MICANZIO, Fulgenzio
– Nacque, secondo la versione più accreditata, mai accertata tuttavia in maniera definitiva (Dal Pino, pp. 134-137), l’8 giugno 1570 a Passirano, nel Bresciano.
Entrò nel locale convento servita di S. Rocco, dove ricevette la prima formazione. A partire dal 1590 seguì gli studi di logica, filosofia e teologia in S. Maria dei Servi a Venezia. Ottenuto nel 1597 il grado di baccelliere, completò il triennio d’insegnamento previsto dalle costituzioni dell’Ordine tra il convento veneziano e quello di S. Maria del Monte di Vicenza, dove lo Studium della provincia veneta dei serviti fu trasferito nel 1598. Nello stesso anno aveva tenuto a Belluno il suo primo ciclo di prediche quaresimali. Agli anni di studio a Venezia risale – secondo la tarda rievocazione autobiografica della Vita del padre Paolo – l’incontro con fra Paolo Sarpi, che avrebbe accordato al M. «il favore d’una stretta familiarità», consentendogli di affiancare al tirocinio scolastico istituzionale un insegnamento alla «socratica et obstetricaria», «singolare et eccellente per incaminarsi al sapere» (Sarpi, 1974, II, pp. 1331 s.).
Possibile, ma non documentata, una sua frequentazione in quegli anni del celebre «ridotto» dei fratelli Andrea e Nicolò Morosini, data per acquisita sulla scorta di un passo della Vita del padre Paolo, che risulta in realtà tendenzioso (Cozzi, 1979, p. 138; Trebbi, 1993, p. 96).
Promosso al magistero in teologia dalla facoltà teologica di Firenze nel giugno 1600, ricoprì l’incarico di reggente di Studio dapprima nel convento di Piacenza, quindi, nel 1602-03, in S. Barnaba di Mantova, infine nello Studium bolognese di S. Maria dei Servi, il più importante dell’Ordine. Confermato nella carica il 28 apr. 1606, lasciò definitivamente Bologna il 2 maggio, per recarsi a Venezia ad assistere Sarpi, impegnato nella difesa delle leggi in materia ecclesiastica della Repubblica, dopo che il 17 aprile Paolo V ne aveva intimato il ritiro.
La scelta del M. – da lui stesso presentata, nella Vita del padre Paolo, come repentina e compiuta d’impulso – appare, sulla scorta di studi recenti sull’interdetto e sui rapporti interni all’Ordine, più meditata e concertata. Dopo che Sarpi era stato nominato consultore teologo della Repubblica, il 28 genn. 1606, con il beneplacito del generale dei serviti Filippo Ferrari, il M. si era già recato in territorio veneziano tra febbraio e marzo, aveva predicato a Udine e, sulla via del ritorno, si era fermato a Venezia. Una volta abbandonato il convento di Bologna – proprio mentre vi soggiornava il generale dei serviti Filippo Ferrari – si portò di nuovo a Udine. Da qui venne convocato ufficialmente a Venezia dal governo della Serenissima alla metà di luglio (Sarpi, 2001, I, pp. 306, 308), nel momento in cui la diffusione delle più autorevoli scritture di parte romana imponeva d’intensificare l’offensiva pubblicistica della Repubblica.
La sua firma comparve, insieme con quella di Sarpi e di altri cinque teologi, in calce al Trattato dell’interdetto, pubblicato ai primi di settembre.
Di lì a poco il M. pubblicò la Confirmatione delle considerationi del p.m. Paulo di Venetia contra le oppositioni del r.p.m. Gio. Antonio Bovio carmelitano … ove si mostra copiosamente qual sia la vera libertà ecclesiastica et la potestà data da Dio alli principi (Venezia 1606), nella quale – conforme all’assunto enunciato nel titolo – vengono reiterati, lungo oltre 400 pagine, gli argomenti sarpiani a difesa delle leggi venete e riproposte le connotazioni di una «potestà temporale» affidata da Dio ai principi, obbligati a tutelarla contro le insidie di una pretesa «libertà» della Chiesa, priva di fondamento nei canoni e ignota all’originaria istituzione ecclesiastica. L’opera – della quale Sarpi si attribuì in più occasioni la paternità, suffragato a posteriori dal M. (Sarpi, 1974, II, p. 1336) – consacrava il rapporto di discepolato con Sarpi evocato fin dal frontespizio, dove campeggia il «sufficit discipulo» di Matteo, X, 25.
Conclusa la vertenza tra la Repubblica e Paolo V, il M. si trovò, con Sarpi, al centro delle pressioni della Curia tese a ottenere un atto formale di sottomissione dai protagonisti della «guerra delle scritture», ritenuti non compresi nell’assoluzione generale impartita dal mediatore francese cardinale François de Joyeuse. L’«abiura» dei due serviti veneziani fu sollecitata a lungo, invano, dallo stesso generale Ferrari, nell’intento di allontanare i sospetti del papa da un Ordine che si era mostrato esitante e diviso di fronte alla ribellione di uno dei suoi membri più illustri. Messo alla prova in un clima avvelenato da delazioni, accuse e dal clamoroso attentato a Sarpi del 5 ott. 1607, il sodalizio tra quest’ultimo e il M. – ufficialmente posti sotto la protezione della Repubblica – si cementò definitivamente.
Fin da quei mesi difficili il M., ben addentro all’universo intellettuale e politico di Sarpi, ne seguì da vicino il confronto con gli ambienti europei che guardavano alla Venezia del dopo interdetto come a un possibile baluardo contro lo strapotere asburgico-papale. Assiduamente presente dietro lo scambio epistolare di Sarpi con gallicani e protestanti francesi, condivise le frequentazioni con il cappellano dell’ambasciata d’Inghilterra a Venezia William Bedell, dal quale i due serviti ricevettero testi e informazioni sulla situazione politico-religiosa di quel Regno, ma anche lezioni d’inglese. Il M. avviò inoltre una consuetudine di collaborazione agli studi di Sarpi, che lo vide redigere spogli bibliografici e documentari, indici e sommari tematici e cronologici. Un’opera di supporto mirata alla stesura delle impegnative opere sarpiane degli anni 1607-10 – dall’Istoria dell’interdetto al Trattato delle materie beneficiarie – e alla stessa attività di Sarpi come consultore del governo veneziano che, dopo una fase di stallo e d’incertezza, s’intensificò tra il 1608 e il 1609. Risultano già evidenti, tuttavia, nell’apparente simbiosi tra maestro e discepolo, una differenza di attitudini e una sorta di «divisione di compiti» (Benzoni, 1982, p. 742). Se dalla delusione per il rapido sfumare delle prospettive schiuse dall’interdetto Sarpi trasse lo stimolo all’approfondimento della vicenda storica delle istituzioni ecclesiastiche, il M. fu spinto a dare corso ai contatti e ai rapporti avviati, a venire allo scoperto nella dimensione a lui congeniale della predicazione.
Così nella primavera del 1609, mentre sembrava prendere forma il progetto del re Enrico IV per un ampio fronte antiasburgico sotto l’egida della Francia e a Venezia si avvicendavano agenti protestanti tedeschi e olandesi, il M. tenne nella chiesa veneziana di S. Lorenzo, alla presenza di un folto pubblico di nobili, di popolo e di stranieri, una serie di sermoni quaresimali che – con il loro esclusivo richiamo alla fede in Cristo e alla Scrittura – misero in allarme il nunzio pontificio B. Gessi e sembrarono avvalorare le voci sull’impegno dei due serviti per un passaggio della Repubblica alla Riforma. Difeso dal governo veneziano, il M. non sarebbe salito più sul pulpito, esortato alla prudenza dallo stesso Sarpi.
Si presenta come una sorta di summa della prima fase dell’impegno del M. al fianco di Sarpi una serie di Annotazioni e pensieri, rimasta a lungo affidata a un manoscritto della Biblioteca nazionale Marciana di Venezia (It., XI.175 [6518], contenente anche appunti e materiali autografi per prediche) e ora leggibile in una scelta antologica del 1982 (Storici e politici veneti …). Collocabile in gran parte tra la fine del 1610 e l’inizio del 1611, la silloge fa perno su un’indignata e a tratti violenta confutazione della tesi della potestas indirecta del papa in temporalibus, enunciata da Roberto Bellarmino nel trattato De potestate summi pontificis … adversus Gulielmum Barclaium (Roma 1610). La difesa delle prerogative dei sovrani dall’insidiosa escogitazione bellarminiana tende però a diramarsi in una più ampia e tesa requisitoria contro la prassi beneficiale e sacramentale romana, oltre che contro tratti tipici della Chiesa della Controriforma, dalla politica delle canonizzazioni al ruolo dei gesuiti, in ricorrenti confronti con le differenti discipline ecclesiastiche in vigore Oltralpe. La tensione verso uno sbocco «operativo» è stata acutamente indicata come la cifra caratteristica di questi battaglieri capitoli (Benzoni, 1982, p. 754). Si tratta in effetti di vigorosi appelli rivolti al potere civile a porre rimedio all’inarrestabile decadenza della Chiesa, a integrare allo Stato istituzioni ecclesiastiche colte unicamente nella loro realtà politica e socioeconomica, secondo una visione ben radicata nel M., riproposta in seguito in tutti i suoi scritti. Le Annotazioni e pensieri si presentano allora come testimonianza di uno sforzo tenace di tenere vivi nel gruppo dirigente veneziano – anche nel disorientamento seguito all’assassinio di Enrico IV (14 maggio 1610) – spiriti anticuriali e antipontifici, come battuta di una discussione sui poteri apertasi nella cerchia di Sarpi sulla scia della pubblicazione dell’opera di Bellarmino. Una battuta speculare, nel dettato e nel taglio «militanti», rispetto a un coevo abbozzo sarpiano dagli ampi propositi sistematici, recentemente riscoperto e pubblicato con il titolo Della potestà de’ prencipi (Sarpi, 2006).
L’autonomia e la capacità d’iniziativa del M. sono confermate dalle corrispondenze epistolari da lui allacciate negli anni successivi con il mondo inglese.
È del 1612 l’avvio del carteggio con Dudley Carleton, ambasciatore di Giacomo I Stuart a Venezia, impegnato a stabilire collegamenti in vista di un’alleanza della Repubblica con i paesi protestanti (39 lettere del M., parte di un epistolario che fu certamente più copioso, sono trascritte in Terzi). Parallelo a quello tra Sarpi e Carleton, lo scambio proseguì per un decennio, anche dopo il trasferimento dell’ambasciatore in Olanda nel 1614, in un tono franco e informale al punto da lasciare spazio, nel 1613, a un imbarazzato sfogo del M. di fronte all’attendismo di un Sarpi oltremodo «fino» nel giudizio, ma «nel fatto […] così corto» da lasciarlo stupefatto e «corrucciato» (Benzoni, 1982, pp. 747-749). Al 1615 risale la prima delle 75 lettere a sir William Cavendish dei conti di Devonshire, che il M. aveva conosciuto lo stesso anno a Venezia, mentre l’aristocratico, ventiquattrenne, compiva la tappa veneziana del suo tour italiano. Pervenute non nell’originale, ma nella traduzione inglese eseguita da Thomas Hobbes, ancora un oscuro pedagogo nella dimora dei Cavendish (Micanzio, Lettere …, 1987), furono in gran parte spedite entro il 1624, anno del rientro in patria dell’ambasciatore veneziano a Londra Alvise Valaresso e, presumibilmente, del sequestro di 28 missive a questo indirizzate dal M., intercettate per ordine del nunzio a Vienna Carlo Carafa (Biblioteca apost. Vaticana, Barb. lat., 9917; cfr. Dal Pino, pp. 150 s.). In seguito la corrispondenza tra Cavendish e il M., ormai diventato consultore, si fece più reticente e del tutto sporadica, fino a esaurirsi nel 1628, con la morte del destinatario.
Sullo sfondo del declino delle prospettive di rivolgimento politico-religioso in Italia, travolte dallo scoppio della guerra dei Trent’anni, i due carteggi ci restituiscono il profilo del M. quale ostinato oppositore del fronte asburgico, accorto nel tessere relazioni e nel captare informazioni, implacabile nel denunciare l’involuzione moderata della politica veneziana, ma fedele nel sostegno ai protagonisti della battaglia contro il cosiddetto diacattolico – più duratura, rispetto a quella di Sarpi, fu per esempio la sua fiducia nella capacità di azione di Giacomo I – e propenso a dar credito ai nuovi attori, come l’arcivescovo di Spalato Marcantonio De Dominis, che venivano affacciandosi sulla scena. Appare salda, in lui, la convinzione che dal successo dello schieramento protestante dipendesse, oltre agli equilibri internazionali in Europa, la forza d’esempio dei modelli di rapporto tra istituzioni civili e religione affermatisi nei paesi della Riforma. Ed è indicativo, da questo punto di vista, l’entusiasmo con cui il M. salutò la condanna degli arminiani olandesi e la sconfitta del «partito mezzano», frutti del «gran vigore et sapere di governo» dei «Signori Stati» (così la lettera a Carleton del 7 giugno 1619, in Cozzi, 1956, p. 608). Affermazioni – va notato – che riesce difficile conciliare con l’immagine di un M. paladino dell’irenismo proposta a suo tempo da De Mas.
Più mosso e arioso, l’epistolario con il giovane Cavendish attira l’attenzione su un altro volto dell’anglofilia del Micanzio. Al flusso delle informazioni e dei commenti politici s’intrecciano infatti, vero filo rosso di queste lettere, le attestazioni dell’interesse del M. per l’opera di Francis Bacon e gli echi dell’attività di divulgazione degli scritti baconiani da lui svolta a Venezia insieme con un gruppo di patrizi «virtuosi», tra scambi di manoscritti e libri, letture collettive degli Essays e progetti per edizioni veneziane.
I carteggi con Carleton e Cavendish rappresentano la punta emergente di un insieme più ramificato di corrispondenze, la cui conoscenza potrà essere ampliata da nuove esplorazioni documentarie, pur tenendo conto delle tempestive distruzioni cui dovettero andare incontro tante delle compromettenti lettere – costellate di cifre, locuzioni allusive e pseudonimi – in partenza e in arrivo nel convento veneziano dei Servi di Maria. Oltre a uno scambio diretto con Bacon, testimoniato da un’unica lettera di quest’ultimo, ma idealmente ricostruibile sulla scorta delle lettere a Cavendish, il M. tenne infatti contatti epistolari con il dalmata Giovanni Francesco Biondi, esule in Inghilterra, il quale all’inizio del 1608 aveva anche fatto da tramite del recapito di alcune missive ai riformati Christoph von Dohna e Abraham Scultetus (Busnelli, II, pp. 140, 142). Per la seconda metà degli anni Trenta, è attestata inoltre una corrispondenza con il collezionista sir Roger Twysden (Gabrieli, p. 237). Si può infine supporre che più estesi, rispetto a quanto finora accertato, siano stati gli scambi con l’ambiente del Merton College di Oxford, cui appartenne quel Nathanael Brent che fu tramite, nel 1618, dell’invio da Venezia in Inghilterra dell’Istoria del concilio tridentino.
L’arco di tempo disegnato dagli epistolari inglesi costituì per il M. una fase decisiva di maturazione personale e di formazione storico-giuridica. Accanto a Sarpi venne infatti a contatto con la quantità crescente di questioni ecclesiastiche e giurisdizionali sottoposte dal governo veneziano all’esame del consultore. Si trovò a esaminare delicate vertenze concernenti le prerogative dei due maggiori feudatari ecclesiastici della Repubblica, il vescovo di Ceneda e il patriarca di Aquileia. Prese inoltre parte – come avrebbe ripetutamente ricordato in seguito – all’elaborazione delle importanti scritture sarpiane Sopra l’officio dell’Inquisizione e Su le immunità delle chiese, destinate a essere assunte a riferimento normativo nei rispettivi ambiti. Nella veste del collaboratore, il M. visse così il definirsi di una particolare figura di consigliere di governo – il consultore in iure – che, radicata nell’esperienza dell’interdetto, tendeva a differenziarsi da quella del giurista professionale per un metodo di lavoro più pragmatico, attento allo spessore concreto, storico e politico, dei problemi affrontati, orientato all’affermazione di una concezione unitaria della sovranità dello Stato.
Dopo aver seguito la stesura dell’Istoria del concilio tridentino e contribuito a organizzarne la fortunosa spedizione in Inghilterra nel corso del 1618, il M. condivise con Sarpi l’amarezza e la rabbia per gli arbitrari interventi compiuti sull’opera da M. De Dominis, curatore dell’edizione londinese del 1619, e si adoperò per procurarne, tramite Jean Diodati, una ristampa emendata e fedele al testo originario (lettera del M. a De Dominis in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, Mss., cl. IX.16, 13 febbr. 1620, cc. 2091v). Di fronte alla successiva decisione dell’ex arcivescovo di Spalato di rientrare in Italia cercò prima – inutilmente – di sventarne la partenza, premendo su Carleton (Sarpi, 1969, p. 730); quindi di arginare il rischio che quel ritorno – perseguito da cardinali, gesuiti e da un re inglese ormai inclinante «al papismo» (lettera del 20 nov. 1622, in Terzi) – comportava per lui stesso e per Sarpi.
Il 15 genn. 1623 Sarpi morì nella cella del convento dei Servi. I suoi ultimi anni erano stati segnati da crescente delusione: di fronte agli scacchi della politica di Venezia ai confini orientali e nella Valtellina, la sua figura sembrava incarnare una linea velleitaria e fallimentare di contrapposizione agli Asburgo e al Papato. All’indomani del trapasso, fu il M. a darne la notizia ufficiale, d’intesa con il Senato, in una sobria relazione che presentava quella di Sarpi come una fine serena, confortata dai sacramenti, coerente con una vita dedita al servizio della patria e ai doveri di religioso. Sottoscritto da tutti i frati del convento, il resoconto suscitò l’indignazione del nunzio pontificio L. Zacchia, che lo additò come il frutto perverso dell’astuzia del discepolo. Tra insinuazioni, accuse d’eresia, sussulti antiromani che sembravano riportare ai tempi dell’interdetto, il M. riuscì a muoversi con estrema accortezza, superando la contrarietà dei patrizi più vicini alla Curia alla sua successione nella carica di consultore. Tra la primavera e l’estate 1623, senza alcuna nomina formale, prese avvio la sua trentennale carriera al servizio della Repubblica.
Si trattò per lui di una svolta fondamentale: i suoi primi consulti – noti quelli dedicati alla pubblicazione del manifesto di De Dominis rientrato dall’Inghilterra e alla proibizione romana della Historia Veneta di Andrea Morosini – rivelano una spiccata autoconsapevolezza del lungo apprendistato svolto al fianco di Sarpi, ripetutamente richiamato, a sottolineare la continuità d’azione dell’ufficio. Nella sua copiosa produzione di pareri – quasi duemila le minute conservate nel fondo Consultori in iure dell’Archivio di Stato di Venezia (I consulti, 1986) – la stampa, la censura, l’attività dell’Inquisizione e degli altri tribunali ecclesiastici rimasero argomento centrale, così come le continue vertenze riguardanti il governo degli ordini regolari e le ricorrenti pretese d’immunità personale e locale avanzate dal clero. Ma tema pressoché obbligato della sua consulenza fu l’abbondante e multiforme contenzioso beneficiario, in vario modo coinvolgente i membri dell’intera gerarchia ecclesiastica: parroci e cappellani, canonici e vescovi, cardinali titolari di pensioni assegnate sulle rendite di chiese venete. Ben presente già in Annotazioni e pensieri, la denuncia degli «abusi» nella materia beneficiaria, emblemi di una decadenza della Chiesa giunta «al colmo» e di un insanabile distacco dell’«ordine clericale» dal mondo dei laici, si tradusse nei consulti in continui richiami al ceto di governo a preservare leggi e istituti emananti dall’antica potestà in sacra dei sovrani e alla tutela di quanto rimaneva, a Venezia, della «collazione laica». I suoi moniti – da cui non desistette di fronte a casi dalle scottanti implicazioni politiche, come quello di Federico Corner, figlio del doge in carica, transitato rapidamente dalle sedi episcopali di Bergamo, Vicenza e Padova (Cozzi, 1995, p. 195) – dettero luogo, tra il 1624 e il 1627, ad alcuni provvedimenti mirati all’estensione del controllo dello Stato sulle rendite ecclesiastiche: dall’obbligo del possesso temporale imposto ai reservatari di pensioni alla compilazione di «catastici» dei benefici, all’adozione di procedure più rigide per il vaglio e l’esecuzione di bolle e brevi pontifici. Nello stesso periodo diede i risultati più cospicui la collaborazione tra il M. e il collega consultore ai Feudi Gasparo Lonigo, parroco a Venezia, laureato in utroque iure, pure convinto apologeta dei diritti della «polizia secolare» ed estimatore di Sarpi. I due sottoscrissero congiuntamente una serie di circostanziati pareri sulle pretese di giurisdizione del vescovo di Ceneda e del patriarca di Aquileia, entrati nuovamente in contrasto con il governo veneziano, e coordinarono un’ampia indagine sui feudi ecclesiastici di origine decimale presenti nel territorio veneto.
Il primo quinquennio dell’attività del M. si conferma così per più versi come un momento centrale e particolarmente gratificante nella sua esperienza di consultore. Le profonde fratture interne al patriziato tra nobiltà meno ricca e potenti famiglie «papaliste» come i Corner, la ripresa di orientamenti antiasburgici alimentati dall’ingresso della Francia nella guerra dei Trent’anni avevano di fatto creato – all’avvio del pontificato di Urbano VIII – opportunità per la ripresa di una politica ecclesiastica energica. Nella prima fase l’intensità e l’impegno del lavoro d’ufficio del M. rimasero invariati, ma nel corso degli anni Trenta venne meno la sintonia con un gruppo dirigente ormai orientato alla neutralità e all’accordo con la Chiesa. La morte, nel 1635, del potente senatore Domenico Molino – già patrono di Sarpi e onnipresente dietro i rapporti dei due serviti con i corrispondenti stranieri – privò inoltre il M. di uno dei suoi principali sostenitori.
Visse una fase di ritrovata consonanza con il governo nel 1641-42, quando, nel profilarsi di gravosi impegni finanziari per la ripresa del conflitto con i Turchi, fu chiamato a collaborare a un’estesa ricognizione sui versamenti dei regolari veneti alla Camera apostolica. Inoltre, mentre Venezia interveniva nella guerra di Castro, l’annosa polemica antiromana del M. animò una nuova ampia offensiva contro i Barberini promossa dall’ambiente politico-culturale dell’Accademia degli Incogniti, legato da fili individuali e ideologici alla stagione anticuriale sarpiana. Di fronte alla richiesta pontificia di proibire e sequestrare le opere di Ferrante Pallavicino – la cui figura di scrittore libertino fu al centro del conflitto – il M. orchestrò, in una serie di consulti, una insinuante e lucida difesa dell’autore e del diritto dello Stato a controllare la circolazione dei libri, a conferma della sua capacità di modulare toni e argomenti in relazione alle diverse congiunture e aspettative del ceto di governo (Coci; per altri agguerriti pareri di questi stessi anni su confessione e inquisizione cfr. Trebbi, 2003).
A partire dal 1630 il M. riprese un dialogo epistolare con G. Galilei destinato a diventare particolarmente assiduo tra il 1634 e la morte dello scienziato, nel 1642 (le 152 missive del M. e le meno numerose risposte galileiane in Ed. nazionale delle opere di G. Galilei …).
Una lettera del 1611 suggerisce una conoscenza avvenuta nell’ambito delle frequentazioni sarpiane dell’ambiente scientifico ed erudito padovano, sul finire del periodo di studio veneziano (Cozzi, 1979, p. 160) o più probabilmente dopo il 1606. Il M. riallacciò i rapporti mentre i membri della cerchia galileiana a Venezia – da Sarpi a G.F. Sagredo ad A. Da Mula – andavano scomparendo. Riempiva così, secondo il felice suggerimento di Gabrieli, il vuoto lasciato da Sarpi e da Bacon nel suo bisogno di grandi figure da ammirare. In una sorta «d’itinerario rovesciato rispetto a quello di Sarpi» (Benzoni, 1982, p. 751), il M. si volgeva alle «cose naturali» ormai sulle soglie della sua lunga vecchiaia, mettendosi con entusiasmo alla scuola di Galilei: ne leggeva gli scritti, chiedeva chiarimenti e rimedi alla sua pochezza di dilettante, difendeva la reputazione del più illustre amico contro i «peripatetici» che osavano attaccarlo (sulla reprimenda inflitta ad Antonio Rocco, aristotelico libertino e accademico Incognito, che nelle sue Esercitazioni filosofiche aveva confutato il Dialogo, si diffondono le lettere del gennaio-marzo 1634, in Ed. nazionale delle opere di G. Galilei …, XVI, pp. 30, 53, 66 s.). Le opere galileiane gli aprirono nuovi orizzonti e gli ispirarono insieme accenti in lui non consueti: «le cose de’ […] Dialoghi» – scrisse – lo rapivano «alla consideratione della grandezza del Creatore», rispetto alla quale «l’immensità dell’universo è nulla» (ibid., XVII, 24 genn. 1637). Assenti dal carteggio i temi della politica internazionale che gli erano stati tanto cari, il M. insisteva negli attacchi, spesso violenti e crudi, alla Chiesa e alla sua volontà repressiva, che la persecuzione inflitta a Galilei palesava – ai suoi occhi – nella maniera più emblematica, ispirandogli immediati accostamenti alla vicenda di Sarpi (Cozzi, 1979, p. 234). Come strumento di battaglia contro i gesuiti e Roma avrebbe dovuto agire anche un’edizione veneziana di opere di Galilei che il M. meditò nel corso del 1635, sondandone le possibilità a livello politico e presso lo stesso inquisitore veneziano. Rivelatosi il progetto impraticabile, si adoperò, nel 1637-38, per la pubblicazione dei Discorsi e dimostrazioni matematiche a Leida, prima mediante contatti diretti con Lodewijk (II) Elzevier, in viaggio a Venezia, quindi assumendosi l’invio dei materiali galileiani in Olanda, per il quale si avvalse come tramite della stessa ambasciata veneziana all’Aia.
La lunga attività di consultore svolta dal M. fu decisiva per il consolidamento della fisionomia dell’ufficio e per l’incorporazione del Sarpi «pubblico» alla tradizione politica veneziana. All’atto della successione al maestro il M. diede anche inizio alla stesura della sua biografia, in buona parte completata – a giudicare dai riferimenti interni – nell’arco dei due anni successivi.
Alla fine del 1626 ne leggeva comunque un brano – quello sull’attentato a Sarpi – a François-Auguste De Thou, figlio ventenne dello storico gallicano, il quale ne diede notizia a Pierre Dupuy (Lettres de Fr.-Aug. De Thou, 1835, p. 369, 8 dic. 1626). Da allora la curiosità per la Vita redatta dal M. – accresciuta dagli indugi dell’autore – s’intrecciò con l’interesse del mondo d’Oltralpe per gli scritti di Sarpi e con i progetti editoriali sarpiani concertati, tra Ginevra e Parigi, da Jean ed Élie Diodati e dal circolo di Jacques e Pierre Dupuy. Nel 1632 il fratello dell’antiquario Roger Twysden, William, trascrisse la biografia sarpiana durante una visita al M. nella sua cella conventuale. Nel marzo 1635 Ugo Grozio ne prospettava, da Parigi, una stampa da una copia forse ottenuta dai Dupuy, ma si diceva trattenuto dal pericolo che una pubblicazione avrebbe rappresentato per il M. (Grotius, Briefwisseling, V, p. 370, lett. del 16 mar. 1635). Il testo circolava per l’Europa, ma nello stesso anno il M. scrisse a Galilei che «quella vita» era «un abozzo imperfettissimo, venuto fuori dalla pena per la pura e semplice verità, senza nessuna arte né cautela». Era comunque sua intenzione «riffare e compire la cosa», che non sarebbe uscita «se non posthuma» (Ed. naz. delle opere... di G. Galilei..., 1890-1909, XVI, p. 305). Quando nel 1646 la Vita del padre Paolo fu stampata anonima dal tipografo di Leida Joris Abrahamsz van der Marsce, il M. era ancora vivo, ma – settantaseienne – non era più nel mirino della Curia: tra il 1643 e il 1645 la morte di Urbano VIII, l’avvio delle trattative di pace a Osnabrück e Münster e l’attacco ottomano a Candia avevano segnato la fine di un’epoca, spegnendo lentamente i fuochi della battaglia contro Roma e la Spagna.
La Vita completava l’operazione iniziata con il resoconto della morte del maestro, presentando un Sarpi riscattato da ogni taccia d’eterodossia, ingegno filosofico e matematico straordinario, religioso esemplare per pietà e mansuetudine, consultore integerrimo del governo veneziano. Calato nella parte di un umile fraticello testimone di un’esperienza d’eccezione, il M. rievocava appassionatamente la vicenda di Sarpi – dagli studi giovanili alla carriera nell’Ordine, all’approdo al pubblico servizio – e la stagliava su uno sfondo torbido d’intrighi curiali e frateschi, inquadrando provocatoriamente l’itinerario terreno di Sarpi nello schema proprio delle vite dei santi, in cui denunce, attentati, maldicenze rappresentavano altrettante prove, superate grazie all’esercizio di quelle che il M. non esitava a definire «eroiche virtù». E deplorava l’«ingratitudine» e la «malignità» manifestate a Sarpi dal suo Ordine e dalla stessa Repubblica, che non aveva tenuto fede all’impegno d’erigergli un’adeguata «memoria et inscrizzione» (Sarpi, 1974, II, p. 1412). La tanto attesa biografia risultava così un’opera acremente polemica che, sotto una patina d’ingenuità e candore, intrecciava messaggi e registri espositivi diversi, culminando in un affondo contro la Chiesa della Controriforma e il ceto politico veneziano.
Quello del testo della Vita è ancora un problema insoluto. La versione confluita nell’edizione di Leida – riproposta dalle successive stampe e traduzioni sei-settecentesche (un provvisorio elenco in Infelise, 2006, p. 524), ma attestata anche da diverse copie a penna conservate in biblioteche francesi – presenta differenze di rilievo con l’unico manoscritto riconducibile al M. (l’autografo in Archivio di Stato di Venezia, Miscellanea atti diversi manoscritti, 71; contengono invece appunti preparatori e stesure provvisorie di singoli brani le Memorie sopra la vita di f. Paolo Sarpi in Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, Mss., cl. IX.16 cc. 2101-2171). Le varianti, consistenti in passi eliminati, ma anche in ampliamenti e aggiunte, tra cui spicca quella di un esordio riecheggiante l’attacco dell’Istoria del concilio tridentino, toccano in gran parte passi attinenti a questioni politiche e giurisdizionali scottanti o direttamente collegabili alla volontà di testimonianza – e di autocelebrazione – di un gruppo di patrizi devoti alla figura e alla lezione di Sarpi. L’autografo potrebbe così rappresentare non già una versione primitiva del testo poi stampato – come è stato per lo più considerato (Vivanti, Introduzione a Sarpi, 1974, I, p. XCVII; Cannizzaro, Il manoscritto ritrovato, in Sarpi, 2006, pp. 5 s.), ma il frutto del proposito di «compire e riffare» manifestato dal M. a Galilei, come la riappropriazione da parte dell’autore di un testo sul quale si erano riversate «censure» ed espresse «dettature» del suo ambiente di riferimento (Barzazi, 2009).
Una volta uscita a stampa, la biografia sarpiana fu coperta dal silenzio imbarazzato dei serviti e ignorata dal ceto dirigente veneziano, ormai lontano dalle battaglie del primo Seicento: accomunata all’Istoria del concilio tridentino nel diniego ufficiale della paternità – a tutela dell’ortodossia dei due consultori serviti – la Vita finì così per rimanere accreditata, fino a Settecento inoltrato, come fattura rozza e ingenua di un frate anonimo. Nessun dubbio attributivo sfiorò invece la censura romana, che non agì comunque tempestivamente: la Vita fu infatti condannata all’Indice il 10 giugno 1659, l’anno dopo la seconda edizione.
Il M. morì a Venezia il 7 febbr. 1654 e fu sepolto nella chiesa del convento di S. Maria dei Servi. Il decesso e le esequie avvennero senza suscitare allarme nel nunzio e la salma fu accompagnata dal corteo dei regolari cittadini, come consueto per un frate del suo rango, rimasto – malgrado i trascorsi – figura autorevole nell’Ordine investita di incarichi istituzionali come la presidenza dei capitoli provinciali.
Le sue scritture d’ufficio, subito prelevate dal convento, furono collocate accanto a quelle di Sarpi nella Cancelleria secreta veneziana e distribuite in «dodeci grossissimi volumi» a opera del confratello Francesco Emo (I consulti, 1986, pp. XLIII-L). La nomina di quest’ultimo a coadiutore e quindi a successore del M. aveva stabilizzato il rapporto tra la Repubblica e l’Ordine dei serviti, per il quale l’esercizio della carica di consultore costituì anche in seguito motivo d’onore e di prestigio.
Al disconoscimento della paternità della Vita si è accompagnata l’attribuzione al M. di scritti che non uscirono dalla sua penna, come la De mare Venetorum ad Laurentium Motinum Romanum epistola increpatoria et monitoria, pubblicata nel 1619 con l’indicazione d’autore Iteneu Ichanom Itnegluf [Fulgenti Monahci Veneti], da ricondurre al camaldolese Fulgenzio Tomaselli (Pin, 2005, p. 395). Quanto all’Istruzione ai prencipi della maniera con la quale si governano li padri giesuiti (Poschiavo, 1617) – a lui ascritta da R. De Mattei (1934, pp. 9-20) sulla base di un manoscritto con titolo diverso, poi recepito nell’edizione settecentesca (Avvertimenti a’ principi contro le insidie dei padri gesuiti, Venezia 1767) –, l’assegnazione lascia adito a molti dubbi (cfr. Pavone, 2000, p. 168). Del resto, pur accogliendola sulla scorta della stampa settecentesca, Benzoni (1982, p. 738) ne aveva rilevato il tono «estremamente blando se paragonato coi sarcasmi antigesuitici tipici di Sarpi e degli uomini a lui vicini».
Rimane inoltre aperta la questione spinosa degli interventi del M. sulle opere del maestro, nati da una pratica di collaborazione strettissima e protratta nel tempo, oltre che dalla disponibilità postuma di molti scritti sarpiani, peraltro condivisa dal M. con membri del patriziato, a cominciare da Domenico Molino. Le ricerche più recenti evidenziano a questo proposito la difficoltà di giungere a distinzioni attendibili e sottolineano la necessità d’intrecciare all’analisi testuale l’indagine sistematica sui contesti, veneziani ed europei, in cui Sarpi e il M. operarono.
Fonti e Bibl.: Il nome del M. figura immancabilmente nelle edizioni e nella letteratura critica riguardanti P. Sarpi, cui è indispensabile ricorrere per ricostruire una trama adeguata di rinvii. Si rimanda innanzitutto, in via generale, a: P. Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di M.D. Busnelli, I-II, Bari 1931; Id., Lettere ai gallicani, a cura di B. Ulianich, Wiesbaden 1961; Id., Opere, a cura di G. Cozzi - L. Cozzi, Milano-Napoli 1969; Id., Istoria del concilio tridentino, seguita dalla «Vita del padre Paolo» di F.M., a cura di C. Vivanti, I-II, Torino 1974; Id., Consulti, I, 1-2, a cura di C. Pin, Pisa-Roma 2001; Id., Della potestà de’ prencipi, a cura di N. Cannizzaro, Venezia 2006; Id., Istoria dell’interdetto, a cura di C. Pin, Padova 2006; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l’Europa, Torino 1979; Id., Venezia barocca, Venezia 1995; Lo Stato Marciano durante l’interdetto 1606-1607. Atti del XXIX Convegno … 2006, a cura di G. Benzoni, Rovigo 2008. Il più recente profilo biografico complessivo del M. è di G. Benzoni, Nota introduttiva a F. Micanzio, Annotazioni e pensieri, in Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di G. Benzoni - T. Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 733-756; I consulti di F. M. Inventario e regesti, a cura di A. Barzazi, Pisa 1986; F. Micanzio, Lettere a William Cavendish (1615-1628), a cura di R. Ferrini, Roma 1987; cfr. inoltre: Lettres de Fr.-Aug. De Thou durant ses voyages en Italie et dans le Levant, in Revue rétrospective ou Bibliothèque historique, s. 2, III (1835), pp. 351-408; Lettere inedite di monsignor Zacchia … sulla morte di fra Paolo Sarpi, a cura di A. Ploncher, in Archivio storico italiano, s. 4, 1882, t. 9, pp. 145-162; Edizione nazionale delle opere di G. Galilei, a cura di A. Favaro, Firenze 1890-1909, XI, XVI-XVIII; R. De Mattei, Studi campanelliani, Firenze 1934, pp. 9-20; G. Cozzi, Fra Paolo Sarpi, l’anglicanesimo e la «Historia del concilio tridentino», in Rivista storica italiana, LXVIII (1956), pp. 559-619; V. Gabrieli, Bacone, la Riforma e Roma nella versione hobbesiana d’un carteggio di F. M., in English Miscellany, VIII (1957), pp. 195-250; A.M. Dal Pino, Fra F. da Passirano negli anni di studio e d’insegnamento (1590-1606), in Studi storici O.S.M., VIII (1957-58), pp. 134-151; G. Cozzi, Sulla morte di fra Paolo Sarpi, in Miscellanea in onore di Roberto Cessi, II, Roma 1958, pp. 387-396; H. Grotius, Briefwisseling, V, ‘s-Gravenhage 1966; B. Ulianich, Paolo Sarpi, il generale Ferrari e l’Ordine dei serviti durante le controversie veneto-pontificie, in Studi in onore di Alberto Pincherle, Roma 1967, II, pp. 582-645; E. De Mas, Sovranità politica e unità cristiana nel Seicento anglo-veneto, Ravenna 1975, ad ind.; P. Ulvioni, Accademie e cultura a Venezia nel Seicento, in Libri e documenti, V (1979), pp. 44 s.; M.P. 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A. Barzazi