CAPODIVACCA, Frizzerino
Nacque in Padova, probabilmente intorno al 1450. "Poche famiglie si trovano", scriveva nel 1570 uno storico dei Capodivacca, "che sianno state sempre di continuo così numerose di persone come di ricchezze ornati di valorosi homeni tanto in arme come in lettere" (Della illustre et potente stirpe..., c.2r). Accanto alla tradizione militare d'obbligo per queste famiglie della nobiltà patavina, i Capodivacca vantano un prestigio culturale, che il C. non smentisce: si laurea infatti in "artes et medicina". Alla laurea giunge anche il fratello Bartolomeo, mentre nulla sappiamo del curriculum culturale degli altri due, Andrea ed Alvise. Ignoriamo chi sia stata la madre; il padre è Obizzone, dedito, anche se non fu fra le personalità di maggiore rilievo, alla vita pubblica.
Obizzone figura per la prima volta come "additus" nel 1461 per il quartiere delle Torricelle; siede poi spesso in Consiglio sempre fra i rappresentanti dello stesso quartiere; in particolare negli anni 1470, '72, '74, '77, '79. Nel 1481 raggiunge la più alta magistratura della città: è infatti eletto fra i deputati "ad utilia". È l'unica volta: d'ora in poi è nominato, e anche con lunghi intervalli, "consiliarius" (nel 1482, '84, '86, '89 e '91). Le sue frequenti assenze dall'assemblea, in questi anni, sono forse legate al fatto che normalmente padre e figlio non potevano esserne contemporaneamente membri.
Il C. comincia la sua carriera proprio nel 1482, sempre per le Torricelle. Già in quest'anno oltre che "dottor" è nominato "eques auratus", onorificenza questa d'origine pontificia e imperiale, ma che gli dovette essere assegnata per una tradizione di famiglia, dato che nella seconda metà del Quattrocento il titolo aveva perso qualsiasi significato politico. Forse nel triennio 1482-1485 contrasse matrimonio; nel 1485 è "consiliarius" per il duomo; non abita dunque più nella casa paterna delle Torricelle. Nel 1486 la prima missione importante: va a Venezia in ambasceria gratulatoria per l'elezione a doge di Marco Barbarigo. L'anno successivo (1487) è ancora designato per il duomo ed è indicato col titolo di "miles", probabilmente ad indicare più che un'attività militare, la sua autorità su quelle milizie di ventura potenziali che erano i "rustici" abitanti nelle terre del signore. Nel 1489 la svolta: è deputato "ad utilia" e d'ora in poi consegue spesso le cariche più elevate: dopo aver figurato nell'"additio" del duomo per il 1490, è deputato "ad utilia" nel 1492 (in quest'anno ritorna anche come oratore a Venezia) e nel 1495.
Nel 1496 viene chiamato "ad sindicatum rectoris artis lane" proprio in un momento in cui il Consiglio auspicava dai "sindici" una maggiore severità.
Nel 1498, deputato "ad utilia", rifiuta un'altra ambasceria a Venezia, quasi certamente perché impegnato, con alcuni patrizi, a comporre con Verona, vicina e sempre rivale, una vertenza in materia d'acque. Si recherà invece a Venezia, sempre come deputato "ad utilia" e sempre per una questione d'acque, nel 1500.
Nel periodo 1492-1500, forse per la morte del padre, il C. dovette ritornare ad abitare nella casa paterna: nel 1501 è infatti "consiliarius" per le Torricelle. Deputato "ad utilia" anche per gli anni 1504 e 1506, nel 1505 è invece nominato conservatore del Monte di Pietà.
In questi venticinque anni di carriera, egli è protagonista di numerose "partes" in linea, com'è ovvio, con la politica della sua classe tesa a difendere la ricchezza e i privilegi, spesso minacciati, degli interessi veneziani. Notevole sembrò, ad esempio, la sua proposta (23 nov. 1492) che il celebre medico padovano Gerolamo Polcastro fosse sostituito, nella cattedra presso lo Studio, solo da concittadini. L'autonomia dello Studio è uno dei punti che la nobiltà patavina difende con maggiore risolutezza. Ancora più indicativa di questa linea di condotta appare la proposta (8 dic. 1495) riguardante una riforma nel sistema per l'elezione dei conservatori del Monte di Pietà, istituito nel 1490, e monopolio, nella sua amministrazione, della classe dirigente. È interessante notare, anche se si tratta di opposti punti di vista, come la preoccupazione di trovare buoni amministratori per il Monte, che il C. dimostra nel 1495, sia la stessa che tormentava due anni prima il veneziano Pietro Barozzi, vescovo di Padova. Resta, infatti, in mano al patriziato padovano, seppur privo di autonomia politica, un grande potere economico, che tale ceto difende come ultimo e più cospicuo baluardo. In questo momento la maggior parte delle terre attorno alla città è ancora in mano delle grandi famiglie e in generale dei Padovani, anche se continuo è l'acquisto da parte dei Veneziani, i quali pretendono di avere le medesime esenzioni fiscali godute dai cittadini originari. Nei primi anni del Cinquecento i nobili di Padova cercano di difendersi contro tale penetrazione che esploderà dopo Agnadello e che nella seconda metà del secolo, vedrà molti patrizi veneziani, in veste di maggiori proprietari, consorziati ai padovani nelle opere di bonifica. Sintomatica è la "pars" del 14 genn. 1505, in cui il C. propone che, per salvare il bel "piovado di Sacco" che "si sta così ingorgando di acque che se non si provvede diventerà valle", i proprietari si uniscano nei lavori di sbarramento delle acque e una commissione di due divida l'onere (Atti del Consiglio, vol. 12, c. 156v.).
Mancano le testimonianze ufficiali sul triennio 1506-1509 della vita pubblica di Padova. La crisi di Agnadello trova il C. al governo della città: è, infatti, fra gli otto nobili che il 2 giugno sono eletti per dare a Padova, allorché si stanno avvicinando le truppe imperiali, "vigoroso reggimento" (Bonardi, p. 329). È dunque uno degli artefici della consegna di Padova agli Asburgo e vigila, insieme coi figli Corradino (Cardino) e Paolo, a guardia delle porte. Quando, il 6 luglio, la Repubblica riconquista Padova, insieme con molti altri membri del Consiglio, quasi tutto decisamente filo-imperiale, cerca di fuggire, ma è preso e inviato a Venezia ove giunge il 22 luglio e viene chiuso in un "cabion" nei magazzini di "Terra Nuova" (Bonardi, p. 383). Con lui sono i maggiori responsabili della congiura, alcuni dei quali saranno poi giustiziati. Intanto i Dieci il 24 luglio istituiscono un collegio straordinario con facoltà "di esaminarli e di assoggettarli alla tortura, come imputati di esser nemici e ribelli allo Stato" (Bonardi, p. 383). Pochi giorni prima al C., come a molti ostili a Venezia, è stata saccheggiata la casa sulla cui facciata facevano bella mostra, come segno dell'accesa fede filoimperiale, tre stemmi asburgici di carta. Fu la sua una disfatta completa, come totale era stata la sua adesione alla fazione antiveneziana.
Anche i suoi figli, come lui partecipi della congiura, sono colpiti. Paolo riesce a fuggire e solo dopo lunghi anni può ritornare in patria. Cardino, imprigionato dal capitano veneziano Spadacino, prorompe in colorite esclamazioni di delusione: "Vegna el cancharo al imperador, el ne ha dito zanze, el non ne ha dato secorso nesun" (Ibid., p. 495). Condotto a Venezia, è liberato dalla prigione nel 1510, ma deve rimanere a disposizione della Repubblica. Ancora arrestato per supposte trame antiveneziane, ma subito liberato nel 1516, può però tornare in patria soltanto nel 1525. Accanto alla vicenda dei due figli legittimi del C. si pone quella dei suoi due figli naturali: di uno, Girolamo, si suppone soltanto che fosse suo figlio: "costui andava de fuora sachizando i formenti dei zentilhomeni de Venetia..." (Bonardi, p. 494). Anch'egli è fatto prigioniero e gli viene saccheggiata la casa presso Abano.
Notizie più precise si hanno su Alessandro, sicuramente figlio del C. e forse identificabile con l'Alessandro eletto "consiliarius" per il quartiere delle Torricelle negli anni 1494 e 1496. Anch'egli condotto in prigionia a Venezia, è obbligato come il fratello Cardino, a rimanere in città e a presentarsi periodicamente alla "bolla". Non solo, le sue responsabilità devono essere abbastanza notevoli se versa, per riacquistare la libertà, una cauzione di 1000 ducati pagata in parte da Cardino.
È il 7 maggio 1512; il C., a quest'epoca, è già morto in carcere. Tanto più triste è la sua fine, quanto contrapposta all'ascesa del fratello Andrea (già "consiliarius" per il quartiere delle Torricelle nel 1494).
Andrea Si schiera dalla parte "marchesca" e addirittura collabora con l'esercito veneziano. Ne avrà cospicua ricompensa: nel 1515 accompagna gli oratori veneziani a Milano come siniscalco generale e cavalca "un cavallo... molto bello e in ordine" (Sanuto, XXI, col. 311). Nel 1517, quando il Consiglio è ricostituito, è fra gli otto oratori che vanno a Venezia a rendere omaggio, significativo esempio di quelle incrinature nella compattezza politica del patriziato padovano il cui studio permetterebbe un riequilibrio del problema della classe dirigente padovana fra 1400 e 1500.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Padova, Archivio civico antico,Atti del Consiglio, vol. 7, c. 2 v; vol. 8, cc. 1 r, 100 r, 104 r, 153 v, 200 r; vol. 9, cc. 1 r, 78v, 146 v, 250 r, 293 r, 394 r, 424 r, 440 r; vol. 10, cc. 2 r, 4 v, 75 v, 76v, 77 r, 94v, 203 r, 206v, 208 r, 230v, 232 rv, 234v, 238 v, 241 v, 242 rv, 245 r, 255 r, 304 r; vol. II, cc. 1 v, 20 r, 39 rv, 40 v, 41 v, 42 r, 43 rv, 44 v, 45 v, 46 r, 49 r, 51 r, 52v, 53 v, 54 r, 104 r, 127 v, 146 rv, 150 v, 152 r, 153 r, 241 r, 255 rv, 260 r, 261 rv, 290 r, 294 v, 295 r, 297v, 298 r, 299v; vol. 12, cc. 3 r, 132 r, 142v, 143v, 145v, 154v, 156v, 157v, 158r, 168 r, 174 v, 194 r, 200v, 202 v, 203 r, 204v, 205 rv, 206 v, 207v, 208 rv; Padova, Bibl. del Museo civico, ms. B. P. 1454-XII: Della illustre et potente stirpe delli Capi di Vacca, c. 2 r e passim (v. anche ms. B. P. 3. 149 [LV]: Della illustre e potente stirpe delli Capidivacca, in Missellanea ossia opere varie, III, cc. 383 ss.); Ibid., ms. B. P. 2. 1018: Albero genealogico della nobilissima prosapia Capodivacca; M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, VIII, coll. 367, 439, 495, 523, 526, 543; IX, coll. 52, 116; X, col. 438; XI, col. 320; XXI, coll. 296, 311; XXIII, col. 28; A. Bonardi, I Padovani ribelli alla Repubblica di Venezia (a. 1500-1530)..., Venezia 1902, pp. 329, 341, 374, 381, 383, 429, 431, 433, 480, 482, 494 s., 589, 594, 605; A. Gloria, Di Padova dopo la lega stretta in Cambrai dal maggio all'ottobre 1509, Padova 1863, p. 58; E. Menegazzo P. Sambin, Nuove esplorazioni archivistiche per Angelo Beolco e Alvise Cornaro, in Italia medioevale e umanistica, IX (1966), p. 247.