FUNZIONE
. Introduzione. - Una variabile numerica, che dipenda da altre variabili numeriche, si dice funzione di queste ultime. Il concetto di funzione è oggi uno dei più generali che dominino tutte le scienze; specie le scienze sperimentali ne offrono numerosissimi esempî. Così, considerando la legge di Boyle-Mariotte relativa ai gas perfetti, espressa dalla formula p = k: v, abbiamo che la pressione p del gas è una funzione del suo volume v.
Il sorgere del concetto matematico di funzione è dovuto al metodo, creato dal genio di P. de Fermat (1636) e di R. Descartes (1637) per risolvere con l'algebra i problemi della geometria; e il vocabolo funzione, nel suo significato matematico, comparve per la prima volta in uno scritto di G. W. Leibniz, del 1692. Alcuni anni dopo, nel 1718, Giovanni Bernoulli (che già aveva usato, nel 1698, la voce funzione in un senso più vicino a quello che ha attualmente di quanto non avesse fatto il Leibniz) definì come funzione di una grandezza variabile una quantità composta, in un modo qualsiasi, con questa grandezza e con delle costanti. Successivamente, nel 1748, Eulero precisò questa definizione dicendo che una funzione di una quantità variabile è un'espressione analitica composta in qualsiasi modo con tale quantità variabile e con quantità costanti. Per Eulero, il concetto di funzione da una parte veniva identificato con quello di espressione analitica, e dall'altra si riattaccava a quello di curva, in diretta connessione coi metodi della geometria analitica, insegnati da Fermat e Descartes (vedi coordinate; curve). Siffatti metodi, traducendo le proprietà geometriche o cinematiche, caratteristiche di una determinata curva piana, in una relazione analitica fra le coordinate x e y del punto generico della linea, ponevano una dipendenza fra tali coordinate, in modo, che, fissato un valore dell'ascissa x, ne risultavano determinati uno o più valori dell'ordinata y; e in tal senso, la y veniva a essere una funzione della x. Tuttavia, quest'ordine di idee non raggiunse, al tempo di Eulero, il suo completo sviluppo. Si consideravano, è vero, le curve come generatrici delle funzioni; ma non tutte le linee si ritenevano atte a dare origine a funzioni. E pertanto si scartavano quelle tracciate in modo del tutto arbitrario, ritenendo solamente le curve, per ciascuna delle quali le proprietà geometriche o cinematiche caratteristiche si traducevano in una unica relazione analitica, fra le coordinate del proprio punto generico, valida per tutti i punti della curva medesima. Perciò, una linea composta, p. es. di due segmenti rettilinei, non appartenenti a una stessa retta, non poteva dare origine a una funzione, perché le coordinate d'un punto generico del primo segmento soddisfano a una certa equazione, mentre quelle di un punto del secondo segmento soddisfano a un'altra equazione, diversa dalla precedente.
Questo modo di concepire le funzioni portò a serî imbarazzi nella discussione del problema delle corde vibranti, risoluto per la prima volta da J. d'Alembert, nel 1747. Una nuova soluzione di tale problema, ottenuta da Daniele Bernoulli nel 1753, mediante una serie trigonometrica, e alcune osservazioni fatte in proposito da Eulero, misero in luce la necessità di generalizzare la nozione di funzione. Peraltro, a questa generalizzazione si giunse soltanto dopo che, sul finire del 1807, J. Fourier (v.) osò affermare che ogni curva piana arbitrariamente tracciata, e incontrata in un solo punto al più da ogni parallela all'asse delle y, è rappresentabile, in un intervallo finito, con una serie trigonometrica. Con qualche opportuna restrizione, la conclusione di Fourier fu rigorosamente provata, nel 1829, da P. L. Dirichlet, il quale, precisamente in simili studî, formulò la definizione generale di funzione (univoca) che è oggi universalmente accettata. Secondo tale definizione, una quantità y si dice funzione, e più precisamente funzione univoca, di una o più altre quantità x, z,..., t, variabili in un certo campo C, se, ad ogni sistema x, z,..., t, di C, corrisponde, secondo una data legge, un valore e uno solo di y. Se poi a ogni sistema x, z,..., t di C corrispondono più valori della y, questa è una funzione plurivoca delle quantità x, z,..., t. Nella definizione così fissata, non si fa cenno alcuno al modo con cui y dipende da x, z,..., t, e perciò il concetto di funzione risulta indipendente tanto da quello di espressione analitica quanto da quello di curva. La dipendenza di y da x, z,..., t, può essere di natura qualsiasi. Così, se pongo y = x + 1, posso dire che y è funzione di x; ma posso dire pure che la temperatura di un dato ambiente è una funzione del tempo per il solo fatto che, a ogni istante t, la temperatura dell'ambiente considerato ha un determinato valore, e nonostante che io non sappia indicare quali siano le operazioni da eseguire su t per ottenere la temperatura corrispondente. Seguendo A.C. Clairaut ed Eulero, per indicare che y è funzione di x, oppure di x, z,..., t, si scrive y = f(x) oppure y = f(x, z, ..., t) anche y = g(x), y = g (x, z, ... t), o ancora y = y(x), y = (x, z, ..., t), ecc.
Nella definizione di Dirichlet, è inteso che tanto la funzione y quanto la variabili indipendenti x, z,..., t, siano tutte dei numeri; ma quella definizione si presta a essere interpretata in un senso assai più generale, se non ci si limita alle sole variabili numeriche. Per esempio, l'area racchiusa da una curva piana (o il volume racchiuso da una superficie) è un numero che resta ben determinato quando sia fissata la curva (o la superficie); e, secondo un significato più largo della definizione di Dirichlet, deve dirsi perciò che tale numero è una funzione della curva (o della superficie). Queste funzioni più generali furono considerate e studiate per la prima volta da V. Volterra (1884). Infine (seguendo il Volterra, il Pincherle, il Fréchet, il Moore e altri) possiamo anche intendere che la funzione y sia un ente di natura qualsiasi che dipende da altri enti x, z,..., t, pure di natura qualsiasi; e con ciò il concetto di funzione assume la sua massima estensione.
Qui ci occuperemo solo delle funzioni intese nel senso classico, cioè delle funzioni numeriche di variabili numeriche. Lo studio delle funzioni più generali, cui abbiamo or ora accennato, vien fatto nel calcolo funzionale, fondato da V. Volterra e da S. Pincherle sulla fine del secolo scorso, e nell'analisi generale, sorta in questi ultimi anni per opera specialmente di M. Fréchet e H. Moore (per tali funzioni v. la voce funzionali).
Il concetto di funzione numerica di variabili numeriche, nel senso di Dirichlet, è talmente generale che svariatissime sono le relazioni che possono intercedere fra le variabili indipendenti e la variabile dipendente; e finché si resta nella completa generalità, non è possibile concludere gran cosa nello studio delle funzioni. Per giungere a risultati concreti di qualche interesse o per le applicazioni della matematica o anche soltanto per la pura teoria, è necessario prendere in considerazione classi determinate di funzioni, caratterizzate da qualche proprietà particolare. Per orientarsi in questa scelta, è opportuno procedere ad alcune classificazioni che possono essere fatte secondo varî punti di vista, ad alcuni dei quali vogliamo accennare. Una prima separazione può farsi a seconda del numero dei valori che una funzione assume in corrispondenza a un valore fissato per ciascuna delle variabili da cui dipende; si hanno così le funzioni a un valore o univoche e quelle a più valori o plurivoche. Poi si possono distinguere le funzioni a seconda del numero delle variabili da cui dipendono; e si hanno allora le funzioni di una sola variabile indipendente e le funzioni di due, tre o più variabili indipendenti. Un'altra classificazione può ottenersi in relazione al campo dei valori, sia delle variabili indipendenti sia della funzione. I valori delle prime possono essere tutti reali, e in tal caso si hanno le funzioni di variabili reali; oppure possono essere complessi, avendosi così le funzioni di variabili complesse. Anche i valori che assume la funzione possono essere sempre reali, dando luogo a una funzione reale; oppure generalmente complessi, e allora si ha una funzione complessa. Combinando i valori reali o complessi delle variabili indipendenti con quelli reali o complessi della funzione, si hanno le funzioni reali di variabili reali (ad es., y = sen x, per x reale), le funzioni reali di variabili complesse (y = ∣x∣ per x complesso), le funzioni complesse di variabili reali (y = √x per x reale), le funzioni complesse di variabili complesse (y = x2 + 1, per x complesso).
Una funzione può essere data esplicitamente mediante un'espressione analitica, vale a dire mediante un determinato complesso di operazioni di calcolo da eseguire su dei numeri dati (detti costanti), sulle variabili indipendenti e anche su certe funzioni ben note, dette elementari: ciò avviene, per esempio, se la funzione y è definita da una delle seguenti uguaglianze: y = x + 3x2, y = sen x + cos x, ecc. Le funzioni che si trovano in queste condizioni si possono classificare a seconda della natura dell'espressione analitica che le definisce. Se tale espressione si riduce semplicemente a un complesso di addizioni, sottrazioni e moltiplicazioni (in numero finito) eseguite su delle costanti e sulle variabili indipendenti, la funzione si dice razionale intera (es.: y = 2 + 3x2 + 5 x3); se consta d'un complesso di addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni (in numero finito), eseguite su costanti e variabili indipendenti, ma in modo che nei divisori figurino delle variabili, allora la funzione si dice razionale fratta (es.: y = (5 + x) : (3 + x2).
Una funzione può essere data implicitamente da una relazione analitica. Per es., la y può essere definita da una delle equazioni
Se, nell'equazione che definisce la y, figurano soltanto delle addizioni, sottrazioni, moltiplicazioni e divisioni, eseguite su delle costanti e le variabili dipendente e indipendenti, allora si ha la funzione algebrica (è questo il caso della prima delle due equazioni scritte or ora). Quando una funzione non è né razionale, intera o fratta, né algebrica, si dice trascendente. Sono trascendenti, per es., le y = sen x, y = cos x, y = ex, y = log x, che, tutte, figurano fra le cosiddette funzioni elementari, le quali comprendono, precisamente, le funzioni razionali e le loro potenze a esponente intero, frazionario o irrazionale, la funzione esponenziale e quella logaritmica, le funzioni circolari e iperboliche con le loro inverse e le combinazioni razionali di tutte queste funzioni.
Lo studio generale delle funzioni si è svolto soprattutto secondo due grandi direzioni ben distinte: quella delle funzioni di variabili reali, e precisamente delle funzioni reali, a un valore, di variabili reali; e quella delle funzioni di variabili complesse, e più precisamente delle cosiddette funzioni analitiche. Dapprima si considerarono soltanto le funzioni di variabili reali, che sono quelle a cui conducono immediatamente i problemi della geometria, della meccanica e della fisica matematica; e per tali funzioni si ebbero tutti gli sviluppi del calcolo infinitesimale. Ma, verso la fine del sec. XVIII, cominciò a diffondersi la persuasione dell'utilità, nello studio delle funzioni, dell'uso dei numeri complessi, che il bolognese R. Bombelli aveva arditamente introdotti nella sua Algebra fin dal 1572. La scoperta della celebre formula di Eulero, la quale, mediante i numeri complessi, mette in luce il legame esistente tra la funzione esponenziale e le funzioni circolari (v. sotto: funzioni notevoli), la possibilità di ricondurre l'una all'altra, attraverso i numeri complessi, certe formule del calcolo integrale, che nel dominio dei numeri reali restano del tutto distinte, e altri fatti che vennero accumulandosi nella seconda metà del sec. XVIII, predisposero le menti dei maggiori matematici ad accogliere nelle loro speculazioni analitiche i nuovi numeri del Bombelli. E quando, sul finire del sec. XVIII e sul principio del secolo successivo, da una parte C. Wessel, J.-R. Argand e K. F. Gauss riuscirono a dare una rappresentazione geometrica dei numeri complessi, e dall'altra, alcuni problemi di fisica matematica condussero a considerare certe coppie di funzioni reali di due variabili, che ritroveremo più innanzi come parte reale e parte immaginaria di una funzione di variabile complessa, A.-L. Cauchy si decise a introdurre sistematicamente queste funzioni di variabile complessa, fondando una delle teorie più brillanti e più perfette dell'analisi matematica, quella delle funzioni analitiche; nella quale teoria dominano, insieme col nome di Cauchv, quelli di B. Riemann e di K. Weierstrass, e a cui hanno portato svariati contributi matematici eminenti di tutti i paesi. Nella seconda metà del sec. XIX lo studio delle funzioni di variabili reali fu ripreso con intendimenti critici, che portarono a un assetto rigoroso del calcolo infinitesimale e all'inizio di ricerche molto delicate, sulla natura, sul comportamento e sulle proprietà delle funzioni di variabili reali, ricerche che in Italia ebbero come caposcuola U. Dini.
Rileviamo fin d'ora, che, tra una funzione di variabile reale e una funzione analitica di variabile complessa sta (al di fuori della natura reale, da una parte, e complessa, dall'altra, delle variabili dipendente e indipendente) la profonda differenza che, nella prima, i valori della funzione, nelle varie parti del campo in cui è definita, sono senza alcun legame, risultando essi completamente indipendenti gli uni dagli altri, mentre invece nella seconda, fra tali valori vi è una solidarietà, per modo che la loro conoscenza in un cerchio, per quanto piccolo, basta a determinare perfettameme la funzione in tutto il suo campo d'esistenza.
Funzioni di Variabili reali.
1. La variabile indipendente. - Cominceremo col trattare delle funzioni reali, a un valore, di una sola variabile indipendente, reale, la funzione essendo intesa nel senso generale di Dirichlet. La variabile indipendente, che potremo indicare con x, è un simbolo che può assumere tutti i valori di un dato insieme di numeri reali, che si chiama campo di variabilità della x. Questo campo può essere un insieme qualsiasi di numeri reali; ma ordinariamente è dato da un intervallo di valori reali, vale a dire dalla totalità dei numeri reali compresi fra due numeri a e b, oppure da tutti quelli maggiori o uguali a un numero a, oppure da tutti quelli minori o uguali a un numero b, oppure, infine, da tutti i numeri reali, nessuno eccettuato. Nei varî casi considerati l'intervallo s' indica rispettivamente, con (a, b), (a + ∞), (− ∞, b), (− ∞, + ∞).
2. Rappresentazione geometrica. - Nello studio delle funzioni è molto utile servirsi di una rappresentazione geometrica. Per una funzione y = f (x), che, sino ad avviso contrario, riterremo sempre reale, a un valore, della variabile reale x, e che supporremo data in un certo intervallo, possiamo ottenere una simile rappresentazione seguendo i metodi della geometria analitica cartesiana (v. coordinate, n. 9). Scegliamo, in un piano, due rette ortogonali e immaginiamo, per fissare le idee, che una di esse (l'asse delle ascisse o delle x) sia orizzontale, mentre l'altra (l'asse delle ordinate o delle y) sia verticale. Detto O il punto d'incontro delle due rette, e fissata un'unità di misura lineare, a ogni valore di x dell'intervallo di definizione della f (x), facciamo corrispondere, sull'asse delle ascisse, un punto P, alla destra o alla sinistra di O secondo che è positivo o negativo, e in modo che la lunghezza del segmento OP sia data dal valore assoluto di x. Poi, per P conduciamo la parallela all'asse delle ordinate, e su di essa, a partire dal punto P, e al di sopra o al di sotto di P, a seconda che f (x) è positiva o negativa, fissiamo un segmento PM di lunghezza uguale al valore assoluto di f(x). L'insieme di tutti i punti M, che in tal modo possono determinarsi, costituisce, in generale, una curva, la quale dà la rappresentazione geometrica o grafica della funzione f (x). In questa rappresentazione, all'intervallo in cui è data la f (x) viene a corrispondere un segmento dell'asse delle ascisse, e a ogni valore x di quell'intervallo corrisponde un punto di questo segmento, punto che s'indica, di solito, con la stessa lettera x. Per tale ragione, invece di dire "numero x dell'intervallo (a, b)" si dice solitamente "punto x di (a, b)".
3. Limiti superiore e inferiore. - Una funzione f(x), data in un intervallo I, è limitata se il suo valore resta sempre compreso fra due numeri fissi; se tale valore resta soltanto inferiore (superiore) a un numero fisso, la funzione è limitata superiormente (inferiormente). Il limite (o anche estremo) superiore (inferiore) della f(x), in I, è + ∞ (− ∞), se la funzione non è limitata superiormente (inferiormente), e, nel caso contrario, è un numero L tale che si abbia sempre, per tutti gli x di I, f (x) ≤ L (≥ L) e che, inoltre, esistano dei valori di f (x) vicini a L quanto si vuole. Se uno dei valori di f(x) è esattamente uguale a L, allora L si dice il massimo (minimo) della f(x) in I.
4. Valori limiti. - Se a è un valore dell'intervallo I in cui è data la f (x), si dice che esiste il limite finito l della f (x), per x che tende ad a sempre crescendo (oppure sempre decrescendo), se, per tutti gli x minori (oppure maggiori), ma sufficientemente vicini ad a, f(x) differisce da l di tanto poco quanto si vuole. Questo limite, quando esiste, si chiama anche limite a sinistra (a destra) di f(x), per x uguale ad a, e s'indica con una delle scritture
Si dice che esiste il limite finito l di f (x), per x che tende ad a, comunque in I, se, per tutti gli x sufficientemente vicini ad a, f(x) differisce da l di tanto poco quanto si vuole. Tale limite s'indica con
L'esistenza di questo limite equivale all'esistenza simultanea dei due limiti a sinistra e a destra, e alla loro uguaglianza.
Il limite a sinistra f(a − 0) di f (x), per x → a, è + ∞ (− ∞) se per tutti gli x minori ma sufficientemente vicini ad a, f (x) resta maggiore (minore) di un numero positivo (negativo) comunque grande (in valore assoluto). Una definizione analoga si ha per il limite a destra f(a + 0) infinito, e anche per il limite infinito di f (x), per x che tende ad a comunque in I. Tutte queste definizioni si estendono poi al caso dei limiti di f(x) per x → ∞ e per x → − ∞.
5. Limiti d'indeterminazione. - Se a è ancora un valore dell'intervallo I di definizione della f (x), si dice che il numero Λ è il limite d'indeterminazione superiore (inferiore) a sinistra di f(x) per x = a, se, preso ad arbitrio un numero positivo σ, comunque piccolo, per tutti gli x minori ma sufficientemente vicini ad a, f(x) resta sempre minore di Λ + σ (maggiore di Λ − σ), e se, inoltre, per qualche x minore di a, ma vicino ad a quanto si vuole, è f(x) > Λ − σ (f(x) 〈 Λ + σ). Il limite d'indeterminazione superiore (inferiore) a sinistra di f(x), per x = a, è + ∞ (− ∞) se, comunque si scelga un numero positivo M, si può sempre trovare un x minore di a e vicino ad a quanto si vuole, in modo da avere f(x) > M (f(x) 〈 − M). Lo stesso limite d'indeterminazione è poi − ∞ (+ ∞) se, comunque si scelga il numero M > 0, per tutti gli x minori di a e sufficientemente vicini ad a, risulta f (x) 〈 − M (f (x) > M). Il limite d'indeterminazione superiore a sinistra s'indica con una qualunque delle scritture
e quello inferiore con
In modo analogo si definiscono i limiti d'indeterminazione superiore e inferiore a destra della f (x), per x = a; per indicarli si usano le notazioni precedenti, sostituendo in esse a = 0 con a + 0.
Se l'intervallo I è infinito, tutte queste definizioni si estendono al caso di a = + ∞ e a quello di a = − ∞.
La nozione di limite d'indeterminazione è dovuta ad A.-L. Cauchy e a N. H. Abel. Se i due limiti d'indeterminazione a sinistra sono uguali, allora esiste anche f (a − 0) ed è
viceversa, se esiste f(α − 0), i due limiti d'indeterminazione a sinistra sono ambedue uguali a f(α − 0). Analogamente per i limiti d'indeterminazione a destra.
6. Oscillazione. - La differenza fra il limite superiore e quello inferiore di una funzione f(x) in un intervallo I è l'oscillazione di tale funzione in I. Considerato un valore a di I e un intervallo variabile I′ contenente a nel suo interno, l'oscillazione della f(x) in I′, quando I′ tende a ridursi ad a, tende a un limite, che si chiama l'oscillazione della funzione nel punto a.
7. Continuità. - Una funzione f(x) è continua in un punto a dell'intervallo I, su cui è definita, se in tale punto la sua oscillazione è nulla, vale a dire se in tutti i punti di I sufficientemente vicini ad a il valore di f (x) differisce da f (α) di tanto poco quanto si vuole. Ciò equivale anche a dire che esiste finito il limite di f(x) per x che tende comunque ad α, e che questo limite è esattamente uguale a f(a). Il merito di aver così precisato il concetto di continuità spetta a B. Bolzano (1814) e ad A.-L. Cauchy (1821).
La f (x) è continua in tutto l'intervallo I se è continua in ciascun punto di I. Le funzioni razionali intere sono continue ovunque; quelle razionali fratte mancano della continuità solo nei punti che annullano i loro denominatori. Tutte le funzioni elementari, come tutte quelle che si presentano nelle applicazioni della matematica, sono ovunque continue, a eccezione al più di qualche punto isolato.
Una funzione continua in tutto un intervallo finito I ha, in quest'intervallo, un valore massimo e un valore minimo: è, pertanto, limitata. Inoltre, in ogni intervallo (a, b), appartenente a I, assume tutti i valori compresi tra f(a) e f(b), vale a dire essa non passa mai da un valore f(a) a un altro valore f (b) senza assumere, fra a e b, tutti i valori intermedî. Contrariamente a quanto prima si era ritenuto, G. Darboux mostrò nel 1875 che tale proprietà non è caratteristica per le funzioni continue. Secondo un teorema dovuto a H. E. Heine (1870), se la f (x) è continua in un intervallo finito I preso ad arbitrio un numero positivo e, si può determinarne un altro δ, in modo che, essendo a e β due valori qualsiasi di I sottoposti alla sola condizione ∣a − β∣ 〈 δ, risulti sempre ∣f(α) − f (β)∣ 〈 ε. Ciò si esprime dicendo che la f(x) è uniformemente continua in I.
Per una funzione continua in un intervallo finito, si può sempre dare un'espressione analitica mediante una serie uniformemente convergente (v. serie) di funzioni razionali intere. Ciò fu affermato e dimostrato per la prima volta da K. Weierstrass (1885).
8. Discontinuità. - Sono punti di discontinuità, per la f (x), quelli in cui l'oscillazione è maggiore di zero. Un punto α di discontinuità, in cui esistano entrambi i limiti f (a − 0) e f (α + 0), dà una discontinuità di Iª specie; se i limiti indicati sono ambedue finiti, la discontinuità è a salto finito, essendo essa, invece, a salto infinito nel caso contrario. La discontinuità è di 2ª specie se manca almeno uno dei due limiti f (a - 0), f (a + o). Se questi limiti esistono e sono ambedue infiniti, a si dice punto d'infinito per la f (x).
9. Semicontinuità. - La funzione f(x) è semicontinua inferiormente nel punto a se, preso ad arbitrio un numero positivo ε, per tutti gli x sufficientemente vicini ad a, è f (x) > f(a) − ε; se invece risulta f (x) 〈 f(α) + ε, la f(x) è, in a, semicontinua superiormente. Il concetto di semicontinuità è dovuto a R. Baire (1897). La continuità in un punto α equivale alla coesistenza in tale punto delle due semicontinuità.
10. Quasi-continuità. - La funzione f (x) è quasi-continua (L. Tonelli, 1922), in un intervallo I, se esiste almeno una legge che, a ogni numero intero positivo n, faccia corrispondere un numero finito o un'infinità (numerabile) d' intervalli parziali di I, due a due senza punti comuni e di lunghezza complessiva minore di1: n, in modo che, in ciascun punto α esterno a tutti questi intervalli, la f(x) risulti continua, quando si prescinda completamente dai valori che essa assume nei punti appartenenti agl'intervalli indicati; vale a dire, in modo che, per ciascun a preso ad arbitrio un numero positivo ξ, per tutti gli x sufficientemente vicini ad α ed esterni agl'intervalli detti, sia ∣f(x) − f(α)∣ 〈 ε. Tutte le funzioni effettivamente costruite sino a ora godono della quasi-continuità. La considerazione delle funzioni quasi-continue è molto utile nello studio del problema dell'integrazione (v. integrale, calcolo).
11. Funzioni misurabili. - Considerato un insieme o gruppo G di punti, contenuto nell'intervallo (a, b), ricopriamolo con un numero finito o un'infinità numerabile d'intervalli parziali di (a, b), e indichiamo con s la lunghezza complessiva di tali intervalli. L'operazione indicata può farsi in infiniti modi, e quindi si possono ottenere infiniti valori per s. Il massimo numero che non supera nessuno di questi valori si dice misura esterna del gruppo G. Se G′ è il gruppo dei punti che restano in (a, b) dopo di aver tolti tutti quelli di G, e se le misure esterne di G e G′, sommate insieme, riproducono esattamente la lunghezza b - a dell'intervallo (a, b), si dice che il gruppo G è misurabile (nel senso del Lebesgue). Ciò premesso, una funzione f(x) si dice misurabile, secondo H. Lebesgue (1902), in (a, b), se, qualunque siano i numeri reali α e β (con a 〈 β), l'insieme dei punti x di (a, b) nei quali è α 〈 f(x) 〈 β risulta misurabile. La classe delle funzioni misurabili è estesissima; essa comprende come caso particolare quella delle funzioni quasi-continue, e fu considerata dal Lebesgue per giungere a una definizione d'integrale molto generale (v. integrale, calcolo).
12. Funzioni derivabili. - Una funzione f(x) è derivabile in un punto x se, in esso, ammette la derivata (v. differenziale, calcolo); è indefinitamente derivabile se ammette le derivate di tutti gli ordini. Le funzioni elementari e quelle che più comunemente si presentano nelle applicazioni della matematica sono ovunque indefinitamente derivabili, a eccezione al più di alcuni punti singolari. Fino alla metà del secolo scorso, si riteneva che ogni funzione continua fosse generalmente derivabile (cioè che potesse mancare di derivata soltanto in alcuni punti particolari), ma nel 1861 K. Weierstrass costruì una funzione continua ovunque mancante di derivata. Intere classi di funzioni continue presentanti tale singolarità furono poi costruite da P. Du Bois-Reymond e da U. Dini.
13. Funzioni e numeri derivati. - Una funzione ϕ(x) che sia, in tutti i punti dell'intervallo (a, b) in cui si considera, la derivata di un'altra funzione f(x), si dice funzione derivata; la f(x) è la funzione primitiva della ϕ(x). Esistono infinite funzioni primitive di una data funzione derivata ϕ(x). Se, come intendiamo, la ϕ(x) ha un valore finito per ogni x di (a, b), determinata una sua funzione primitiva f(x), tutte le altre sono date dall'espressione f(x) + c, dove c è una costante arbitraria. Un procedimento di calcolo, ideato da A. Denioy (1912), permette sempre di determinare tutte le primitive di una funzione derivata ovunque finita; e ciò vale anche se la ϕ(x) è infinita in una infinità numerabile di punti (Tonelli, 1920). Il problema di determinare le primitive di una data funzione derivata è fondamentale per il calcolo integrale; e l'evoluzione del concetto d'integrale è intimamente connessa allo sviluppo storico di tale problema, al quale hanno portato contributi essenziali A.-L. Cauchy, B. Riemann, H. Lebesgue.
Nel 1875, G. Darboux mostrò che le funzioni derivate godono di una proprietà che sembrava caratteristica delle funzioni continue, e precisamente provò che una funzione derivata ϕ(x) assume in ogni intervallo (a, b) tutti i valori compresi fra ϕ(a) e ϕ(b). Inoltre, una funzione derivata è misurabile e anche quasi-continua; e, se è limitata, è integrabile nel senso del Lebesgue, e il suo integrale dà le sue primitive.
Una generalizzazione della derivata è offerta dai numeri derivati, considerati per la prima volta da U. Dini (1878), e da lui chiamati estremi oscillatori del rapporto incrementale {f(x + h) − f(x)}: h della funzione f(x), nel punto x. Essi sono i limiti d'indeterminazione di tale rapporto per h = 0, e sono quattro in ogni punto x: due numeri derivati destri, superiore e inferiore (D+ f (x), D+ f (x)) e due numeri derivati sinistri, superiore e inferiore (D- f (x), D- f (x)). Un numero derivato, che sia sempre finito in tutto l'intervallo (a, b), determina la funzione f(x) a meno di una costante additiva (V. Volterra, L. Scheeffer), e per esso può ripetersi quanto già si disse per le funzioni derivate, circa il problema della determinazione delle primitive.
14. Funzioni integrabili. - Sono quelle alle quali è applicabile una delle definizioni d'integrale (v. integrale, calcolo). Fra queste definizioni, le più notevoli sono quelle di Mengoli-Cauchy (detta, da molti, di Riemann), di Lebesgue e di Denjoy. La nuova funzione
si chiama funzione integrale della f(x). In ogni punto in cui la f(x) è continua, la derivata della funzione integrale è esattamente uguale alla f(x). Questa proprietà, di fondamentale importanza per il calcolo integrale, si estende, con qualche restrizione, anche ai punti di discontinuità della f(x).
15. Funzioni monotone e a variazione limitata. - Se, per ogni coppia di punti α e β, dell'intervallo (a, b) in cui la f(x) è definita, e tale che α 〈 β, risulta f(a) ≤ f(β), la funzione si dice non decrescente (crescente, se è sempre f(α) 〈 f (β)); se, invece, risulta f (α) ≥ f (β) la f (x) si dice n0n crescente (decrescente, se è sempre f (α) > f(β)). In tutti questi casi, la f(x) è monotona. Una funzione che sia eguale alla differenza di due funzioni monotone si chiama a variazione limitata (C. Jordan, 1881). Dicendo variazione di una funzione f(x) in un intervallo (α, β) la differenza f(β) − f(α), e suddividendo l'intervallo (a, b) in un numero finito di parti, la somma dei valori assoluti delle variazioni della f(x), in tutte queste parti, resta sempre inferiore a un numero fisso, se la funzione è a variazione limitata; e viceversa. Il più piccolo numero, di cui la somma indicata resta sempre minore o uguale, è la variazione totale della funzione f (x) in (a, b). Questa variazione totale è finita se la funzione è a variazione limitata, e soltanto in tale caso. Tutte le funzioni aventi derivata sempre inferiore, in valore assoluto, a un numero fisso, sono a variazione limitata; altrettanto deve dirsi di quelle che soddisfano alla condizione di Lipschitz, vale a dire di quelle per le quali il rapporto incrementale {f(β) − f(α)} : (β − α) resta sempre inferiore, in valore assoluto, a un numero fisso, qualunque siano α e β nell'intervallo in cui esse funzioni sono definite. Esistono però delle funzioni, anche continue, che non sono a variazione limitata.
Ogni funzione a variazione limitata è integrabile nel senso di Mengoli-Cauchy, e ammette derivata finita quasi-dappertutto (Lebesgue, 1904); ciò significa che i punti, in cui la derivata non esiste oppure è infinita, si possono rinchiudere in un numero finito o in un'infinità numerabile d'intervalli di lunghezza complessiva piccola a piacere. La derivata di una funzione a vaiiazione limitata è integrabile nel senso di Lebesgue. Una funzione a variazione limitata si può ottenere (Dirichlet, Jordan) come somma della sua serie di Foutier (v.).
dove è
Il concetto di queste funzioni è importante anche per la risoluzione generale del problema della rettificazione delle curve.
16. Funzioni assolutamente continue. - La f(x) è assolutamente continua (G. Vitali, 1905) nell'intervallo (a, b), se, preso ad arbitrio un numero positivo ε, è possibile di determinarne un altro δ in modo che la somma delle variazioni della f(x), su un numero finito qualsiasi d'intervalli parziali di (a, b), due a due senza punti comuni e di lunghezza complessiva minore di δ, risulti, in valore assoluto, inferiore a ε. Ogni funzione assolutamente continua è anche continua e a variazione limitata; ammette perciò quasi-dappertutto derivata finita, che risulta integrabile nei senso del Lebesgue; e la funzione integrale di tale derivata riproduce la f(x), a meno di una costante additiva. L'assoluta continuità è la proprietà caratteristica delle funzioni integrali, quando la definizione d'integrale sia quella del Lebesgue. Non tutte le funzioni continue e a variazione limitata sono assolutamente continue. Godono dell'assoluta continuità, fra le altre, le funzioni che hanno derivata sempre inferiore, in valore assoluto, a un numero fisso; quelle che soddisfano alla condizione di Lipschitz; quelle che hanno derivata sempre finita e integrabile nel senso del Lebesgue.
17. Uguale continuità. - Considerate infinite funzioni f(x), esse si dicono ugualmente continue in un dato intervallo (a, b), se, preso ad arbitrio un numero positivo ε, se ne può sempre determinare un altro δ, in modo che α e β essendo due punti qualsiasi di (a, b), tali che ∣α − β∣ 〈 δ, risulti sempre ∣f(β) − f(α)∣ 〈 ε, qualunque sia la funzione f(x) dell'insieme considerato. Il concetto di uguale continuità (che implica la continuità di ciascuna funzione) fu posto da G. Ascoli (1879), ed è di fondamentale importanza negli studî sugli insiemi di funzioni o di curve o di superficie, e in particolare nel calcolo funzionale. Il più semplice criterio per riconoscere l'ugu̇ale continuità fu dato da C. Arzelà (1895).
18. Funzioni di funzioni. - Se è y = f (x) e x = ϕ(t), la funzione di t, y = f (ϕ(t)) ⊄ F (t) si dice funzione di funzione. Se le f (x) e ϕ(t) sono continue o derivabili, la F(t) risulta, rispettivamente, continua o derivabile.
19. Funzione inversa. - Sia y = f(x) una funzione continua e crescente (oppure decrescente) in un intervallo (a, b). In questo intervallo, essa assume tutti i valori compresi fra f(a) e f(b), e soltanto tali valori. A ogni valore y compreso tra f(a) e f(b), corrisponde, in (a, b), un x e uno solo in cui è y = f (x); questo x risulta dunque una funzione di y, x = ϕ(y). La nuova funzione così risultante è l'inversa di quella data. Partendo, per esempio, dalla funzione esponenziale y = e2, la funzione inversa è quella logaritmica x = log y. Supponiamo oia che la y = f (x) sia continua e tale che l'intervallo (a, b) si possa dividere in un numero finito di parti, in ciascuna delle quali la funzione sia o crescente o decrescente. Allora, a ogni y compreso tra il massimo e il minimo valore della f(x), la relazione y = f(x) fa corrispondere un numero finito di valori x1, x2,..., xn, per i quali la f (x) assume esattamente il valore y considerato. Risulta pertanto definita una nuova funzione x − ϕ(y), a più valori, che si dice ancora funzione inversa di quella data. Se, per esempio, si ha y − x2, la funzione inversa è x = ± √y.
20. Formule e sviluppi del Taylor e del MacLaurin. - Per una funzione f (x) avente le derivate f′ (x), f″ (x).... f(n)(x) in tutto l'intervallo (x, x + h), vale la formula del Taylor (1715)
dove Rn, che si dice termine complementare o resto, può assumere varie forme, la più semplice delle quali
con 0 〈 ϑ 〈 1, fu indicata da Lagrange (1797). Come casi particolari si hanno le formule dette da taluno di MacLaurin
Se la f (x) è, in (x, x + h), indefinitamente derivabile, e se il resto Rn della formula del Taylor tende allo zero al crescere indefinito di n, si ha lo sviluppo in serie di Taylor (1715)
Una condizione sufficiente affinché Rn tenda allo zero è che, nell'intervallo (x, x + h), tutte le derivate della f (x) risultino, in valore assoluto, minori di uno stesso numero. Le condizioni necessarie e sufficienti furono determinate da A. Pringsheim (1894).
Come casi particolari, si hanno le serie dette di MacLaurin
Una funzione f (x), che ammetta il primo di questi sviluppi in tutto un intervallo (α − δ, α + δ), si dice, in tale intervallo, funzione analitica della variabile reale x. Come esempio degli sviluppi precedenti, daremo quello della funzione esponenziale:
21. Rappresentazione analitica delle funzioni. - Gli sviluppi or ora indicati offrono una rappresentazione analitica per un'estesa classe di funzioni. Una classe molto più generale è quella delle funzioni per le quali vale lo sviluppo in serie di Fourier (v.), a cui abbiamo già accennato: e abbiamo anche già detto che per le funzioni continue è poi sempre possibile di dare uno sviluppo in serie di polinomî interi. R. Baire (1898) ha caratterizzate le funzioni discontinue rappresentabili, nell'intervallo in cui sono considerate, mediante serie convergenti di polinomi interi; fra queste funzioni sono comprese tutte quelle che hanno soltanto un numero finito o un'infinità numerabile di discontinuità. Ogni funzione discontinua, integrabile nel senso del Lebesgue in un intervallo (a, b), si può ottenere quasi dappertutto, in (a, b), come somma di una serie di polinomî interi.
22. Funzioni di due o più variabili. - Se le variabili indipendenti sono due, x e y, la coppia costituita da due quali si vogliano valori di α e di y potrà rappresentarsi su un piano mediante un punto, secondo i metodi della geometria analitica cartesiana (v. coordinate, n. 15); e precisamente, fissato in questo piano un sistema cartesiano di assi x e y, la coppia dei valori x e , y potrà essere rappresentata mediante il punto P che ha per ascissa x e per ordinata y. L'insieme delle coppie (x, y) per le quali si considera definita una funzione f (x, y), costituisce il campo di definizione della funzione. Tale campo sarà rappresentato geometricamente dall'insieme o campo dei punti P corrispondenti alle coppie (x, y). Parlando del campo di definizione della f (x, y), ci si può riferire senz'altro al campo dei punti P.
Per ogni punto P del campo C in cui è definita la funzione f(x, y), conduciamo la perpendicolare al piano xy e su di essa, a partire da P e al di sopra o al disotto del piano detto, a seconda che f(x, y) è positiva o negativa, segnamo un segmento PM di lunghezga ugnale al valore assoluto di f(x, y). L'insieme di tutti i punti M, che così si possono costruire, costituisce, in generale, una superficie, che dà la rappresentazione geometrica della funzione considerata. Quanto si è detto sulle funzioni di una sola variabile si estende a quelle di due variabili, e anche alle funzioni di tre, quattro,..., n variabili:
23. Funzioni composte. - Se è z la
si dice funzione composta.
24. Funzioni omogenee. - È una funzione omogenea quella che verifica l'uguaglianza
per tutti i valori di k e per tutti i punti (x, y,..., z) del suo campo di definizione. Le proprietà che si esprimono ponendo uguale a zero una funzione omogenea risultano indipendenti dall'unità con cui le variabili sono misurate. Il numero a si dice ordine o grado di omogeneità. La proprietà più notevole delle funzioni omogenee è espressa dall'uguaglianza (teorema di Eulero):
25. Funzioni implicite. - L'uguaglianza f(x, y) = 0 può definire una funzione y della x, a uno o più valori, che vien detta funzione implicita della x. Più in generale, un sistema di equazioni
può definire le y1,..., yn, come funzioni implicite di x1,..., xn. I teoremi di esistenza per le funzioni implicite precisano le condizioni sotto cui l'equazione f(x, y) = 0 o il sistema sopra scritto definiscono effettivamente, in un determinato campo, le funzioni indicate.
26. Formule e sviluppi del Taylor e del MacLaurin per le funzioni di più variabili. - Essi sono la naturale estensione delle formule e degli sviluppi già dati per le funzioni di una sola variabile. Ci limitiamo a scrivere la formula del Taylor per la funzione f (x, y):
dove è
Funzioni di variabili complesse.
27. La variabile complessa. - Sia x una variabile complessa, vale a dire, della forma x = u + iv, dove u e v sono due numeri reali variabili, e i è l'unità immaginaria (v. immaginario), ossia è un simbolo che viene assoggettato alle stesse regole di calcolo dei numeri reali, e il cui quadrato si pone eguale a − 1 (i2 = −1). Il numero u è la parte reale di x; iv dà, invece, la parte immaginaria; v si dice coefficiente della parte immaginaria. La variabile complessa si suole rappresentare mediante i punti di un piano π, detto il piano complesso. Tracciate, in π, due rette ortogonali, e fissati su di esse i versi positivi, si rappresenti su una di tali rette, che si dirà l'asse reale, la variabile u, e sull'altra, che si dirà l'asse immaginario, la v. Questa rappresentazione sarà fatta nel modo solito della geometria analitica, e cioè, fissata un'unità lineare di misura e detto O il punto d'incontro dei due assi (punto che si chiama origine del piano complesso), su quello reale si considererà come rappresentante del numero u il punto U tale che il segmento OU abbia lunghezza uguale al valore assoluto di u, e che da O si vada a U secondo il verso positivo dell'asse medesimo, se u è positivo, secondo invece quello contrario, se u è negativo. Analogamente si procederà per la rappresentazione di v mediante un punto V dell'asse immaginario. Ciò posto, condotte per i punti U e V le parallele, rispettivamente all'asse immaginario e a quello reale, il loro punto d'incontro X si considererà come rappresentante del numero complesso x: (v. immaginario). Questa rappresentazione pone, fra i numeri complessi x e i punti X del piano π, una corrispondenza biunivoca, nel senso che ad ogni x fa corrispondere un X e un solo, e ad ogni X un x e uno solo. Il punto X si chiama indice del numero x e solitamente s'indica con lo stesso numero x; cosicché si potrà parlare indifferentemente di "numero x" o di "punto x".
Fra i valori che la variabile complessa può assumere, ve ne è uno solo infinito, x = ∞; per tale ragione il piano complesso si considera come avente un solo punto all'infinito (contrariamente alle ordinarie convenzioni della geometria euclidea), vale a dire si riguarda come una superficie chiusa all'infinito.
Il modulo o valore assoluto ρ del numero x è il valore positivo della radice
(valore che rappresenta la distanza del punto x da O); l'argomento o anomalia a di x è la misura dell'angolo di cui deve rotare (nel verso contrario a quello delle lancette di un orologio) l'asse reale per disporsi sul segmento Ox, e in modo che il suo verso positivo vada da O a x, e questo argomento può assumere infiniti valori, a due a due diversi fra loro per un multiplo intero di 2π. Mediante ρ e α, il numero complesso si può esprimere nelle due forme seguenti:
dette, rispettivamente, forma trigonometrica e forma esponenziale, nella seconda delle quali e indica il numero base dei logaritmi naturali: e = 2,718281... (v. logaritmo). L'insieme di tutti i punti x, che si considerano in una data questione, costituisce il campo di variabilità della x. Tale campo può essere l'intero piano complesso, oppure una sua parte, finita o no. Considerato un campo C, x è un punto interno a tale campo se si può descrivere un cerchio avente il centro in x e contenente soltanto punti di C. Un punto x appartiene alla frontiera o contorno di C se ogni cerchio avente il centro in x e raggio arbitrariamente piccolo contiene sempre tanto dei punti interni quanto dei punti non interni a C.
Un campo c è connesso se, presi due suoi punti interni qualunque, x e x′, è sempre possibile congiungerli con una spezzata a lati rettilinei, tutta costituita di punti interni al campo.
28. Funzioni di variabile complessa. - Sia y una variabile complessa, definita e a un valore, per ogni valore di un'altra variabile complessa x, appartenente a un certo campo C. La y è una funzione complessa della variabile (indipendente) complessa x, e si scrive, per es., y = f (x). Se chiamiamo π il piano complesso, su cui rappresentiamo la variabile indipendente x, possiamo rappresentare la funzione y su un altro piano complesso, che chiameremo π′; allora la y = f(x) pone una corrispondenza fra i punti x del campo C, del piano π, e quelli y di un altro campo determinato C′, del piano π′.
Nel campo C, la f (x) è limitata o illimitata a seconda che il suo valore assoluto resta o no sempre inferiore a un numero fisso, positivo. In un punto x di C la f (x) è continua se, considerato un qualunque numero positivo ε, arbitrariamente piccolo, si può sempre determinare un cerchio avente il centro in x e tale che, per ogni altro suo punto x′, appartenente al campo C, la differenza f (x′) − f (x) risulti, in valore assoluto, minore di ε. La continuità della f (x), nel punto x, significa che, al tendere del punto x′, nel campo C, a x, il punto y′ = f (x′), del piano π′, tende al punto y = f (x).
Sia x un punto interno al campo C e consideriamo un qualunque numero complesso h, diverso da 0, e tale che il punto x h appartenga anch'esso a C. Se il rapporto {f(x + h) − f(x)}: h, al tendere di h allo zero, in modo del tutto arbitrario, ha un limite finito (v. limite), questo limite si chiama derivata della f(x), nel punto x e s' indica con f′ (x). La f(x) si dice allora derivabile nel punto x. La derivata della derivata è la derivata seconda della f (x), e s'indica con f″(x). In modo analogo si definiscono le derivate terza, quarta, quinta, ...: f‴(x), f(IV) (x), f(V)(x), ...
Se, in un punto x interno a C, la f (x) è derivabile, essa è anche continua; ma la continuità non porta necessariamente la derivabilità. Le regole di derivazione, stabilite per le funzioni reali di variabile reale, valgono anche per le funzioni complesse di variabile complessa. Perciò ogni funzione razionale intera è ovunque derivabile, eccettuato il punto x = ∞, e ammette le derivate di tutti gli ordini. Altrettanto deve dirsi di una funzione razionale fratta, quando si eccettuino anche i punti che annullano il suo denominatore. Sia l una curva continua, avente lunghezza finita, contenuta nel campo C, e dotata di un determinato verso. Si divida la curva in n parti, mediante i punti x0, x1, x2,..., xn (x0 e xn essendo gli estremi di l), che si susseguano su di essa secondo il verso fissato. Indicato con xr′ un punto qualunque dell'arco che ha per estremi xr e xr + 1, si formi la somma
Supponendo la f (x) continua nel campo C, questa somma, quando le differenze xr+1 − xr sono tutte, in valore assoluto, molto piccole, differisce di così poco come si vuole da un numero fisso, indipendente dalla suddivisione della curva l adottata e anche dalla scelta dei punti xr′; e tale numero si chiama integrale definito della f (x), esteso alla curva l (col verso fissato) e s'indica con la scrittura
Se dal verso fissato sulla curva l si passa al verso opposto, il valore dell'integrale viene moltiplicato per − 1. Le proprietà fondamentali degl'integrali delle funzioni reali di variabile reale (v. integrale, calcolo) si estendono agl'integrali ora definiti; e altrettanto deve dirsi delle relative regole di calcolo.
29. Funzioni monogene. - Una funzione f(x), della variabile complessa x, si dice monogena in un campo connesso C, se, in ogni punto interno a tale campo, essa è funzione a un valore, avente derivata f′ (x) (finita). Si considerano pure delle funzioni monogene a più valori; ma, in questo caso, fissato un punto qualunque x interno a C, e in esso uno dei valori della funzione, deve essere sempre possibile, almeno in tutto un piccolo cerchio avente il centro in x, di scegliere, per ogni punto di tale cerchio interno a C, un determinato valore in modo da formare, con quello considerato in x, una funzione univoca monogena, che si dice ramo a un valore della funzione data. Il fondatore della teoria delle funzioni monogene (dette da taluni anche sinettiche o anche olomorfe) fu A.-L. Cauchy (principio del sec. XIX). Le funzioni razionali, intere o fratte, dànno tutte esempî di funzioni monogene a un valore; √x è una funzione monogena a due valori; log x dà una funzione monogena a infiniti valori, due qualunque dei quali, per uno stesso x, differiscono fra loro per un multiplo intero di 2πi.
Le funzioni monogene, quando non si riducano a delle costanti, sono essenzialmente complesse, nel senso che in nessun campo per quanto piccolo, ma contenente dei punti interni, una di tali funzioni può essere sempre reale oppure sempre puramente immaginaria.
Una proposizione fondamentale, chiamata teorema integrale di Cauchy (1823), afferma che, se f (x) è monogena, a un valore, in C, e se l è una linea chiusa, di lunghezza finita, tutta composta di punti interni a C e racchiudente solo dei punti interni a questo campo, è
La proprietà espressa da questo teorema è caratteristica per le funzioni monogene a un valore (G. Morera, 1886), ed equivale all'altra che l'integrale della f (x), esteso a due linee aperte, di lunghezza finita, aventi in comune tanto il primo quanto il secondo estremo, tutte costituite di punti interni al campo C e insieme racchiudenti soltanto punti interni a C, ha lo stesso valore, e quindi dipende solamente dagli estremi comuni delle due linee.
Lo stesso Cauchy dedusse (1831) dal suo teorema integrale la cosiddetta formula integrale di Cauchy:
dove x è un qualsiasi punto interno all'area racchiusa dalla linea l; la quale linea s'intende percorsa in modo da lasciare tale area alla sua sinistra. Questa formula, della massima importanza, permette di calcolare il valore di f (x) in ognuno dei punti x indicati, quando si conoscano i valori che la f (x) assume sulla linea chiusa l; e da essa segue che la funzione considerata ammette finite, oltre alla f′ (x), anche le derivate di tutti gli ordini, le quali risultano tutte funzioni monogene, nel campo C, e sono date (Cauchy, 1842) da
x essendo sempre un punto interno all'area racchiusa dalla curva l. Va rilevato il fatto che la sola ipotesi dell'esistenza della derivata finita f′ (x), nell'interno di C, porta con sé l'esistenza delle derivate di tutti gli ordini. Ciò non si verifica nel campo delle funzioni reali di variabile reale; e questa differenza di comportamento si spiega osservando che l'esistenza della derivata di una funzione di variabile complessa rappresenta una condizione molto più restrittiva di quella relativa alle funzioni di variabile reale.
La formula integrale di Cauchy conduce al risultato importantissimo (Cauchy, 1831) che, se α è un punto interno a C, la funzione monogena, a un valore, f (x) può esprimersi, in tutto il massimo cerchio di centro α, contenente soltanto punti interni a C, mediante una serie di potenze, intere, positive, di x − α:
detta sviluppo o serie di Cauchy-Taylor. Risulta da qui che la conoscenza, nel solo punto a, del valore di f(x) e di tutte le derivate, fn (x), permette di calcolare il valore della funzione in tutti i punti del cerchio indicato. Per una funzione monogena a un valore, in una corona circolare di centro α, si ha uno sviluppo in serie di potenze intere, positive e negative, di x − α (serie di Laurent, 1843).
30. Il metodo di Riemann. - Come mostrò B. Riemann, nella sua Inaugural Dissertation (Gottinga, 1851), la teoria delle funzioni (di variabile complessa) monogene può essere ricondotta allo studio di certe coppie di funzioni reali di due variabili reali. Sia y = f(x) una funzione di variabile complessa, a un valore, data in un campo C. Separando, tanto in x quanto in y, la parte reale da quella immaginaria, abbiamo
dove ξ(u, v) e η(u, v) sono due funzioni reali, a un valore, delle variabili reali u e v, per tutte le coppie (u, v) corrispondenti ai punti x di C, o, come diremo brevemente, per tutti i punti (u, v) del campo C. La continuità della f (x) si traduce in quella delle due funzioni ξ (u, v) e η(u, v). Supponiamo ora che la f(x) sia monogena nel campo C, connesso. In tale ipotesi, vale a dire supponendo che, in ogni punto x interno a C, esista finita la derivataf′ (x), le funzioni ξ (u, v) e η(u, v) risultano differenziabili (v. differenziale, calcolo) nei punti (u, v) corrispondenti agli x indicati, e verificano le equazioni a derivate parziali
Viceversa, se le funzioni ξ(u, v), η(u, v) sono dinerenziabili in tutti i punti (u, v) interni a C, e vi soddisfano le equazioni ora scritte, la funzione f (x) è monogena nel campo C. Le equazioni precedenti si dicono le condizioni di monogeneità di Cauchy-Riemann. Da esse si deduce che, nei punti interni a C, è
dunque ξ (u, v) e η(u, v) soddisfano entrambe, nei punti indicati, all'equazione di Laplace, vale a dire sono due funzioni armoniche (v. armonico: Funzioni armoniche). Viceversa, ogni funzione armonica può considerarsi come la parte reale (oppure come il coefficiente della parte immaginaria) di una funzione di variabile complessa, m0nogena. Con ciò lo studio delle funzioni monogene si può identificare con quello delle coppie di funzioni armoniche, legate fra loro dalle condizioni di monogeneità di Cauchy-Riemann.
Le funzioni armoniche si presentano sovente anche nelle questioni di fisica matematica. Una funzione armonica non può avere né massimi né minimi nei punti interni al campo C in cui viene considerata; e da ciò segue che, supposta la sua continuità anche sul contorno di C, essa è perfettamente determinata dai valori che assume su tale contorno. Il cosiddetto principio di Dirichlet afferma che, fissati comunque, con continuità, i valori sul contorno, esiste sempre una funzione armonica nell'interno del campo, continua anche sul contorno, e assumente su di esso i valori prefissati. La dimostrazione di tale principio (che Dirichlet e anche Riemann ritennero evidente in base a considerazioni risultate poi, con Weierstrass, insufficienti), occupò, nella seconda metà del sec. XIX e sul principio del XX, molti insigni matematici, fra i quali citeremo C. Neumann, H. A. Schwarz, H. Poincaré, C. Arzelà, D. Hilbert, B. Levi, G. Fubini, S. Zaremba, H. Lebesgue. Una proprietà caratteristica delle funzioni armoniche è data dal fatto che il valore di una simile funzione, in un punto interno al campo C in cui è definita, risulta uguale alla media aritmetica dei valori che essa assume su ogni cerchio avente il centro in quel punto e tutto contenuto in C.
31. Rappresentazione conforme. - Considerata la funzione y = f(x), a un valore e monogena in un campo C del piano π della variabile complessa x, sia π′ il piano della variabile complessa y, i cui assi, reale e immaginario, verranno chiamati, rispettivamente ξ e η. La funzione indicata pone una corrispondenza fra i punti x o (u, v) del campo C e quelli y o (ξ, η) di un campo C′, posto nel piano π′, per la quale, a ogni punto di C corrisponde un punto e uno solo di C′, e a ogni linea di C corrisponde una linea e una sola di C′. Tale corrispondenza, che è continua (perché piccole variazioni del punto x in C si riflettono in piccole variazioni di y in C′), può essere rappresentata analiticamente dalle due equazioni
fra elementi reali, anziché dall'unica equazione y = f(x.) fra elementi complessi, e, per la monogeneità della f (x), gode di una proprietà caratteristica. E infatti, se a è un punto interno a C e tale che f′ (α) ≠ 0 considerate due linee qualunque di C, intersecantisi in α secondo un angolo ω, le linee corrispondenti di C′ s'intersecano nel punto y = f(α) secondo lo stesso angolo ω. Una rappresentazione di un campo su un altro, in modo che vengano conservati gli angoli, si dice conforme. Si può dunque affermare che, nelle vicinanze di ogni punto a interno a C in cui sia f′ (n) ≠ 0, la rappresentazione posta della funzione univoca e monogena y = f(x) è conforme. Viceversa, se la rappresentazione data dalle equazioni ξ = ξ (u, v), η = η (u, vr) è conforme, si ha, generalmente, che una delle due funzioni ξ (u, v) + iη (u, v) , ξ u, v) − iη (u, v), dà una funzione f(x) univoca e monogena. Nella corrispondenza fissata dalla funzione y - f (x), univoca e monogena, a ognì punto del piano π′ sufficientemente vicino a y = f(a) (a essendo ancora tale che f′(α) ≠ 0), corrisponde sempre su C, nelle vicinanze di a, un punto e uno solo, e la x si può riguardare come funzione monogena della y; in tale caso, fra una piccola area del piano π circondante a e una determinata area del piano π′ circondante il punto y = f(α), intercede una corrispondenza conforme, biunivoca e continua nei due sensi. Riemann, nella sua Inaugural Dissertation, sfruttando il principio di Dirichlet, mostrò che è sempre possibile di rappresentare in modo conforme un'area piana limitata da un solo contorno, su un'altra area piana qualsiasi, limitata anch'essa da un solo contorno, e in guisa tale che la corrispondenza fra le due aree sia biunivoca e continua nei due sensi. Di tale interessantissimo problema si occuparono (dopo Riemann), apportandovi complementi e generalizzazioni importanti, H. Poincaré, H. A. Schwarz, P. Painlevé, E. Picard, P. Koebe, D. Hilbert, C. Carathéodory, L. Lindelöf, P. Montel, L. Bieberbach e altri. Una notevole applicazione della rappresentazione conforme si ha nella teoria delle carte geografiche (v. cartograpia: Cenni sulla teoria della costruzione delle carte).
32. Serie di potenze. - Una serie di potenze della variabile x è una serie (v. serie) procedente per le potenze ascendenti, intere e positive, della x; la sua forma generale è pertanto
dove a2, a1, a2,..., an,... costituiscono una successione di numeri dati, generalmente complessi. Queste serie si presentano come una generalizzazione dei polinomî interi e, nello studio delle funzioni di variabile complessa, hanno un'importanza capitale.
Come si sa dalla teoria generale delle serie, in un dato punto x la serie di potenze sopra scritta è convergente, divergente o indeterminata, a seconda che, in quel punto, la somma parziale a0 + a1x + ... + anxn, ha, al crescere indefinito di n, limite finito, oppure infinito, oppure manca di limite. Nel primo caso, il limite indicato è la somma della serie. Un fatto notevolissimo è che il campo di convergenza di una data serie di potenze di x è sempre un cerchio (detto cerchio di convergenza della serie) avente il centro nell'origine O del piano complesso. In ogni punto interno al cerchio di convergenza, la serie converge; in ogni punto esterno, la serie diverge; nei punti della circonferenza la serie può essere o convergente o divergente o indeterminata. Al raggio del cerchio di convergenza si dà il nome di raggio di convergenza della serie considerata. Tale raggio può cssere nullo, può avere un valore positivo qualunque e può anche essere + ∞; per esempio, le serie
hanno raggi di convergenza uguali, rispettivamente, a 0, 1, ∞. Nell'interno del cerchio di convergenza, supposto a raggio non nullo, la somma della serie dà una funzione f(x), della variabile complessa x, a un valore, continua e anche monogena; e si ha
per modo che la serie non differisce dallo sviluppo di CauclVTaylor della f(x), relativo al punto α = 0 (n. 29).
Per le serie di potenze sussiste un principio d'identità, generalizzazione di quello valido per i polinomî interi. Si ha precisamente che, se due serie di potenze della x, aventi ambedue raggio di convergenza non nullo, assumono ugual valore negl'infiniti punti di un insieme avente x = 0 come punto di accumulazione (o puntolimite), esse sono identiche, vale a dire hanno due a due uguali i coefficienti delle stesse potenze della x (e quindi assumono ovunque valori uguali).
33. Fitnziojii analitiche: teoria m Weierstrass. - Il fatto che una serie di potenze rappresenta, entro il proprio cerchio di convergenza, una funzione monogena, e l'altro che una funzione monogena ë sempre sviluppabile, nelle vicinanze di un qualsiasi punto interno al suo campo di definizione, in una serie di potenze, hanno condotto il Weierstrass alla sua definizione di funzione analitica, la quale ha contribuito a dare a uno dei capitoli più importanti dell'analisi matematica il suo assetto definitivo.
Consideriamo una serie di potenze di x − α, α essendo un dato numero complesso, e indichiamola con P (x − α). Supponendo maggiore di zero il suo raggio di convergenza, sia a1 un qualsiasi punto, distinto da α, interno al cerchio C di convergenza. La P (x − α) rappresenta, dentro C, una funzione a un valore, monogena, la quale è sviluppabile in serie di potenze di x − α1. Questo sviluppo, che può indicarsi con P (x − α∣α1), si dice dedotto immediatamente da P (x − α), e il suo cerchio di convergenza C1 è per lo meno quello di centro α1 tangente internamente a C. Ma può avvenire che C1 sia maggiore di tale cerchio tangente, e quindi che abbia una parte esterna a C. Nell'interno di C1, P (x − α∣a1) rappresenta una funzione a un valore, monogena, la quale, nella parte di C1 interna a C coincide con quella rappresentata da P (x − a); pertanto, in questa parte, la stessa funzione monogena ammette due espressioni analitiche distinte: P (x − a) e P (x − α∣α1). Nella parte interna a C1, ma esterna a C, si dirà, col Weierstrass, che la funzione rappresentata da P (x − α∣α1) dà la continuazione analitica o il prolungamento analitico della funzione data da P(x − α) nell'interno di C. Scelto ora un punto α2, interno a C1, ma distinto da α1, si consideri lo sviluppo in serie di potenze di x − α2, dedotto immediatamente da P(x − α∣α1), che potrà indicarsi con P(x − α∣α1∣α2), e che si dirà dedotto mediatamente da P (x − α). Il cerchio di convergenza C2 di P(x − α∣α1∣α2) può avere una parte esterna tanto a C quanto a C1; in tale parte si dirà che la funzione monogena rappresentata da P(x − α∣α1∣α2) dà ancora la continuazione analitica della funzione definita in C da P (x − α). Scegliendo poi α3 nell'interno di C2, ma distinto da α2 avremo lo sviIuppo P (x − α∣α1∣α3) dedotto immediatamente da P(x − α∣α2∣α2) e mediatamente da P (x − α); e così proseguendo, avremo lo sviluppo P (x − a∣α1∣α2∣α3∣...∣αn) dedotto immediatamente da P(x − α∣α1∣α2∣...∣αn-1) e mediatamente da P (x − α); e tale sviluppo darà, in generale, una nuova continuazione analitica della funzione definita, in C, da P (x − α). Si prova facilmente che, viceversa, P(x − α) si può ottenere come sviluppo dedotto mediatamente da P(x − a∣α1∣α2∣...∣αn) e quindi che, se P(x − α∣α1∣...∣αn) e P(x − α∣β1∣...∣βn) sono due sviluppi dedotti mediatamente da P(x − a), 1no qualunque di essi può dedursi mediatamente dall'altro.
Secondo il Weierstrass, si chiama funzione analitica la funzione definita dall'insieme di tutte le serie di potenze dedotte immediatamente o mediatamente da una serie di potenze data. Tutte queste serie sono gli erlementi della funzione analitica. L'insieme di tutti i punti interni al cerchio di convergenza di almeno uno degli elementì della funzione analitica costituisce il campo di esistenza della funzione; e tale campo risulta sempre connesso. Scelti due qualsiasi elementi di una stessa funzione analitica, uno qualunque di essi può sempre considerarsi come dedotto mediatamente dall'altro. La funzione analitica risulta così determinata da uno qualsiasi dei suoi elementi. Da tutto ciò segue che, fra i valori di una funzione analitica. nelle varie parti del suo campo d'esistenza, vi è piena solidarietà; e tale solidarietà si manifesta anche col fatto che le proprietà analitiche essenziali, che la funzione presenta in una parte del campo di esistenza, vengono conservate anche in tutte le altre parti, come appunto afferma il principio di conservazione delle proprietà analitiche, messo in luce dallo stesso Weierstrass.
Partendo da un dato elemento P (x - a), di una funzione analitica f (x), si può giungere, per successive continuazioni analitiche, all'elemento relativo a un altro qualsiasi punto β, del campo di esistenza della funzione, in molti modi diversi. Ora. può darsi che, qualunque sia la via seguita, si giunga sempre a uno stesso elemento relativo a β; ma può anche avvenire che, seguendo vie diverse, si ottengano elementi diversi. Nel primo caso, la funzione analitica ha un solo valore in ciascun punto del suo campo di esistenza, e si dice che essa è uniforme, o anche monodroma; nel secondo, la funzione è a più valori e si dice multiforme o anche polidroma.
Osserviamo che, applicando a più funzioni analitiche le operazioni elementari di addizione, sottrazione, moltiplicazione e divisione, come anche quelle superiori di derivazione e d'integrazione, si ottengono sempre delle funzioni analitiche. Inoltre, le funzioni più semplici, come le razionali, l'esponenziale, la logaritmica, le circolari (dirette e inverse) sono tutte funzioni analitiche.
Una funzione analitica è monogena in tutto il suo campo di esistenza; viceversa, una funzione monogena, in un dato campo connesso C, dà una funzione analitica, al cui campo di esistenza appartengono tutti i punti interni a C. In tal modo è messa in evidenza la piena concordanza dei due concetti di funzione analitica, secondo Weierstrass, e di funzione monogena, nel senso di Cauchy. Tuttavia la teoria di Weierstrass, delle funzioni analitiche, procede con metodo essenzialmente distinto da quello di Cauchy, come anche da quello di Riemann; in essa, è bandito completamente l'uso del concetto d'integrale, non ci si giova in nessun modo dei risultati sulle funzioni di variabili reali, e, restando sempre nel campo complesso, tutto è ottenuto con la semplice considerazione delle serie di potenze.
La denominazione di funzione analitica fu usata, per la prima volta, da J.-L. Lagrange (1797), ma in senso diverso da quello di Weierstrass, e cioè per le funzioni di variabili reali. K. Weierstrass espose i fondamenti della sua teoria nelle lezioni dell'università di Berlino a partire dal 1860, e poi in varie memorie. Una teoria analoga fu contemporaneamente sviluppata, in Francia, da Ch. Méray (1872). In Italia, le idee di Weierstrass furono fatte conoscere per opera specialmente di S. Pincherle (1880), il quale alla teoria delle funzioni analitiche ha apportato importanti contributi.
34. Singolarità. - Un punto γ, del piano complesso π, si dice singolare per una funzione analitica f (x), se, in ogni cerchio, comunque piccolo, del piano π, avente il centro in γ, esistono sempre dei punti a, del campo C di esistenza della f(x), tali che una almeno delle serie di potenze di x − α, che costituiscono degli elementi della funzione analitica, abbia raggio di convergenza piccolo quanto si vuole. Il punto x = ∞ si considererà come singolare per la funzione f (x), se è singolare il punto x′ = 0 per la funzione f(i/x′). Un punto γ tale che tutti quelli a essi vicini appartengano al campo C e tale, inoltre, che, percorrendo una curva chiusa che lo circondi e piccola quanto si vuole, si ritorni al punto di partenza con un valore della funzione diverso da quello iniziale, si dice punto critico. Abbiamo un esempio di ciò in x = 0, quando si consideri la funzione √x oppure l'altra log x.
Per una funzione analitica uniforme, tutti i punti del campo di esistenza si dicono regolari, e un punto singolare è isolato se tutti i punti a esso sufficientemente vicini sono regolari. I punti singolari isolati possono essere essenziali o non essenziali. Il secondo caso si presenta in γ, se, moltiplicata la f (x) per una potenza (x − γ)m, con m intero positivo, il prodotto ottenuto risulta regolare in γ; e se m è il più piccolo numero che dà questo risultato, si dice polo di ordine m. Per esempio, la funzione 1 : x ha, in x = 0, un polo di ordine 1. Se poi il punto singolare isolato non è un polo, esso si dice punto singolare essenziale. Per la funzione el : x, x = 0 è uno di questi punti singolari.
Le singolarità dànno, per così dire, i caratteri delle funzioni analitiche; e queste funzioni si possono appunto classificare a seconda delle loro singolarità. Per esempio, limitandoci alle funzioni uniformi, abbiamo che, se la funzione f(x) considerata non ha punti singolari, essa è una costante; se ha un solo punto singolare in x = ∞ è una funzione intera, e, più precisamente, razionale intera, se x′ = 0 è un polo per f(i/x′), trascendente intera, nel caso opposto; se ha un solo punto singolare, ma non in x = ∞, è una funzione quasi-intera; se le sue singolarità sono in numero finito e sono tutte dei poli (di cui uno almeno al finito), essa è una funzione razionale fratta; se i suoi punti singolari, diversi da x = ∞, sono tutti dei poli, essa è una funzione meromorfa.
35. Espressioni analitiche. - Abbiamo già veduto che una stessa funzione analitica f(x) può ammettere, in un dato campo, più espressioni analitiche distinte. Avviene sovente che ciascuna di tali espressioni non rappresenti la f (x) in tutto il suo campo di esistenza, e che i campi parziali in cui ciascuna di esse rappresenta la funzione non coincidano fra di loro. Tutto ciò mostra già come i due concetti di funzione analitica e di espressione analitica siano essenzialmente distinti. Ma si può aggiungere pure, con K. Weierstrass e J. Tannery, che una stessa espressione analitica può rappresentare in campi distinti, e se si vuole anche contigui, più funzioni analitiche diverse.
36. Classi di funzioni analitiche. - Fra le classi di funzioni analitiche più importanti, oltre a quelle delle funzioni razionali, intere e fratte, delle trascendenti intere, delle quasi-intere, delle meromorfe, di cui abbiamo già parlato, indicheremo quelle delle funzioni algebriche, delle ellittiche, delle abeliane, delle ipergeometriche, delle euleriane, ecc. (V. sotto: Funzioni notevoli).
37. Superficie di Riemann. - Per lo studio delle funzioni analitiche multiformi e in particolare delle funzioni algebriche, è molto utile la considerazione, fatta per la prima volta da Riemann (1857), di certe superficie, conosciute ora col nome di superficie di Riemann o riemanniane. Sono superficie tutte di un sol pezzo, ma a più fogli, che vengono a sostituire l'ordinario piano complesso per la rappresentazione della variabile indipendente x, allo scopo di rendere, su ciascuna di esse, uniforme la funzione multiforme f(x) considerata, senza trascurare alcun valore della f(x) medesima. Tale risultato è ottenuto sostituendo, al punto dell'ordinario piano complesso, più punti della riemanniana, e precisamente tanti quanti sono i valori della funzione, facendo poi corrispondere a ciascuno di essi un determinato valore della f(x), in modo tale che questa, considerata sulla superficie di Riemann, conservi la propria continuità.
38. Funzioni di più variabili complesse. - I principî della teoria delle funzioni di una variabile complessa, e in modo speciale i concetti di monogeneità e di funzione analitica, si possono estendere alle funzioni di più variabili complesse. Per funzione monogena f(x1, x2,..., xn) di più variabili complesse x1, x2,..., xn, s'intende una funzione che sia monogena rispetto a ciascuna delle x1, x2,..., xn, per tutti i valori di tali variabili, interni rispettivamente a determinati campi C1, C2,..., Cn. La definizione di funzione analitica, nel senso di Weierstrass, procede anche qui dalla considerazione delle serie di potenze (a esponenti interi e positivi)
e dalla continuazione analitica, secondo gli stessi principi posti per le funzioni di una sola variabile. Nel passare da queste ultime alle funzioni di più variabili, la teoria si complica notevolmente certe proprietà vengono a cadere e sorgono nuovi problemi. Lo studio delle funzioni di più variabili complesse (a cui hanno dedicato lavori fondamentali K. Weierstrass, É. Picard, H. Poincaré, W. F. Osgood, E. E. Levi, T. Levi-Civita, C. Carathéodory, F. Severi, e altri) non ha ancora raggiunto quello sviluppo a cui è pervenuta già la teoria delle funzioni di una variabile sola.
Bibl.: L. Eulero, Institutiones calculi differentialis, voll. 2, Pietroburgo 1755; id., Institutiones calculi integralis, voll. 3, Pietroburgo 1768-1770; J. L. Lagrange, Théorie des fonctions analytiques, Parigi 1797; id., Leåons sur le calcul des fonctions, Parigi 1806; A.-L. Cauchy, Øuvres, voll. 13, Parigi 1882-1916; B. Riemann, Werke, Lipsia 1902; K. Weierstrass, Werke, Mathem., voll. 7, Berlino e Lipsia 1894-1927; C. Briot e C. Bouquet, Théorie des fonctions doublement périodiques et en particulier des fonctions elliptiques, Parigi 1859; F. Casorati, Teorica delle funzioni di variabili complesse, Pavia 1868; C. Méray, Nouveau précis d'analyse infinitésimale, Parigi 1872; id., Leåons nouvelles sur l'analyse infinitésimale et ses applications géométriques, voll. 4, Parigi 1894-1898; J. Tannery, Introduction à la théorie des fonctions d'une variable, 2ª ed., Parigi, I, 1904, II, 1910; U. Dini, Fondamenti per la teorica delle funzioni di variabili reali, Pisa 1878; id., Lezioni di analisi infinitesimale, voll. 4, Pisa 1907-1915; G. Peano, Lezioni di analisi infinitesimale, voll. 2, Torino 1893; id., Formulaire mathématique, IV, Torino 1902; C. Jordan, Cours d'analyse, 3ª ed., Parigi, I, 1909, II, 1913, III, 1915; É. Picard, Traité d'analyse, Parigi, I (3ª ed., 1922), II (3ª ed., 1926), III (2ª ed., 1908); É. Goursat, Cours d'analyse, voll. 3, 3ª ed., Parigi 1924-1929; J. Hadamard e S. Mandelbrojt, La série de Taylor et son prolongement analytique, 2ª ed., Parigi 1926; W. F. Osgood, Lehrbuch der Funktionentheorie, voll. 2, Lipsia, I, 1906-1907, II, 1924; S. Pincherle, Saggio di una introduzione alla teoria delle funzioni analitiche secondo i principi di C. Weierstrass, in Giorn. di matem. di Battaglini, XVIII (1880); id., Lezioni di calcolo infinit., voll. 2, 2ª ed., Bologna 1926-27; id., Gli elementi della teoria delle funzioni analitiche, Bologna 1922; L. Bianchi, Lezioni sulla teoria delle funzioni di variabile complessa e delle funzioni ellittiche, 3ª ed., Bologna 1928; G. Vivanti, Elem. della teoria delle funzioni analitiche e delle funzioni trascendenti intere, 2ª ed., Milano 1928; H. Hahn, Theorie der reellen Funktionen, Berlino 1921; E. W. Hobson, The Theory of Function of a Real Variable, voll. 2, 2ª ed., Cambridge 1921-26; C. Carathéodory, Vorlesungen über reelle Funtionen, 2ª ed., Lipsia 1927; Collection de monogr. sur la théorie des fonctions, diretta da É. Borel, Parigi.
Funzioni notevoli.
39. Introduzione. - È stato già notato che il concetto di funzione è suscettibile di due aspetti diversi: l'uno geometrico, meccanico o fisico, l'altro essenzialmente matematico, e, più precisamente, aritmetico. I due aspetti possono talvolta convergere. Così, se si ricorda che nel moto uniformemente accelerato gli spazî percorsi variano come i quadrati dei tempi, il valore dello spazio percorso in un dato tempo (spazio funzione del tempo) si potrà ottenere da agevoli operazioni aritmetiche eseguite sul corrispondente valore del tempo. Ma se s'immagina invece di avere in una stanza, esposta alle influenze meteoriche esterne, un termometro e un orologio, a ogni valore t del tempo segnato da questo corrisponde certamente un valore determinato T della temperatura, indicato dal termometro; si può dire che T è funzione di t: ma è chiaro che in generale non si possiedono dati sufficienti sulle cause che fanno variare la temperatura in quella stanza, per potere esprimere T in funzione di t mediante una formula, cioè per dire quali operazioni aritmetiche sono da eseguire sul valore di t per ottenere il corrispondente valore di T. Nel seguito di questo articolo si considerano le funzioni esclusivamente sotto l'aspetto che abbiamo detto aritmetico, cioè il valore della funzione variabile dipendente y si suppone definito mediante opportune operazioni aritmetiche da eseguirsi sulle variabili indipendenti. L'insieme di queste operazioni costituisce l'espressione aritmetica, o, come anche si dice, l'espressione analitica della funzione; e ci occuperemo quasi esclusivamente di funzioni di una sola variabile indipendente. In tal caso in
il simbolo f(x) compendia in modo generico il complesso di operazioni da eseguire su x per ottenere il valore di y.
Ma è necessario porre in evidenza una distinzione essenziale. Alcune espressioni aritmetiche sono state costruite ad arte, a scopo sia didattico, sia critico: tale è, per esempio, l'espressione immaginata da Leieune-Dirichlet per rappresentare una funzione nulla per tutti i valori irrazionali della variabile indipendente e uguale all'unità per tutti i valori razionali. Altre invece si sono presentate spontaneamente, in modo che si può dire necessario, nei varî stadî progressivi percorsi dalla scienza dei numeri: simili funzioni, dalla cui definizione scaturiscono complessi ben definiti e caratteristici di proprietà, sono state scoperte piuttosto che inventate o costruite ad arte: codeste funzioni hanno un campo ben determinato di esistenza (insieme dei valori di x per i quali esiste un valore determinato di y); la loro conoscenza in una parte di questo campo porta come conseguenza necessaria la loro determinazione in ogni altra parte del campo stesso; infine, esse hanno in generale, in tutto codesto campo, le proprietà comuni di continuità, di derivabilità, ecc. Sono queste le funzioni analitiche: fra esse troveremo quasi esclusivamente quelle funzioni notevoli, che formano l'oggetto del presente articolo, funzioni che i progressi dell'analisi hanno fatto scoprire successivamente, quasi quali enti preesistenti, dai matematici dei secoli XVII e XVIII fino a quelli dei nostri giorni.
40. Funzioni razionali. - Fra le funzioni notevoli vanno annoverate senza dubbio le più semplici di tutte, quelle la cui espressione analitica si riduce a un numero finito d'operazioni di somma, moltiplicazione e divisione, vale a dire le funzioni razionali. Se fra codeste operazioni non compare la variabile in denominatore si hanno le funzioni razionali intere, ciascuna delle quali è esprimibile come un polinomio di determinato grado n
dove a0, a1,... , an sono i coefficienti. Ogni funzione di questo tipo è determinata, finita, continua insieme con le derivate di tutti gli ordini (identicamente nulle dall'ordine n + 1 in poi) per tutti i valori, tanto reali quanto complessi, della variabile x. Essa è completamente e univocamente determinata per ogni valore di x, dalla conoscenza dei suoi n + 1 coefficienti, o anche dalla conoscenza dei valori che essa assume per n + 1 valori quali si vogliano (fra loro distinti) della variabile. D'altra parte assume qualsiasi valore prefissato ç per n valori di x (in n punti del piano complesso), i quali possono eccezionalmente in parte coincidere; in particolare assumere per n valori di x (radici) il valore zero. La ricerca e lo studio delle radici costituisce il problema fondamentale dell'algebra. Un capitolo interessante dello studio di queste funzioni tratta della loro divisibilità, la quale offre istruttivi raffronti con l'analoga teoria aritmetica; vi si connette la decomposizione univoca della funzione in un prodotto di n + 1 fattori, uno dei quali è a0 e gli altri sono binomî della forma x - a, a essendo una radice della funzione. Infine la funzione diventa uniformemente infinita d'ordine n quando x tende all'infinito secondo qualsivoglia direzione nel piano complesso (v. algebra).
Se alle operazioni di somma e moltiplicazione si aggiunge quella di divisione, che può sempre supporsi ridotta a una sola, si viene alla classe delle funzioni razionali fratte, le quali sono perciò della forma
dove P(x) e Q(x) denotano funzioni razionali intere, che si possono sempre supporre prive di fattori comuni. Sia m il grado di P (x), n quello di Q (x); siano α1, α2, ..., le radici di Q (x). La funzione ha un valore univocamente determinato, è continua, ha le derivate di tutti gli ordini, ammette lo sviluppo di Taylor, per tutti i valori reali o complessi della variabile, a eccezione dei valori α1, α2,..., e del valore x = ∞, x se è m > n, nel quale essa è infinita. Essa assume qualsiasi valore prefissato ç, reale o complesso, per valori determinati di x, distinti o no, in numero uguale al maggiore dei due interi m ed n. Infine, e questa proprietà è essenziale, la funzione è decomponibile in una somma di tante funzioni razionali semplici della forma
una per ogni radice α di Q (x), r essendo l'ordine di multiplicità della radice stessa; più una funzione intera di ordine m − n se è m > n, che è il quoziente intero della divisione di P (x) per Q (x).
41. Funzioni algebriche. - Alle funzioni razionali succedono immediatamente, come funzioni notevoli, le algebriche, di cui quelle costituiscono il caso più semplice. La y si dice funzione algebrica di x, se è definita da un'equazione della forma
dove F è funzione razionale intera delle due variabili x ed y; ed è, in questo senso, funzione algebrica di x, una variabile z la quale sia data da R (x, y) dove R è simbolo di funzione razionale di x ed y. Questa funzione algebrica y della x si dice annessa all'equazione (1), o alla curva algebrica di cui (1) è la rappresentazione cartesiana. Se n è il grado di (1) rispetto alla y, la funzione algebrica da essa definita ha per ogni valore di x, n valori o determinaztoni: ognuna di queste dà luogo per continuità a un ramo di funzione, avente le derivate di tutti gli ordini (esse pure funzioni algebriche) e sviluppabile in serie di Taylor: proprietà questa che dà a ciascuno di codesti rami il carattere di funzioni analitiche (n. 33). Fanno eccezione alcuni valori della variabile x, in numero finito, corrispondentemente ai quali la funzione algebrica può essere infinita (di ordine finito) o per i quali due o più rami della funzione algebrica si scambiano fra di loro (punti critici o di diramazione). Queste proprietà sono caratteristiche per le funzioni algebriche, poiché si dimostra che è necessariamente algebrica ogni funzione analitica che per ogni valore della variabile ammette un numero finito e fisso di determinazioni e che non diventa infinita se non di ordine finito. La classe più semplice di funzioni algebriche, dopo le razionali, è costituita da quelle che si possono esprimere mediante un numero finito di operazioni razionali e di estrazioni di radici: caso particolare di queste, frequentemente considerato, è dato da quelle annesse a un'equazione del tipo
dove r (x) denota una funzione razionale intera di x, e che perciò si possono quindi rappresentare con
R essendo simbolo di funzione razionale di due variabili.
42. Funzioni trascendenti elementari. - Negli elementi della matematica, oltre alle funzioni razionali e alle irrazionali (algebriche) più semplici, si presentano altre funzioni notevoli, che, appunto per non essere né razionali né algebriche, si chiamano trascendenti e più precisamente, trascendenti elementari, in quanto appartengono ai primi fondamenti della scienza.
Una di queste, ed è la più importante, nasce dall'estensione del concetto di potenza al caso di esponenti reali quali si vogliono; essa è la funzione esponenziale, la cui proprietà fondamentale, insita precisamente nella proprietà additiva degli esponenti delle potenze, è espressa dall'equazione funzionale
Fissato come base un qualsiasi numero a, reale, positivo e diverso da 1, la corrispondente funzione esponenziale viene definita, nel campo dei numeri reali, dall'equazione
e risulta a un sol valore, quando, per ogni x non intero, si convenga di adottare per la potenza il valore aritmetico (cioè reale e positivo). Nell'uso, il nome di funzione esponenziale si riserva più particolarmente a quella, che ha per base il numero e di Nepero, base dei cosiddetti logaritmi naturali (v. logaritmo) che si può definire per passaggio al limite, per mezzo della
e ammette, a meno di 10-14, il valore approssimato
Per questa funzione esponenziale e2. vale lo sviluppo del Mac Laurin (n. 20)
mentre l'analogo sviluppo per la ax è dato da
Accanto all'esponenziale, si annoverano fra le funzioni trascendenti elementari le circolari o goniometriche (v. circolari, funzioni), sen x, cos x, tang x. Per le prime due valgon0 gli sviluppi del MacLaurin
Ora le tre serie di potenze (5), (6) convergono per ogni possibile valore reale della variabile, onde discende, per una proprietà generale delle serie di potenze, che esse si mantengono convergenti anche per ogni possibile valore complesso della x. Perciò, mentre le note definizioni dirette delle funzioni ex, senx, cosx hanno senso soltanto per valori reali della variabile, risulta lecito assumere come loro definizione nel campo complesso i tre sviluppi in serie sopra indicati. In base a questa definizione, è facile riconoscere che si conservano valide nel campo complesso, per ciascuna delle tre funzioni, le proprietà fondamentali di cui esse godono nel campo reale: così in particolare, si verifica, in base alla (5), che per la ex sussiste ancora la (4), mentre, in virtù degli sviluppi (6), continuano a valere per sen x e cos x tanto la periodicità di periodo 2π, quanto i ben noti teoremi di addizione (v. circolari, funzioni).
Ma il risultato saliente, cui si è condotti dalla precedente estensione al campo complesso delle tre funzioni ex, senx, cosx, è dato dalla celebre relazione di Eulero, già prima nota a R. Cotes (v.):
dove i denota, al solito, l'unità immaginaria √-1. Da questa relazione discende, in particolare, per qualsiasi x (reale o complesso)
La funzione ex è dunque periodica di periodo (immaginario) 2πi, cioè qualunque sia x, assume il medesimo valore per tutti i valori x + 2kπi della variabile, dove k denota un arbitrario numero intero (positivo o negativo). Dalla (7) e dall'analoga relazione, che se ne deduce cambiando segno a i, si trae
onde si può estendere al campo complesso anche la funzione tangx per mezzo dell'equazione di definizione
Mentre e, senx, cosx sono trascendenti intere (n. 34), la tangx è una trascendente meromorfa, in quanto diventa infinita (del 1° ordine) per tutti i valori di x, multipli dispari di π/2.
Accanto alle funzioni circolari - e, nel campo complesso, non essenzialmente distinte da esse - si hanno le funzioni iperboliche: il seno iperbolico e il coseno iperbolico, rispettivamente dati da
legate dalla relazione
e quindi coordinate dei punti di un'iperbole equilatera (v. coniche, n. 17), come il seno e il coseno circolari sono le coordinate dei punti di una circonferenza.
La relazione y = ex permette di considerare x come funzione di y: si ottiene così la funzione logaritmica, inversa della funzione esponenziale. Questa funzione, x = log y, ammette come proprietà fondamentale la relazione funzionale
conseguenza della (4) e sulla quale è fondato il ben noto uso pratico dei logaritmi. Le altre proprietà della funzione logaritmica si deducono pure, come è naturale, dalle corrispondenti dell'esponenziale; così per ogni valore di y che non sia zero né infinito, la funzione log y ammette infiniti valori, di cui al più uno reale, costituenti una progressione aritmetica di ragione 2πi: moltiplicità di valori che richiede qualche cautela nell'uso della (10). La derivata di log y essendo1/y, abbiamo così l'esempio di una funzione trascendente di cui le derivate successive sono razionali.
Anche le funzioni inverse delle circolari (arcoseno, arcotangente) ammettono infinite determinazioni per ogni valore della variabile e le loro derivate sono razionali, o irrazionali semplici; così, D essendo il simbolo operatorio della derivazione,
Per le relazioni sopra accennate fra le funzioni circolari e l'esponenziale, le funzioni circolari inverse si riconducono agevolmente a espressioni logaritmiche. Un'analoga osservazione vale per le funzioni inverse delle funzioni iperboliche.
43. La quadratura come fonte di nuove trascendenti. - Le funzioni razionali, le algebriche e, in modo non meno luminoso, le trascendenti elementari ci dànno l'esempio di entità ben definite, per le quali una definizione di carattere assai semplice determina tutto un sistema organico di proprietà, in cui nulla rimane d' arbitrario. Che la comparsa di simili entità nell'analisi matematica non sia casuale, ma abbia per così dire un carattere di necessità, è dimostrato dal fatto che esse si presentano, col loro complesso di proprietà, in questioni assai discoste: così l'esponenziale, che l'aritmetico definisce mediante la proprietà funzionale (4), si presenta al fisico nello studio della dilatazione termica, all'attuario nell'interesse composto continuo; essa nasce sia dalla ricerca di un limite, - quello, per n tendente all'infinito, di (1 +4 x/n)n, - come dall'indagine se vi sia una funzione uguale alla propria derivata. Analoghe osservazioni si possono fare per le altre trascendenti elementari. Ma è stato riconosciuto che esse non sono le sole a costituire simili entità organiche: di funzioni trascendenti notevoli esse dànno un primo esempio, ma accanto a esse se n'è presentata un'infinita varietà, che attende ancora una classificazione naturale e di cui si accennerà nel presente articolo alle più semplici e alle più note.
Una delle più cospicue sorgenti di tali nuove e interessanti trascendenti è data dal calcolo integrale. Volendosi procedere alla quadratura o alla ricerca delle funzioni primitive di espressioni analitiche note, si comincia dall'integrazione delle funzioni razionali e si trova che questa dà luogo a trascendenti: sono però trascendenti elementari, di quelle già passate in rassegna e precisamente logaritmi o architangenti. Si viene poi all'integrazione di funzioni meno semplici: d'irrazionali o di trascendenti elementari; e si tenta di ridurne la determinazione a funzioni note, combinate fra loro mediante un numero finito di operazioni elementari. Ma a ciò si riesce solo in un numero limitato di casi: fra questi, se R (x, y), R1(x, y) sono simboli di funzioni razionali intere di due variabili, l'integrazione di differenziali della forma
Ma per poco che l'espressione del differenziale sia più complicata, le trascendenti elememari non bastano all'integrazione, la quale viene così a dare origine a nuove specie di trascendenti.
44. Logaritmo integrale. - Una di queste viene generata dai differenziali della forma
dove α è un esponente non intero positivo. Esse si possono ridurre all'integrale di
trascendente che venne detta logaritmo integrale e indicata con li (x), ma il cui studio viene però agevolato riportandosi, con un facile cambiamento di variabile, all'integrale
per il quale vale lo sviluppo notevole
dove C è la nota costante di Eulero-Mascheroni 0,57721566....
Questa trascendente, non riducibile alle elementari, e per la quale, oltre alla serie (13), di convergenza anche migliore della serie esponenziale, valgono numerose espressioni di svariatissima forma, è stata oggetto di numerosi studî e ha avuto molteplici applicazioni alla teoria dei nuneri, al calcolo delle probabilità e alla fisica matematica. Di questa funzione sono state calcolate tavole numeriche da J. G. Soldner, J. Glaisher, G. Bellavitis; infine a essa si collegano altre trascendenti speciali, degne di menzione, come il seno integrale
e il coseno integrale, che stanno con li (ex) nella stessa relazione in cui il seno e il coseno ordinario stanno con l'esponenziale; e queste, insieme alla li (x), permettono di ricavare un grande numero d'integrali, siano definiti, siano indefiniti. Un'estesa bibliografia dei lavori sul logaritmo integrale si trova nell'opuscolo monografico di N. Nielsen, Theorie des Integrallogarithmus und verwandter Transzendenten, Lipsia 1906.
45. Funzioni euleriane. - Sebbene di forma assai semplice, l'integrazione dei differenziali
detti differenziali binomî, non si può eseguire mediante le funzioni fin qui introdotte se non in casi assai speciali, e precisamente solo se r o (m + 1)/n o r + (m +1)/n è un numero intero. Se dei differenziali (15), facilmente riconducibili alla forma più semplice xh-1(i − x)v-1 dx, si prende l'integrale definito, p. es. fra o e 1, si ottiene una funzione delle due variabili u e v che, dal Legendre in poi, è chiamata integrale euleriano di prima specie ed è indicata con
Esso si presenta in varî campi dell'analisi (teoria dei numeri, calcolo delle differenze, calcolo delle probabilità) e si può riguardare come l'ex-trapolazione, per valori qualunque delle variabili, dei numeri combinatorî noti per i valori interi. Alla sua volta, la funzione B è esprimibile mediante un'altra, l'integrale euleriano di seconda specie o funzione Gamma
la cui importanza è di gran lunga maggiore. Precisamente, la relazione fra B e l'è espressa da
La funzione Γ (z) gode della proprietà fondamentale
onde
che può anche, con una conveniente limitazione iniziale, servire di definizione; essa dà alla funzione Γ. il carattere di extrapolazione a valori qualsiasi di z del fattoriale 1•2•3 ...•z definito per i valori interi positivi di z. Partendo dalla (19) si giunge all'espressione di Γ in forma di prodotto infinito, dovuta al Gauss,
C essendo ancora la costante di Eulero-Mascheroni.
La Γ(z) è funzione analitica, univocamente determinata per tutti i valori di z, a eccezione di z = 0 e dei valori interi negativi, in cui è infinita di prim'ordine (è funzione meromorfa). Essa è legata alle funzioni circolari dalla relazione (detta relazione dei complementi)
La Γ gode di un grande numero di notevoli proprietà, sì da potersi riguardare come una delle entità più interessanti, più spontanee e più necessarie dell'analisi, e tale da non cedere per importanza che alla funzione esponenziale, cui la lega una specie di dualità. Essa si presenta nei più svariati capitoli della scienza dei numeri, dal calcolo integrale al calcolo delle differenze, dalla teoria delle serie al calcolo delle probabilità, dalla fisica matematica alla statistica e all'attuaria, e nonostante la semplicità della sua equazione funzionale (19), che sta alla base della teoria, si è dimostrato (O. Hölder, 1886) che essa è trascendentalmente trascendenti, cioè tale da non potere soddisfare ad alcuna equazione algebrico differenziale di ordine finito. Nelle applicazioni viene frequentemente usata la formula detta di J. Stirling, che dà il valore approssimato della Γ per valori di positivi abbastanza grandi:
dove ϑ è un numero compreso fra 0 e 1, come pure l'espressione della derivata logaritmica
dove si presenta di nuovo la costante C di Eulero-Mascheroni; infine, in vista pure delle applicazioni, sono state costruite tavole numeriche dei valori di Γ(z) e del suo logaritmo (v. p. es. J. Bertrand, Calcul intégral, p. 285, Parigi 1870).
46. Funzioni ellittiche. - Integrali ellittici. - Classi di trascendenti, costituenti un insieme più organico, nascono dal problema dell'integrazione delle funzioni algebriche, che si presenta come spontanea estensione di quello dell'integrazione delle funzioni razionali. Si tratta dunque d'indagare le proprietà delle funzioni che nascono dalle quadrature
dove R è simbolo di funzione razionale delle due variabili, e y è la funzione algebrica di x definita da un'equazione
il cui primo membro sia razionale intero di grado n (equazione di una curva algebrica Cn cui l'integrale (24) si dice annesso).
Le prime applicazioni del calcolo integrale a quadrature, rettificazioni di curve, ricerche di baricentri, hanno condotto a considerare il caso in cui l'equazione (124) ha la forma semplice
f(x) essendo un polinomio intero in x; se il grado di questo è i o 2, la (24) si esprime mediante le funzioni elementari (n. 41): si ricordi in particolare che
Ma se il grado di f(x) è 3 0 4 (l'un caso riducendosi facilmente all'altro) l'integrazione, non eseguibile in generale mediante le funzioni elementari, conduce a nuove trascendenti, dette ellittiche perché integrali di tale natura si presentano nel problema della determinazione della lunghezza d'un arco di ellisse (come pure d' iperbole, di cicloide allungata o accorciata, ecc.). Lo studio degli integrali ellittici iniziato nel sec. XVII da G. Bernoulli e sul principio del XVIII da C. di Fagnano, fu svolto poi da Eulero e principalmente da A.-M. Legendre che a questi integrali ha dedicata un'opera poderosa (Traité des fonctions elliptiques, 3 voll., Parigi 1823-28); egli ha mostrato la possibilità della riduzione di codesti integrali a poche forme tipiche:
Questi integrali dipendono da due variabili, h2, detto modulo, e ϕ-arcsenx, detto argomento. Per l'applicazione degl'integrali ellittici alle varie questioni (di geometria, di meccanica, di fisica, ecc.) ne sono state calcolate tavole numeriche in dipendenza dei valori dei moduli e dell'argomento: le prime e le più estese si trovano nel secondo volume della citata opera del Legendre. Nel periodo più recente, alla forma del Legendre degl'integrali ellittici se n'è sostituita vantaggiosamente un'altra, dovuta a K. Weierstrass, in cui al polinomio di 4° grado di (26) ne è sostituito uno di terzo grado, per modo che l'integrale di prima specie, per es., viene dato da
e analogamente per gli altri.
Le funzioni inverse. - Ma poco dopo la pubblicazione dell'opera del Legendre, e precisamente verso la fine del primo trentennio del secolo XIX, due giovani matematici, N. H. Abel, norvegese, e K. G. J. Jacobi, tedesco, mutavano essenzialmente le basi della teoria. Dai loro lavori in poi, non furono più gl'integrali ellittici a darne gli elementi, bensì le funzioni che nascono dall'inversione d'uno di essi, cioè dell'integrale di prima specie, nel modo stesso che in un caso particolare, il più elementare, quello dell'integrale (27), non è la funzione u = arcsenx, ma la funzione inversa (x considerata come funzione di u) x = sen u, che ha maggiore importanza, e viene a costituire l'elemento costruttivo della trigonometria.
Fu questa idea geniale, di considerare cioè al posto dell'integrale di prima specie la sua funzione inversa, che dotò l'analisi matematica di uno dei suoi capitoli più interessanti, analogo alla trigonometria, ma più generale, più vario, più ricco di mirabili relazioni e non meno fecondo di applicazioni.
Se dal primo degl'integrali (28), cioè da
si desume x come funzione di u, la x viene a essere il seno dell'arco ϕ che figura nella seconda forma dell'integrale stesso; essa è stata detta seno dell'amplitudine di u, e indicata (C. Gudermann) con
(si legge seno amplitudine). Per la sua stessa definizione soddisfa all'equazione diffrenziale
e insieme ad essa, vengono cansiderate due altre funzioni
dette rispettivamente coseno implitudine e delta amplitudine; le relazioni differenziali che fra esse intercedono:
sono sufficienti a caratterizzarle.
Queste tre funzioni sono state prese a base dello studio delle funzioni ellittiche per circa mezzo secolo; ma, dacché fu notata dal Weierstrass la maggiore semplicità ed eleganza che acquista la teoria quando si sostituisce la forma (29) a quella (28) dell'integrale di prima specie, si è assunta a elemento fondamentale della teoria la funzione inversa x = p (u) dell'integrale (29), funzione che soddisfa all'equazione differenziale
ed è a questa che ci riferiremo nel nostro breve cenno espositivo.
La doppia periodicità. - Due proprietà di somma importanza vengono subito notate nelle funzioni che nascono dall'inversione dell'integrale ellettico; l'una è la univocità (sono funzioni analitiche a un sol valore per ogni valore della variabile); l'altra è il fatto di ammettere due periodi fra loro indipendenti. Riferendoci all'accennata funzione p (u), inversa di (29), essa è appunto analitica uniforme per ogni valore di u, ed è doppiamente periodica, nel senso che esistono due numeri 2 ω, 2ω′ a rapporto complesso e tali che
onde
per ogni copia di numeri interi m, m′, positivi o negativi.
La scoperta della doppia periodicità ha richiamato in alto grado l'attenzione dei matematici. Si è riconosciuto che se una funzione uniforme ammette due periodi, il cui rapporto sia reale, questo rapporto non può essere irrazionale e se il rapporto è razionale, essi si riconducono a un unico periodo, comune misura dei due; si è pure riconosciuto che una funzione uniforme non può avere tre o più periodi fra loro indipendenti. È dunque necessario limitarsi a funzioni aventi due periodi indipendenti a rapporto complesso; ed è appunto quanto accade per la funzione ellittica p (u), come pure per le funzioni sn u, cn u, dn u.
Per una funzione doppiamente periodica si può, e in infiniti modi, fissare una coppia 2 ω, 2ω′ di periodi cosiddetti elementari in modo che ogni altro periodo Ω: ne sia dipendente:
e allora, se si divide il piano della variabile complessa u in una rete di parallelogrammi, i cui lati siano dati da vettori equipollenti a 2ω e 2ω′ rispettivamente, i vertici della rete essendo i punti indici dei numeri Ω dati da (34), in ognuno di questi parallelogrammi la funzione doppiamente periodica prenderà tutti i valori di cui è suscettibile, e in punti congruenti di due parallelogrammi riprenderà un medesimo valore.
Le funzioni ellittiche. - 1. Si è dato il nome di funzioni ellittiche a quelle funzioni (analitiche, uniformi) f (u), della variabile complessa fu, che ammettono la doppia periodicità e che a distanza finita hanno, come sole singolarità, punti d'infinito di ordine intero. Sono tali la funzione p (n) di Weierstrass, e le funzioni sn u, cn u, dn u. Per la doppia periodicità, la funzione ellittica è completamente conosciuta quando ne è noto l'andamento in un suo parallelogramma elementare. Fra le molte proprietà di cui godono le funzioni ellittiche, segnaliamo le seguenti:
a) Non esistono funzioni ellittiche che siano sempre finite per ogni valore finito della variabile; ogni funzione ellittica f(u) ha dunque qualche punto d'infinito (polo) in ogni parallelogramma elementare.
b) Questi punti d'infinito devono essere almeno due (distinti o coincidenti) in ogni parallelogramma elementare.
c) Se f(u) ha n punti d'infinito (distinti, o coincidenti in tutto o in parte) in ogni parallelogramma elementare, essa vi avrà anche n radici; e fissato un nunero arbitrario c, vi saranno in ogni parallelogramma n punti dove è f(u) = c (teorema di Liouville). La f(u) si dice allora funzione ellittica di ordine n. L'ordine di una f(u) per lo meno uguale a 2; la funzione p (u) è precisamente di secondo ordine; essa ha un polo doppio per u = 0.
d) Due funzioni f (u) aventi una coppia comune di periodi sono l'una funzione algebrica dell'altra.
e) Ogni furizione ellittica è legata algebricamente con la propria derivata.
f) Ogni funzione ellittica è esprimibile mediante la p (u) e la sua derivata p′ (u), nella forma
P ed R essendo simboli di funzioni razionali. Questa proprietà spiega come p (u) sia da assumersi a fondamento della teoria.
g) Una funzione ellittica è determinata, all'infuori di una costante moltiplicatrice, dalla conoscenza dei poli e delle radici che essa ammette entro un suo parallelogramma elementare.
Espressioni analitiche. - Alle trascendenti ellittiche era necessario dare espressioni analitiche che ne permettessero il calcolo e ne ponessero in evidenza le preprietà. A raggiungere questo scopo hanno giovato altre trascendenti interessanti, che sono espresse da serie o da prodotti infiniti in u, di forma semplice e sempre convergenti. Dapprima (Jacobi, Hermite) vennero considerate serie, dette serie theta (ϑ), sempre convergenti, a termini esponenziali semplici, e che vengono moltiplicate per un fattore esponenziale semplice quando u si aumenta di un periodo; è stato poi trovato vantaggioso (Weierstrass) di sostituire alle serie theta una funzione detta sigma o (u), definita come funzione intera, avente per radici semplici i vertici Ω (34) della rete di parallelogrammi. La costruzione della o si eseguisce senza difficoltà, sia in forma di prodotto infinito, sia in forma di serie. La sua derivata logaritmica
che ha un polo di primo ordine in ogni parallelogramma, e precisamente nei vertici Ω, gode d'una proprietà che si approssima assai alla doppia periodicità, poiché le differenze
sono costanti determinate. Dalla ζ (u) si deduce, con la semplice derivazione, la funzione ellittica p (u) che serve a costruire tutte le altre. Si ha precisamente
e di qui si traggono espressioni per la p (u) sia come serie di frazioni razionali, sia come serie di potenze i cui coefficienti, che rappresentano la somma delle inverse delle potenze dei numeri Ω, hanno la proprietà notevole di esprimersi tutti razionalmente mediante i due numeri g2 g3 che figurano in (29) e che, all'infuori di coefficienti numerici, sono le somme delle potenze di esponente −4 e −6 dei numeri Ω.
Nello stesso modo che una funzione razionale avente per radici i numeri a1, a2..., e per poli i numeri β1, β2,... è rappresentata da un'espressione
così, una funzione ellittica, di cui a1, a2, ... e β1, β2, siano rispettivamente le radici e i poli in un parallelogramma elementare, è rappresentata dall'espressione
dove C è un moltiplicatore costante. E nello stesso modo che una funzione razionale, in cui numeratore e denominatore sono del medesimo grado, è rappresentata da una somma di frazioni A/(x − α) (e dalle loro derivate se i poli sono multipli), più una costante additiva, così la funzione ellittica è rappresentata da una somma di termini ζ (x − β) (e delle loro derivate per i poli multipli), più una costante addittiva. Le funzioni σ e ζ hanno dunque, in questa teoria, la stessa parte che hanno rispettivamente il fattore lineare e il suo inverso nella teoria delle funzioni razionali.
Addizione, moltiplicazione. - Essendo f(u) una funzione ellittica, passa una relazione algebrica fra f (u), f (v), f(u + v), qualunque sia la coppia, u, v di valori della variabile. In ciò consiste il teorema d'addizione delle funzioni ellittiche. Per la funzione p (u) si ha la relazione
algebrica fra p (u + v), p (u), p (v) in seguito al legame dato dalla (32) fra p (u) e la sua derivata.
Del teorema d'addizione vale una reciproca, nel senso che ogni funzione analitica uniforme ϕ(x), tale che fra ϕ(x), ϕ(y) e ϕ(x + y) passi una relazione algebrica, se non è funzione razionale di x o di eex, è necessariamente una funzione ellittica.
Al teorema d'addizione si connette un teorema di moltiplicazione, relazione algebrica, per n intero, fra f (u) ed f(nu). In taluni casi la relazione è particolarmente semplice; così p (nu) è esprimibile in funzione razionale di p (u) per ogni intero n. La ricerca dell'espressione di p (u/n) mediante p (u), o problema della divisione, si collega al precedente.
Si è cercato se, anche nel caso di k non intero, p (ku) possa essere esprimibile razionalmente per p (u) e si è trovato che ciò può avere luogo solo se il rapporto dei periodi in p (u) è un numero complesso, radice di un'equazione quadratica a coefficienti interi, e tale deve essere anche k. Nasce così un'interessante teoria, pertinente alla teoria dei numeri e la cui origine risale ad Abel, la teoria della moltiplicazione complessa.
Trasformazione. - Fino dalle prime indagini sugl'integrali ellittici si è presentata la questione seguente: dati due polinomi R (x), R1 (y) di terzo o quarto grado, in quale caso è possibile trasformare l'integrale di prima specie
mediante una trasformazione algebrica di x in y? In altri termini, sott0 quali condizioni l'equazione differenziale
ammette un integrale algebrico? Questa questione (che, in un caso speciale, si era presentata fino dal 1775 all'inglese J. Landen, la cui trasformazione è stata utilizzata [Lagrange] per il calcolo numerico degl'integrali ellittici) può ricondursi alla ricerca delle condizioni cui devono soddisfare g2, g3, g2′, g3′ perché, da una relazione algebrim F(x,y) = 0 fra x ed y, risulti
Ma la questione stessa acquista un carattere di perspicuità molto maggiore quando al posto dell'integrale ellittico se ne consideri la funzione ellittica inversa. Riferendoci alla forma (29) dell'integrale ellittico, la funzione inversa dipende, oltre che da u, dai periodi 2ω, 2ω′, i quali sono legati alle costanti g2, g3; anzi è possibile, in generale, determinare i periodi in modo che le g2 g3 acquistino valori prefissati. Codesta funzione inversa potrà indicarsi con p (u; ω′, ω′) e come funzione di queste tre variabili, p è omogenea e di grado - 2. Riducendosi alla funzione inversa, il problema della trasformazione equivale alla ricerca di quelle funzioni p (u; ω1, ω1′) che si possono esprimere algebricamente per p (u; ω, ω′): ora, questa condizione porta a una dipendenza lineare
a coefficienti a, b, c, d interi fra le due coppie di periodi; ad − bc è il grado della trasformazione.
La riduzione del problema della trasformazione allo studio del gruppo di sostituzioni lineari (42) ha permesso di dare alla relativa teoria il suo assetto definitivo e di svolgerla in tutti i suoi particolari, sui quali però l'indole del presente articolo non consente di dilungarsi.
Applicazioni delle funzioni ellittiche. - Come si è già accennato, le funzioni ellittiche, e quelle a esse collegate, come le serie ϑ e le serie σ, hanno trovato applicazione nei campi più varî della matematica. Anzitutto nell'aritmetica superiore. Mediante l'uso delle serie ϑ il Jacobi ha dato una dimostrazione del teorema che ogni numero intero è decomponibile in una somma di quattro quadrati. Facendo ricorso ad analoghi sussidî, si sono date condizioni per la rappresentazione di numeri mediante forme quadratiche determinate, e a tale questione e a questioni affini hanno applicato le funzioni ellittiche Ch. Hermite, L. Kronecker, A. Hurwitz e varî altri.
Le funzioni ellittiche si sono mostrate feconde di risultati in diverse parti della geometria. Il teorema d'addizione a esse relativo ha permesso di risolvere il celebre problema di Poncelet (condizione di chiusura di un poligono iscritto in una conica e circoscritto a un'altra). Nella teoria della rappresentazione conforme (similitudine nelle parti infinitesime) di una superfìcie sopra un'altra, le funzioni ellittiche dànno la soluzione della questione per la rappresentazione di un quadrato, di un rettangolo o di un'ellisse sopra un cerchio, di un tetraedro sopra una sfera, e varie altre. Nella geometria delle curve algebriche, quelle curve le cui coordinate si esprimono come funzioni ellittiche di un parametro offrono un particolare interesse, come quelle che si presentano come le più semplici dopo le razionali (quelle le cui coordinate sono funzioni razionali d'un parametro). Esse si dicono curve ellittiche; sono di genere 1 (v. curve) e fra esse sono comprese le cubiche prive di punto singolare; esempio tipico è la cubica
le cui equazioni parametriche sono immediatamente date da
È degno di rilievo il sussidio reciproco che si prestano qui i metodi geometrici e gli analitici; come la teoria delle funzioni ellittiche permette di approfondire lo studio della cubica, o delle curve ellittiche in generale, così la scoperta di proprietà geometriche per queste porta alla sua volta alla conoscenza di nuovi caratteri per le funzioni stesse. Del contributo portato dalla teoria delle funzioni ellittiche all'algebra, in particolare alla risoluzione dell'equazione di quinto grado è fatto cenno al paragrafo seguente.
Molte questioni di calcolo integrale, come rettificazioni (per es., di archi di ellisse, d'iperbole, di lemniscata) e quadrature; di geometria differenziale (per es., la determinazione delle geodetiche dell'ellissoide); d'integrazione di equazioni differenziali (per es., equazioni di Lamé, equazioni di Picard a coefficienti doppiamente periodici) richiedono l'uso d'integrali o di funzioni ellittiche.
Infine, per numerosi problemi di meccanica la soluzione è ottenuta o semplificata col sussidio delle stesse funzioni; fra altri, il moto del pendolo sferico, la teoria del giroscopio, varî punti della dinamica dei corpi rigidi. Da quanto si è detto emerge manifestamente l'importanza delle funzioni ellittiche, cui spetta indubbiamente un posto segnalato fra gli argomenti dell'analisi matematica.
47. Funzioni modulari. - Nella teoria delle funzioni ellittiche il rapporto ω : ω′ dei periodi, numero complesso che si suole indicare con τ, ha una parte importantissima: da esso dipende il modulo k2 di Legendre, che figura nelle espressioni (28). Codesto modulo è una funzione k2 (τ) del rapporto dei periodi, analitica, uniforme, esistente solo in uno dei semipiani separati dall'asse reale (questo asse escluso) e che si può supporre essere il semipiano superiore; essa riprende lo stesso valore per infinite trasformazioni lineari
della variabile τ costituenti il gruppo modulare (essendo così chiamato l'insieme delle trasformazioni di tale forma, in cui a, b, c, d sono numeri interi, con ad − bc = 1). Ma proprietà analoghe, di carattere più semplice, si riscontrano nella funzione J(τ) che si ottiene costruendo, con le quantità g2, g3, che figurano nell'integrale (29) di Weierstrass, l'espressione
e considerandola come funzione di τ. Anche questa J(τ) è analitica, uniforme, esistente solo nel semipiano superiore della variabíle τ, e riprende lo stesso valore per tutte e sole le trasformazioni del gruppo inodulare. Alle funzioni J(τ), k2 = (τ) e a infinite altre analoghe, uniformi in τ e soggette a riprendere lo stesso valore per trasformazioni costituenti un sottogruppo del gruppo modulare, è stato dato il nome di funzioni modulari (v. gruppo).
Nello stesso modo che le funzioni ellittiche riprendono i medesimi valori nei varî parallelogrammi costituenti la rete dei periodi, per modo che basta conoscerne il comportamento in uno dei parallelogrammi, così le funzioni modulari riprendono lo stesso valore nelle aree in cui viene diviso il semipiano superiore della variabile τ dalle sostituzioni del gruppo modulare o d'un suo sottogruppo. Queste aree, che nel loro insieme ricoprono codesto semipiano interamente e una sola volta, cioè senza lacune né sovrapposizioni, si possono sempre ridurre a triangoli, i cui lati siano archi circolari con centro sull'asse reale o segmenti paralleli all'asse immaginario. Ogni trasformazione del gruppo trasporta uno di questi triangoli in un altro; e a conoscere l'andamento della funzione modulare in tutto il semipiano basta conoscerlo in uno di questi triangoli, che verrà detto campo fondamentale per la funzione che si considera. Per la funzione J(τ), la rete è determinata da tutte le trasformazioni del gruppo modulare. Mentre è J(τ) = J(τ′) se è
con ad − bc = 1, si dimostra che J(τ) e J(τ′) sono legati da un'equazione algebrica, detta equazione modulare, se è ad- bc =- n, dove n è un intero positivo (primo). La teoria delle funzioni modulari dà norme per la risoluzione di simili equazioni; in particolare, l'equazione di quinto grado, la quale può sempre considerarsi come risolvente di un'equazione modulare, è risolubile mediante le funzioni ellittico-modulari (Ch. Hermite, F. Brioschi, E. Betti) e non è questa una delle meno notevoli applicazioni di questa classe di funzioní. Anche nella teoria generale delle funzioni, le funzioni modulari hanno recato vantaggi: per il loro mezzo É. Picard è giunto al suo celebre teorema, secondo il quale "ogni funzione trascendente intera assume a distanza finita ogni valore finito, uno al più eccettuato"; teorema cui altri, e specialmente E. Landau, hanno portato aggiunte e collegato ricerche interessantissime.
48. Funzioni abeliane. - L'estensione delle funzioni ellittiche si può cercare in due direzioni. Anzitutto, ritornando alla definizione degli integrali ellittici, si possono riprendere gl'integrali
dove R è simbolo di funzione razionale e x ed y sono legati da una relazione algebrica F (x, y) = o, equazione della curva fondamentale cui è annesso l'integrale (24). Se questa relazione algebrica ha la forma
e il grado di r (x) è superiore al quarto, gl'integrali (24) si dicono iperepllittici; si dicono abeliani se la relazione algebrica è generica. Fra gl'integrali (24) relativi a una curva fondamentale di genere p (v. curve), ve ne sono p linearmente indipendenti e non infiniti per alcun valore della variabile: essi sono detti di prima speeie. Si dicono abeliane le funzioni uniformi (di p variabili e non più di una sola, e dotate di 2 p periodi) che nascono dall'inversione, opportunamente intesa, di codesti integrali. Esse si possono definire direttamente (cioè senza ricorrere all'equazione della curva fondamentale) come quozienti di serie sempre convergenti, analoghe alle serie theta o sigma della teoria delle funzioni ellittiche (n. 46).
49. Funzioni automorfe. - Ma l'estensione delle funzioni ellittiche si può cercare anche sotto un altro punto di vista, rimanendo nell'ambito delle funzioni d'una sola variabile, e proponendosi di generalizzare la proprietà più saliente riscontrata nello studio delle funzioni ellittiche e modulari: quella di riprodursi, rispettivamente, per l'aggiunta dei periodi, o per le trasformazioni del gruppo modulare o di un suo sottogruppo.
Essendo x una variabile complessa, sia τ1(x), τ2(x).... un sistema di trasformazioni operanti su x e formanti un gruppo (v.), tale cioè che la trasformazione composta τh(τk(x)) appartenga ancora al sistema stesso:
come accade per l'insieme delle sostituzioni lineari
o per quello delle sostituzioni modulari (a, b, c, d interi e ad − bc = 1).
Una funzione analitica f (x), di regola considerata uniforme, che abbia la proprietà espressa da
per tutte le trasformazioni del gruppo, è detta fmzione automorfa: casi particolari di siffatte funzioni sono evidentemente dati dalle funzioni semplicemente periodiche, dalle ellittiche e dalle modulari. Il campo maggiormente coltivato nella teoria delle funzioni automorfe è quello in cui le trasformazioni di cui si tratta sono lineari:
esso è il più affine a quello delle funzioni modulari, che comprende come caso particolare. Tali funzioni scaturiscono dalla teoria delle equazioni differenziali lineari del secondo ordine (L. Fuchs, F. Klein, H. Schwarz); ma la scoperta delle loro proprietà essenziali e lo svolgimento sistematico della teoria è dovuto a H. Poincaré. Un gruppo di sostituzioni lineari (45) che non contenga sostituzioni infinitesimali (tali cioè da far corrispondere a ogni punto del piano x un punto infinitamente vicino) lascia invariato, nel piano della variabile, un cerchio che viene detto cerchio fondamentale, e le trasformazioni del gruppo dividono questo cerchio in una rete di poligoni a lati circolari, che ricoprono l'interno del cerchio senza lacune né sovrapposizioni. Un simile gruppo è stato detto dal Poincaré gruppo fuchsiano. Ora, egli ha dimostrata l'esistenza di funzioni automorfe soddisfacenti alla (44) per tutte le trasformazioni del gruppo, e che quindi riprendono gli stessi valori nei diversi poligoni in cui è diviso il cerchio fondamentale: ognuna di esse è dunque completamente nota, quando ne sia noto il comportamento in uno di quei poligoni. A queste funzioni egli ha dato il nome di funzioni fuchsiane. Esse possono, a seconda dei caratteri del gruppo delle τk, essere di due specie: le une non esistono che nell'interno del cerchio fondamentale (come le funzioni modulari, per le quali il cerchio si riduce a un semipiano), mentre le altre esistono in tutto il piano della variabile. È possibile poi la costruzione effettiva delle funzioni fuchsiane, si costruiscono dapprima serie analoghe alle serie theta della teoria delle funzioni ellittiche (serie i cui termini sono funzioni razionali di uguali potenze delle τk e che, per una trasformazione del gruppo operata sulla variabile, vengono moltiplicate per un fattore esponenziale); il quoziente di due simili serie (dette serie theta fuchsiane) dà l'espressione analitica delle nostre funzioni automorfe.
Due funzioni fuchsiane pertinenti a uno stesso gruppo di trasformazioni sono legate fra loro da un'equazione algebrica: questa notevole proprietà ha permesso al Poincaré d'utilizzare le funzioni fuchsiane per lo studio delle funzioni e delle curve algebriche, dando la uniformizzazione di una funzione algebrica definita da un'equazione F(x −y) = 0 mediante la possibilità di esprimere x e y come funzioni fuchsiane (e quindi uniformi) di un mcdesimo parametro. Le stesse funzioni recano poi un contributo notevole allo studio degl'integrali delle equazioni differenziali, per il fatto notevole che il quoziente di due integrali d'una equazione differenziale lineare di secondo ordine a coefficienti algebrici, è una funzione la cui inversa è una funzione fuchsiana, e inversamente ogni funzione fuchsiana ammette una tale generazione: estensione notevole dell'inversione degl'integrali ellittici.
Questi studî furono dal Poincaré stesso e da altri estesi al caso di x, gruppi di trasformazioni lineari a coefficienti non più necessariamente reali, privi di trasformazioni infinitesime (gruppi Kleiniani). Sono pure state studiate (É. Picard, G. Fubini) funzioni automorfe di più variabili, ammettenti un gruppo di trasformazioni lineari, che si sono potute mettere in relazione con le metriche degli spazî a più dimensioni. Infine i recenti studî sull'iterazione (P. Fatou, G. Julia) conducono a funzioni che, rimanendo inalterate per l'iterarsi d'una determinata trasformazione (ora non più lineare, ma generalmente razionale), rientrano nella definizione delle funzioni automorfe.
50. Funzioni sferiche: funzioni cilindriche. - Come si è visto, la massima parte delle funzioni notevoli che ahbiamo passate in rassegna trae la sua origine da problemi d'integrazione. Così è stato per le funzioni euleriane, per le ellittiche; così, le piti notevoli fra le funzioni automorfe cioè le modulari e le fuchsiane che ne sono la generalizzazione, derivano da una questione d'integrazione, per la stretta connessione che esse hanno col rapporto di due integrali d'una equazione differenziale lineare del secondo ordine.
Le stesse equazioni del secondo ordine e in special modo quelle di tipo detto ipergcontetrito, cioè della forma
dove a, b, c, a′, b′, c′, denotano costanti, dànno origine, da un altro punto di vista, a sistemi notevoli di funzioni. Per citare il più noto di questi sistemi, ricorderemo che per a = −c = 1, b = 0, a′ = 2, b′ = 0, c′ = −n (n +1), (n intero positno) l'equazione (46) ammette un integrale particolare che è un polimonio razionale intero Pn (x) di grado n. Così si trova
Il sistema di questi pnlinomi (polinomî di Legendre funzioni sferiche), oltre ad avere trovato una notevole applicazione nella determinazione del potenziäle della sfera, donde il loro nome, si è mostrato ricco d'interessanti proprietà. Essi servono allo sviluppo in serie della forma Σcn, Pn (x) per una funzione di variabile reale, continua nell'intervallo fra −1 e + 1 sotto comdizioni pochissimo restrittive e analoghe a quelle che valgono per lin'nluppahilità in serie tli Fourier (v.); a uno sviluppo della medesima forma per una funzione analitica data in un'area comprendente il segmento (−1, + 1) e il cui campo di convergenza è un'ellisse di fuochi ± 1; a una delle migliori rappresentazioni approsimatc degl'integrali definiti, ecc. Anche le pruprietà formali del sistema smo notevoli, poiché oltre all'equazione differenziale, le funzioni sferichi soddisfano a una relazione lineare ricorrente assai semplice fra tre funzioni consecutive (equazione lineare alle differenze) e a un'equazione anche più semplice, lineare, che lega Pn-1, Pn e dPn-1/dx (equazione mista differenziale e alle differenzc). Delle funzini sferiche sono state date geralizzazioni in diverse tlirezioni.
Un altro sistema di funzioni notevoli, non più razionali, ma trascendenti intere, che, come i polinomî di Legendre, soddisfano a un'equazione differenziale lineare del secondo ordine, è costituito dalle funzioni di Bessel o funzioni cilindriche. L'equazione che le definisce è
(n intero positivo. Esse servono alla deicrminazione del potenziale del cilindro, allo sviluppo in serie di numerose classi di funzioni; hanno applicazionne nell'astronomia, e, come le funzioni sferiche, soddisfano a un'equazione lineare alle differenze e a un'equazione mista differenziale e alle differenze, entrambe a tre termini e di forma assai semplice. Su queste funzioni, come sulle íunzioni sferiche, esiste un'ampia bibliograha.
51. Funzioni definite da equazioni alle differenze. - Al pari delle equazioni differenziali, anche le equazioni (specie lineari) alle differenze finite sono suscettibili di dare origine a funzioni notevoli. Un csempio è dato dalla funzione l'(x) o euleriana di seconda specie (n. 45) cui, con una ct) ntlizione sussiuiaria, pun issenzialmente servire di definizione la relazione
essa serve, come hanno mnstrato H. Mellin e S. Pincherle, alla costruzione di soluzioni analitiche per numerose classi di equazioni lineari alle differenze finite, a coefficicnti razionali. Le soluzioni dcll'equazione semplice
dove rp (A) è una lunzíone data, servono pure aild mnesi di funzioni f (x) interessanti, fra cui i polinomî detti di Bernoullí; in particolare sono da citare quelle soluzioni recentemente considerate da N.E. Norlund sotto il nome di soluzioni principali, in relazione con la classe di funzioni cui appartiene la funzione data ϕ (x).
52. La fitnzione ζ; (x). - Infine un'altra trascendente notevole, che è pure stata oggetto di molti studî e che da B. Riemann in poi è indicata con ζ(x), è quella che per i valori di x la cui parte reale è maggiore di uno, è rappresentata dalla serie
Essa è uniforme, ha in tutto il piano x il solo infinito del prim'ordine x = 1, in guisa che (x − −1) ζ (x) è una trascendente intera: ma l'interesse di questa funzione sta nel legame, riconosciuto dal Riemann e ampiamente studiato più recentemente da E. Landau, che esso ha col misterioso problema della distribuzione dei numeri primi: essa serve infatti a determinare quella funzione che, per ogni valore positivo di x, esprime il numero dei numeri primi inferiori a x. Lo studio della funzione se non si può dire ancora completamente esaurito, è stato però approfondito nel modo più intenso dalle moderne ricerche.
Bibl.: La bibliografia degli argomenti accennati nel presente articolo sarebbe tanto estesa da occupare un intero volume. Rimandando i lettori che vi hanno interesse alle opere speciali e agli articoli dell'Enciclopedia delle scienze matematiche (pubblicata a Lipsia e a Parigi in ed. tedesca e francese) ci limitiamo a segnalare alcune delle pubblicazioni più importanti sugli argomenti.
Sulle funzioni euleriane: M. Godefroy, La fonction Gamma, Parigi 1901; N. Nielsen, Handbuch der Theorie der Grammafunktion, Lipsia 1906. Sul logaritmo integrale: N. Nielsen, Theorie des Integrallogarithmus, Lipsia 1906. Sulle funzioni ellittiche e modulari: G. Bellacchi, Introduzione storica alla teoria delle funzioni ellittiche, Firenze 1894; E. Pascal, Funzioni ellittiche, Milano 1896, 3ª ed., 1924; L. Bianchi, Lezioni sulla teoria delle funzioni di variabile complessa e delle funzioni ellittiche, Pisa 1901, 3ª ed., Bologna 1928; G. Vivanti, Elementi della teoria delle funzioni poliedriche e modulari, Milano 1906; G. Fubini, Introduzione alla teoria dei gruppi discontinui e delle funzioni automorfe, Pisa 1908; Legendre, Traité des fonctions elliptiques, voll. 3, Parigi 1825; L. Koenigsberger, Vorlesungen über die Theorie der elliptischen Funktionen, Lipsia 1874; Briot e Bouquet, Théorie des fonctions elliptiques, Parigi 1875; G.-H. Halphen, Traité des fonctions elliptiques, voll. 3, Parigi 1886; R. Fricke, Elliptische Funktionen und ihre Anwendungen, voll. 2, Lipsia 1916-22; F. Klein e R. Fricke, Vorlesungen über die Theorie der elliptischen Modulfunktionen, voll. 2, Lipsia 1890-1892; G. Giraud, Leåons sur le fonctions automorphes, Parigi 1920. Sugl'integrali di differenziali algebrici: C. Neumann, Vorlesungen über Riemanns Theorie des Abelschen Integrale, Lipsia 1884; F. Severi, Vorlesungen über algebraische Geometrie, Lipsia 1921. Sulla funzione di Riemann: E. Landau, Handbuch der Lehre der Verteilung der Primzahlen, I, Lipsia 1909.