Alberigo, Frate
, È un de' tristi de la fredda crosta che prega i due poeti, scambiandoli per dannati, di togliergli dal viso i duri veli, le lacrime congelate, in modo da poter sfogare il dolore che l'opprime (If XXXIII 109-114). Richiesto da D. della sua identità risponde: " I' son frate Alberigo; / i' son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per figo " (vv. 118-120).
È concordemente identificato con A. di Ugolino dei Manfredi da Faenza, che appartenne all'ordine dei cosiddetti ‛ frati gaudenti ' o Cavalieri di Maria Gloriosa, ordine già nominato da D. (If XXIII 103). Suo figlio fu l'Ugolinus Bucciola citato da D. in VE I XIV 3 tra coloro che a proprio [vulgari] poetando divertisse audivimus. La famiglia, forse d'origine tedesca secondo le indagini del Biagioni, fu guelfa per lunga tradizione e contrastò ripetutamente e con alterne vicende il potere alla fazione avversa degli Accarisi; questi nel 1274, forti dell'appoggio dei Lambertazzi cacciati da Bologna, riuscirono a bandirli da Faenza e ne occuparono le case. I Manfredi ripararono in territorio bolognese; i loro ripetuti tentativi di rientro ebbero successo soltanto sei anni dopo, il 13 novembre 1280, per il tradimento del ghibellino Tebaldello dei Zambrasi ch'aprì Faenza quando si dormia (If XXXII 123).
Non è noto l'anno in cui nacque; tuttavia, qualora si accetti senza riserve quanto affermano di lui il Lana e il Buti, che cioè entrò nei Gaudenti " in sua vecchiezza ", e giacché questo non potè avvenire prima del 1261, anno in cui a Bologna fu costituito l'ordine stesso, se ne potrà concludere che, approssimativamente, A. nacque nel secondo decennio del XIII secolo. Non se ne conosce neppure la data di morte, i commentatori non facendone cenno; ma D. con l'aperta meraviglia di trovarlo già in Cocito (" Oh ", diss'io lui, " or se' tu ancor morto? ", If XXXIII 121), e facendo dire ad A. stesso di ignorare come il suo corpo stea / nel mondo sù (v. 122-123), mostra chiaramente che non era ancora avvenuta nell'aprile del 1300.
A. è condannato in Cocito per aver perpetrato col figlio Ugolino e il nipote Francesco la strage della pieve di Cesato: il 2 maggio 1285 furono uccisi a tradimento, al termine di un convito, " Manfredus de Manfredis [cugino di A.] et Albergittus eius filius; et ipsos occiderunt Franciscus filius condam Albergitti de Manfredis [nipote e pupillo di A.] et Ugolinus filius fratris Alberici " (Cantinelli, p. 54).
Causa della strage furono con ogni probabilità ragioni d'interesse. Le ricerche dello Zaccagnini nei Memoriali dell'Archivio Notarile di Bologna hanno appurato che, in affari con lo zio Alberghetto sin dal 1271 (Mem. di Giovanni di Bernardino da Ozzano, f. 173 v°), alla morte di questi (1275) A. assunse la tutela del cugino Francesco ancora minorenne, obbligando l'altro cugino, Manfredi, il quale evidentemente mirava a sostituirglisi e ad entrare in possesso dell'ingente patrimonio ereditato dal giovinetto, a riconoscere la detta tutela con un atto notorio, che venne effettivamente stipulato il 10 aprile 1277 (Mem. di Biagio di Martino de' Martinolli, f. 67 vo). A. difese inoltre il patrimonio anche dalle insidie di altri faentini (cfr. Mem. del 1278 di Iacopino di Pace, f. 141 vo). Sia Benvenuto che il Mittarelli affermano che causa della discordia fu la " cupiditas regnandi " ugualmente presente nei due cugini; non è questa tuttavia affermazione che contraddica quella più comune: il possesso di un patrimonio qual era quello lasciato da Alberghetto Manfredi portava automaticamente con sé la preminenza politica.
Nessun atto notorio poteva tuttavia appianare un contrasto d'interessi tanto eccezionali; sicché, assai probabilmente in occasione di una delle molte liti successive, Manfredi (secondo il Mittarelli fu invece il figlio di lui Alberghetto) " ducto impetu irae, dedit fratri alapam magnam " (Benvenuto). Lo schiaffo suscitò nell'animo di A. un odio mortale; tuttavia " elli fece vista di non curarsi, et fece pace con questi suoi parenti; et quando egli credeano bene che ogni offesa fosse dimenticata… invita questi suoi parenti a mangiare seco " (Anonimo). Secondo il Cantinelli la strage avvenne " in castro Seçatae subtus Faventiam... in domo et castro dicti Francisci ". Il segnale ai sicari fu dato assai probabilmente da A. medesimo, e fu la frase: " Vengano le frutta ", divenuta, secondo il Lana, subito proverbiale quando si intendeva alludere a uccisioni a tradimento (tuttavia i due esempi solitamente addotti dai moderni commentatori a prova della popolarità della frase - il serventese O peregrina Italia citato dal Torraca, e un'invettiva anonima del 1321 contro un podestà delle terre senesi -, sembrano piuttosto echi dell'episodio dantesco e degli antichi commenti relativi a esso; non va comunque sottovalutata l'affermazione del Lana).
L'Anonimo amplia l'episodio con un particolare inteso a sottolineare il carattere crudele e il cinismo del frate: " Uno fanciullino piccolo di questo suo cugino [Manfredi], ch'entrò sotto la cappa sua, non gli dierono; onde poi frate Alberigo riprese questi fanti, dicendo loro: Il tal fanciullo perché campò? Dissono costoro: Perché v'entrò sotto la cappa sua non gli dierono. Onde poi frate Alberigo riprese questi fanti dicendo: Non credevate voi che io avessi denari da rifarne un'altra? ". L'amplificazione dell'Anonimo trova rispondenza nel ritratto che D. ci dà di A., sia facendolo parlare con linguaggio allusivo e irriverente verso sé stesso, il suo peccato e i compagni di pena (qui riprendo dattero per figo, XXXIII 120; Cotal vantaggio ha questa Tolomea, v. 124; son più anni / poscia passati ch'el [Branca Doria] fu sì racchiuso, vv. 137-138); sia accentuando lo sdegno (e cortesia fu lui esser villano, v. 150) che A. gli suscita, e che gli vieta di mantenere la formale promessa di alleviargli per un attimo il tormento delle invetriate lagrime; sia infine suggellando l'episodio con una sorta di epigrafe, ove A. è qualificato come il peggiore spirto di Romagna (v. 154). D. è presente qui in tutta la sua forza morale, ciò che lo rende particolarmente crudele: abbandona A. alla sua pena (E io non gliel'apersi [gli occhi], v. 149) con sincero e feroce disprezzo e col gusto palese di ricambiare un traditore con eguale moneta.
Bibl. - G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in Bologna, in " Giorn. stor. " LXIV (1914) 14-19; L. Biagioni, Frate Alberigo dei Manfredi..., in " Deutsches Dante - Jahrbuch " XXXIV-XXXV (1957) 102-135; A. Vasina, I Romagnoli fra autonomie cittadine e accentramento papale nell'età di D., Firenze 1965, 54, 59, 122-123, 173 e n. 2, 183.