MORATO, Fulvio Pellegrino
MORATO, Fulvio Pellegrino. – Nacque a Mantova nella seconda metà del XV secolo con il nome di Pellegrino Moretto, che cambiò, secondo la moda umanistica, in Fulvio Pellegrino Morato. I nomi dei genitori sono sconosciuti.
Nel 1517 è attestata la sua presenza a Ferrara, dove si trasferì stabilmente a partire dal 1520, esercitando la professione di maestro di scuola pubblica e precettore. Dal 1522 fu al servizio di Sigismondo d’Este, cugino del duca Alfonso I, e istitutore di due figli di quest’ultimo, Ippolito e Francesco. Nel 1526 prese in moglie Lucrezia Gozi, da cui fra il 1526 e il 1527 ebbe la primogenita Olimpia. Negli anni ferraresi approfondì lo studio del volgare.
Il frutto più noto di tale interesse fu il Rimario di tutte le cadentie di Dante et Petrarca (Venezia, N. Zoppino, 1529), opera di carattere lessicografico redatta con l’intento didattico di facilitare gli studiosi a orientarsi fra le rime dei due maggiori poeti volgari. Tale atteggiamento, frutto della mentalità analitica di un grammatico formatosi nella tradizione dell’umanesimo latino, traspare anche da altri testi, che rimasero tuttavia allo stato frammentario. Gli studi più recenti hanno fatto luce sulla fervida attività di commentatore e postillatore di Morato rimasta per lo più inedita. Sono da segnalare il commento alla Vita scolastica di Bonvensin della Riva (Roma, Biblioteca Casanatense, Vol. Misc., 709, cc. 310r- 333r), quello alla canzone anonima del Bel pecoraro (Biblioteca apostolica Vaticana, Vat. lat., 5226) e la Spositione del Petrarca (Ithaca, Cornell University Library, Petrarch, PC. 1103 F. 74), vero e proprio lavoro esegetico sul Canzoniere e i Trionfi. Nel codice della Cornell University è conservata anche l’edizione Ancona 1516 delle Regole della volgar grammatica di Giovanni Francesco Fortunio, fittamente annotata da Morato, probabilmente nel 1521, nell’intenzione di ripubblicare l’opera con un indice ragionato corredato da note grammaticali. Nel 1525 fu la volta dello studio delle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo (Modena, Biblioteca Estense e universitaria, α.I.9.1), ampliato da una tavola delle parole e concetti notevoli. Le opinioni espresse da Morato nelle note, in particolare riguardo alla vicinanza con alcune posizioni di Fortunio, provocarono l’irritazione di Bembo, il quale in una lettera del 27 maggio 1529 a Bernardo Tasso si lamentò delle «parole ingiuriose» rivoltegli dal «maestro Pelligrino Moretto» (Bembo, 1992, p. 44).
Nel 1530, per cause non del tutto chiare, Morato fu costretto a lasciare Ferrara; dopo aver trascorso un periodo a Cesena, nel 1532, grazie all’intercessione degli amici Giovanni Battista Egnazio e Giovangiorgio Trissino, fu chiamato a Vicenza per ricoprire l’incarico di maestro pubblico di latino. L’attenzione umanistica per i testi classici è palesata dalle prefazioni allo Historico delle guerre et fatti di Roma di Dione Cassio, volgarizzato da Niccolò Leoniceno (Venezia, N. Zoppino, 1533) e a La Georgica di Vergilio da m. Ant. Mario Nigresoli gentilhuomo ferrarese tradotta in versi volgari sciolti (ibid., M. Sessa, 1543). Nel 1535 fu edita a Venezia da Giovanni Nicolini da Sabbio la sua opera forse più fortunata, il Trattato del significato de’ colori, arricchita dieci anni dopo da una seconda parte relativa al significato dei fiori, redatta con materiale desunto da autori italiani, latini e greci.
Negli anni vicentini Morato si fece portavoce di idee anticlericali e apertamente protestanti. Amico intimo di celebri umanisti come Celio Calcagnini e Celio Secondo Curione, fece della sua dimora un luogo di letture pubbliche e di studio per i giovani nobili e gli intellettuali della città, diffondendo riassunti delle opere di Erasmo, ma anche di Ulrich Zwingli e di Filippo Melantone. L’influenza di Erasmo già da tempo rappresentava un punto fermo nella visione di Morato: ne è prova la lettera dedicatoria alla cognata Teofila Gozi, monaca nel convento di S. Gabriele a Ferrara, dell’Ispositione della oratione domenicale detta Pater noster et della salutatione angelica chiamata Ave Maria (Ferrara, F. Rosso, 1526), in cui non fece mistero delle proprie convinzioni in materia di riforma della Chiesa. Si tratta di un commentario volgare sulle preghiere principali della tradizione cristiana; nello stesso anno Rosso diede alle stampe anche il Genethliacon domini nostri Jesu Christi, poema di 300 esametri sulla genealogia di Gesù. Forti note erasmiane si riscontrano anche nei Carmina a Caterina Piovene (Venezia, G. Nicolini da Sabbio, 1534).
Dopo il 1535 l’interesse per le dottrine della Riforma d’Oltralpe si orientò verso Ginevra e gli scritti di Giovanni Calvino, unitamente all’intensificarsi dei rapporti con la corte di Renata di Francia a Ferrara. Nel 1539 inserì tra le letture della sua scuola pubblica a Vicenza l’Institutio Christianae religionis e ciò gli costò la revoca dell’incarico di lector, in un clima di evidente opposizione alla sua persona che lo costrinse a far ritorno a Ferrara. Qui, fra il 1545 e il 1546, ottenne l’incarico di lettore di retorica, oratoria e autori latini presso la facoltà di arti e medicina dello Studio (imprescindibile testimonianza della sua attività didattica sono gli appunti di Alessandro Sardi delle lezioni su Virgilio, Cicerone, Cesare e Orazio conservati a Modena, Biblioteca Estense e universitaria, α.Q.6.14).
Dal 1541 al 1544 curò personalmente l’educazione di Alfonso e Alfonsino, i due figli naturali del duca Ercole II e Laura Dianti.
Morì a Ferrara nel 1548 in seguito a una grave malattia, assistito dalla giovane figlia Olimpia.
Fra le opere rimaste inedite sono i Carmina conservati a Ferrara, Biblioteca comunale, Cl. I.437, c. 492 e a Parma, Biblioteca Palatina, Parmense, 1478, cc. 78-79; ed Epigrammi a Venezia, Biblioteca nazionale Marciana, Lat., cl. XII 240 (=10625).
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