Abstract
Si analizza nelle sue componenti essenziali il nuovo delitto di «frode in processo penale e depistaggio» di cui all’art. 375 c.p., introdotto dalla l. 11.7.2016, n. 133. In particolare, viene messo in rilievo il profilo concernente la ratio dell’incriminazione e l’oggetto di tutela, con riferimento al ruolo svolto dalle qualifiche soggettive e dal dolo specifico, elementi questi distintivi rispetto alle altre fattispecie comuni incriminanti fatti identici.
La l. 11.7.2016, n. 133 (Introduzione nel codice penale del reato di frode in processo penale e depistaggio), ha ridisegnato il capo I (Dei delitti contro l’attività giudiziaria), del titolo III, del libro II del codice penale. In particolare, oltre l’innalzamento delle pene previste per il delitto di frode processuale (art. 374 c.p.), è stato introdotto il delitto di frode in processo penale e depistaggio nel riformulato art. 375 c.p. (precedentemente relativo alla circostanza aggravante dei delitti di falsità processuale, ora confluita nel nuovo art. 383 bis c.p. con un aumento delle cornici edittali). Il nuovo delitto punisce con la reclusione da tre a otto anni il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che al fine di impedire, ostacolare o sviare una indagine o un processo penale: 1) immuta artificiosamente il corpo del reato, dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato; 2) afferma il falso, nega il vero ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali è richiesto di fornire informazioni dall’autorità giudiziaria o dalla polizia giudiziaria in un procedimento penale; la nuova fattispecie si applica anche alle indagini e ai processi della Corte penale internazionale in ordine ai crimini previsti dallo Statuto della Corte medesima. La norma, per espressa previsione di legge, ha carattere sussidiario essendo applicabile solo quando il fatto non presenta gli estremi di un più grave reato. Il nuovo delitto prevede, inoltre, due circostanze aggravanti speciali ad effetto speciale: la prima consiste in situazioni di falsità documentale (co. 2), la seconda nell’aver commesso il fatto in relazione a procedimenti penali relativi a specifici gravi reati (co. 3). Nell’ottica di una giustizia riparativa si contempla, poi, una significativa attenuante che prevede una diminuzione della pena dalla metà a due terzi a fronte di condotte ripristinatrici, di ravvedimento operoso nonché collaborative (co. 4). Alla condanna per il delitto consegue, in caso di reclusione superiore a tre anni, la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici (co. 6), in deroga all’art. 29 c.p. dove si richiede la condanna non inferiore a cinque anni; non può non evidenziarsi sul punto qualche perplessità dal momento che si sottopone al medesimo trattamento sanzionatorio (seppur in tema di pene accessorie), fatti la cui gravità può essere significativamente diversa. L’intervento legislativo ha provveduto, altresì, ad estendere la disciplina della ritrattazione anche in relazione al nuovo delitto, con riferimento alle falsità dichiarative di cui alla lett. b), co. 1 dell’art. 375 c.p., e a raddoppiare i termini di prescrizione nel caso di delitto aggravato ai sensi del co. 3 dell’art. 375 c.p. (art. 175, co. 6, c.p.). È stata, infine, inserita la circostanza aggravante di cui all’art. 384 ter c.p., per reati comuni contro l’amministrazione della giustizia indirizzati a depistare reati gravi.
L’intervento normativo in esame si collega all’esigenza di una maggiore tutela del corretto svolgimento dell’attività giudiziaria, intendendo rafforzarne la sfera di protezione nei confronti di una serie di condotte che, come evidenziano le indagini e i processi per gli attentati e le stragi del passato, anche nell’ottica dell’attuale esigenza di un efficace contrasto al terrorismo, hanno rivelato una inadeguatezza del sistema penale rispetto ad azioni tese ad impedire, ostacolare o sviare una indagine o un processo penale. Si è cioè avvertita l’esigenza di codificare e punire adeguatamente un novero di condotte espressive, nei confronti dell’amministrazione della giustizia, di una più grave offensività, sia sul versante soggettivo del loro autore sia, al tempo stesso, per lo specifico scopo preveduto e voluto dall’agente. La ratio di questa nuova struttura del reato può cogliersi nella connotazione del delitto come reato proprio in relazione a condotte che, ove commesse da “chiunque”, costituirebbero già violazioni penali, seppur punite con una pena edittale inferiore (es.: artt. 371 bis, 372, 374, 378 c.p.) La pena più elevata per la violazione commessa dal soggetto qualificato esprime pertanto, un disvalore aggiuntivo legato ad una infedeltà alla funzione pubblica e alla lesione di un particolare affidamento in essa riposto dall’amministrazione della giustizia. Dalla lettura della disposizione si evidenzia però un eccessivo ampliamento della portata applicativa della norma che, negli iniziali intenti riformatori, limitava la tipicità alle «infedeltà dei pubblici agenti strumentali ad occultare responsabilità ed a garantire esiti di impunità, nel ristretto contesto dei più gravi reati di eversione, terrorismo, mafia, traffico di armi e droga» (Maiello, V., Il delitto di depistaggio: dietro l’esigenza di una tipicità criminosa le insidie del diritto penale simbolico, in www.lalegislazionepenale.eu, 4 ); ipotesi questa confluita poi in una specifica aggravante del delitto stesso (art. 375, co. 3, c.p.) L’elemento di congiunzione operato dal legislatore tra depistaggio, inteso ad occultare responsabilità degli uomini dello Stato in ordine al mancato accertamento di reati gravissimi ben definiti, e l’inquinamento processuale relativo ad ogni sviamento investigativo anche di lieve entità, rende la norma poco chiara, evanescente, per nulla precisa, comportando così un rischio operativo e applicativo notevole anche alla luce del fatto che la qualifica soggettiva risulta scissa da qualsiasi collegamento/riflesso con il reato (in tal senso anche D’Ascola, V.N., Il reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 c.p.), in Fiorella, A., a cura di, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 715).
La norma in oggetto, proprio attraverso la circoscritta qualifica soggettiva, intende proteggere in chiave rafforzata l’interesse pubblico alla corretta amministrazione della giustizia, e in particolare, all’accertamento della verità processuale; qui l’offesa assume una peculiare valenza in considerazione del disvalore espresso da condotte che derivano dallo sviamento di funzioni o servizi pubblici dal loro scopo. Ciò significa, che la qualifica pubblicistica, è «un dato preesistente, che si riversa nel fatto di inquinamento probatorio», in quanto quel soggetto «è parte essenziale del presidio pubblicistico di quotidiana tutela della legalità» (Santoro, V., Alcune considerazioni sul nuovo reato di “frode in processo e depistaggio” (art. 375 c.p., L. 11 luglio 2016, n. 133), in www.archiviopenale.it, 9) e, con la propria condotta, tradisce quel particolare/permanente vincolo di fedeltà, mettendosi al servizio di illeciti interessi che ha il dovere di contrastare e reprimere. E proprio quel vincolo, definito in dottrina “fiduciario”, con l’amministrazione pubblica distingue e contraddistingue questa fattispecie da quelle dove la qualifica soggettiva assume rilievo solo ed esclusivamente all’interno e per la durata del procedimento penale (si pensi al falso informatore ovvero al falso testimone di cui agli artt. 371 bis e 372 c.p.). La tutela, quindi, consiste nell’affidabilità che l’autorità giudiziaria ripone nei confronti di determinati soggetti, per la posizione rivestita nell’ambito di pubblici poteri; di qui l’ordinamento pretende un più intenso dovere di collaborazione, dovere che, si badi bene, prescinde dal collegamento con l’esercizio della funzione o dell’incarico pubblico, essendo sufficiente il mero possesso di una della due qualifiche soggettive. Come esattamente rilevato, si sanziona la violazione di un obbligo di fedeltà all’istituzione (Santoro, V, Alcune considerazioni, cit., 7, 10), con particolare riferimento alla funzionalità ed effettività del law enforcement, e, cioè, dell’accertamento e repressione dei reati (Maiello, V., Il delitto di depistaggio, cit., 5). Si intende, perciò, tutelare la “funzione cognitiva” del processo che trova la sua massima espressione nelle numerose fattispecie di falso previste tra i delitti contro l’attività giudiziaria, e che ha un chiaro aggancio costituzionale nell’obbligatorietà dell’azione penale (art. 112 Cost.) e nel richiamo che il giusto processo opera quanto alla corretta formazione della prova (art. 111, co. 3, Cost.). Ci sia consentita, però, qualche breve osservazione; è evidente che i rischi per la funzione cognitiva del processo possano derivare dalla violazione di doveri di collaborazione previsti nella disciplina penale e processuale (al riguardo si rinvia a Pulitanò, D., Sulla tutela penale della giustizia penale, in Studi in onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 1260 ss.). La tutela del law enforcement, infatti, trova la sua massima espressione in fattispecie che fanno riferimento a reati propri relativi all’adempimento di determinati obblighi da parte di soggetti qualificati, ossia gli obblighi di denuncia di cui agli artt. 361 c.p. ss. e 331 c.p.p. A ben vedere il nostro codice, seppur espressione di una ideologia autoritaria, non ha dato priorità assoluta al finalismo repressivo operando nel rispetto di un bilanciamento di beni contrapposti una importante delimitazione degli obblighi di denuncia, sancendo un obbligo generalizzato esclusivamente nei confronti della polizia giudiziaria ovvero dei pubblici ufficiali o degli incaricati di pubblico servizio in qualità di testimoni di fatti collegati all’esercizio o a causa della funzione o del servizio svolto. In questa prospettiva, anche per una coerenza con il disegno generale dell’ordinamento penale, andrebbe recuperato «il nesso funzionale o causale tra lo sviamento e la qualifica pubblicistica dell’agente» (Maiello, V., op. cit., 8), vuoi in ragione di un obbligo specifico di collaborazione all’indagine, vuoi anche solo per lo sfruttamento del ruolo rivestito in virtù della mera qualifica. Peraltro, solo così si può spiegare il co. 7 dell’art. 375 c.p. che prevede, replicando l’art. 360 c.p., la punibilità del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio anche quando siano cessati dal loro ufficio o servizio. La ratio di una tale dicitura non può non incentrarsi sul fatto che l’inquinamento processuale presenti un nesso funzionale/causale con le pregresse funzioni pubblicistiche, collegate con un fatto specifico temporalmente definito (cfr. Santoro, V., op. cit., 12). Chiaramente trattasi di una operazione di “ortopedia interpretativa” che nulla garantisce in sede applicativa, sebbene lasci ben sperare la prima pronuncia della Cassazione sul punto. L’organo nomofilattico, nel sottolineare la essenziale preesistenza della qualifica soggettiva rispetto alla indagine di cui al depistaggio, afferma come necessario «il rapporto di connessione funzionale con l’accertamento che si assume inquinato»; solo la correlazione funzionale con l’attività di indagine, motiva l’elevata previsione sanzionatoria di cui all’art. 375 c.p. (Cass. pen., 30.5.2017, n. 24557). Sempre secondo la Corte Suprema, in assenza di tale collegamento e in presenza dei requisiti richiesti (finalità di depistare alcuni gravissimi reati), al soggetto qualificato potrà applicarsi l’aggravante dei reati comuni di cui all’art. 384 ter c.p.
L’art. 375 c.p. prevede due condotte a consumazione alternativa che ripetono, con le varianti già sottolineate della qualificazione soggettiva e del dolo specifico, i reati di frode processuale e falsità dichiarative nel processo. La prima condotta, prevista al co. 1, lett. a) dell’art. 375 c.p., ripercorre quasi per intero gli elementi essenziali del delitto di frode processuale alla cui elaborazione giurisprudenziale e dottrinale si rimanda (Cass. pen., S.U., 25.10.2007, n. 45583; Pisa, P., voce Frode processuale, in Dig. pen., V, Torino, 327); essa consiste nell’immutazione artificiosa del corpo del reato, dello stato dei luoghi, delle cose o delle persone connessi al reato. Preme chiarire che il termine “immutazione” indica qualunque mutamento, trasformazione o alterazione, nel significato fisico del termine di luoghi, cose o persone nel corso del procedimento penale, in termini qui diversi dal delitto di frode processuale, avendo il legislatore eliminato il collegamento di necessaria strumentalità tra la condotta e determinati contesti probatori/processuali richiamati invece dall’art. 374 c.p. Rispetto alla fattispecie di frode processuale, si segnala la ulteriore previsione del «corpo del reato» tra gli oggetti su cui può ricadere la condotta artificiosa, concetto che avrebbe potuto comunque rientrare in quello di «cose connesse al reato».
L’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., prevede la condotta di depistaggio dichiarativo consistente in mendaci o reticenti dichiarazioni fornite dal soggetto qualificato all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria. Come anticipato in premessa, trattasi di reati già contemplati nel nostro codice penale agli articoli 371 bis, 372, nonché 378 c.p., arricchiti dalla qualifica soggettiva e dal dolo specifico di inquinamento probatorio. Quanto alle definizioni di “affermazione del falso”, “negazione del vero” e di “reticenza” si può rinviare all’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale maturata nel corso degli anni con riferimento soprattutto alla falsa testimonianza. Quanto all’oggetto delle condotte mendaci o reticenti, queste ultime ricadono sulle informazioni in possesso del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio concernenti i fatti su cui l’autorità giudiziaria e la polizia giudiziaria svolgono indagini ovvero celebrano un processo penale. L’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., nella parte in cui disciplina le attestazioni mendaci alla polizia giudiziaria, configura una ipotesi di favoreggiamento dichiarativo. Sia chiaro, il legislatore con ciò non ha inteso inserire elementi di novità nel tessuto legislativo, ma ha solo adeguato la normativa ad un dato già conseguito per via di interpretazione. La giurisprudenza da sempre classifica il mendacio alla polizia giudiziaria come una ipotesi di aiuto qualificato alla elusione delle investigazioni e delle ricerche. Peraltro, già il legislatore, con la l. 15.7.2009, n. 94, ha esteso la ritrattazione al favoreggiamento personale dichiarativo aderendo a tale indirizzo giurisprudenziale. Qualche perplessità può suscitare l’ipotesi omissiva esplicitamente prevista nell’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., nella parte in cui il pubblico ufficiale richiesto dalla polizia giudiziaria, rifiuta la propria collaborazione. La giurisprudenza, anche a fronte della sfuggente tipicità del favoreggiamento personale, da sempre ritiene che, “chiunque”, abbia il dovere di impedire il pericolo di un intralcio all’attività di giustizia (favoreggiamento omissivo) (cfr. Cass. pen., S.U., 5.6.2007, n. 21832). La dottrina ha invece costantemente evidenziato come la causalità omissiva debba avere una significazione giuridica; è insomma l’esigenza giuridica a rendere quel comportamento suscettibile di valutazione. In difetto di questa esigenza, il comportamento omissivo si dissolve ed è privo di qualsiasi significato; ciò esclude che la mancata cooperazione del cittadino all’attuazione della giustizia abbia rilievo giuridico-penale salvo che non sia espressamente previsto dalla legge (es.: art. 364 c.p.). Diversa è l’ipotesi prevista nell’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., dove l’attenzione si polarizza sulla posizione di coloro, pubblici ufficiali e incaricati di pubblico servizio, “funzionalmente” legati all’istituzione ovvero addirittura intranei alla amministrazione giustizia, così da evidenziare un qualificato vincolo fiduciario con la stessa. A tali soggetti non è consentita una inazione, ciò costituirebbe, come esattamente scritto, un «positivo sabotaggio del contesto dell’attività istituzionale» (Pulitanò, D., Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984, 166). Il legislatore con la nuova norma ha voluto disciplinare una condotta omissiva di favoreggiamento personale: «tace alla polizia giudiziaria, in tutto o in parte, ciò che sa sui fatti sui quali viene sentito», differenziata rispetto alla fattispecie ordinaria. Ciò trova conferma nell’art. 384 ter c.p. che, nel disciplinare l’aggravante per i reati comuni di mendacio dichiarativo nonché frode processuale, commessi al fine di ostacolare, impedire o sviare un’indagine in relazione a gravi delitti citati nella norma (fatti di cd. “comune depistaggio”), non replica la condotta omissiva di favoreggiamento personale così come disciplinata nell’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., limitandosi a richiamare genericamente l’art. 378 c.p.
L’elemento soggettivo di questa nuova fattispecie criminosa è costituito dal dolo specifico, richiedendosi, oltre la coscienza e volontà della condotta sopra definita, il fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale. Va ribadito che detta finalità si ricollega ancora una volta all’essenza della norma incriminatrice. Intanto si può punire una condotta di falsità processuale più severamente in quanto essa è finalizzata ad ostacolare l’accertamento della verità processuale. La funzione del dolo in questo caso, quindi, è nel senso di operare una specializzazione della tutela, modificandone il significato offensivo, peraltro desumibile già dalle fattispecie criminose comuni. Sul punto, parte della dottrina è critica. Si nega, infatti, un qualsiasi effetto selettivo al dolo specifico in oggetto ritenendolo in re ipsa, dal momento che sarebbe arduo dimostrare che «soggetti qualificati compiano i fatti descritti senza essere animati da siffatta intenzione» (Pisa, P., Il “nuovo” reato di depistaggio, in Dir. pen. proc., 2016, 10, 1277). Il dolo starebbe già nella oggettiva condotta tipica e lo scopo sarebbe già realizzato con la immutazione artificiosa ovvero col mendacio processuale, producendosi sempre un intralcio seppur generico all’attività di giustizia. Altra parte della dottrina, invece, si sofferma sulla necessaria funzione selettiva del dolo specifico, attraverso una interpretazione coerente con l’impianto oggettivistico del sistema penale e col principio di offensività, approfondendo e accentuando la concretezza dell’accertamento «degli atti funzionalmente compiuti dall’agente qualificato a conseguire tale risultato» (Maiello, V., op. cit., 13). Al fine di evitare nozioni di “dolo fittizio” è stato altresì affermato che l’interprete, seppur attraverso una non semplice analisi, dovrà focalizzare l’attenzione sulla “finalità di ostacolare”, quindi di bloccare il processo, «in esito a condotte di alterazione della realtà effettiva e conseguente creazione … di una realtà fittizia» (Santoro, V., op. cit., 18). Così ridefinita, la funzione selettiva del dolo specifico potrebbe giustificare la mancata inclusione del nuovo delitto nell’ambito della causa speciale di non punibilità di cui all’art. 384 c.p. Tale norma, com’è noto, fonda la propria ragion d’essere, da un lato, sul fondamentale principio giuridico del nemo tenetur se detegere, e, dall’altro, sulla esigenza di tener conto dei vincoli familiari; situazioni soggettive, quindi, ritenute dal legislatore di rilievo prevalente rispetto agli interessi attinenti al processo. Si tenga altresì presente che tale norma opera anche con riguardo a reati tipici del pubblico ufficiale (es.: art. 361 c.p.) per cui la esclusione del depistaggio dal suo raggio di operatività trova una spiegazione solo attraverso il ruolo essenziale e preminente svolto dal dolo specifico «che contrassegna il nuovo reato e che sottende una proiezione della volontà verso un obiettivo che costituisce la radicale negazione dei doveri di leale collaborazione processuale» (Santoro, V., op. cit., 35, il quale però solleva dubbi sulla totale esclusione di questo reato dalla operatività dell’art. 384 c.p., co. 1 e soprattutto co. 2).
Il nuovo reato, come tutti quelli a tutela del corretto esercizio della giurisdizione, segue la tecnica legislativa dell’illecito di pericolo, da intendersi come pericolo “concreto” e cioè come effettiva potenzialità di pregiudizio (Maiello, V., op. cit., 6). Non è necessaria la concretizzazione di quelle condotte di impedimento, ostacolo o sviamento del procedimento penale, che costituiscono la finalità precipua del pubblico agente (dolo specifico). Occorre ribadire, pertanto, collegandoci a quanto già detto nel precedente paragrafo, che in un sistema giuridico fondato sui fatti e non sulle intenzioni, è necessario, anche in tema di dolo specifico, fugare una eccessiva soggettivazione della fattispecie attraverso l’imprescindibile riscontro sulla oggettiva adeguatezza del fatto rispetto al fine; da intendersi, nel nostro caso, come «concreta idoneità ad influenzare l’accertamento dei fatti processuali» (Maiello, V., op cit., 7).
L’art. 375 c.p. contempla ai commi 2 e 3 due aggravanti speciali ad effetto speciale. Il co. 2, attraverso la tecnica del rinvio, prevede un aumento di pena da un terzo alla metà se il fatto è commesso mediante distruzione, soppressione, occultamento, danneggiamento, in tutto o in parte, ovvero formazione o artificiosa alterazione, in tutto o in parte, di un documento o di un oggetto da impiegare come elemento di prova o comunque utile alla scoperta del reato o al suo accertamento. Parte della dottrina (Pisa, P., Il “nuovo” reato di depistaggio, cit., 1277 ss.), sottolineando la discutibile tecnica legislativa, sostiene, seppur con difficolta, la natura circostanziale dell’ipotesi suddetta solo in relazione alla condotta di cui al co. 1 lett. a), ben potendo il falso documentale impiegato come elemento di prova, rappresentare «una forma di immutazione artificiosa connessa al reato» di più elevata gravità; sussisterebbe in tal caso, tra la fattispecie base e la sottofattispecie circostanziale, la richiesta relazione di specialità che permette di definire le aggravanti criteri di commisurazione della pena. In relazione invece al depistaggio dichiarativo, la stessa dottrina afferma non intercorrere alcun rapporto di specialità con l’aggravante del cd. “depistaggio documentale”; trattandosi in tal caso di fattispecie tra loro eterogenee, in rapporto di incompatibilità, da considerare a tutti gli effetti titoli autonomi di reato, disciplinati dalle regole sul concorso materiale dei reati. La tesi suesposta, seppur apprezzabile per il rigore argomentativo seguito, non può essere condivisa. Essa contrasta con le prevalenti posizioni in tema di distinzione tra elementi costitutivi del reato e circostanze. In particolare, col criterio cd. “testuale” che fa leva sul nomen iuris utilizzato dal legislatore; con quello cd. “topografico” che guarda alla collocazione della norma; nonché col criterio cd. “strutturale” delle «modalità di descrizione della fattispecie» (Cass. pen., S.U., 10.7.2002, n. 26351), che individua nella «descrizione per relationem», e cioè nel rinvio ad un fatto descritto in altra fattispecie, l’elemento circostanziale e non la figura autonoma di reato (cfr., in dottrina, Maiello, V., op. cit., 16).
La seconda aggravante prevista al co. 3 dell’art. 375 c.p. prevede la pena della reclusione da sei a dodici anni se i fatti di frode processuale e depistaggio sono commessi in relazione a procedimenti penali concernenti i delitti cui agli artt. 270, 270 bis, 276, 280, 280 bis, 283, 284, 285, 289 bis, 304, 305, 306, 416 bis, 416 ter e 422 o i reati previsti all’art. 2, l. 25.1.1982, n. 17, ovvero i reati concernenti il traffico illegale di armi o di materiale nucleare, chimico o biologico, o comunque tutti i reati di cui all’art. 51, co. 3-bis, c.p.p. È evidente trattarsi di una fattispecie circostanziale speciale visto il rapporto di specialità che intercorre con il reato base: gli importanti reati previsti nell’aggravante costituiscono una specificazione, «una variante di intensità», rispetto al substrato oggettivo del delitto di frode processuale e depistaggio. Evidentemente le circostanze di cui ai commi 2 e 3 dell’art. 375 c.p. possono concorrere secondo i criteri previsti dall’art. 63, commi 3 e 4, c.p.
Come già anticipato, nel nuovo art. 383 bis c.p. viene collocata la circostanza aggravante prevista nella previgente normativa all’art. 375 c.p., estesa ora anche all’ipotesi di frode processuale e depistaggio (critico Pisa, P., op. ult. cit., 1278). Il recupero dell’aggravante era necessario a fronte del maggior danno contenuto nella causazione di condanne ingiuste a seguito della commissione di alcuni delitti contro l’amministrazione della giustizia. Trattasi di circostanza a titolo autonomo in quanto comporta una rideterminazione della pena edittale prevista per i delitti ivi richiamati, che appunto vengono definiti “aggravati dall’evento”.
Il legislatore, infine, ha disciplinato all’art. 384 ter c.p. una inedita circostanza aggravante che riproduce, in modo conforme, quella prevista all’art. 375, co. 3, c.p. Si prevede l’aumento della pena per i delitti di cui agli artt. 371 bis, 371 ter (ipotesi questa assente nell’art. 375, co. 3), 372, 374 e 378 c.p., qualora commessi al fine di impedire, ostacolare o sviare un’indagine o un processo penale in relazione ai gravi reati di cui all’art. 375, co. 3, c.p. (cd. “depistaggio comune”).
Seppur con qualche difetto di coordinamento, meritano particolare considerazione ulteriori aspetti dell’intervento legislativo tesi a rafforzare la tutela dell’interesse protetto. In particolare, l’art. 375, co. 5, c.p., disciplina il regime di bilanciamento delle attenuanti (diverse dalla minore età di cui all’art. 98, dal minimo apporto in caso di concorso soggettivo di cui all’art. 114, nonché dalle ipotesi di ravvedimento operoso di cui al co. 4 dell’art. 375 c.p.) che non possono essere ritenute prevalenti rispetto alle ipotesi aggravate ivi previste (art. 375, commi 2 e 3, c.p.). E ciò chiaramente risponde all’esigenza di meglio garantire l’effettività della sanzione dalla comminatoria alla sua applicazione (critico sul punto Maiello, V., op. cit., 18). L’indubbio aggravamento del trattamento con finalità di deterrenza mal si concilia con la scelta (meglio dimenticanza?) del legislatore di escludere le circostanze aggravanti ad effetto speciale collegate alla causazione della condanna ingiusta (art. 383 bis c.p.), nonché quella riferita alla tipologia criminosa di cui all’art. 384 ter c.p., dall’ambito del divieto del giudizio di comparazione; con ciò provocando il paradossale effetto di un possibile bilanciamento tra qualsiasi attenuante e le aggravanti di cui sopra (cfr. Pisa, P., op. ult. cit., 1279).
In un’ottica premiale, l’art. 376 c.p. estende la ritrattazione al delitto di cui all’art. 375, co. 1, lett. b), c.p., cioè alle condotte di depistaggio dichiarativo. È noto che il fondamento politico criminale della ritrattazione risiede nell’interesse all’accertamento processuale della verità, interesse considerato preminente e meritevole di tutela anche a prezzo dell’impunità; insomma, si premia l’eliminazione dell’offesa e la ristabilita soddisfazione dell’interesse tutelato. Ci sia consentita sul punto qualche breve osservazione. Occorre rilevare che «l’esistenza dell’art. 376 c.p. avrebbe comunque cancellato il reato dei “depistatori comuni” nonostante l’aggravante speciale collegata ai reati più gravi del nuovo art. 384-ter c.p.», che com’è noto segue le sorti del reato base (Pisa., P., op. ult. cit., 1280). Qualche riserva ingenera l’estensione della ritrattazione ai “depistatori qualificati”, e, in relazione all’aggravamento di pena (da sei a dodici anni) previsto dall’art. 375, co. 3, c.p., escluso peraltro dal regime di bilanciamento delle circostanze, e, in riferimento al co. 6 dell’art. 375 c.p., che nel prevedere la pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici, per una condanna superiore ai tre anni, deroga in peius all’art. 29 c.p. Si evidenzia, quindi, una tecnica legislativa discutibile a fronte di un legislatore che ha inteso, da un lato, imprimere, anche attraverso un maggiore rigore sanzionatorio, una peculiare rilevanza penale alla condotta infedele di soggetti qualificati, espressiva di maggior danno e di maggior pericolo per il bene tutelato; e, dall’altro, estendere una impunità eccessivamente generosa attraverso l’applicazione indiscriminata della ritrattazione. Va ribadito, la ritrattazione non significa impunità dal falso bensì neutralizzazione del fatto lesivo e quindi accertamento della verità, mai così essenziale come nel caso del delitto di depistaggio. Appare evidente che, alla luce della complessa norma sul depistaggio, l’eventuale ritrattazione potrebbe non avere l’effetto di una giusta definizione del giudizio, risultando irreversibile l’arrecato intralcio, soprattutto nelle fase iniziale delle indagini e in relazione ai più gravi reati di cui all’art. 375, co. 3, c.p. Occorre, altresì, sottolineare che l’esclusione della punibilità ai sensi dell’art. 376 c.p. investe soltanto il depistaggio dichiarativo, lasciando fuori quello materiale, che potrà eventualmente usufruire dell’attenuante speciale relativa alle condotte riparatorie nonché collaborative di cui al co. 3 dell’art. 375 c.p. (esclusa questa dal divieto di bilanciamento delle circostanze).
Nell’ottica riparativa, infine, l’art. 375, co. 5, c.p., prevede una diminuente speciale (dalla metà a due terzi), suddivisa in due parti, per chi: 1) si adopera per ripristinare lo stato originario dei luoghi, delle cose, delle persone o delle prove, nonché per evitare che l’attività delittuosa venga portata a conseguenze ulteriori (il riferimento qui è alla ipotesi di frode processuale di cui alla lett. a, mentre è difficilmente estensibile al depistaggio di cui alla lett. b); 2) aiuta concretamente l’autorità di polizia o l’autorità giudiziaria nella ricostruzione del fatto oggetto di inquinamento processuale e depistaggio e nell’individuazione degli autori. Quest’ultima ipotesi consente l’applicabilità dell’attenuante ad entrambe le condotte di depistaggio, ovviamente al di fuori dell’operatività dell’art. 376 c.p. Le due ipotesi, seppur accomunate nell’ottica riparativa/premiale, si distinguono però l’una dall’altra. Alla realizzazione della prima, in una prospettiva di prevenzione generale e speciale, in linea con la prevalente giurisprudenza formatasi intorno a tali condotte, ciò che necessita è l’effettivo ravvedimento del colpevole evidenziato da conseguenti sforzi riparatori dotati di serietà e concretezza, orientati al raggiungimento degli obiettivi (cfr. Santoro, V., op. cit., 24); non è quindi necessario il conseguimento dello scopo. La seconda ipotesi, invece, configura l’attenuante della cd. “collaborazione processuale” finalizzata a «garantire una maggiore produttività del sistema processuale in termini di accertamento dei reati» (Pulitanò, D., Sulla tutela penale della giustizia penale, cit., 1280). In quest’ultimo caso è necessario, proprio per differenziare la risposta penale nel concreto, un risultato positivo, utile, indispensabile per l’operato degli organi del procedimento; insomma occorre fornire un elemento aggiuntivo «per accertare il reato e gli autori e così immunizzarsi in modo più incisivo dalla pregressa condotta di inquinamento processuale e depistaggio» (Santoro, V., op. cit., p. 24).
Artt. 371 bis, 372, 374, 375, 376, 378, 383 bis, 384, 384 ter, 175 c.p.; l. 11.7.2016, n. 133; artt. 111, 112 Cost.
D’Ascola, V.N., Il reato di frode in processo penale e depistaggio (art. 375 c.p.), in Fiorella, A., a cura di, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 715 ss.; Donelli, F., Una prima lettura della legge n. 133 del 2016: la nuova fattispecie di frode e depistaggio nel procedimento penale e le altre modifiche al Titolo III, Libro II del codice penale, in Studium Iuris, 2017, 2, 139 ss.; Maiello, V., Il delitto di depistaggio: dietro l’esigenza di una tipicità criminosa le insidie del diritto penale simbolico, in www.lalegislazionepenale.eu; Mani, N., L’introduzione del reato di frode in processo e depistaggio, in www.archiviopenale.it; Pisa, P., Il “nuovo” reato di depistaggio, in Dir. pen. proc., 2016, 10, 1275 ss.; Pisa, P., voce Frode processuale, in Dig. pen., V, Torino, 327 ss.; Pulitanò, D., Sulla tutela penale della giustizia penale, in Studi in onore di Franco Coppi, II, Torino, 2011, 1260 ss.; Pulitanò, D., Il favoreggiamento personale fra diritto e processo penale, Milano, 1984; Santoro, V., Alcune considerazioni sul nuovo reato di “frode in processo e depistaggio” (art. 375 c.p., L. 11 luglio 2016, n. 133), in www.archiviopenale.it.