Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
La produzione poetica e filosofica di Friedrich Hölderlin ha il suo culmine negli stessi anni in cui il campo letterario tedesco è dominato dal classicismo weimariano e del primo romanticismo tedesco. Ardente lettore e traduttore degli antichi, intellettuale partecipe dei dibattiti letterari, culturali e politici del suo tempo e utopico disegnatore di una poesia a venire, Hölderlin diverrà dopo una sotterranea ricezione ottocentesca l’interlocutore privilegiato di poeti, filosofi e artisti della modernità.
Hölderlin: un grande inattuale e la sua riscoperta postuma
Johann Christian Friedrich Hölderlin nasce il 20 marzo 1770 a Lauffen am Neckar, fra Stoccarda e Heilbronn, e trascorre l’infanzia principalmente a Nürtingen, altro piccolo centro svevo ricompreso nel ducato di Württemberg. Il padre, Heinrich Friedrich, muore nel 1772, nel 1779 è il turno di Johann Christoph Gok, secondo marito della madre, Johanna Christiana nata Heyn, figlia di un pastore protestante, la quale invece scompare solo nel 1828, quando il suo primogenito, considerato folle incurabile, è ormai nella celebre "torre" di Tubinga da oltre vent’anni. Qui Hölderlin muore il 7 giugno 1843 dopo oltre cinque lustri di affettuose cure del falegname Ernst Zimmer e della sua famiglia: trentasei anni costellati di visite da parte di pochi vecchi sodali, intellettuali, giovani studenti e curiosi vari, per i quali scrive brevi poesie in rima fornite di date e firme fittizie. Questi Turmgedichte (Poesie della torre) appaiono ai più come un documento d’interesse biografico, per quanto alcuni interpreti vi abbiano letto un’ultima scelta, cosciente e dolorosa, di un "artista della sopravvivenza". Certamente, nel contrasto fra tale estrema produzione lirica da un lato, centrata tematicamente soprattutto sul passare delle stagioni e redatta in uno stile monocorde e regolarissimo, e la dizione ripida e dura dall’altro, l’arditezza e complessità tematiche degli inni e frammenti in ritmi liberi, l’apice della cosiddetta fase tarda a cui il poeta lavora fino al precipitare degli eventi biografici con il ricovero coatto nella clinica pischiatrica di Autenrieth a Tubinga (settembre 1806) e forse anche oltre, si misura a rovescio lo scarto che Hölderlin, grande inattuale intriso al contempo della cultura letteraria e filosofica in cui si muove, imprime alla poesia tedesca ed europea moderna. A parte singoli suoi estimatori in seno all’Ottocento, tale scarto trova sua piena risonanza, come noto, a partire dal fin de siècle e costituisce il motore della cosiddetta Hölderlin-Renaissance: una riscoperta filologica, culturale e poetica che al di là di una certa retorica reca altissimi frutti nella Moderne e non cessa poi di innervare in eterogenee declinazioni tutto il Novecento europeo, non solo lirico: da Rilke a Celan, da Brecht a Jelinek, da Heidegger ai francesi al nostro Zanzotto, per fare solo qualche esempio.
Friedrich Hölderlin
Quand’ero un fanciullo
Da ich ein Kind war
Quand’ero un fanciullo
Spesso un dio mi salvava
Dalle verghe e dagli urli dei grandi.
Sicuro e buono giocavo
Coi fiori del bosco,
E le aurette del cielo
Giocavano con me.
E come tu allieti
Il cuor delle piante,
Quand’esse ti protendono
Le tenere braccia,
Così allietavi me pure,
Elio padre! E al par di Endimione
Ero il tuo beneamato,
O santa Luna.
O voi tutti, fedeli,
Amici iddii!
Quanto più siete deserti,
Più vi ama l’anima mia!
Né allora io vi chiamavo
Coi vostri nomi, né voi
Davate un nome a me, come gli uomini fanno
Se tra lor si conoscono.
Pure, io vi conoscevo
Assai meglio che gli uomini;
Comprendevo il silenzio dell’etere:
Le umane parole mai non compresi.
Mi allevò l’armonia
Del susurrante bosco,
E appresi ad amare
Tra i fiori.
Crescevo in braccio agli dèi.
Testo originale:
Da ich ein Knabe war,
Rettet’ ein Gott mich oft
Vom Geschrei und der Rute der Menschen,
Da spielt’ ich sicher und gut
Mit den Blumen des Hains,
Und die Lüftchen des Himmels
Spielten mit mir.
Und wie du das Herz
Der Pflanzen erfreust,
Wenn sie entgegen dir
Die zarten Arme strecken,
So hast du mein Herz erfreut,
Vater Helios! und, wie Endymion,
War ich dein Liebling,
Heilige Luna!
O all ihr treuen,
Freundlichen Götter!
Dall ihr wüsstet,
Wie euch meine Seele geliebt!
Zwar damals rief ich noch nicht
Euch mit Namen, auch ihr
Nanntet mich nie, wie die Menschen sich nennen,
Als kennten sie sich.
Doch kannt’ ich euch besser
Als ich je die Menschen gekannt,
Ich verstand die Stille des Äthers,
Der Menschen Worte verstand ich nie.
Mich erzog der Wohllaut
Des säuselnden Hains
Und lieben lernt’ ich
Unter den Blumen.
In Arm der Götter wuchs ich gross.
in D. Valeri, Lirici tedeschi, Milano, Mondadori, 1959
Friedrich Hölderlin
L’immortalità dell’anima
Unsterblichkeit der Seele
Dalla vetta del colle intorno guardo
Come tutto riviva e all’alto tenda;
E bosco e campo e valle e colle
Esultino nello splendor del mattino.
Oh! questa notte come sussultavi,
Universo! Scotevano i vicini
Tuoni quel sonno tuo, guizzanti
Baleni atterrendo l’ombre mute.
Imperlata, la terra ora festeggia
Il giorno vittorioso sull’orrore
Notturno; ma più bella ride
L’anima mia su l’orror di morte...
Testo originale:
Da steh ich auf dem Hügel, und schau umher,
Wie alles auflebt, alles empor sich dehnt,
Und Hain und Flur, und Tal, und Hügel
Jauchzet im herrlichen Morgenstrahle.
O diese Nacht - da bebtet ihr, Schöpfungen!
Da weckten nahe Donner die Schlummernde,
Da schreckten im Gefilde grause
Zackichte Blitze die stille Schatten.
Jetzt jauchzt die Erde, feiert im Perlenschmuck
Den Sieg des Tages über das Graun der Nacht -
Doch freut sich meine Seele schöner;
Denn sie besiegt der Vernichtung Grauen...
in D. Valeri, Lirici tedeschi, Milano, Mondadori, 1959
Formazione e produzione giovanile
Friedrich Hölderlin
Iperione a Bellarmino
Iperione, Libro I
Iperione a Bellarmino.
Ancora una volta il caro suolo della patria mi dona gioia e dolore.
Mi ritrovo ogni mattina sulle alture dell’istmo di Corinto e, come l’ape tra i fiori, la mia anima vola spesso qua e là tra i due mari che a destra e a sinistra bagnano i piedi dei miei monti ardenti.
In particolare, uno dei due golfi mi avrebbe dato gioia, se mi fossi trovato lì mille anni fa.
Come un semidio in trionfo, il golfo scintillante s’inoltrava nello splendore selvaggio dell’Elicona e del Parnaso - dove l’aurora gioca intorno a cento cime innevate - e nella pianura paradisiaco del Sicione, verso la città della gioia, la giovanile Corinto, versando ai piedi della sua prediletta la ricchezza predata da ogni parte.
Ma perché tutto questo? L’urlo dello sciacallo, che innalza il suo canto selvaggio di morte tra le rovine dell’antichità, mi strappa ai miei sogni.
Felice l’uomo a cui una patria fiorente dona gioia e forza al cuore! Per quel che mi riguarda, quando qualcuno mi ricorda la mia patria, mi sento come se fossi gettato in un pantano, come se sopra di me si chiudesse una bara, e il sentirmi chiamare greco mi dà la sensazione di avere la gola stretta nel collare di un cane.
E vedi, mio Bellarmino: se talvolta mi sono sfuggite simili parole, e per l’ira una lacrima mi è sgorgata dagli occhi, ecco che apparivano quei saggi signori che tanto amano aggirarsi tra voi tedeschi, quei miserabili cui un animo sofferente dà l’occasione di sfoderare le loro sentenze; essi godevano e si permettevano di dirmi: "Non lamentarti, agisci!".
Non avessi mai agito! Di quante speranze sarei più ricco!
Cuore impoverito, combattuto, mille volte indignato, dimentica dunque che vi sono uomini e ritorna là donde sei uscito, tra le braccia della natura, della natura bella, silenziosa, immutabile.
Iperione a Bellarmino
Non ho nulla di cui possa dire: "E’ mio".
I miei cari sono lontani e morti, e non mi giunge più alcuna voce che mi parli di loro.
Il mio compito sulla terra è finito. Con tutta la mia volontà mi sono messo all’opera, e su questa ho sanguinato: non ho arricchito il mondo di un centesimo.
Torno solitario e senza gloria, vago per la mia patria che si estende intorno a me come un immenso cimitero; e forse m’aspetta il coltello del cacciatore, che è attratto da noi greci come dalla selvaggina del bosco.
Ma tu splendi ancora, sole del cielo! Tu verdeggi ancora, sacra terra! Ancora scorrono fragorosi i fiumi verso il mare e alberi ombrosi mormorano ancora nel mezzogiorno. Il canto voluttuoso della primavera culla i miei pensieri mortali nel sonno. La pienezza del mondo vivente nutre e sazia di ebbrezza il mio essere privo del necessario.
Natura felice! Non so cosa mi accada quando alzo il mio sguardo alla tua bellezza, ma tutta la gioia del cielo è raccolta nelle lacrime che verso ai tuoi piedi, come l’amante di fronte all’amata.
Tutto il mio essere tace e ascolta le dolci onde dell’aria sfiorarmi il petto. Perduto nell’immenso azzurro, alzo spesso lo sguardo all’etere e lo abbasso verso il mare sacro: è come se uno spirito fraterno mi aprisse le braccia e il dolore della solitudine si dissolvesse nella vita della divinità.
Essere Uno con il Tutto: questa è la vita della divinità, questo è il cielo dell’uomo.
Essere Uno con Tutto ciò che vive, ritornare, in un oblìo di beatitudine, nel Tutto della natura: questo è il vertice dei pensieri e delle gioie, questa è la sacra vetta, il luogo dell’eterna pace, dove il mezzogiorno perde la sua afa, il tuono la sua voce e il mare ribollente è simile all’ondeggiare del campo di grano.
Essere Uno con Tutto ciò che vive! Con queste parole la virtù depone la sua corazza severa, lo spirito dell’uomo depone lo scettro. Tutti i pensieri svaniscono di fronte all’immagine del mondo eternamente uno, come le regole dell’artista che lotta si dissolvono di fronte alla sua Urania; il destino implacabile rinuncia al suo dominio e la morte abbandona la comunione delle creature, mentre indissolubilità ed eterna giovinezza rendono felice e bello il mondo.
Raggiungo spesso queste alture, mio Bellarmino, ma un attimo di riflessione è sufficiente a abbattermi. Rifletto e mi trovo com’ero prima, solo, con tutti i dolori dell’essere mortale; e l’asilo del mio cuore, il mondo eternamente uno, è scomparso; la natura chiude le braccia e io mi trovo dinnanzi a lei come uno straniero, incapace di comprenderla.
Non fossi mai entrato nelle vostre scuole! La scienza, nelle cui profondità mi sono immerso, da cui attendevo nella mia follia giovanile la conferma della mia pura gioia, mi ha rovinato ogni cosa.
Presso di voi sono divenuto così ragionevole, ho profondamente imparato a distinguermi da ciò che mi circonda; ed ora eccomi isolato in questo mondo bello, cacciato dal giardino delle natura dove crescevo e fiorivo, e inaridito al sole del mezzogiorno.
L’uomo è un dio quando sogna, è un mendicante quando riflette. E quando l’entusiasmo è scomparso, egli rimane come un figlio sciagurato che il padre ha cacciato di casa, e osserva i miseri centesimi che la pietà gli ha procurato lungo il cammino.
Iperione a Bellarmino
Ti ringrazio d’avermi pregato di parlarti di me, di avermi riportato alla memoria i tempi passati.
Se sono tornato in Grecia, è anche per vivere più vicino ai giochi della mia giovinezza.
Come il lavoratore si immerge nel sonno che ristora, spesso il mio essere tormentato si abbandona tra le braccia dell’innocente passato.
Pace dell’infanzia! Pace celeste! Quante volte silenziosamente rimango dinnanzi a te in amorosa contemplazione e ti vorrei pensare! Ma noi possiamo soltanto concepire qualcosa che un tempo fu cattiva e che poi è tornata ad essere buona: l’infanzia, l’innocenza, non possiamo concepirle.
Quando ero ancora un bambino silenzioso e non sapevo nulla di quanto ci circonda, non ero forse più di quanto sia ora, dopo tutte le fatiche del cuore, dopo tanto meditare e lottare? Sì, il bambino è un essere divino finché non si immerge nei colori camaleontici degli uomini.
Egli è ciò che è, totalmente: questa è la sua bellezza.
Le costrizioni della legge e del destino non lo toccano: nel bambino non esiste che libertà.
Pace è in lui: non è ancora in discordia con se stesso. Ricchezza è in lui: conosce il suo cuore, non l’indigenza della vita. E’ immortale, perché non sa nulla della morte.
Ma gli uomini non possono tollerare tutto questo. Vogliono che il divino diventi come uno di loro, riconosca la loro esistenza; e, prima ancora che la natura lo cacci dal suo paradiso, lo trascinano fuori con le lusinghe o con la forza sulla terra della maledizione, affinché anch’egli si consumi nel sudore della fronte.
Ma anche il momento del risveglio è bello quando non è prematuro.
Sono giorni sacri quelli in cui il nostro cuore prova per la prima volta le sue ali, quelli in cui nell’ardore della rapida crescita viviamo nel mondo meraviglioso come una giovane pianta che si schiude al sole del mattino e tende le piccole braccia al cielo infinito.
Come mi aggiravo tra i monti e lungo le rive del mare! Quante volte sedevo con il cuore palpitante sulle alture di Tino e seguivo con gli occhi i falchi, le gru e le ardite barche gioiose che scomparivano all’orizzonte! Laggiù, pensavo, andrai anche tu un giorno; ed ero come un uomo che, teso nello spasimo, si getta nell’acqua e si versa sulla fronte la fresca schiuma.
Poi sospirando, rientravo a casa. "Se soltanto gli anni della scuola fossero già trascorsi" pensavo spesso.
Caro ragazzo! Quegli anni, ancora adesso, sono ben lontani dall’essere trascorsi.
L’uomo, nella sua giovinezza, crede d’essere così vicino alla meta! Tra tutte le illusioni create dalla natura per venire in soccorso alla nostra fragilità, questa è certo la più bella.
Disteso tra i fiori, mi scaldavo al sole delicato della primavera e alzavo lo sguardo all’azzurro sereno che avvolgeva la calda terra; oppure sedevo nel grembo del monte tra olmi e prati dopo una pioggia ristoratrice, mentre i rami tremavano ancora per il tocco del cielo e sopra il bosco stillante vagavano nuvole d’oro, o ancora quando la stella della sera, spirito di pace, sorgeva insieme agli antichi adolescenti, gli altri eroi del cielo, e vedendo in loro la vita proseguire il suo corso nell’etere, nell’ordine del suo eterno fluire, la pace del mondo mi avvolgeva nella sua gioia, allora tendevo il mio spirito e i miei sensi, senza capire ciò che m’accadesse... "Mi ami, buon Padre del cielo?" domandavo allora sottovoce e udivo la sua risposta così sicura, così felice nel cuore.
Tu, che invocavo come se abitassi sopra le stelle, che chiamavo creatore del cielo e della terra, idolo amico della mia infanzia, non ti adirerai se ti ho dimenticato!... Perché il mondo non è sufficientemente povero da spingerci a cercare un Dio al di fuori di esso?
Se la splendida natura è figlia di un padre, il cuore della figlia non è anche il suo cuore? La parte più profonda di lei non è lui stesso? Ma lo possiedo io veramente? Lo conosco?
Credo di vedere, ma poi mi spavento al pensiero che forse ho visto la mia stessa immagine. Mi sembra di sentirlo, lo spirito del mondo, come la calda mano di un amico; ma al risveglio mi domando se non ho stretto le mie stesse dita.
Friedrich Hölderlin, Iperione, Parma, Guanda, 1981
L’ humus nel quale Hölderlin nasce e viene educato e istruito è quella della Ehrbarkeit, il ceto degli "onorabili" che fornisce manodopera all’amministrazione, alle istituzioni culturali e religiose del Württemberg da almeno due secoli: il luteranesimo d’impianto e la fedeltà all’autorità si declinano, nel Settecento, di una coloritura marcatamente pietistica. Il giovane Hölderlin, destinato a una carriera ecclesiastica, frequenta dopo la scuola di latino di Nürtingen, accompagnata da lezioni private, i seminari di Denkendorf e Maulbronn ed entra poi, nell’autunno 1787, allo Stift di Tubinga, centro d’eccellenza per un’educazione teologica, filosofica e religiosa che egli riceve accanto a Hegel, suo coetaneo, e al più giovane Schelling.
Allo Stift, vera fucina del ceto intellettuale tedesco e culla di una solida cultura conservatrice di matrice evangelica, Hölderlin vive e studia dal 1788 al 1793. Il quinquiennio è decisivo: esso coincide, oltre che con l’arrivo fin dentro al collegio dei fremiti rivoluzionari di Francia, con l’approfondimento di letture e passioni letterarie e filosofiche che portano alla maturazione di una voce poetica originale. Le prime prove sono caratterizzate da un’eterogeneità formale e tematica riferibile agli evidenti modelli del giovane (Klopstock, innanzitutto, Friedrich von Stolberg e il gruppo raccolto attorno alla rivista "Schwäbisches Musenalmanach", edita da Gotthold Stäudlin). Un passo oltre questa fase, per certi versi epigonale, avviene appunto con gli inni in rima scritti perlopiù durante il soggiorno allo Stift e detti perciò Tübinger Hymnen ( Inni di Tubinga): essi evocano in forma ispirata gli ideali rivoluzionari in una veste e un lessico profondamente influenzati dal modello schilleriano, che Hölderlin innesta su una base concettuale neoplatonica, quella Vereinigungsphilosophie ("filosofia del ricongiungimento") che dominerà la sua riflessione e la sua produzione poetica.
Sullo scorcio del secolo: Iperione, La morte di Empedocle e la riflessione teorica
Friedrich Hölderlin
La morte di Empedocle, Atto II, scena 4
Non vi lascio senza un consiglio,
miei cari, ma non abbiate paura! i figli della terra
in genere temono ciò che è nuovo e sconosciuto;
limitandosi a ciò che è loro, si preoccupano
solo della sopravvivenza, e il senso della loro vita
non si spinge oltre. Eppure alla fine anche loro,
i paurosi, devono andare oltre, e morendo ciascuno
ritorna all’elemento per
rigenerarsi a nuova giovinezza, come in un
bagno. Agli uomini è concessa l‘immensa
gioia di ringiovanirsi,
e della morte purificatrice
che essi stessi si sono scelti al momento opportuno
risorgono i popoli, come Achille dallo Stige.
Datevi alla natura, prima che sia lei a prendervi!
Da lungo tempo agognate cose straordinarie,
e come da un corpo malato lo spirito di Agrigento
desidera abbandonare la strada vecchia:
su, osate! Ciò che avete ereditato, ciò che avete guadagnato,
quello che i padri vi hanno raccontato e insegnato,
leggi e usanze, i nomi delle antiche divinità:
abbiate l’audacia di dimenticarli e sollevate gli occhi,
come foste rinati, verso la natura divina.
Quando lo spirito si accenderà alla luce celeste,
un dolce alito di vita vi fluirà
nel petto come per la prima volta,
e mormoreranno i boschi colmi di frutti dorati
e le sorgenti dalla roccia; quando la vita
del mondo vi afferrerà e il suo spirito di pace
vi cullerà l’anima come una sacra nenia,
allora nell’aurora splendida di quest‘estasi
splenderà di nuovo per voi il verde della terra,
e monti, mari, nuvole e stelle,
le nobili potenze, come fratelli eroi,
si presenteranno ai vostri occhi facendovi battere
il cuore, come foste scudieri, nel desiderio di agire
per un mondo bello e vostro. Allora stringetevi di nuovo
la mano, datevi la vostra parola e spartite i vostri beni;
allora, miei cari, dividete azioni e onore
come fedeli Dioscuri, ognuno sia
uguale agli altri. La nuova vita riposi
su ordinamenti giusti come su snelle colonne,
e la legge rafforzi il vostro patto.
E voi, geni della mutevole
natura, sereni, che traete
la gioia dalle profondità e dalle altezze
e da mondi lontani e sconosciuti la portate,
come fatica, felicità, sole e pioggia,
nel cuore angusto dei limitati mortali:
il popolo libero vi inviterà alle sue feste,
ospitale e devoto, perché gli uomini, amando,
offrono il meglio, quando la schiavitù
non stringe e non soffoca il loro cuore.
F. Hölderlin, La morte di Empedocle, a cura di L. Balbiani e E. Polledri, Milano, Bompiani, 2003
Sempre al periodo allo Stift risalgono i primi abbozzi del romanzo epistolare Hyperion oder der Eremit in Griechenland ( Iperione o l’eremita in Grecia), la cui complessa stesura avrebbe dominato la fase mediana della scrittura hölderliniana fino alla pubblicazione in due volumi fra il 1797 e il 1799. Sono anni convulsi da un punto di vista biografico: maturata negli anni universitari la decisione di non seguire, secondo i desideri materni, una carriera ecclesiastica, bensì la vocazione poetica e gli interessi filosofici e culturali, Hölderlin deve letteralmente fuggire dal Württemberg, inseguendo posti di precettore o provandosi (senza successo) in una carriera intellettuale. A poco più di un anno nella piccola Waltershausen turingia, presso Charlotte von Kalb, segue una manciata di mesi a Jena, dove sono Fichte e l’adorato Schiller, dove incontra Goethe. Una fuga precipitosa (e mai chiarita) da un possibile inserimento nella Gelehrtenrepublik, la "repubblica delle lettere", apre il primo dei ritorni in Svevia, ai quali sempre come un elastico seguono nuovi tentativi di trovare fuori dalla Heimat lo spazio delle proprie aspirazioni, seppur costrette nel ruolo di insegnante privato. Più lungo, più importante e anche più romanzato è il soggiorno a Francoforte, presso il banchiere Jakob Gontard (dicembre 1795 - settembre 1798). Qui Hölderlin si lega alla di lui moglie, Susette, che finisce per sovrapporsi alla Diotima della sua lirica e del romanzo. L’idillio d’amore ha il suo culmine nell’estate del 1796, fra Kassel e Bad Driburg, quando Hölderlin segue, al contrario di Gontard, la famiglia in fuga dai Francesi e ha stretti contatti con Wilhelm Heinse, e nel 1797, quando a Francoforte è anche Hegel. Facendosi insostenibili le frizioni con il padrone di casa, l’amico Isaak von Sinclair lo accoglie nella vicina Bad Homburg e di nuovo Hölderlin sperimenta qui il fallimento delle ambizioni intellettuali, con il naufragio della prospettata rivista "Iduna" e l’impossibilità di sostentarsi autonomamente, oltre all’arenarsi, col passare dei mesi, della relazione a distanza con Susette.
Il 1799 vede almeno la pubblicazione del secondo e ultimo volume di Hyperion. Con questo romanzo epistolare, per tutto l’Ottocento l’opera più letta di Hölderlin in assoluto, il modello monologico wertheriano viene ulteriormente sviluppato in una complessa struttura anamnestica che anche tematicamente coinvolge in mirabile sintesi amore e rivoluzione, antico e moderno, natura e cultura. Il neogreco Iperione scrive dall’eremitaggio all’amico tedesco Bellarmino una serie di lettere nelle quali ricostruisce, con crescente consapevolezza, la storia della sua vita, dell’educazione presso Adamas, dell’amicizia eroica con Alabanda, dell’amore con Diotima, dell’appassionata idealizzazione della matrice culturale greca (si veda la famosa Athenerrede che chiude il primo volume). La delusione cocente patita nella guerra di liberazione è poi rievocata anche con il recupero di lettere a suo tempo indirizzate all’amata e prelude alla stretta finale: la morte di Diotima, la cui ultime parole presagiscono per l’amato un futuro di poeta, porta l’Iperione narratore a conquistare dalla distanza contemplativa la Ruhe ("tranquillità") di chi riconosce nella morte un mero passaggio della vita: “Non deve tutto soffrire? e quanto più eccelle, tanto più profondamente! non soffre forse la sacra natura? O mia divinità! Che potessi essere afflitta tu che sei beata, per molto tempo non lo potevo capire. Ma la voluttà, che non soffre, equivale al sonno, e senza la morte non c’è vita. Dovresti essere perennemente come un bambino e stare assopito, simile al nulla? E privarti della vittoria? E non passare attraverso tutte le perfezioni? Sì, sì! Il dolore merita di trovare un posto nel cuore dell’uomo e di essere il tuo confidente, o natura! Giacché solo esso porta da una voluttà all’altra e non c’è altro compagno all’infuori di lui”. Le restanti due lettere rievocano rispettivamente il soggiorno di Iperione in Germania, con una durissima invettiva contro i Tedeschi, “Barbari fin dai tempi più remoti, resi ancora più barbari dalla diligenza, dalla scienza e perfino dalla religione, del tutto incapaci di ogni sentimento divino, corrotti fino al midollo per buona sorte delle sacre Grazie, in ogni grado di esagerazione e di meschinità insolenti verso ciascuna anima buona, sordi e disarmonici, come i cocci di un vaso gettato via”, e, prima del ritorno in Grecia in cui inizierà a spedire missive a Bellarmino, la visione maestosa e potente della superiore unità del cosmo, ché “conciliazione sta in mezzo al contrasto e tutto ciò che è stato diviso si ritrova. Si dipartono e tornano al cuore le vene e tutto è un’unica, perenne ed ardente vita”, visione che la voce di Diotima proveniente dalla natura in rigoglio primaverile ispira a Iperione personaggio, e che l’Iperione narratore reinserisce, a suggello della sua scrittura anamnestica, prima della glossa finale che dividerà gli interpreti: "Così pensai. Presto, di più".
Nell’ultimo giro d’anni del secolo, mentre Cotta pubblica Hyperion, il poeta ha tra le carte Der Tod des Empedokles (La morte di Empedocle), un progetto drammatico che lo occupa soprattutto nel 1799 a Bad Homburg, senza giungere a stesura definitiva e di cui la filologia hölderliniana distingue oggi tre versioni frammentarie successive. Natura e rivoluzione, tradizione e modernità, sacrilegio e sacrificio, rapporto fra intellettuale e comunità: il lavoro alla tragedia sul filosofo agrigentino centra nella sua costellazione tematica questioni di bruciante attualità politica e culturale, come già il romanzo (si vedano, nel brano riportato, le parole che Empedocle rivolge al suo popolo prima di salire all’Etna per buttarsi nel cratere). Oggi l’ Empedocle è entrato nel repertorio teatrale e può essere considerato uno degli esempi più importanti di dramma d’ispirazione antica dell’età di Goethe, centrato su una figura di poeta-filosofo, che nella sua vicenda intellettuale è sovente sovrapposta, nella ricezione, a quella dell’autore settecentesco e a quella degli artisti contemporanei che lo recuperano: Hölderlin, come anche per Sofocle e per altri suoi testi, funge così da mediatore settecentesco nel recupero attualizzante dell’antico.
Il lavoro alla tragedia è accompagnato da un’intensa riflessione estetica (nei cosidetti "frammenti poetologici di Homburg"). I saggi frammentari Grund zum Empedokles ( Fondamento dell’Empedocle) e Über die Verfahrungsweise des poetischen Geistes (Sul procedimento dello spirito poetico) sono noti esempi dell’arduo e non concluso rovello teorico di quegli anni, traccia di una variegata dimensione estetica e filosofica della scrittura, che gli studi degli ultimi decenni hanno ampiamente rivalutato nel suo muovere "oltre la linea di confine kantiana" e nel costruire la versione hölderliniano del progetto culturale antico-moderno, dai frammenti degli anni 1794-1795 attraverso la fase di Homburg fino alle tarde Sophokles-Anmerkungen (Note a Sofocle), senza dimenticare i brani con ricadute teoriche ricompresi in molte lettere, sopra tutte le due celebri missive a Ulrich Böhlendorff, prima e dopo il soggiorno a Bordeaux (dicembre 1801, novembre 1802).
Prima del crollo. Le traduzioni e la lirica matura
Friedrich Hölderlin
Alle Parche
Un’estate sola datemi, possenti!
E un solo autunno, perché maturi il canto,
Poi muoia, e volentieri, del dolce
Gioco sazio, il cuore mio.
L’anima che in vita il suo diritto divino
Non ebbe, nell’Orco neppure avrà pace;
Ma se in ciò che, sacro,
Mi sta a cuore, la poesia, sarò riuscito,
Sii benvenuta allora, quiete delle ombre!
Sarò felice, quand’anche la mia cetra
Laggiù non mi accompagni; vissi
Una volta, come gli Dei, e tanto basta.
Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori, 2001
Friedrich Hölderlin
Metà della vita
Con gialle pere scende
E folta di rose selvatiche
La terra nel lago,
Amati cigni,
E voi ubriachi di baci
Tuffate il capo
Nell’acqua sobria e sacra.
Ahimè, dove trovare, quando
È inverno, i fiori, e dove
Il raggio del sole,
E l’ombra della terra?
I muri stanno
Afoni e freddi, nel vento
Stridono le bandiere.
Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori, 2001
Friedrich Hölderlin
Rimembranza
Soffia il nordest
Tra i venti a me il più
Caro, poiché spirito infuocato
E buona traversata promette ai naviganti.
Ma va’, ora, e saluta
La bella Garonne
E i giardini di Bordeaux
Là, dove sulla riva scoscesa
Corre il pontile e nel fiume
Cade profondo il ruscello, ma dall’alto
Una nobile coppia guarda
Di querce e argentei pioppi;
Ancora me ne ricordo e come
Il bosco d’olmi piega
Le ampie cime, sul mulino
Ma nel cortile cresce un albero di fichi.
Nei giorni di festa là vanno
Le donne brune
Su un suolo di seta
Al tempo di marzo
Quando il giorno è uguale alla notte,
E su indolenti pontili,
Gravi di sogni dorati,
Soffiano brezze che cullano.
Ma si porga
Colmo della luce oscura
A me il calice profumato,
Per riposare; giacché dolce
Sarebbe il sonno tra ombre.
Non è bene essere
Inanimi per pensieri
Mortali. Ma bene
È un colloquio e dire
L’avviso del cuore, ascoltare molto
Dei giorni dell’amore,
E delle gesta che accaddero.
Ma dove sono gli amici? Bellarmino
Con il compagno? Molti
Hanno timore di andare alla sorgente;
Inizia infatti nel mare
La ricchezza. Loro
Come pittori, mettono insieme
La bellezza della terra e la guerra alata
Non disprezzano, e
Vivere soli, per anni, sotto
Lo spoglio albero maestro, dove la notte non rischiarano
I giorni di festa della città,
E non la cetra e non la danza nativa.
ma dagli indiani ora sono
Andati gli uomini,
Là, in riva alla punta ariosa,
Ai vigneti sui monti, dai quali
Scende la Dordogne,
E insieme con la sfarzosa
Garonne vasto come il mare
Sfocia il fiume. Ma prende
E dà memoria il mare,
E l’amore, è vero, fissa assiduo gli occhi,
Ma ciò che resta è un dono dei poeti.
Friedrich Hölderlin, Tutte le liriche, a cura di L. Reitani, Milano, Mondadori, 2001
Concluso il primo soggiorno a Homburg, nel 1800 Hölderlin passa brevemente dalla casa materna dopo una lunga assenza e trascorre l’estate a Stoccarda, per poi riprendere la serie di allontanamenti e ritorni dalla Svevia con il soggiorno svizzero a Hauptwil, come precettore in casa von Gonzenbach, e il già nominato periodo bordolese presso il console amburghese Meyer. Nel giugno 1802 Hölderlin ritorna in Svevia, dopo una tappa a Parigi, in un aspetto e in uno stato psichico che le testimonianze descrivono come rovinoso; secondo alcuni studiosi tale primo palesarsi della follia sarebbe legato alla notizia della morte di Susette Gontard, secondo altri precedente e da tale notizia solo aggravato. Gli anni che seguono, trascorsi fra Nürtingen, Ratisbona e soprattutto Homburg, vedono il poeta alternare momenti di grande energia e intensa produttività intellettuale a periodi di debolezza e ad accessi di follia, il cui ripetersi porta al già descritto trasporto coatto nella clinica di Tübingen, nel settembre 1806.
Secondo una celebre testimonianza di Schelling del luglio 1803, la traduzione dal greco è una delle attività cui il poeta riesce ad attendere anche con la "mente sfibrata" di quegli anni post-bordolesi. Nel 1804 Hölderlin pubblica il suo secondo e ultimo volume, Die Trauerspiele des Sophokles (Tragedie di Sofocle) in due tomi, contenenti rispettivamente di Edipo Re e Note all’Edipo; Antigone e Note all’Antigone. Le traduzioni da Sofocle, derise dai contemporanei del poeta, avranno una ricca ricezione, interpretativa, intertestuale e scenica, nel Novecento, avendo sostanzialmente raggiunto lo status di opera originale, non da ultimo grazie alle folgoranti intuizioni proposte dalle Note. Assieme alle eterogenee versioni da Pindaro, odi e frammenti con commenti, datati fra il 1800 e il 1805 ma editi solo nel Novecento, sono il culmine di una pratica traduttivo-interpretativa che fin dagli anni Novanta si intreccia indissolubilmente con la prassi scrittoria e la riflessione poetologica, nonché con il suo progetto culturale complessivo di rifondazione del rapporto fra antichi e moderni.
Se, ad esempio, la Morte di Empedocle denuncia evidenti legami con il lavoro attorno a Sofocle, la lirica hölderliniana tarda risente profondamente del corpo a corpo con i testi di Pindaro e contemporaneamente si esalta nel pervenire a una dizione originalissima e fondativa per il linguaggio lirico dei futuri modernismi. D’altronde, nella composizione di riferimento all’antico, prosecuzione degli sforzi della poesia tedesca moderna da Klopstock in giù e ricerca di nuove strade liriche, può indicarsi in generale la dinamica della scrittura hölderliniana in versi. Esito alto ne sono, dopo la fase di sperimentazione formale e il definitivo passaggio nel periodo francofortese dai metri rimati ai ritmi d’ispirazione classica con il gruppo di odi brevi di carattere epigrammatico (si veda "Alle Parche"), già le grandi odi del 1800-1801 (si pensi a Heidelberg o a Natur und Kunst oder Saturn und Jupiter, "Natura e arte ovvero Saturno e Giove"), di cui tre in seguito rielaborate (Chiron, Chirone; Blödigkeit, Timidezza e Ganymed, Ganimede) e raccolte in quei Nachtgesänge, Canti notturni, in cui compare la celeberrima Hälfte des Lebens (1805, "Metà della vita"). Sempre attorno al volgere del secolo nascono il magnifico poemetto in esametri Der Archipelagus e le grandi elegie, fra cui Menons Klagen um Diotima ("I lamenti di Menone per Diotima"), Heimkunft ("Ritorno a casa") e Brod und Wein ("Pane e vino"), in cui muovendo dal lutto per l’ideale svanito e per la perdita del divino si perviene alla profezia di una nuova comunità. Ancora, in pieno Ottocento, accanto alla revisione di liriche precedenti abbiamo gli inni in ritmi liberi e i frammenti, senza dubbio uno dei culmini della poesia hölderliniana e veicolo della sua tarda riscoperta: Grecia e Germania, Cristo e Dioniso, il ruolo del poeta e l’epifania dell’assoluto, geografia mitica e utopia di rinnovamento si sovrappongono in testi di altissime complessità concettuale e tensione stilistica quali Wie wenn am Feiertage... ("Come nel giorno di festa..."), Friedensfeier ("Festa di pace"), Germanien ("Germania"), Patmos, Der Rhein ("Il Reno"), Andenken ("Rimembranza"), Mnemosyne, Der Einzige ("L’Unico"). In particolare attorno alla fase matura della produzione lirica si sono accese le più aspre contese filologiche e interpretative nella lunga storia della critica hölderliniana: le difficoltà di ricostruzione della tradizione manoscritta, il carattere aperto e l’arditezza formale e tematica di queste poesie continuano a stimolare l’interesse degli studiosi e le fatiche di editori e traduttori; la complessa figura e la voce modernissima del "poeta dei poeti" risuonano tuttora nelle parole dei suoi eredi contemporanei.