Frontiere dell’etologia
All’inizio del 21° sec., destini e scopi scientifici dell’etologia classica si sono intersecati con altri indirizzi disciplinari. Se l’etologia proposta da Konrad Lorenz (1903-1989) e Nikolaas Tinbergen (1907-1988) prevedeva l’individuazione di una serie di processi tali da rendere conto della dinamicità dei modelli comportamentali, l’attenzione è oggi posta sui sistemi che spiegano la regolazione ‘meccanicistica’ di tali processi: testimoniano così delle frontiere dell’etologia le discipline, come le neuroscienze, la neuroendocrinologia, la psiconeuroimmunologia e altre, che stanno caratterizzando il progresso attuale della biologia evoluzionistica e, soprattutto, delle scienze del comportamento.
Per altri aspetti, l’ecologia comportamentale, che si basa su non sempre solidissime basi evoluzionistiche, rappresenta una frontiera minore, ma vivace, delle scienze del comportamento. Essa tenta un’analisi etologica, spesso sommaria, condotta su specie animali osservate in natura, cercando di ricostruire i percorsi evolutivi che hanno reso adattativi alcuni modelli comportamentali. Tuttavia, nell’etologia contemporanea (con l’eccezione di alcuni prestigiosi gruppi attivi in Gran Bretagna, nei Paesi scandinavi e qualche università minore in America Settentrionale) vige un malcelato scetticismo nei confronti di questa disciplina.
Evoluzionisti importanti e molto accreditati, come Stephen J. Gould e Richard Ch. Lewontin (della Harvard university) o Niles Eldredge (della City university of New York), ci hanno insegnato che l’analisi del processo adattativo, ovvero della ricostruzione filogenetica, deve basarsi su dati solidi e soprattutto convergenti, non limitandosi a sporadiche osservazioni, a raccolte di dati su animali selvatici in difficoltose condizioni atmosferiche, per giungere a spiegare in termini di adattamento modelli comportamentali che necessitano di attente e pluriennali caratterizzazioni. In base all’evidenza del pensiero evoluzionistico contemporaneo, buona parte delle affermazioni proposte a partire degli anni Novanta dall’ecologia comportamentale rischiano di non essere confermate. Per esemplificare alcuni dei progressi dell’etologia contemporanea, passeremo in rassegna alcuni studi neuroendocrinologici recenti che testimoniano della fusione tra scienze del comportamento e spiegazioni in termini neuroendocrini dei meccanismi che li regolano.
Etologia e neuroscienze: le nuove frontiere
Vasto e composito è l’universo attuale delle ricerche che fondono etologia classica e metodologia delle neuroscienze tessutali, cellulari e molecolari, oltre alla neuroanatomia funzionale che usa tecniche di imaging cerebrale sempre più sofisticate.
Eric B. Keverne, professore di neuroscienze comportamentali alla University of Cambridge, è un autore di riferimento. Negli ultimi dieci anni ha applicato tecniche genetico-molecolari, concentrandosi sullo sviluppo cerebrale, e ha analizzato come le alterazioni genetiche, anche sperimentalmente indotte (topi transgenici), influenzino le funzioni cerebrali, comportamento incluso.
I roditori sono stati il principale oggetto per lo studio dei meccanismi chemiosensoriali che stanno alla base della comunicazione feromonale, la quale svolge un fondamentale ruolo nella regolazione del comportamento sia infantile sia adulto; ma i lavori sugli anfibi rivelano molto di più sulle origini evolutive della comunicazione feromonale. Le due principali vie di accesso degli stimoli olfattivi (l’epitelio olfattivo e l’organo vomeronasale) hanno antiche origini evolutive: appaiono negli antenati acquatici dei tetrapodi durante il Devoniano, e questo ha permesso di predatarne la transizione sulla terraferma. Per molto tempo quello vomeronasale è stato considerato l’unico organo di decodifica degli input feromonali, ma prove recenti indicano che non è il solo canale per la traduzione di informazioni feromonali, e che entrambi i sistemi si sono evoluti per codificare differenti segnali olfattivi. Questo ha permesso una grande differenziazione delle famiglie di recettori olfattivi nelle due porzioni neuroanatomiche. In ultimo, l’evoluzione della visione tricromatica, così come la straordinaria evoluzione della complessità sociale verificatasi negli uccelli e, soprattutto, nei mammiferi, hanno reso via via meno rilevante il ruolo dei feromoni nei primati, arrivando alla totale inattivazione del sistema vomeronasale nelle scimmie catarrine, mentre il cervello cresceva di dimensioni e il comportamento si emancipava dalla regolazione ormonale (Swaney, Keverne 2009).
Per quanto riguarda i comportamenti riproduttivi, negli ultimi anni si è constatato che le esperienze sessuali esercitano effetti di lungo termine sul comportamento dei mammiferi di sesso maschile, regolando tratti come l’anticipazione e il display nel comportamento sessuale, l’aggressività e la percezione degli odori. È stato scoperto che i maschi acquisiscono preferenze adattative significative per gli odori di femmine ricettive in estro e con esperienze sessuali pregresse; tali preferenze sono marcate da cambiamenti nelle principali risposte olfattive che coinvolgono la corteccia piriforme. Il gene paterno che regola questo comportamento, oltre alle cure materne e allo sviluppo dei piccoli, se assente (in alcuni maschi mutati geneticamente) causa un complesso deficit olfattivo per il quale viene meno la preferenza per le femmine in estro. Per questo, il suddetto gene potrebbe avere un ruolo adattativo nell’aumentare le possibilità di successo riproduttivo, e questo ne potenzierebbe la trasmissione per via paterna (Swaney, Curley, Champagne, Keverne 2008).
Nei mammiferi, i ritmi circadiani sono generati dai nuclei soprachiasmatici (SCN, SupraChiasmatic Nuclei) dell’ipotalamo. I neuroni SCN sono eterogenei e possono essere classificati in base alle funzioni, alle connessioni anatomiche, alla morfologia o all’identità peptidergica. In particolare, il peptide rilasciante gastrina (GRP, Gastrin Releasing Peptide) sposta le fasi del ritmo circadiano, e i topi in cui il recettore di tale peptide è assente mostrano solamente un debole spostamento di fase. Dati gli effetti del GRP sul comportamento circadiano e sull’attività neuronale del sistema nervoso centrale, uno studio (Karatsoreos, Romeo, McEwen, Silver 2006) ha esaminato i casi in cui il recettore GRP (GRPr) si trova sotto il controllo diurno e/o circadiano. Utilizzando l’ibridazione in situ e l’autoradiografia con molecole radioattive legate al GPRr, è stato possibile localizzarlo nel sistema nervoso centrale del topo e determinare che, negli animali alloggiati in gabbie con un ciclo di luce-buio, il GRP varia con il momento del giorno, mentre, negli animali alloggiati in condizioni di buio costante, tale variazione non si verifica. I cambiamenti nel GRPr sono quindi legati alla luce e non organizzati a livello endogeno. Le variazioni diurne nell’attività del GRPr probabilmente sottintendono, a livello del sistema nervoso centrale, segnali importanti per lo spostamento di fase e la sincronizzazione del ciclo.
Durante lo sviluppo puberale si verificano sensibili cambiamenti nelle risposte allo stress: negli animali prepuberi, la secrezione di corticosterone indotta da stress impiega 45-60 min in più per tornare allo stato basale rispetto agli adulti. Sebbene si sappia ormai che il corticosterone influenza l’energia di mobilitazione, non è attualmente noto se, negli animali, gli agenti di stress coinvolgano altri ormoni importanti nell’utilizzo dell’energia nel metabolismo in modo differente prima e dopo lo sviluppo puberale. Ratti maschi prepuberi e adulti sono stati esposti a singole sessioni di 30 min di stress forzato in entrambe le fasi di luce e di buio del ciclo circadiano. Dopo di ciò sono stati misurati i livelli plasmatici di glucosio, insulina e ormoni tiroidei (T4 e T3). I risultati hanno dimostrato che i livelli di glucosio indotti dallo stress aumentano in modo simile per gli animali adulti e per quelli prepuberi durante la fase luce-buio del ciclo. Rispetto agli adulti, gli animali prepuberi mostrano livelli minori di insulina e di T4, sia totale sia libero, e livelli maggiori di T3 (totale e libero) in entrambe le fasi di luce e di buio. È interessante notare che i livelli di insulina e di ormone tiroideo non sono interessati da stress acuti né in relazione all’età né al momento della giornata. Questi dati indicano che, nonostante gli individui prepuberi mostrino un’estesa risposta glucocorticale allo stress dopo una singola esposizione a stress acuto, i livelli di glucosio sono influenzati da quest’ultimo in modo simile negli adulti e nei prepuberi. Inoltre, sebbene lo stadio di sviluppo influenzi in modo significativo il livello degli ormoni metabolici periferici, come l’insulina, il T4 e il T3, la loro secrezione in seguito a stress acuto non è significativamente differente prima o dopo la pubertà (Romeo, Karatsoreos, Ali, McEwen 2007).
La mancanza di sonno danneggia l’apprendimento, che dipende dall’ippocampo ed è associato all’aumento della sopravvivenza delle cellule dell’ippocampo stesso. Grazie a specifici esperimenti, si è analizzato in quali casi gli effetti deleteri della mancanza di sonno sulla memoria legata all’ippocampo fossero associati alla riduzione della sopravvivenza delle sue cellule. Un gruppo di animali è stato sottoposto per quattro giorni a un test che consisteva nell’orientarsi all’interno di due tipologie di labirinto: le modalità di orientamento presupponevano, in un caso, il coinvolgimento della memoria spaziale (dipendente dall’ippocampo), nell’altro, di quella non spaziale (indipendente dall’ippocampo). Durante l’intero periodo del test, uno dei due gruppi di animali è stato privato del sonno per metà del tempo dedicato al riposo. Come già evidenziato nella letteratura scientifica, gli animali all’interno del labirinto che coinvolgeva la memoria dipendente dall’ippocampo hanno mostrato un aumento della sopravvivenza delle cellule giovani rispetto agli animali saggiati nel labirinto che richiedeva una memoria indipendente dall’ippocampo. Questo aumento, però, è stato soppresso dalla restrizione del sonno, causa di una generale riduzione della sopravvivenza cellulare in tutti gli animali. La mancanza di sonno inoltre colpisce la memoria spaziale mentre le performances nel labirinto non spaziale sono risultate migliori. Analisi successive hanno dimostrato che gli animali non deprivati del sonno applicavano una strategia spaziale indipendentemente dal tipo di labirinto in cui si trovavano. Questa strategia interferiva con la prestazione nel labirinto non spaziale. Di contro, gli animali privati del sonno preferivano utilizzare la strategia non spaziale, aumentando in tal modo le proprie prestazioni nel labirinto non spaziale. Questi risultati suggeriscono che la perdita di sonno altera le strategie comportamentali, favorendo quelle che non dipendo;no dall’ippocampo e, parallelamente, annulla gli effetti neurogenici della memoria dipendente dalle funzioni ippocampali (Hairston, Little, Scanlon et al. 2005).
Il canto degli uccelli rappresenta una delle tematiche etologiche più classiche. Il cervello degli uccelli canori è in grado di discriminare tra il canto proprio e quello dei conspecifici (Poirier, Boumans, Verhoye et al. 2009). Individuare l’area del cervello nella quale emerge il meccanismo dell’autoriconoscimento è importante perché vi sono necessariamente coinvolti i meccanismi dipendenti dall’esperienza e perché le regioni cerebrali sensibili alle vocalizzazioni autoprodotte possono mediare il feedback auditivo necessario per apprendere a cantare e mantenere quest’acquisizione nel tempo. Utilizzando le immagini prodotte dalla risonanza magnetica è stato dimostrato che negli uccelli l’area deputata a tale riconoscimento è localizzata a livello del mesencefalo, lateralizzata sulla destra, come nei pesci e, per quanto riguarda l’autoriconoscimento facciale e vocale, nell’uomo. Questo indica che la struttura del mesencefalo può processare informazioni sottili sull’identità di un soggetto attraverso meccanismi dipendenti dall’esperienza, sfidando le classiche concezioni secondo cui la regione subcorticale sia una struttura primitiva e non plastica. Da tali acquisizioni scaturiscono domande etologiche importanti sull’evoluzione delle competenze cognitive e delle lateralizzazioni nei vertebrati in generale e sulla relativa filogenesi.
Fino agli anni Ottanta del 20° sec. era comunemente accettato che la maggior parte degli uccelli, a eccezione dei procellariformi, avvoltoi e kiwi (piccoli uccelli terrestri neozelandesi), fosse microsmatica, se non del tutto anosmica, e quindi incapace di percepire e utilizzare informazioni olfattive. Durante gli ultimi venti-trent’anni numerose pubblicazioni hanno evidenziato come queste idee fossero errate. I dati anatomici, elettrofisiologici e comportamentali dimostrano che gli uccelli, in generale, posseggono un sistema olfattivo funzionale e sono in grado di utilizzare informazioni odorose in una varietà di contesti etologici, inclusa la riproduzione. Lavori recenti (Balthazart, Taziaux 2009) hanno messo in luce come, nella quaglia del Giappone, l’attivazione cerebrale indotta dall’interazione sessuale con una femmina sia significativamente compromessa dalla deprivazione olfattiva dei soggetti studiati. L’attivazione del cervello è stata misurata dal rilevamento immunocitochimico del prodotto proteinico del gene immediatamente precoce c-fos. I cambiamenti osservati concernono due aree che giocano un ruolo chiave nel controllo del comportamento sessuale del maschio: il nucleo preottico mediale e il nucleo del letto della stria terminale suggeriscono un potenziale ruolo dell’olfatto nel controllo della riproduzione. L’idea che gli uccelli siano anosmici o microsmatici, inoltre, non è suffragata da dati scientifici sperimentali, ma presumibilmente deriva da una visione antropomorfica che ci induce a pensare che non percepiscano gli odori poiché sono provvisti di un becco rigido e non annusano in maniera evidente. L’analisi sperimentale di questo fenomeno porterà a cambiamenti significativi nella comprensione della biologia degli uccelli.
Va precisato che già negli anni Settanta Floriano Papi e i suoi collaboratori dell’università di Pisa avevano dimostrato come l’olfatto giochi un ruolo molto rilevante nelle sorprendenti e anticamente note prestazioni di ritorno al nido dei colombi viaggiatori.
L’evoluzione della primatologia
Gli studi sulle scimmie, antropomorfe o non, sono aumentati negli ultimi lustri con risultati che hanno a volte rivoluzionato le precedenti conoscenze sulla loro etologia, tanto in condizioni di cattività quanto, e soprattutto, in natura.
Molte specie di primati presentano gerarchie di dominanza e il grado gerarchico può avere grande importanza sulla qualità di vita dell’animale, influenzandone la fisiologia e, in genere, la salute. Il tasso di stress di animali di alto o basso grado nella scala gerarchica dipende dall’organizzazione sociale della specie e delle singole popolazioni. Lo stress causato dal grado sociale comporta conseguenze adrenocorticali, cardiovascolari, riproduttive, immunologiche e neurobiologiche comparabili con la realtà umana per quanto riguarda lo stato di salute, le malattie e lo stato socioeconomico (Sapolsky 2005).
La trasmissione della cultura nei primati è stata variamente documentata, ma un gruppo di babbuini, studiato da Robert M. Sapolsky e Lisa J. Share sin dal 1978, rappresenta un caso particolare. Nel corso del 1980 la metà dei maschi del gruppo morì a causa della tubercolosi; sopravvissero solo i maschi il cui comportamento era atipicamente non aggressivo. Un decennio più tardi questo modello comportamentale ancora persisteva. Dal momento che i maschi lasciano il gruppo natale durante l’adolescenza, a metà degli anni Novanta nessuno dei maschi sopravvissuti alla tubercolosi era più presente nel gruppo. Nonostante ciò, la cultura singolarmente non aggressiva del gruppo fu adottata dai nuovi maschi che, nel frattempo, ne erano entrati a far parte. I maschi di questo gruppo presentano alti livelli di grooming (tolettatura) e di affiliazione con le femmine e, in genere, le dinamiche gerarchiche non sono caratterizzate da violenza intraspecifica; ne deriva che i livelli fisiologici dei parametri relativi allo stress tra gli individui dei ranghi più bassi sia minore (Sapolsky, Share 2004).
Tra i primati si osserva una pronunciata variazione tra lo stato sociale e la misura di stress fisiologico. Attraverso la standardizzazione dei livelli del cortisolo (ormone dello stress), per ogni specie è stato possibile calcolare il tasso di cortisolo basale dei subordinati rispetto ai dominanti all’interno di gerarchie stabili, così da esprimerlo in percentuale (livello di cortisolo relativo). La metanalisi ha identificato due variabili che, in modo significativo, possono predire i livelli di cortisolo relativo: i subordinati ne hanno livelli più alti quando sono soggetti a più alti tassi di stress e quando hanno avuto minori opportunità di supporto sociale (inclusi i parenti stretti). Questi dati hanno implicazioni importanti nella comprensione delle differenze fisiologiche dello status sociale di dominante e subordinato e di come il grado sociale possa rendere differenti le manifestazioni comportamentali e fisiologiche nelle società dei primati (Abbott, Keverne, Bercovitch et al. 2003).
Un gruppo di babbuini dell’Amboseli national park (Kenya) è stato oggetto di uno studio (Kemnitz, Sapolsky, Altmann et al. 2002) volto ad analizzare il rapporto tra la locale disponibilità alimentare e la relativa fisiologia metabolica dei soggetti studiati. Tre gruppi si procuravano il cibo naturalmente, mentre altri due potevano approfittare degli avanzi dei turisti: una fonte di cibo molto calorica, facilmente accessibile e associata a una ridotta attività locomotoria. Sono stati analizzati i campioni di sangue prelevati dagli individui adulti di tutti e cinque i gruppi: rispetto agli animali che si nutrivano esclusivamente in natura, quelli che integravano la dieta con gli scarti alimentari dei turisti presentavano concentrazioni di insulina due o tre volte superiori, così come di colesterolo totale, di trigliceridi e di lipoproteine, altri noti marcatori metabolici. Concentrazioni elevate di insulina, colesterolo e lipoproteine influenzano lo sviluppo di malattie cardiovascolari; di conseguenza, fonti di cibo calorico e facilmente accessibile, associate a una riduzione dell’attività locomotoria, possono essere seriamente deleterie per quegli animali che, sebbene selvatici, vivono situazioni di contatto con l’uomo non regolamentate.
Studi primatologici innovativi stanno caratterizzando l’etologia dell’inizio del 21° secolo. Sono state recentemente messe in luce differenze individuali nelle risposte comportamentali ai conflitti sociali esibiti da una specie di macachi (Macaca mulatta) durante l’intero corso della vita. Gli individui che mostrano risposte aggressive inappropriate e/o impulsive in condizioni di stress durante lo sviluppo mostrano anche deficit cronici nel metabolismo centrale della serotonina, un neurotrasmettitore coinvolto nei disturbi dell’umore e nelle sindromi depressive umane (molti farmaci antidepressivi funzionano modulandone il livello cerebrale). Questo caratteristico modello di risposte fisiologiche e comportamentali, sia nei primati sia nella specie umana, emerge già in giovane età e permane fino all’età adulta. Studi di laboratorio hanno dimostrato che, nonostante queste caratteristiche siano altamente ereditarie, possono essere profondamente modificate da esperienze nelle prime fasi di vita postnatale, in particolare da quelle che coinvolgono le prime relazioni sociali di attaccamento. In più, fattori genetici ed esperienze precoci possono interagire, spesso in maniera drammatica: per es., uno specifico polimorfismo nel gene che codifica il trasporto della serotonina è associato a deficit nelle funzioni precoci neurocomportamentali e del metabolismo della serotonina, nell’aggressività estrema e nel consumo eccessivo di alcol, ma questo non si verifica nelle scimmie che durante l’infanzia abbiano sviluppato una relazione di attaccamento ben strutturata con la propria madre. Dal momento che le figlie tendono a manifestare, nei confronti dei propri figli, lo stesso tipo di relazione di attaccamento che hanno sperimentato con la madre, le esperienze precoci rappresentano un possibile meccanismo non genetico (alcuni etologi lo definiscono culturale o preculturale) per trasmettere questi modelli alle generazioni successive (Suomi 2005).
Vari studi condotti su animali ed evidenze cliniche umane convergono quindi nel confermare questo legame tra livello di neurotrasmettitori, processi comportamentali e loro variazioni fisiopatologiche.
Le esperienze precoci possono anche influenzare le risposte di stress e causare una maggiore suscettibilità verso psicopatologie negli adulti. I fattori epigenetici coinvolti nella traduzione di specifiche caratteristiche dell’ambiente in modificazioni stabili della plasticità cerebrale e comportamentale iniziano solo ora a essere chiarite. Fattori neurotrofici, come il fattore di cresci;ta nervoso (NGF, Nerve Growth Factor) e il fattore neurotrofico di derivazione cerebrale (BDNF, Brain-Derived Neurotrophic Factor), sono modificati dallo stress e giocano un ruolo importante nello sviluppo cerebrale e nel trofismo di specifiche reti neuronali coinvolte nelle funzioni cognitive e nei disordini dell’umore. Oltre che dal sistema nervoso centrale, questi effetti sono prodotti dai tessuti periferici. Grazie a studi sui roditori, è stato dimostrato che lo stress indotto in giovane età dall’allontanamento della madre (paradigma di separazione precoce) può avere ripercussioni sui livelli di neurotrofine. Attivazioni ripetute o mal adattative di NGF e BDNF, anche durante la vita post-natale, possono influenzare la suscettibilità nell’età adulta e aumentare la vulnerabilità a psicopatologie correlate allo stress (Cirulli, Francia, Berry et al. 2009).
L’etologia umana: una disciplinaper il 21° secolo?
L’inizio del 21° sec. si sta caratterizzando per il riaffermarsi di convergenze tra diverse discipline e sottodiscipline, forse come conseguenza delle incognite economiche, ma anche (o forse soprattutto) euristico-conoscitive, che lo contraddistinguono. Le ricche società occidentali, quelle del Nord del mondo, sono interessate dall’aumento dell’aspettativa di vita, e ciò avviene parallelamente al costante declino dei tassi di natalità; fenomeni, questi, determinati sia dall’evoluzione della struttura sociale e antropologica delle famiglie e delle comunità (e fortemente dipendenti dai contesti locali) sia dalla massiccia attrazione che i poli metropolitani tuttora esercitano su grandi masse di popolazione. Evento, quest’ultimo, che ha interessato l’Italia dell’immediato dopoguerra e che oggi riguarda, per es., la Cina. Queste dinamiche di popolazione sono particolarmente evidenti in quei Paesi nei quali tale transizione è stata o è veloce.
Una naturale conseguenza di questo stato di fatto è la presenza di fenomeni migratori, amplificati dai notevoli dislivelli economici tra il Nord e il Sud del mondo, i quali, come ulteriore e inevitabile conseguenza, determinano un processo integrativo di globalizzazione che, peraltro, è ricorrente nella storia dell’umanità: persone, valute e merci si muovono con un’onda continua sulla superficie terrestre, facilitate dalla grande disponibilità di mezzi di trasporto accessibili e veloci.
Tradizionalmente l’etologia è una disciplina europea; non a caso nel 1973 vennero insigniti del premio Nobel per la medicina o la fisiologia il naturalista nederlandese Tinbergen e gli austriaci Lorenz, medico e zoologo, e Karl von Frisch, neurofisiologo sensoriale.
Affondando l’etologia le proprie radici nella cultura europea, ne riceve e ne fa propri alcuni limiti strutturali, ma anche alcune caratterizzazioni innegabilmente positive. Ha costituito un limite il fatto di voler prendere le distanze, anche con una certa dose di spregio, dall’applicazione del positivismo scientifico alla psicologia umana, sia nel campo della fisiologia sia in quello della nosografia patologica. E questo benché la nosologia psichiatrica di stampo etologico affondi le sue radici negli scritti sulle emozioni animali e umane di Charles Darwin (The expression of the emotions in man and animals, London 1872; trad. it. 1878). La tradizione torinese postlombrosiana rappresenta, in questo ambito, una lodevole eccezione.
Appare come un limite anche il fatto di aver trattato con una certa trascuratezza la pedagogia scientifica, quella da cui, in modo del tutto sconsiderato, prese forma la genetica della razza che, con le sue brutali interpretazioni gerarchizzanti, segnò in maniera drammatica e indelebile la storia moderna dell’Europa. Di contro, la cultura nordamericana, talvolta sprezzante nei confronti di quella semeiotica europea che aveva sempre privilegiato un approccio ‘artigianale’ al mondo terapeutico, produsse nel 1952 il Diagnostic and statistical manual of mental disorders dell’American psychiatric association, strumento diagnostico tra i più utilizzati nel settore medico.
Così, le tesi elaborate negli Stati Uniti dallo psicologo Burrhus F. Skinner (1904-1990), dai suoi maestri e dalla sua scuola di allievi, che trovava il suo epicentro nella Harvard university, furono solo parzialmente accolte dall’etologia europea, a riprova delle reciproche e non ancora del tutto chiarite incomprensioni nello studio delle scienze della mente animale e umana portato avanti nei due continenti (Abbeduto, Boudreau 2004). Fin dai suoi primi passi, infatti, l’etologia si strutturò trasponendo la sistematica zoologica, basata sino ad allora su tratti morfologici, verso ricostruzioni filogenetiche articolate piuttosto su caratteristiche comportamentali. Si occupò anche, sebbene in modo marginale, del comportamento umano, tanto della sua fisiologia quanto della sua ‘devianza’ patologica. L’etologo Irenäus Eibl-Eibesfeldt, allievo di Lorenz, si occupò di etologia umana già prima del 1973, l’anno di conferimento del premio Nobel al suo maestro. Ma i suoi scritti recenti (e quelli della sua scuola) testimoniano la profonda maturazione professionale dell’etologia contemporanea. La sua opera sistematica di maggior rilievo è Die Biologie des menschlichen Verhaltens. Grundiss der Humanethologie (1984; trad. it. Etologia umana. Le basi biologiche e culturali del comportamento, 1993), prodotta dopo molteplici altri lavori che vertevano su vari aspetti del comportamento umano. Quest’opera è a suo modo esaustiva, soprattutto per la selezione bibliografica ineccepibile, arricchita da un corredo filmografico che tuttora rappresenta un riferimento e uno standard per lo studio dei comportamenti umani: i filmati furono girati sotto la supervisione insigne della Max-Planck-Gesellschaft zur Förderung der Wissenschaften, la quale aveva inoltre destinato a Lorenz un laboratorio per lo studio della fisiologia del comportamento, affinché l’analisi dei comportamenti umani e animali potesse giovarsi di un’armoniosa interazione culturale. Testimonianza di ciò è stata la diffusione della traduzione italiana del trattato di Eibl-Eibesfeldt, anche all’interno dell’ambito socioantropologico e clinico. Oggi la psichiatria europea e, in misura sempre maggiore, anche quella nordamericana vi fanno riferimento.
L’etologia umana come confrontotra culture diverse
A differenza di altri gruppi, soprattutto britannici, la scuola di Lorenz, e poi di Eibl-Eibesfeldt, indirizzò i propri studi su popolazioni che vivevano in zone ‘culturalmente primitive’, quali gli Eipo della Nuova Guinea occidentale, i boscimani Kung dell’Africa del Sud-Ovest, di cui si studiò in modo approfondito la rivalità tra fratelli, alcune comunità dell’isola di Bali, in Indonesia, i cui rituali prevedono offerte di cibo e reciproca imboccatura, gli indios Yanomami, in Venezuela, presso cui si approfondì lo studio della mimica facciale (ricordiamo che, grazie all’utilizzo di curari da parte di questa popolazione, il naturalista italo-svizzero Daniel Bovet poté sintetizzare le molecole ‘curariformi’ per le quali fu insignito del Nobel per la medicina o la fisiologia nel 1957). Ne consegue, dunque, che la base di una parte rilevante dell’etologia umana, tra il secondo dopoguerra e la fine degli anni Settanta almeno, fu il raffronto comparativo tra culture diverse da quella occidentale (non migranti, bensì stabili geograficamente, e tuttavia soggette alla contaminazione del ‘mondo occidentale’), e l’inevitabile confronto tra queste culture e quella degli etologi europei.
Questa parte dell’etologia contemporanea si è fusa con l’antropologia culturale, che ingloba molti elementi di biologia evoluzionistica (a tale proposito, cfr., per es., Diamond 1998 e 2005).
Le scuole britanniche, invece, dedicarono un’attenzione di gran lunga maggiore al comportamento umano, studiato a partire dalle popolazioni europee. La University of Cambridge fu il fulcro tradizionale di queste ricerche, e fu qui che videro la luce nuove impostazioni metodologiche basate sul principio dell’etogramma, definito come registro, quanto più esaustivo possibile, degli elementi comportamentali specie-specifici. Le basi neuroscientifiche di elementi etogrammatici specie-specifici attualmente rappresentano il futuro di questa metodologia ‘integrata’, ma basilare per le scienze etologiche contemporanee. In seguito, l’etogramma subì modifiche strutturali e organizzative: fu fattorializzato per sesso e per età e, in Gran Bretagna e successivamente in America Settentrionale, i suoi elementi furono riorganizzati in modelli (pattern), mentre in precedenza avevano valore tassonomico finalizzato alla ricostruzione filogenetica. Il prodotto ultimo di tali modifiche fu una serie di rappresentazioni teoriche incardinate sul concetto di sistemi motivazionali di base, come quello che concerne il mantenimento dell’equilibrio metabolico, antipredatorio e sociosessuale. Quest’ultimo, a sua volta, fu reso più complesso da nosografie che tenevano conto delle condizioni fisiologiche dell’individuo, proponendo, per es., agenti peptidergici come modulatori dei livelli motivazionali.
Queste nuove teorie presero forma a partire dal 1959 nel Sub-department of animal behaviour del prestigioso Department of zoology, a Madingley, nei pressi di Cambridge. È importante sul piano storiografico ricordare che il Sub-department nacque nel 1950 come field station (in cui si studiavano aspetti dell’etologia zootecnica finalizzati alla produzione agricola) e che, inizialmente, aveva come finalità quella di fornire il Department di un laboratorio etologico in grado di attirare Lorenz stesso e convincerlo a insegnare a Cambridge: nonostante il rifiuto che ne seguì, la direzione di William H. Thorpe (specializzato in anatomia funzionale ed esperto di fama mondiale di vocalizzazioni canore di uccelli) provvide in breve tempo a renderlo uno dei maggiori centri di ricerche etologiche a livello internazionale.
Fin dai primi anni Cinquanta operò a Madingley l’etologo Robert A. Hinde, che ricoprì poi il ruolo di master del Saint John’s college di Cambridge. Hinde iniziò studiando la filogenesi e soprattutto l’ontogenesi delle prestazioni canore degli uccelli, nonché la trasmissione culturale di varie tecniche di foraggiamento; i suoi interessi si spostarono verso la primatologia e, infine, trovò la sua strada dedicandosi allo studio del comportamento umano sotto molteplici punti di vista: dalla comunicazione non verbale all’aggressività dei bambini negli asili, fino alla scelta del partner sessuale in varie culture e sottoculture europee.
Fu grazie alla feconda collaborazione tra Hinde e lo psichiatra John Bowlby, il quale si occupò di primatologia, che si diffuse la tradizione metodologica dell’etologia nell’ambito della fisiopatologia umana, i cui maggiori successi si stanno registrando nei ri;guardi della sofferenza mentale durante l’infanzia e l’adolescenza (Bowlby 2007).
Sempre in quel periodo, un giovane e brillante neuroetologo e ornitologo, Patrick Bateson, condusse importanti e feconde ricerche che gli valsero la direzione del Sub-department. Dopo giovanili studi di campo su gabbiani artici, Bateson focalizzò la sua attenzione sul fenomeno dell’imprinting di cui tentò di individuare le basi neurobiologiche, neurochimiche e neuroanatomiche (Bateson, Martin 1999). Frutto di questi studi fu la produzione di un modello che, oltre a quelli di bioetica applicata e di scientometria, resta una delle proposte teoriche più originali; per questo, ha generato dibattiti ancor oggi non del tutto sopiti.
Il modello batesoniano, oggi particolarmente in voga nell’etologia contemporanea, si basa sulla scelta sessuale che quaglie con differenti esperienze sociosessuali, ma soprattutto con caratteristiche morfologiche individuali tra loro sensibilmente diverse (per es., variazioni cromatiche nel piumaggio), compiono qualora poste di fronte a varie tipologie di partner riproduttivo. La preferenza che ne emerge è un bilanciamento tra la forte influenza (esercitata dalle caratteristiche morfologiche dei genitori) dovuta all’attrazione specie-specifica e parentale-specifica basata sull’imprinting in una fase critica precoce immediatamente successiva alla schiusa dell’uovo e l’attrazione esercitata dal diverso da sé e dai propri genitori, noto come outbreeding ottimale, ossia quella capacità di captare geni ‘stranieri’, al fine di evitare una ‘canalizzazione genetica’ causata proprio da una troppo rigida influenza dell’imprinting esercitato dai genitori, il quale, generazione dopo generazione, ridurrebbe la variabilità genetica dei figli. Se osservato su tempi lunghi, un processo di canalizzazione di questo tipo finirebbe per influire in modo negativo sulla variabilità e sulla varianza genetiche di una popolazione, in quanto ne ostacolerebbe il processo darwiniano di adattamento all’ambiente mutevole, poiché ridurrebbe il pool genico di ogni specie, aumentando la probabilità di estinzione. Questo filone di ricerca si è saldato con la genetica di popolazione e, in parte, con quella biologia evoluzionistica che s’interroga sui tempi rapidi dell’incedere evolutivo.
Bateson ha più volte auspicato l’estensione di questo modello ai contesti umani, con particolare riferimento a quel fenomeno del ‘tabù allargato dell’incesto’ (il rifiuto di accoppiarsi non solo con i propri parenti ma anche con gli altri membri della propria comunità) che è stato segnalato, per es., all’interno di comunità dalla singolare struttura socioantropologica come i kibbutz israeliani.
La questione legata agli effetti dell’imprinting culturale nella specie umana è stata affrontata in filoni importanti dell’etologia: ne è prova la traccia lasciata su una rivista come il «Journal of international and cross-cultural studies» (nata nel 2007) da un approccio etologico di tipo ortodosso piuttosto che di derivazione psicocomparata, a sua volta prodotto della scuola skinneriana e di quella neuroendocrinologica comportamentale che fu fortemente ispirata da Frank A. Beach, fondatore nel 1979 (con Julian Davidson e Richard Whalen) della rivista «Hormones and behavior» e a lungo attivo nel dipartimento di psicologia della University of California a Berkeley.
È chiaro dunque che, se si vuole affrontare il fenomeno della psicopatologia contemporanea con un approccio integrato, è inevitabile prendere in considerazione questi approcci culturali, maturati dagli studi pubblicati dalla rivista «Psychoneuroendocrinology» (fondata nel 1975), alla cui gestione editoriale partecipano numerosi neuroendocrinologi comportamentali delle principali istituzioni scientifiche del mondo.
Etologia, neonatologia e psichiatria infantile
La larga maggioranza degli studi di impianto etologico condotti sulla specie umana ha riguardato in passato, e tuttora riguarda, individui prepuberi, nonostante l’etologia umana abbia avuto uno sviluppo significativo. Altrove si è già palesato un sottile ‘razzismo degli obiettivi’ (Vitale, Alleva 2007). È tradizione dell’etologia, infatti, studiare il comportamento di specie animali diverse dall’uomo ma in qualche modo relazionate a esso: particolarmente importante è la primatologia, anche nell’ottica di un’utilizzazione finalizzata a discernere le prestazioni comportamentali delle serie di ominidi che, per tortuose e in parte ignote strade filogenetiche durate forse duecentomila anni (Manzi 2007), hanno infine condotto all’evoluzione di Homo sapiens. Solo relativamente di recente l’etologia ha cominciato a occuparsi delle forme adulte degli esseri umani, in particolar modo di quelli che trascorrono la propria vita in un Paese industrializzato. È possibile oggi affermare che, soprattutto da parte delle scuole etologiche centro-europee, siano stati oggetto di studi solo gli individui ‘poco civilizzati’, quelli cioè in qualche modo più vicini a una natura primordiale e, come ‘logica’ conseguenza, allo stato animale.
Analogamente, il neonato e il bambino nella fase preverbale sono stati oggetto di numerosi studi, dal momento che l’individuo ‘immaturo’, che non ha raggiunto ancora un grado di complessità ontogenetica tale da permettergli di esplicitare fonemi organizzati come il linguaggio articolato (a cui viene attribuito un elevato valore semantico specie-specifico), appare più simile ai vertebrati non umani; esattamente come i popoli ‘non civilizzati’, i quali sono privi di un linguaggio complesso. Secondo questa concezione riduzionista, il bambino, per relazionarsi con il mondo, utilizzerebbe canali comunicativi analoghi a quelli di altre specie animali, sottintendendo con questo che, in quanto versione incompleta dell’adulto, sia legittimo paragonarlo all’animale inteso come versione imperfetta di Homo sapiens, e perciò adatto a studi zooetologici. Grazie a lavori che hanno messo in luce come già il feto sia influenzato dalle voci che provengono dall’ambiente extrauterino, è doveroso considerare il neonato e il bambino come individui complessi e sostanzialmente diversi dagli altri mammiferi, primati inclusi.
A partire dalle fondamentali ricerche della fine del secolo scorso, si va chiarendo come il neonato interagisca, anche a livello linguistico (o forse zoosemiotico), in maniera molto più complessa di quanto si pensasse in precedenza, sia con la madre sia con il nucleo familiare (Tomasello 2003), non limitandosi a comportamenti stereotipati quali la ricerca del capezzolo materno o l’azione di suzione.
Identità di specie, identità di comunità
Dalla seconda metà del 20° sec., gran parte degli studi etologici si è incentrata sul fenomeno dell’imprinting cui sono state dedicate ampie e diversificate analisi, tanto teoriche quanto sperimentali; come conseguenza di tale interesse hanno subito profonde influenze le discipline affini, incluse le teorie della mente (e il cognitivismo contemporaneo), e le moderne discipline di psichiatria e psicoterapia, sia nella teoria sia nella pratica. L’importanza che i primi anni di vita rivestono nella strutturazione della personalità dell’adulto e nella personale vulnerabilità alla sofferenza mentale fu già sottolineata da Sigmund Freud, e rappresenta un’ulteriore prova della profonda influenza esercitata dalla teoria dell’imprinting.
A livello evolutivo, secondo la scuola di pensiero etologica più classica e convenzionale, l’imprinting risponde alla necessità, biologica ed evolutiva, di un individuo (appartenente alla classe dei vertebrati) di conoscere le caratteristiche principali della propria specie, affinché sia poi in grado di riconoscere la propria madre e gli individui appartenenti al proprio nucleo sociale. Quest’ultimo varia in base alla specie, e per quelle che vivono in gruppi sociali misti è così rappresentato: padre; fratelli e sorelle; consanguinei in grado di cooperare con i genitori nell’occuparsi della prole; membri dell’unità sociale parentale non consanguinei o limitatamente tali, i quali esercitano anch’essi cure parentali (queste ultime tipologie sono caratteristiche di varie specie di primati ma anche di altri mammiferi e di alcune specie sociali di uccelli).
L’imprinting, dunque, fornisce l’identità di specie e di gruppo, necessaria affinché la coesione sociale sia mantenuta nonostante le discontinuità adolescenziali, la modulazione ontogenetica e, infine, l’allontanamento dal gruppo sociale (inclusi i genitori) in quelle specie in cui gli individui di sesso maschile (satelliti) migrano verso gruppi sociali di diversa origine, con la finalità di assicurare una salubre diversità genetica. Infatti, l’imprinting continuerà a esercitare la sua influenza durante tutta la fase adulta, fornendo un modello di riferimento di grande attrattività sociale quando sarà il momento di cercare e scegliere il partner per l’accoppiamento e assumendo una fondamentale valenza darwiniana.
Le originarie e salienti caratteristiche di rigidità e di irreversibilità del fenomeno dell’imprinting sono state profondamente revisionate tra il 1970 e il 1985: nonostante sia tutt’oggi accreditata la caratteristica temporale-ontogenetica dell’imprinting, secondo la quale per ciascuna specie esistono periodi critici durante i quali la sensibilità a gruppi di stimoli sociali specie-specifici (che avranno importanti ripercussioni sulla vita e le scelte sessuali di un singolo individuo) è fortemente accentuata, si è d’altronde messo in luce come, in età postadolescenziale, adulta e senile, insorga una plasticità modulare nel determinare tali scelte. Questa caratteristica di parziale reversibilità negli effetti dell’imprinting è evidente nei primati, i quali manifestano una sorprendente plasticità comportamentale, ma è anche osservabile nei comuni roditori di laboratorio, per i quali la qualità delle cure parentali materne si ripercuote sulle prestazioni di comportamento materno della prole femminile.
Ulteriori prove a favore della plasticità comportamentale sono le numerose osservazioni aneddotiche o, in misura minore, sistematiche sulle adozioni intra- e interspecifiche che si verificano nella grande maggioranza degli ordini di mammiferi, anche a livelli relativamente primitivi: le accentuate cure materne nel caso di adozioni sperimentali di ratti neonati, infatti, hanno originato filoni di ricerca neuroetologica di rilevanza crescente. È utile tuttavia evitare di cadere in facili biologismi, come pure in azzardate comparazioni, tra processi quali l’imprinting (comune ai mammiferi non umani) e l’adozione tra individui della stessa specie o di specie diverse, stimolata da caratteristiche morfologiche comuni (e tipiche dei neonati di mammiferi altriciali, ossia a prole inetta; cfr. S.J. Gould, The panda’s thumb. More reflections in natural history, 1980, trad. it. 1983), quali una sproporzione volumetrica dell’estremità cefalica rispetto al resto del corpo o una maggiore dimensione dell’arcata oculare nella struttura cranica. Tuttavia, l’esistenza di alcuni elementi comuni e caratteristiche costanti, come quelle che riguardano la struttura del sistema nervoso centrale nei mammiferi, rappresenta un importante elemento di riflessione che rende possibile strutturare utili analogie comparative.
Nell’ambito delle scelte sessuali, anche la teoria batesoniana dell’outbreeding ottimale trova conferme indirette (per es., in studi di tipo immunologico), a riprova della necessità darwiniana di assicurare una variabilità genetica atta a evitare che malattie infetti;ve ricorrenti o emergenti inficino la numerosità di una determinata popolazione, inclusa quella umana. I processi comportamentali concorrono quindi a regolare e modulare le scelte riproduttive, evitando che genotipi numericamente predominanti prevalgano a scapito della varianza complessiva dei singoli nuclei sociali. Storie evolutive e biografie personali concorrono, insomma, nel promuovere quella scelta sessuale personale che culminerà nell’accoppiamento.
Psicobiologia dello sviluppo e vulnerabilità psichiatrica
Il 20° sec. ha visto il rivoluzionarsi delle conoscenze in questo settore di ricerca così complesso e delicato, che si inserisce nello studio della psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza ma riguarda anche la sofferenza mentale dello stadio adulto e i meccanismi e processi che si instaurano nella senescenza mentale dell’età avanzata. Gli autori di tale rinnovamento sono stati Harry F. Harlow e Seymour Levine. Il primo ha condotto le proprie innovative ricerche presso la University of Wisconsin-Madison, permettendo una prima parziale comprensione dei determinanti psicobiologici che giocano un ruolo fondamentale nei disturbi del comportamento in fase adulta, attraverso studi sulla separazione precoce dalla madre nei macachi (J. Bowlby, Attachment and loss, 2° vol., Separation. Anxiety and anger, 1973; trad. it. 1975). È interessante notare come lo stesso Tinbergen abbia scritto, insieme alla moglie Elisabeth A. Rutter, un libro sull’autismo (Autismus bei Kindern, 1984; trad. it. 1989), confermando come una disciplina che ha la sua origine nell’opera di Lorenz non possa evitare di riflettersi, sebbene indirettamente, in pratiche terapeutiche mirate a lenire la sofferenza mentale umana.
Gli effetti delle esperienze avverse precoci e le loro ripercussioni a livello emozionale, cognitivo e mnemonico in età adulta sono stati oggetto degli studi (condotti su modelli animali di primati e roditori da laboratorio) dello psicologo Levine (Bruce, Fisher, Pears, Levine 2009). Sullo stesso filone di ricerca si è inserito Stephen J. Suomi, allievo di Harlow, e dal 1983 direttore del Laboratory of comparative ethology al National institute of child health and human development di Bethesda (Maryland). In particolare, Suomi ha esteso gli studi sulla separazione precoce dalla madre nei primati, focalizzandosi sulle scimmie ‘terapeute’, ossia quegli individui che si prodigano affinché gli effetti di tipo autistico, causati dall’isolamento precoce dalla madre, siano in qualche modo leniti.
Inizialmente Suomi ha analizzato, nel macaco, l’ontogenesi dei comportamenti ludico-affiliativi, evidenziando come la fase periadolescenziale si caratterizzi per un’accentuata giocosità e, scindendo le prestazioni di invito/onset all’interazione ludica (quantità, qualità e sesso-dipendenza) dall’interazione stessa, sperimentò come questa attitudine si affievolisca repentinamente con l’avvicendarsi dell’età subadulta. In un esperimento, i giovani macachi che presentavano un comportamento perturbato dovuto a una separazione precoce sono stati fatti interagire con individui normalmente allevati dalle madri e, nel periodo di massima espressione dell’attività ludico-affiliativa, furono inseriti in un gruppo sociale standard; in questo modo, Suomi ha potuto constatare come gli individui precocemente separati ottenessero sensibili miglioramenti a livello comportamentale. Questi dati testimoniano l’efficacia delle interazioni terapeutiche tra conspecifici, e gli effetti migliorativi che tali interazioni apportano anche tra individui appartenenti a specie diverse, come d’altronde avviene nell’ambito della psichiatria tra esseri umani e varie specie di mammiferi che utilizzano pratiche psicoterapeutiche, secondo varie scuole di pensiero e di azione lenitive della sofferenza mentale.
Benessere animale: zooantropologiae antropozoologia
L’evoluzione dell’etologia contemporanea ha risentito dei profondi cambiamenti che la società occidentale ha avuto. Possiamo dire che l’evoluzione della sensibilità zoofila, qualche volta animalista, delle popolazioni ricche del mondo ha profondamente influenzato la disciplina, soprattutto riscrivendone le priorità degli obiettivi. In altre parole, gli obiettivi di benessere animale sono diventati estremamente rilevanti, è via via cresciuta la sensibilità del pubblico e generazione dopo generazione studenti e dottorandi si sono rifiutati di condurre ricerche che mettessero a repentaglio il benessere animale o procurassero sofferenza. Il pubblico in generale è sempre più interessato a temi animalisti: qualcuno sottolinea una non rarissima tendenza a ridurre i rapporti con gli altri esseri umani e a preferire invece relazioni più semplici, che richiedono meno sforzo, come quelle che si instaurano con animali.
L’etologia che si è occupata di benessere animale ha fondato a partire dagli anni Sessanta una serie di riviste, come «Laboratory animals» (1967), «Applied animal ethology» (1974; dal 1984 «Applied animal behaviour science»), «Animal welfare» (1991), «Journal of applied animal welfare science» (1998).
Il benessere animale è stato valutato con appropriati indicatori etologici a partire dagli animali da esperimento. Molte delle linee guida sono poi diventate regolamenti e infine leggi; particolarmente importante, in questo ambito, la direttiva emanata nel novembre 1986 dal Consiglio delle Comunità europee (86/609/CEE), recepita ed estesa in Italia con il d. legisl. 27 genn. 1992 n. 116; nel novembre 2008 la Commissione delle Comunità europee ha proposto al Parlamento e al Consiglio europei una nuova direttiva, tendente a un ulteriore restringimento dei requisiti per la sperimentazione su animali. Quanto alla sperimentazione su primati, cani e gatti, la legge italiana del 1992 era già più restrittiva della direttiva europea del 1986, perché l’autorizzava «soltanto quando obiettivo siano verifiche medico-biologiche essenziali previste dalla Farmacopea Ufficiale, da linee guida validate da organismi tecnico-scientifici nazionali o internazionali, limitatamente ad attività di ricerca di rilevante ed urgente interesse socio-sanitario e qualora altri animali non rispondano agli scopi dell’esperimento» (art. 8, 1° co., lett. b). Sono disponibili, anche in rete, linee guida e regolamenti (di solito concertati a livello internazionale, Europa inclusa) di organismi che si occupano di aggiornare e far rispettare queste leggi, le quali afferiscono generalmente ai ministeri dell’agricoltura, mentre in Gran Bretagna al ministero degli interni (Home office) e in Italia al Ministero della Salute e alla relativa struttura veterinaria interna, che a sua volta utilizza esperti accademici o dell’Istituto superiore di sanità.
Molti indicatori di stress negli animali da laboratorio prevedono il loro mantenimento in gabbie spaziose, non in condizioni di sovraffollamento, con gruppi sociali strutturati per sesso e per età, in modo tale da ridurre al minimo la possibilità di comportamenti aggressivi, che possono innescare una spirale di violenza tale da condurre a ferite gravi, se non addirittura alla morte dell’animale.
Negli ultimi lustri, ed è certamente la parte dell’etologia contemporanea applicata al benessere animale che ha avuto il maggiore sviluppo, queste conoscenze sul benessere degli animali da laboratorio sono state trasferite in forma crescente agli animali da reddito: polli, galline, mucche, maiali, capre, pecore, conigli ecc., ovviamente con regole più minuziose, soprattutto nei Paesi maggiori produttori di carne per il consumo alimentare. Anche equini e molluschi cefalopodi, come il polpo, sono stati oggetto di intense ri;cerche etologiche, finalizzate a comprenderne la complessità comportamentale e a stabilire regolamenti che ne minimizzassero la sofferenza psicofisica.
Due nuove sottodiscipline afferiscono all’etologia contemporanea: la zooantropologia e l’antropozoologia. La prima è finalizzata a comprendere, e auspicabilmente a migliorare nel tempo, i rapporti potenzialmente conflittuali tra le centinaia di migliaia di specie che convivono con la specie umana sul pianeta Terra. È una disciplina che inizia a penetrare nel contesto accademico, ovvero sta divenendo materia d’insegnamento nelle università che includono dipartimenti etologici o di veterinaria interessata al comportamento di maggiore tradizione scientifica. Questa nuova disciplina si occupa di rapporti tra animali domestici e la specie umana, in particolare in contesti di sperimentazione animale, in contesti casalinghi (cane e gatto, lì dove i rapporti tra società umana e il ruolo dell’animale da compagnia sono più intensi e permettono riflessioni di maggior respiro), ma anche, in maniera crescente, relativamente agli animali da reddito. L’antropozoologia, invece, è una disciplina che tende a esaltare le tradizioni di allevamento e di utilizzo degli animali, spesso a scopo di sfruttamento utilitaristico, con l’eccezione di quelli da compagnia e di affezione come il cane o il gatto.
Il ruolo delle varie specie animali, a partire dall’inizio della cultura scritta, ma anche prima, è un obiettivo antropozoologico oggi maturo e potenzialmente utilizzabile per la didattica universitaria. Un buon paradigma dello studio della zooantropologia è rappresentato dall’analisi della specie cane, domesticata varie volte nel corso dell’umanità: oggi si tende a interpretare il comportamento del cane soprattutto in termini di differenze di genetica comportamentale dal lupo ancestrale, essendosi rivelata errata (grazie a studi di genetica molecolare) l’interpretazione di Lorenz stesso, secondo il quale alcune razze canine discenderebbero dallo sciacallo anziché dal lupo.
La storia naturale del cane, delle sue molteplici razze, dei suoi diversi impieghi (per la guerra, per la caccia, per la difesa, per la compagnia), testimonia del profondo e apparentemente inestricabile intreccio esistente tra storia dell’umanità e storia della domesticazione di questo animale.
Un argomento particolarmente attuale riguarda la selezione del bestiame domestico, con le sue variazioni, per es., a livello continentale: le razze di ruminanti o di suini (in origine selezionate in Africa, Asia o Europa) sono oggetto di studi analitici e di riflessioni. Nella filogenesi, per così dire, di questi processi di domesticazione, elementi etologici rappresentano un comune denominatore importante. Per es., una procedura di selezione che elimini soggetti di aggressività intraspecifica permette di mantenere in allevamenti intensivi, ovvero in spazi sempre più ristretti, specie che nel loro repertorio comportamentale (soprattutto gli individui di sesso maschile) contenevano elementi di aggressività potenzialmente fatale. Un secondo, importante, fattore etologico della domesticazione è rappresentato dalla qualità e quantità delle cure materne, responsabili della sopravvivenza dei neonati e quindi, alla fine del processo di allevamento, della quantità di carne prodotta nel tempo. Un terzo elemento è rappresentato dalla docilità dei soggetti mantenuti in condizione di allevamento, sia allo stato brado sia, soprattutto, in allevamento intensivo.
Si riflette sul fatto che fattori comportamentali tali da interferire nel rapporto tra l’individuo della specie umana e la specie animale oggetto di allevamento, e quindi il grado di docilità naturale (spesso su base genetica) del soggetto in allevamento, siano stati selezionati non in base a un programma di selezione artificiale prestabilito, bensì semplicemente perché gli individui la cui gestione era più difficile sono stati eliminati dall’allevamento, per es. utilizzandoli come alimento piuttosto che come individui per la riproduzione.
Etologia e veterinaria dunque in questi primi anni del 21° sec. si stanno fondendo; per onestà, va ricordato che i rapporti a livello accademico tra veterinari ‘comportamentalisti’ ed etologi di tradizione centro-europea non sono sempre improntati alla reciproca collaborazione, ma piuttosto a un tentativo di gerarchizzazione delle competenze. Nella tradizione nordamericana, e soprattutto in Canada, assistiamo invece a un’integrazione formativa più armonica, a beneficio del progresso delle conoscenze e della didattica integrata degli studenti.
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