malta, dove tuo zio bestione andò a rovinarsi. Magari potessi venirci anch’io! (Luigi Pirandello, Lontano, in Id., Novelle per un anno, vol. V, Firenze 1923, p. 166)
Ciò che caratterizza la frase esclamativa (➔ esclamative, formule) è essenzialmente il contorno intonativo (➔ curva melodica), che qualifica come inatteso l’intero contenuto proposizionale oppure un suo specifico costituente:
(16)
a. dopo averla tanto attesa, oggi rivedrò mia moglie [frase dichiarativa]
b. dopo averla tanto attesa, oggi rivedrò mia moglie! [frase esclamativa]
La frase iussiva esprime un’esortazione, un ordine, un consiglio, un precetto, una preghiera, un permesso, un’istruzione, ecc.:
(17) Non arrendetevi mai – predicava – stringete i denti e andate avanti qualsiasi cosa vi accada («La Gazzetta dello sport» 30 gennaio 2004)
(18) Padre nostro, che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome
(19) Se vuoi venire vieni pure ma puoi aspettare, se ti fa comodo, anche a giovedì mattina perché fino allora non si andrà in macchina (da una lettera di Giovanni Papini ad Ardengo Soffici del 30 settembre 1913, in Carteggio Giovanni Papini - Ardengo Soffici, a cura di M. Richter, vol. II, Roma 1999, p. 369)
Il modo verbale tipico delle frasi iussive è l’➔imperativo, le cui forme mancanti sono supplite dal ➔ congiuntivo. Nel caso in cui l’atto linguistico sia rivolto a un «esecutore generico» (Salvi & Borgato 2001: 153) è possibile trovare il verbo all’➔infinito (cfr. § 3.1).
La frase dichiarativa produce enunciati constativi, non modalizzati e non associati a un atto linguistico particolare. Questo carattere neutro rispetto alla modalità rende il tipo sintattico dichiarativo adatto alle più svariate esigenze comunicative, permettendogli di sostituirsi agli altri tipi nel compimento di atti linguistici diversi dalla semplice asserzione o negazione: è infatti possibile riformulare le frasi interrogative (14), iussive (17) e ottative (15) come subordinate rette da verbi interrogativi, iussivi o di desiderio:
(20) ti chiedo cosa fai nel cielo → chiedo alla luna cosa faccia nel cielo
(21) vi esorto a non arrendervi mai, a stringere i denti e ad andare avanti qualsiasi cosa vi accada
(22) vorrei poter venire anch’io a Malta
Meno codificato è il valore delle frasi esclamative che, come si è visto, si distinguono essenzialmente per motivi di intonazione. È il contesto a sciogliere il significato dell’esclamazione, permettendo la riformulazione della frase più opportuna:
(23)
a. oggi rivedrò mia moglie! → oggi rivedrò mia moglie [e ciò mi rende felice] → sono felice di rivedere mia moglie
b. che bocca grande che hai! → hai una bocca molto grande
Nelle cosiddette formule illocutive (Favre 2001: 26 segg.; Renzi 2010: 1200 segg.), il verbo illocutivo (si tratta qui di verbi performativi; ➔ verbi) è quasi sempre il verbo della frase principale:
(24) – Ti ordino di rispondere a questa domanda, – le ingiunse con aria torva, quasi la accusasse di un delitto, – piangi per il dolore della mia partenza? (Elsa Morante, L’isola di Arturo, in Ead., Opere, vol. I, a cura di C. Cecchi & C. Garboli, Milano 1988, p. 1102)
(25) Si prega di non fumare
A questa prassi non mancano delle eccezioni (cfr. Favre 2001: 38):
(26) Ho il piacere di dare la parola al miglior uomo del nostro partito! («La Repubblica» 15 marzo 2008)
(27) Signor direttore, ci dispiace informarla che nell’ultimo sondaggio odierno lei è sceso al ventunesimo posto della classifica di popolarità nazionale (Stefano Benni, L’ultima lacrima, Milano 1994, p. 146).
Le principali viste finora ruotano attorno a un verbo:
(28) Giovanni è un bravo scolaro (perché si applica)
(29) Giovanni va a scuola (per imparare)
Schematicamente, possiamo definire queste frasi come l’unione di un ➔ sintagma nominale con un ➔ sintagma verbale:
Giovanni è un bravo scolaro
Giovanni va a scuola
(sintagma nominale) (sintagma verbale)
Generalmente il nucleo di queste frasi è un verbo di modo finito: il più delle volte quest’ultimo è coniugato all’indicativo (30); quando il contenuto espresso dalla principale non è reale ma è il frutto, per es., di un’ipotesi, di una speranza (o di un timore) del parlante, è possibile incontrare il congiuntivo (31); il condizionale (32), a sua volta, «implica l’idea di un qualche condizionamento, perlopiù indipendente dalla volontà del soggetto» (Serianni 19912: 324); il modo imperativo è usato nelle frasi iussive (cfr. § 2): esortazioni, ordini, preghiere e minacce (33):
(30) il medioevo è iniziato quando è caduto l’Impero Romano d’Occidente
(31) volesse il cielo ci fosse un complotto («Corriere della sera» 21 ottobre 2006)
(32) mangerei volentieri un kebab
(33) state buoni se potete.
Anche un ➔ infinito può fungere da nucleo della principale (Skytte 1983: 466 segg.; ➔ infinitive, frasi). Il caso più comune è l’infinito come forma suppletiva dell’imperativo negativo di seconda persona:
(34) non fare agli altri ciò che non vuoi venga fatto a te
Meno frequente e di diversa natura è l’infinito come forma imperativa positiva, usato in enunciati rivolti a un interlocutore generico (➔ generico, interlocutore): avvisi, cartelli stradali, foglietti illustrativi di medicinali (35), ricette di cucina (36) e manuali di istruzioni (cfr. Rohlfs 1969: § 705, 87; Herczeg 1972: 568):
(35) Applicare su tutto il piede la crema Akileïne, massaggiare leggermente (dal basso fino all’alto) finché la crema non è penetrata (cit. in Jacqmain 1973: 126)
(36) Lavare le melanzane, tagliarle a dadini e metterle nel colapasta con sale e lasciarle per un’ora (Milka Belgrado Passigli, Nuove ricette di casa mia. La cucina casher in una famiglia ebraica italiana, Firenze 2005, p. 145)
Si può trovare il verbo all’infinito anche in frasi interrogative (37) o esclamative (38):
(37) Dimettermi? Non ne vedo il motivo («La Repubblica» 8 settembre 2004)
(38) E pazienza, cacciar via un uccellino! Ma cacciar via anche lui, buttarlo in mezzo a una strada, con la figlia moribonda ... C’era coscienza? (Luigi Pirandello, Dono della Vergine Maria, in Id., Novelle per un anno, vol. IV, Firenze 1922, p. 130; cit. in Herczeg 1972: 569)
Il costrutto ecco + infinito introduce l’irrompere di una novità e ha carattere narrativo ed emotivo (cfr. Herczeg 1972: 571 e Skytte 1983: 476 segg.):
(39) A dare manforte ai precari ecco giungere anche alcuni studenti («La Repubblica» 2 settembre 2009)
Altri due moduli tipici della narrazione (scritta e parlata) sono (➔ testi narrativi):
(a) l’infinito descrittivo, usato per esprimere il contenuto di azioni abituali (nel qual caso sostituisce l’imperfetto indicativo) oppure senza un riferimento temporale preciso:
(40) Su nel bosco dei castagni, picchi d’accetta; giù nella cava, picchi di piccone.
Mutilare la montagna; atterrare gli alberi, per costruire case (Pirandello, Canta l’epistola, in Id., Novelle per un anno, vol. III, Firenze 1922, p. 18; cit. in Herczeg 1972)
(b) l’infinito narrativo, che designa invece eventi specifici, è generalmente preceduto dalla preposizione a:
(41) Eliminati all’ultimo minuto dal Cska, giocatori e tifosi del Parma si consolarono la domenica successiva addentando panini imbottiti. Di coppa («questa è la sola coppa che ci resta» era il divertente slogan). Preparati dalla curva più calda. E noi tutti a scrivere della felice diversità di Parma, dell’assenza di pressioni feroci («La Repubblica» 10 gennaio 1996)
Nei secoli passati era comune l’uso narrativo dell’infinito senza preposizione, oggi molto raro:
(42) E qui fuggire e sgominarsi i Teucri,
e gli Achivi inseguirli, e via pe’ banchi
delle navi cacciarli in gran tumulto (Omero, Iliade, a cura di V. Monti, introduzione e commento di A. Bruni, Roma 2004, libro XVI, vv. 417-419, p. 639; cit. in Trabalza & Allodoli 19479: 219)
L’uso dell’infinito in sostituzione dei tempi dell’indicativo è un fenomeno che si suole collegare alla diffusione dello ➔ stile nominale, che caratterizza la lingua italiana scritta a partire dalla seconda metà dell’Ottocento (cfr. Herczeg 1967; 1972: 582 segg.), in coincidenza con l’affermarsi delle poetiche naturaliste; non di rado, specialmente presso gli autori influenzati dalla corrente verista (➔ Verga), costruzioni nominali affiancano infiniti narrativi, rispetto ai quali possono costituire elementi di variazione (cfr. picchi d’accetta / di piccone nell’es. 40), oppure vere e proprie riformulazioni sintetiche:
(43) Sette figliuoli? Ma pochi! Dodici, ne voleva. E a mantenerli, si sarebbe ajutato con quel pajo di braccia sole, ma buone, che Dio gli aveva dato. Allegramente, sempre. Lavorare e cantare, tutto a regola d’arte: zappa e canto (Pirandello, La mosca, in Id., Novelle per un anno, vol. V, Firenze 1923, p. 6; cit. in Herczeg 1972: 576)
Frasi principali all’infinito sono tipiche di alcuni tipi testuali (➔ testo, tipi di) che ricorrono spesso allo stile nominale (cfr. § 4): i titoli dei giornali (44) e dei libri (45), la lingua della pubblicità (46); in (47) un costrutto nominale privo di verbo è coordinato a un infinito, nell’espressione proverbiale X anni e non sentirli:
(44) andare a Vancouver restando a casa («La Repubblica» 13 febbraio 2010)
(45) capire le parole (titolo di un libro di Tullio De Mauro, 1994)
(46) olio cuore: mangiar bene per sentirsi in forma (slogan pubblicitario)
(47) quarant’anni e non sentirli («La Stampa» 19 settembre 1996)
Anche la lingua della canzone (➔ canzone popolare e lingua) abbonda di esempi: celeberrimi sono i due infiniti presenti nel ritornello di Nel blu dipinto di blu, brano con il quale Domenico Modugno (autore anche del testo con Franco Migliacci) e Johnny Dorelli vinsero l’edizione del 1958 del Festival di Sanremo:
(48) Volare ... oh oh ... cantare ... oh oh oh oh... nel blu, dipinto di blu, felice di stare lassù.
Sia che contengano verbi di modo finito, sia che questi siano sostituiti da forme infinitive, tutte le principali prese in esame finora hanno come testa una voce verbale.
Non di rado però la predicazione si serve di combinazioni (alternative a quella canonica sintagma nominale + sintagma verbale) che, pur prive di verbo, costituiscono frasi dotate di senso e perfino autonomia sintattica:
(49) aggettivo + sintagma nominale: ottimo quel sushi che abbiamo mangiato ieri!
(50) sintagma nominale + sintagma nominale: mal comune, mezzo gaudio
(51) aggettivo + infinito: difficile ipotizzare che le trattative possano entrare nel vivo prima dell’inizio del prossimo anno («La Repubblica» 23 novembre 2007)
(52) sintagma preposizionale + sintagma nominale: sopra tutto Fernet Branca (slogan pubblicitario)
Queste costruzioni nominali appartengono a categorie testuali diverse fra loro per caratteri e funzioni; le ultime tre, in particolare, fanno largo uso dello stile nominale: i ➔ proverbi (50), l’italiano giornalistico (soprattutto nelle titolazioni; 51) e il linguaggio pubblicitario (52).
L’opinione degli studiosi circa lo status e l’origine dei costrutti nominali italiani non è uniforme; ciò su cui certamente si può concordare è l’impossibilità di ridurre tutti gli enunciati e le costruzioni nominali al fenomeno dell’➔ellissi, caro alla grammatica tradizionale:
(53) Nel gotico francese è molto frequente l’abaco a pianta ottagonale, nell’inglese [è molto frequente] quello a pianta circolare (Gustavo Giovannoni, Abaco, in Enciclopedia Italiana di scienze, lettere ed arti, Roma, 1929-1937, 35 voll., vol. 1°, ad vocem)
Se in (49) e (51) è possibile ripristinare una copula (era ottimo quel sushi che abbiamo mangiato ieri!; è difficile ipotizzare che le trattative possano entrare nel vivo prima dell’inizio del prossimo anno), meno scontata sarebbe un’analoga operazione integrativa in (52) e soprattutto in (55).
Gli esempi (49) e (55) sono frasi a testa nominale; come in una qualsiasi frase complessa, i sintagmi nominali presenti in questi enunciati si comportano analogamente alle proposizioni principali canoniche: (49) e (55) reggono, rispettivamente, una relativa e una completiva, ma potrebbero anche sostenerne l’assenza:
(54) ottimo quel sushi!
(55) difficile ipotizzarlo
Tra le forme ricorrenti di frase (complessa) a testa nominale c’è il costrutto nome o aggettivo + (che) + completiva (all’indicativo o al congiuntivo secondo i casi):
(56) peccato che sia una canaglia (titolo di un film di Alessandro Blasetti, 1954)
(57) che bello che ci vediamo fra meno di ventiquattr’ore!
Che si tratti di unità mono- o polirematiche, queste espressioni nominali agiscono come interiezioni secondarie (➔ interiezione); caratteristica delle interiezioni è quella di sintetizzare in un’unità lessicale un contenuto frasale; è perciò possibile, nell’ambito di quello che si suole definire linguaggio olofrastico, che un’interiezione sostituisca una proposizione principale, non solo come frase semplice, ma anche come testa di una frase complessa:
(58) Accidenti a quando l’ho presa – gridava un signore guardando in cagnesco la sua auto irrimediabilmente ferma – La prossima volta non ci casco più. Questo è l’inferno («La Repubblica» 10 maggio 2002)
(59) Congratulazioni per essere riusciti a portare a termine l’installazione del nuovo sistema Ubuntu! (Jono Bacon et al., Linux Ubuntu. La guida ufficiale, Milano 2008, p. 44)
(60) Mi spiace, grazie per quanto fatto, la Juve sarà sempre la tua casa («La Gazzetta dello sport» 30 gennaio 2010, p. 6)
(61) Guai a lasciarlo cadere [lo scudo], non è massiccio come quello di Farnace e dopo ogni uscita bisogna ri-imballarlo (Alberto Arbasino, Le muse a Los Angeles, Milano 2000, p. 137).
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