Lang, Fritz (propr. Friedrich Christian Anton)
Regista cinematografico austriaco, naturalizzato statunitense nel 1935, nato a Vienna il 5 dicembre 1890 e morto a Los Angeles il 2 agosto 1976. Con la sua opera ha attraversato la storia del cinema: sin dai tempi del muto, dopo aver contribuito in maniera determinante alla grande fioritura dell'Espressionismo cinematografico, divenne infatti uno dei grandi registi europei a Hollywood, emigrati per sfuggire al nazismo. La sua relativa facilità di adattamento alle strutture produttive statunitensi e la scelta di scavarsi comode nicchie nel sistema hollywoodiano dei generi sono state spesso viste come rinunce ai criteri prevalentemente 'artistici' dai quali si era fatto guidare nel suo lavoro in Germania. In realtà, se quello di L. è stato sempre un cinema 'colto' (ma comunque mai riducibile alla sola matrice espressionista), le sue radici sono anche popolari, come testimoniato, fin dall'inizio, dalla predilezione (incoraggiata dalla sua seconda moglie, la scrittrice Thea von Harbou) per il serial, il feuilleton e la letteratura avventurosa d'appendice, verso cui ebbe comunque un approccio originale. Nella sua filmografia ricorrono frequentemente, oltre all'ossessione del Tempo, il tema del delitto e la figura del grande criminale da cui egli appare affascinato, rappresentata sia da geni del male (Mabuse e Spione) guidati da un'aspirazione profonda al dominio sull'umanità, esseri inafferrabili ed elusivi, simili all'attore nella tecnica dei mille travestimenti, sia dall'assassino di bambine (il 'mostro' di Düsseldorf), assoggettato lui stesso a terribili pulsioni cui non è in grado di resistere e di cui diviene vittima, preda di un destino più grande di lui.
Proveniente da un'agiata famiglia viennese (il padre era un noto architetto, e avrebbe voluto che il figlio seguisse le sue orme), L., che per un periodo si dedicò anche alla pittura, preferì rivolgersi al mondo dello spettacolo cominciando a lavorare nel cinema come sceneggiatore (le sue prime sceneggiature furono acquistate dal regista Joe May nel 1917), presto in coppia con la Harbou. Fu però coinvolto subito in un tragico incidente, come ricorda L.H. Eisner (1976), quando la prima moglie, dopo averlo sorpreso assieme alla giovane collaboratrice, si suicidò con un colpo di pistola al cuore. Secondo la Eisner per un certo tempo la polizia sospettò L. di non aver voluto soccorrere in tempo la moglie: da ciò, forse, l'abitudine del regista di tenere un diario, con un resoconto meticoloso di tutti i suoi movimenti nel corso della giornata, e l'ossessione del tempo (espressa anche dalla ricorrente presenza di orologi e calendari) che si trova in quasi tutti i suoi film.
Dopo le prime prove di regia, alla DECLA (poi assorbita dall'UFA) di Erich Pommer, il primo vero successo fu Der müde Tod (1921), il cui titolo italiano, Destino, mette bene in evidenza il tema del film, ossia la lotta degli uomini (in questo caso di una ragazza, cui la Morte ha portato via il fidanzato) contro gli inesorabili decreti del Fato. Sembra, del resto, che la figura della Morte (un'indimenticabile silhouette cerea in mantello scuro, interpretata da Bernhard Goetzke, ripresa poi da Ingmar Bergman in Det sjunde inseglet, 1957, Il settimo sigillo) sia stata suggerita a L. da un preciso ricordo d'infanzia, un'apparizione intravista nel delirio durante una grave malattia. Il successivo Dr. Mabuse, der Spieler (1922; Il dottor Mabuse), uscito in Germania diviso in due episodi, Der grosse Spieler e Inferno, appare completamente dominato dall'ossessione del tempo. Ovunque, infatti, sono disseminati riferimenti temporali, orologi, quadranti grandi e piccoli. Mabuse è un vero e proprio Signore del Tempo, ma nonostante tutto finisce per cadere in trappola: rinchiuso nel suo stesso laboratorio, con le porte e le finestre bloccate, impazzisce, giocando a carte con i fantasmi di coloro che ha fatto assassinare.Die Nibelungen (1924; La canzone dei Nibelunghi) suddiviso in due parti, Siegfried e Kriemhilds Rache, altro grosso sforzo produttivo della DECLA/UFA, è invece ispirato alle antiche leggende germaniche e a R. Wagner. Si ricordano gli exploit scenografici della foresta ricostruita in studio con alberi e fiori finti, le enormi costruzioni barbariche, il drago (animato artigianalmente, ma con efficacia, da Karl Vollbrecht), le scalinate monumentali, che diventano esse stesse luoghi di scontri, battaglie e movimenti di massa, alla maniera del grande regista teatrale Max Reinhardt (dal quale L. aveva appreso anche la maestria negli effetti di luce). Metropolis (1927) venne girato da L. di ritorno da un viaggio a New York e a Hollywood, e la sua concezione della città avveniristica, su cui è basato, risente proprio delle suggestioni newyorkesi (grattacieli, luci, traffico ecc.). Metropolis è una città fantastica, che rispecchia però un effettivo ordine sociale: la città alta, residenza dei padroni, è fatta di architetture aeree e fantasmagoriche, mentre nella città bassa, medievale o moderna, nasce la rivolta degli sfruttati, degli operai che faticano, inquadrati come automi, nell'inferno della fabbrica. A fomentare la rivolta è un malvagio scienziato, inventore di un automa maligno dalle seducenti fattezze femminili (doppio malefico di una dolce assistente sociale). Ovviamente, i tempi di lavoro sono programmati da un enorme orologio, che regola rigidamente i ritmi della vita stessa degli operai, ma la rivolta, nella sua folle anarchia, rischia di provocare il collasso di tutto il sistema, se non si arrivasse infine a una conciliazione tra uomini di buona volontà. In Spione (1928; L'inafferrabile) L. tornò ai temi di Mabuse, del grande criminale inafferrabile, celato questa volta sotto le spoglie emblematiche del clown Nemo. All'universo di orologi e di ultimatum temporali, si aggiunge una quantità di ritrovati tecnologici, attraverso i quali Spione (finto paralitico) trasmette ordini alla sua banda senza mai farsi vedere: telefoni, microfoni e un apparecchio luminoso (specie di video ante litteram) sul quale arrivano le informazioni necessarie alla messa a punto delle imprese criminali. Dopo Frau im Mond (1929; Una donna nella Luna), in cui L. confermò il suo interesse per la tecnologia (in questo caso, quella dei viaggi spaziali), uscì, nel 1931, il capolavoro M (M, il mostro di Düsseldorf), suo primo film sonoro. Dopo tante opere basate sul fascino del romanzesco, L. sentì il bisogno di girarne una più 'realistica', ispirandosi a un fatto di cronaca nera. La figura del protagonista (un eccezionale Peter Lorre) ricorda infatti quella del cosiddetto mostro di Düsseldorf, un assassino di bambine che aveva terrorizzato la città alla fine degli anni Venti e la cui cattura era stata resa possibile, a quanto sembra, dalla fattiva collaborazione della malavita, minacciata nella sua routine dal (vano) attivismo delle forze dell'ordine. Nel film, M (come Murder) è addirittura catturato, processato e condannato a morte dai criminali (prima che la polizia intervenga a salvarlo in extremis): ma fino all'ultimo tenta di esporre, in una disperata autodifesa, le ragioni dell'impulso irrefrenabile a uccidere, cui, pur volendolo, non riesce a sottrarsi. È la grande dialettica del Male e della Giustizia, che ha sempre ossessionato Lang. Il 'mostro' non è solo tra noi ‒ mimetizzato in una falsa normalità ‒ è anche in noi, e sfugge comunque al semplicismo di qualunque condanna sommaria. L'ultimo film che L. girò in Germania, prima di fuggire dal nazismo in Francia e poi negli Stati Uniti, è Das Testament des Dr. Mabuse (1933; Il testamento del dottor Mabuse), ancora un ritorno alla figura del grande criminale, il cui cervello, pur impazzito, conserva una potenza e una forza di suggestione tali da plagiare la mente del direttore stesso del manicomio, il dottor Baum, inducendolo a organizzare una banda di assassini e rapinatori. Anche qui, solo la voce del Capo arriva ai suoi accoliti, solo la sua ombra si intravede dietro la cortina di una tenda semiopaca e lo svelamento consisterà proprio nella scoperta che l'ombra di Baum non è che una sagoma di cartone, mentre la sua voce proviene da un disco registrato. Ancora una volta elusiva, sfuggente, ambigua la figura del criminale: anche Baum, una volta scoperto, impazzisce come Mabuse, ma egli, fin dal principio, non ne è stato che l'incarnazione vicaria.
Dopo aver girato in Francia Liliom (1934; La leggenda di Liliom), dalla commedia omonima di F. Molnár, L. si trasferì a Los Angeles, dove iniziò una nuova carriera. Benché emigrato, in una situazione agli inizi tutt'altro che facile, affrontò subito alcuni temi scomodi: Fury (1936; Furia) è ancora una meditazione sul rapporto tra Legge e Morale, sulla giustizia sommaria (il linciaggio), sulla bestialità della folla e sulla pulsione alla vendetta; You only live once (1937; Sono innocente) è la storia tragica di un errore giudiziario; You and me (1938) una commedia dolceamara su ex detenuti; The return of Frank James (1940; Il vendicatore di Jess il bandito), una rivisitazione del mito western di Jess James. Decisamente anti-nazisti sono il thriller spionistico Man hunt (1941; Duello mortale), che prende le mosse da un falso attentato a Hitler a opera di un cacciatore 'sportivo' inglese, e Hangmen also die (1943; Anche i boia muoiono), ambientato nella Cecoslovacchia invasa dai tedeschi, per il quale L. sperimentò una difficile collaborazione con Bertolt Brecht; ma anche Ministry of fear (1945; Prigioniero del terrore), inquietante spy story percorsa dalla solita ossessione del tempo, Cloak and dagger (1946; Maschere e pugnali), altra storia di spionaggio con risvolti d'attualità inerenti l'atomica. Nel 1944 e nel 1945, L. girò due film, che formano un dittico ideale, interpretati da uno stesso gruppo di attori (Edward G. Robinson, Joan Bennett, Dan Duryea). Sia in The woman in the window (1945; La donna del ritratto) sia in Scarlet street (1945; La strada scarlatta), remake di La chienne, girato da Jean Renoir nel 1931, il protagonista (Edward G. Robinson) è un tranquillo borghese statunitense (nel primo caso, un professore, nel secondo, un modesto cassiere di banca) che si trova inopinatamente coinvolto in avventure più grandi di lui, tra dark lady e avventurieri. Ciò che in un certo senso apparenta questi noir ai film tedeschi di L. è l'atmosfera cupa, oppressiva, notturna, più espressionista che hollywoodiana. Se The woman in the window sembra un gioco di specchi e di riflessi, che si conclude nello svelamento di un sogno, in Scarlet street il destino del protagonista, perseguitato dagli incubi del rimorso, è (ancora) quello della pazzia. In The secret beyond the door (1948; Dietro la porta chiusa), un architetto (la mancata professione dello stesso L.) arreda e colleziona ossessivamente riproduzioni di stanze in cui sono stati commessi celebri delitti, e forse l'ultima stanza, chiusa, segreta, è quella della prima moglie morta, dove alla nuova consorte (ancora Joan Bennett) è proibito l'ingresso. Di House by the river (1950; Bassa marea), prodotto dalla Republic a basso costo, con attori poco noti, L. riuscì a fare un piccolo gioiello di genere fantastico, tra spettri e allucinazioni. Nel clima avvelenato della caccia alle streghe del senatore J. McCarthy, L. dovette difendersi dall'accusa di aver avuto simpatie comuniste (vedi l'amicizia con B. Brecht e il musicista Hanns Eisler), ma il suo ritmo lavorativo non ne risentì: girò un western atipico come Rancho Notorious (1952) con Marlene Dietrich, i noir Clash by night (1952; La confessione della signora Doyle), The blue gardenia (1953; Gardenia blu) e The big heat (1953; Il grande caldo), un remake zoliano come Human desire (1954; La bestia umana), un film di avventure 'gotiche' come Moonfleet (1955; Il covo dei contrabbandieri). Malgrado la regia di due perfetti marchingegni polizieschi, While the city sleeps (Quando la città dorme) e Beyond a reasonable doubt (L'alibi era perfetto), entrambi del 1956, L. cominciò a incontrare difficoltà nel lavoro a Hollywood. Tornato in Germania, girò tra il 1958 e il 1959 il film, articolato in due parti, Der Tiger von Eschnapur/Das indische Grabmal (La tigre di Eschnapur/Il sepolcro indiano), remake di un vecchio film diretto da Joe May, che L. aveva sceneggiato a suo tempo con la Harbou. La ricerca del tempo perduto si completò nel 1960, con un ritorno a Mabuse (Die tausend Augen des Dr. Mabuse, Il diabolico dottor Mabuse), in cui il regista mise in scena l'ultima incarnazione di un discendente del grande criminale degli anni Venti, le cui imprese sono aggiornate tecnologicamente al nuovo universo di controllo e sorveglianza televisiva. Gli anni successivi furono ricchi per L. di onori e riconoscimenti (Jean-Luc Godard, tra l'altro, lo volle come attore e alter ego in Le mépris, 1963, Il disprezzo), ma nessuna prospettiva registica gli venne più offerta, anche perché, verso la fine, L. era diventato quasi cieco; ma era il cinema stesso a essersi inesorabilmente avviato verso altre strade.
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