FURTO (lat. furtum; fr. vol; sp. hurto; ted. Diebstahl; ingl. thest)
Storia. - Fu bene osservato che i popoli primitivi non scoprono sempre nel furto quell'azione riprovevole che viene riconosciuta dai popoli i quali hanno raggiunto un certo grado di civiltà.
Leggenda ed epopea antica illuminano questa rozza coscienza primitiva: l'avo di Ulisse vien rappresentato come uomo dotato di qualità superiori fra i suoi contemporanei perché sapeva, come nessun altro, rubare cavalli, buoi e greggi riuscendo a farne perdere le tracce. Il furto commesso contro un altro clan, contro un'altra organizzazione sociale o un popolo straniero non era riprovato dal costume; anzi, era la razzia modo e costume di vita: le varie organizzazioni sociali vivevano in stato permanente di rappresaglia. Ciò che era riprovato e punito in questo tempo, era il furto nell'interno del gruppo sociale.
Nel diritto greco la disciplina giuridica del furto passò per varie fasi. La legislazione di Dracone fu spesso considerata d'eccezionale rigore; ma poi si reagì contro questa erronea interpretazione, e giustamente, poiché fu Dracone appunto che riconobbe al danneggiato la facoltà di uccidere il ladro soltanto quando questi avesse commesso il furto di notte o avesse violentemente resistito, e sottrasse tutti gli altri casi alla vendetta privata per sottoporli alla pubblica sanzione. Le leggi soloniche successivamente regolarono nuovamente questo delitto distinguendo il furto commesso a danno di privati da quello di cose pubbliche o sacre (κλοπὴ δημοσίων o ἱερων χρημάτων) e distinguendo il furto a danno dei privati in semplice o qualificato. Nessuna distinzione, però, queste leggi fanno tra autore principale e complice o ricettatore: esonerano, peraltro, da ogni responsabilità l'erede, detentore della cosa furtiva, se la restituisca a colui al quale appartiene.
Nel diritto romano antico la nozione del furto è diversa da quella che si venne poi concretando nella nota definizione attribuita al giureconsulto Paolo (Dig., XLVII, 2, de furtis, 1, 3). Anticamente essa abbraccia qualunque attentato alla proprietà altrui, mentre nel progredire della civiltà giuridica il concetto di furto si va poi differenziando da altri attentati al diritto di proprietà che costituiscono delitti speciali, oggetto di speciale repressione (così, ad es., la rapina). D'altra parte, nella sua più antica figura il furto consiste soltanto nella materiale sottrazione o ablazione della cosa (furtum rei). Successivamente si ammise furto quando il detentore convertiva in possesso la propria detenzione (furtum possessionis). Questa possibilità di furto consumato senza amozione della cosa condusse, anzi, la giurisprudenza ad ammettere anche il furto degl'immobili: dottrina, peraltro, presto abbandonata. Finalmente si ammise furto, anche quando il detentore usasse della cosa oltre i limiti della sua facoltà e contro la nota volontà del proprietario (furtum usus). Questa elaborazione, anzi questa espansione del concetto del furtum, risplende nella definizione attribuita a Paolo che dice il furto contrectatio rei fraudulosa lucri faciendi gratia vel ipsius rei vel etiam usus eius possessionisve. Elementi del furto nel diritto romano, pertanto, sarebbero: a) la contrectatio (in senso lato: comprendente, cioè, tanto il furtum rei quanto il furtum possessionis o usus) di una cosa mobile; b) l'intenzione fraudolenta: animus o affectus furandi; c) l'intenzione di trarre lucro dall'oggetto rubato: animus lucri faciendi. P. Huvelin ha cercato di dimostrare che l'animus lucri faciendi non è elemento essenziale del furto nel diritto romano classico; e forse la rappresentazione del dolo, cioè dall'agere invito domino, come uno specifico animus o affectus furandi, è pure giustinianea. La legge delle XII Tavole distingueva tra furtum manifestum e non manifestum: secondo che il ladro era colto in flagranti o colto prima di aver portato la cosa furtiva al luogo destinato; oppure no. La pena del primo era il quadruplum del valore dell'oggetto rubato; la pena del secondo il duplum.
Il furtum nel diritto romano, e ancora nell'epoca della legislazione giustinianea, era un delictum, fonte di obligatio: e, come tale, perseguibile dal privato leso. Alcuni casi singoli di furti, tuttavia, che producevano più grave allarme sociale, furono sottoposti, come crimina, alla persecuzione pubblica esercitata da funzionarî imperiali e puniti con pene affllìittive commisurate alla varia gravità dei casi e alla condizione dei colpevoli.
Bibl.: Ottima bibliografia sul furto, e, in genere, sul delitto presso i popoli primitivi è in E. Costa, Storia del diritto romano privato, Torino 1925. Per il diritto greco cfr. M. Meier, G. Schömann, J. Lipsius, Der attische Process, Berlino 1883-1887, passim; G. Glotz, v. κλοπή, in Daremberg e Saglio, Dictionn. des antiquités gr. et rom. Per il diritto romano cfr. W. Rein, Das Criminalrecht der Römer, Lipsia 1844; A. Dejardins, Traité du vol, Parigi 1887; M. Pampaloni, Studi sopra il delitto di furto, Torino 1894 e 1900; O. Karlowa, Römische Rechtsgeschichte, II, Lipsia 1901, p. 774 segg.; P. Huvelin, Études sur le furtum dans le très ancien droit romain, Lione 1915; id., L'animus lucri faciendi dans la théorie romaine du vol, in Nouv. Revue hist. de droit franå. et étr., XLII (1918); pp. 73-101; E. Albertario, Animus furandi, Milano 1922; F. De Visscher, Le fur manifestus, ecc., in Études de droit romain, Parigi 1931.
Diritto comparato. - Non tutte le legislazioni definiscono il furto. Alcune si limitano a stabilire la pena contro "chi rubi" presupponendo la nozione del delitto acquisita alla coscienza popolare (codice svedese del 1864, cap. 20, paragr. I). La grande maggioranza definisce il furto, precisandone gli elementi già indicati nella definizione romana. Le differenze tra legislazione e legislazione si riferiscono soprattutto al momento consumativo del delitto, che per alcuni codici (tedesco, paragr. 215; austriaco, paragr. 171; zurighese, paragr. 162; belga, art. 461; ungherese, paragr. 333 e olandese, art. 310) presuppone il verificarsi dell'ablatio, sia pure in forma attenuata rispetto al rigoroso concetto romanistico che la faceva consistere nel trasporto della cosa nel luogo ove il ladro l'aveva destinata; mentre per altri (es. codice ticinese, art. 359) basta che la cosa sia tolta dal luogo ove si trovava: ossia è sufficiente il verificarsi dell'amotio. Tra i nuovi codici, quello dell'Argentina del 1921 (art. 162) e quello spagnolo del 1928 (art. 703); e, tra i progetti, quello svizzero del 23 luglio 1918 (art. 120) e quello cecoslovacco del 1928 (art. 315) riservano al magistrato il decidere quando il reato, secondo le regole comuni, deve ritenersi consumato, limitandosi a specificare che la materialità del furto consiste nell'impossessamento, mediante sottrazione, della cosa mobile altrui.
Diritto italiano. - Il codice italiano nell'art. 624 dichiara che commette furto chiunque s'impossessi della cosa mobile altrui sottraendola a chi la detiene, al fine di trarne profitto per sé o per altri. Sulla scorta degli elementi indicati nell'art. 402 del cessato codice Zanardelli, il furto fu definito "la lesione del diritto di proprietà mediante l'impossessamento della cosa mobile altrui senza il consenso del proprietario per trarne profitto". Gli scrittori, illustrando tale definizione, avvertivano che, a far sussistere il delitto di furto, non occorreva che la sottrazione venisse effettuata in danno del proprietario, bastando che la cosa venisse tolta al possessore, anche se questi non fosse il proprietario, perché la legge tutela il possesso delle cose mobili. Aggiungevano che in tutta la categoria di delitti preveduti nel titolo decimo di quel codice penale la locuzione "proprietà" era assunta e aveva significato largo, come avvertiva lo stesso Zanardelli nella sua relazione al re, in modo da doversi ritener comprensiva di tutti i diritti reali e del possesso di fatto.
Ciò è anche più evidente in rapporto al nuovo codice penale, perché questo nell'intestazione del titolo tredicesimo, corrispondente al titolo decimo del cessato codice, alla locuzione "delitti contro la proprietà" ha sostituito l'altra "delitti contro il patrimonio" e nella definizione, contenuta nell'art. 624 esplicitamente precisa che, perché sussista il furto, è sufficiente che la cosa venga sottratta a chi la detiene, riconoscendo così che elemento del furto può essere la violazione di quella forma minima di possesso che ha per contenuto la disponibilità fisica della cosa legata alla volontà visibile di farla valere ad esclusione di ogni altra persona.
Soggetto attivo del furto può essere chiunque: anche lo stesso proprietario quando altri abbia l'esclusivo e legittimo possesso della cosa: esempio tipico di tale possibilità offre il regolamento dei diritti del proprietario e dell'usufruttuario sulla cosa soggetta a usufrutto. L'usufrutto, infatti, è definito dal codice civile (art. 477) come il diritto di godere della cosa di cui altri ha la proprietà nel modo che ne godrebbe il proprietario, e, perciò, durante l'usufrutto è l'usufruttuario che ha quel possesso e godimento della cosa, che con l'incriminazione del furto s'intende tutelare contro chiunque. L'oggetto su cui il furto può cadere è la cosa mobile altrui.
Per cosa si intende un'entità materiale avente un valore economico e capace di dominio. Non sono, perciò, da considerarsi come possibili oggetti di furto, per difetto di consistenza materiale, i diritti e tutte le entità astratte come le idee. Occorre però tener presente che le astrazioni possono essere riprodotte in forme tangibili ed allora fissandosi in una cosa corporea è ammissibile che siano oggetto di furto. In tali sensi è stato giudicato a riguardo dei titoli di credito e dei disegni e modelli d' invenzioni industriali. La cosa deve avere un valore, ma questo va stabilito in rapporto alla persona del derubato. Non è necessario insomma che essa abbia un valore commerciale, ma basta che abbia valore per l'uso, cui l'ha destinata il possessore. La cosa deve essere capace di dominio, requisito che non hanno le cose comuni a tutti, come l'aria, la luce, il calore solare; ma se queste cose comuni sono con mezzi particolari circoscritte nello spazio e utilizzate specificamente, diventano oggetto di proprietà e perciò suscettibili di furto. La cosa deve essere mobile, perché, consistendo il furto nel fatto d'impossessarsi della cosa altrui, è evidente che oggetto del delitto possono essere solo quelle cose che possono essere tolte e trasportate da un posto all'altro.
Nel Medioevo la disciplina del furto varia a seconda degli ordinamenti sociali e politici delle varie epoche e dei varî paesi, ma in tutte le leggi si va sempre più delineando la distinzione tra furto semplice e furto aggravato da speciali circostanze. Questa tendenza trionfò col Beccaria e si può dire ormai accolta in tutte le legislazioni moderne, le quali, sistemando completamente la materia hanno sempre con maggiore precisione staccato dalla nozione generica di furto quella di furto semplice in contrapposto della rapina, dell'appropriazione indebita, dell'estorsione, della truffa, della ricettazione. A questo punto bisogna avvertire che il carattere di cosa mobile ai fini penali non coincide perfettamente con le nozioni civilistiche, perché nel campo penale da un lato non sono da considerarsi cose mobili quelle che non sono tali per loro natura, e dall'altro bisogna ritenere che le parti d'un immobile possono formare oggetto di furto quando dall'immobile sono distaccate, sia ad opera della natura, sia ad opera dell'uomo, anche se questi sia lo stesso colpevole. Così commette furto chi fa suoi gli alberi dopo averli divelti dal suolo, le biade dopo averle mietute, le pietre dopo averle estratte dalla cava, ecc.
A proposito dei requisiti della materialità e della mobilità della cosa si discuteva se potesse formare oggetto di furto l'energia elettrica.
Il nuovo codice risolve esplicitamente la questione, già dibattuta dalla giurisprudenza, stabilendo (art. 624, capoverso) che agli effetti della legge penale si considera cosa mobile anche l'energia elettrica e ogni altra energia che abbia un valore economico. La formulazione di questo capoverso ha un triplice valore: il primo consiste nell'aver risoluto la questione non solo in rapporto all'energia elettrica, ma anche in rapporto ad altre energie naturali; il secondo risiede nell'aver risoluto la questione in rapporto a tutte le leggi penali e non soltanto nei riguardi del furto; il terzo nell'aver precisato per le altre energie la necessità del requisito del valore economico, giacché ne discende che le energie allora soltanto possono essere considerate cose mobili ai fini penali, quando siano in condizione di poter essere apprese e godute dall'uomo con profitto proprio e danno altrui. Quali siano le modalità d'apprensione e di godimento per le diverse energie in vista degl'incessanti progressi della scienza e della tecnica, non è possibile indicare e non è indicato. Nel generico riferimento a tutte le possibilità, che maturerà l'avvenire degli studî e della meccanica, sta il pregio maggiore della disposizione.
La cosa infine deve essere altrui, ossia appartenere ad alcuno, e questi non essere l'autore della sottrazione. Il requisito dell'appartenenza della cosa ad alcuno è richiesto; altrimenti avremmo occupazione di res nullius, e l'occupazione è un modo legittimo di acquisto della proprietà a norma dell'art. 711 del codice civile.
Non commette perciò furto chi s'impossessa di cose abbandonate, di fiere, di uccelli, di pesci, prima che tali cose siano state da altri occupate con i varî mezzi che la pratica suggerisce (tenuta, riserva, recinti, ecc.). L'esercizio abusivo della pesca o della caccia costituisce contravvenzione a leggi speciali, ma non delitto di furto. Consistendo il furto nella violazione d' un diritto patrimoniale altrui, il proprietario non può commettere furto della cosa propria tranne nelle circostanze riferite più sopra.
Diversa è la situazione giuridica che si verifica quando la proprietà di una cosa è comune a più persone: in tal caso chi sottrae la cosa comune sottrae, insieme alla porzione propria, quella dei soci o condomini; e perciò sussiste il delitto di furto. In tali sensi disponeva il capoverso dell'art. 402 del cessato codice penale e dispone l'art. 627 del nuovo codice. Si discuteva se commettesse o meno delitto chi, sottraendo la cosa comune, costituente parte di attività ereditarie o sociali indivise, effettivamente s' impossessasse d' una quota non superiore ai suoi diritti. La maggioranza della dottrina e della giurisprudenza distingueva tra cose fungibili e cose non fungibili; e, mentre escludeva il reato nella prima ipotesi, lo riteneva possibile nella seconda. Si osserva infatti che, quando oggetto della sottrazione sono cose fungibili e sono stati rispettati i limiti del diritto spettante all'agente, non può esservi danno essendo le cose fungibili suscettibili di scambio e di surrogazione con altre: il che non avviene nell'ipotesi di cose individualmente determinate aventi ognuna un proprio valore. A questa opinione ha aderito il nuovo codice penale stabilendo nel capoverso dell'art. 627 che non è punibile chi commetta il fatto su cose fungibili, se il valore di esse non eccede la quota a lui spettante.
Il secondo requisito del furto è riposto nel dissenso della persona, alla quale la cosa appartiene: nell'agire invito domino.
Il dissenso si presume, perché nell'ordine naturale della vita sociale nessuno vuole essere spogliato dei suoi beni: evidentemente, oltre la diretta dimostrazione del consenso esplicito, le consuetudini, le relazioni tra le parti, le modalità del fatto possono far cadere tale presunzione; ma resta fermo che la prova del consenso deve essere data dall'autore della sottrazione. Il consenso deve essere anteriore o contemporaneo all'impossessamento: la ratifica non vale a distruggere il carattere delittuoso del fatto. Se il consenso è carpito con artifici o raggiri, pure esulando l'ipotesi del furto, ricorre quella di truffa. Il nuovo codice non indica esplicitamente il requisito del dissenso, perché esso è implicito nel concetto di sottrazione, e perché si rapporta all'applicazione della norma generale dell'art. 50 che regola l'efficacia del consenso della parte offesa sulla punibilità di chi lede o pone in pericolo l'altrui diritto.
Il terzo requisito del furto si riferisce all'elemento soggettivo: a norma dell'art. 624 non basta per la sussistenza del delitto la volontarietà del fatto, ma occorre che questo sia commesso per trarne profitto. Tale fine specifico distingue nei varî casi l'ipotesi del furto da altre ipotesi delittuose o da altre violazioni giuridiche di semplice ordine privato, che pure si realizzano con l'impossessamento della cosa altrui. Basterà qui ricordare, per la più evidente differenza di elemento soggettivo, la distinzione tra furto ed esercizio arbitrario delle proprie ragioni, per il quale l'elemento psicologico è riposto nel fine di esercitare un preteso diritto.
Per profitto si deve intendere qualsiasi utilità, materiale o morale, diretta o indiretta, per sé o per altri, purché la legge non la preveda come fine di altro reato. Il nuovo codice, a evitare ogni possibilità di dubbio, ha precisato che il profitto, al quale il colpevole mira, può essere per sé o per altri. All'elemento del profitto si ricollegava, sotto l'impero del codice cessato, la questione sull'ammissibilità del furto d'uso ossia del delitto che si verifica mercé impossessamento della cosa altrui per usarne temporaneamente e restituirla al legittimo possessore. Escludevano la possibilità di tale configurazione criminosa quelli che ritenevano essere elemento del furto l'animo di tener la cosa come propria. Ma bene si osservava in contrario che il nostro legislatore, a differenza di quanto è fatto in altre leggi straniere, non indicava tale elemento nell'art. 402, e solo stabiliva come requisito necessario e sufficiente il fine di trar profitto della cosa sottratta. Il nuovo codice riconosce esplicitamente l'ipotesi del furto d'uso nell'art. 626, di cui ci occuperemo in seguito.
Il fatto costitutivo della materialità del delitto di furto sta nell'impossessamento della cosa altrui, ossia nel privare il possessore attuale del godimento e della detenzione della cosa, e nello stabilire sulla stessa il possesso dell'autore della sottrazione.
Sul contenuto essenziale di questo elemento del furto (sostituzione del ladro al padrone nel possesso della cosa) non vi è dissenso, ma nelle leggi e nella pratica molto si è discusso e si discute per stabilire quando effettivamente tale elemento si debba dire realizzato, e quale sia la formula che meglio ne renda il concetto e ne fissi le condizioni, perché, dal semplice fatto di porre la mano sulla cosa altrui alla vera e propria definitiva appropriazione della cosa stessa, molte possono essere le tappe dell'azione del colpevole e occorre chiarire in quale momento il delitto si debba ritenere consumato. Al nuovo legislatore è sembrato che miglior partito fosse quello di ritenere puramente e semplicemente che si verifica l'impossessamento quando le circostanze di fatto dimostrano che sia avvenuto lo spossessamento ossia che il detentore della cosa abbia perduto il potere di custodia e la disposizione fisica della stessa. Quali siano le circostanze di fatto rivelatrici della nuova situazione creata dall'azione del ladro, non è possibile prevedere e catalogare in un codice. Solo il giudice può nelle varie contingenze dichiarare in base a nozioni comuni o tecniche il verificarsi dei mutamenti possessorî. A questo principio s'ispira il nuovo codice penale italiano perché la formula dell'art. 624 si limita a fare dell'impossessamento un termine correlativo dello spossessamento, riservando al magistrato la valutazione delle concrete evenienze.
Il requisito dell'impossessamento fa distinguere il furto dall'appropriazione indebita; perché in questa seconda ipotesi delittuosa il colpevole converte in proprio profitto una cosa, di cui è in possesso per un titolo che gli faceva obbligo di restituire la cosa o di farne un uso determinato. Il difetto di minaccia o di violenza nell'impossessamento distingue poi il furto dall'estorsione e dalla rapina.
Quando era in vigore il codice Zanardelli molto si è discusso sulla possibilità del tentativo nel delitto di furto. Generalmente si ammetteva l'ipotesi del furto tentato; ma non quella del furto mancato, perché nel furto il compimento di tutto quanto occorre per la consumazione del reato (requisito obiettivo del delitto mancato) coincide con la sua stessa consumazione. Il nuovo codice non distingue più l'ipotesi di delitto tentato da quella di delitto mancato. La distinzione, però, sostanzialmente risorge per l'ipotesi del cosiddetto pentimento operoso, il quale può realizzarsi nella volontaria desistenza dall'azione o nel volontario impedimento dell'evento. Come si vede, questa distinzione si riconnette nuovamente alla distinzione fra delitto tentato e delitto mancato e perciò non può dirsi del tutto ultronea anche col nuovo codice l'affermazione che di delitto mancato non può parlarsi in tema di furto.
Il furto è perseguibile d'ufficio. È stabilita la pena della reclusione fino a tre anni e la multa da lire 300 a lire 5.000.
Sono prevedute dall'art. 626 tre ipotesi di furto, per le quali non solo è notevolmente attenuata la pena, ma è altresì disposta la punibilità a querela di parte. Tali ipotesi sono: 1. se il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa sottratta, e questa, dopo l'uso, è stata immediatamente restituita. L'ipotesi si riferisce al cosiddetto furto di uso, di cui abbiamo già parlato. Per evitare possibilità di abusi e di erronea interpretazione, il codice ripone l'essenza del furto d'uso in due elementi che si integrano a vicenda: uno soggettivo, lo scopo cioè di fare un uso temporaneo della cosa sottratta; e uno oggettivo, che si concreta nell'effettiva restituzione. Se anche una sola di queste condizioni difetta, non può parlarsi di furto d'uso; 2. se il fatto è commesso su cosa di tenue valore per provvedere a un grave e urgente bisogno. Questa ipotesi si riferisce a tutti quei casi pietosi, nei quali la necessità di provvedere a un estremo bisogno, anche se non ricorrono i requisiti preveduti dal cosiddetto stato di necessità che discrimina il reato, rivela la scarsa pericolosità dell'agente mentre la tenuità del valore della cosa sottratta riduce al minimo l'entità oggettiva del fatto; 3. se il fatto consiste nello spigolare, rastrellare o raspollare nei fondi altrui, non ancora spogliati interamente dal raccolto. Quest'ultima ipotesi era già preveduta nel cessato codice e trova la sua base nella tenuità del fatto.
Il nuovo codice abbandona la distinzione tra circostanze aggravanti e qualifiche che il codice cessato aveva accolto negli articoli 403 e 404. L'abbandono della distinzione si giustifica tenendo presente che nessuna ragione ontologica era data a sostegno di essa. Si soleva dire che la distinzione corrispondeva a una graduazione della gravità delle circostanze che possono accompagnare nella varietà dei casi la consumazione del furto: ma, come bene osserva il ministro nella sua relazione al progetto definitivo del nuovo codice, ridotta in tali termini la ragione della distinzione, per renderla inutile bastava stabilire una larga latitudine nei limiti della pena quando concorrono circostanze aggravanti, così da consentire al giudice nell'applicazione della legge di tener presente la maggiore o minore gravità delle circostanze nelle singole contingenze. È perciò stabilita per il furto aggravato la pena della reclusione da uno a sei anni e della multa da lire 1000 a lire 10.000 e, ove concorrano due o più circostanze, la pena della reclusione da tre a dieci anni e quella della multa da lire 2000 a lire 15.000.
Per avere un quadro completo delle circostanze aggravanti del furto, e per non incorrere nell'errore di ritenere che il nuovo codice non abbia considerato molte di quelle prevedute nel codice Zanardelli, occorre tener presente il sistema del nuovo codice che regola nella parte generale (art. 61) le circostanze aggravanti comuni a tutti i reati e prevede nella parte speciale le circostanze aggravanti specifiche per ogni singolo reato. Conseguentemente l'elenco di quelle indicate nell'art. 625 va completato con quelle prevedute nell'art. 61, ove siano applicabili. Ma, per chiarire il sistema delle aggravanti per il delitto di furto secondo il nuovo codice, occorre inoltre tener presente che questo procede a un riordinamento delle aggravanti, comprendendo sotto unica locuzione varie ipotesi il cui contenuto si può ricondurre a un unico concetto fondamentale (come avviene per tutti quei mezzi che si riannodano alle nozioni di violenza e di frode). Sostanzialmente, salvo opportune modifiche, si può ben dire che il nuovo codice conservi tra le cause che aggravano il reato tutte quelle che, col cessato codice, erano ritenute elementi di aggravante o di qualifica. Dette aggravanti si hanno secondo l'art. 625: 1. se il colpevole, per commettere il fatto, s'introduce o si trattiene in un edificio o in altro luogo destinato ad abitazione; 2. se il colpevole usa violenza sulle cose o si vale di un qualsiasi mezzo fraudolento; 3. se il colpevole porta in dosso armi o narcotici, senza farne uso; 4. se il fatto è commesso con destrezza, ovvero strappando la cosa di mano o di dosso alla persona; 5. se il fatto è commesso da tre o più persone, ovvero anche da una sola, che sia travisata o simuli la qualità di pubblico ufficiale o d'incaricato di un pubblico servizio; 6. se il fatto è commesso sul bagaglio dei viaggiatori in ogni specie di veicoli, nelle stazioni, negli scali o banchine, negli alberghi o in altri esercizî ove si somministrano cibi o bevande; 7. se il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o esposte per necessità o per consuetudine o per destinazione alla pubblica fede, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza; 8. se il fatto è commesso su tre o più capi di bestiame raccolti in gregge o in mandria, ovvero su animali bovini o equini, anche non raccolti in mandria.
Diritto penale militare. - Il furto nel diritto penale militare è preveduto dagli art. 214, 215, 216, 217, 218 e 219 del codice penale per l'esercito e dagli art. 236, 237, 238, 239 e 241 del codice penale per la marina. In tali disposizioni non è data la nozione del furto, che, perciò, anche per le leggi militari è quella contenuta nel diritto comune (art. 624 cod. penale).
Il carattere di furto militare dipende dal concorso di alcune circostanze estrinseche di persona, di cosa e di luogo, e la speciale considerazione di esso nei codici militari è determinata dalle particolari esigenze del servizio e della vita militare, i cui interessi sono violati dal furto insieme al diritto di proprietà. Questa duplice violazione spiega e giustifica la previsione del furto come reato militare; ma, restando ferma la nozione elementare del delitto, è chiaro che l'indagine illustrativa del furto militare si riduce sostanzialmente a stabilire quali sono le condizioni in vista delle quali il furto è soggetto alla giurisdizione e alle sanzioni militari.
Tali condizioni sono: 1° Qualità di militare nel soggetto attivo. Il militare può essere di qualsiasi grado, ma deve essere in servizio effettivo. Per l'art. 545 del codice penale per l'esercito in tempo di guerra ai militari veri e proprî sono assimilati gli impiegati e operai militarizzati e i prigionieri di guerra. 2° Qualità di militare nel soggetto passivo. Sussiste il carattere di furto militare anche se il soggetto passivo sia lo stato in genere o l'amministrazione militare in ispecie. Questa seconda, però, è una ipotesi distinta di furto militare, conseguenza della qualità militare della cosa (art. 217 cod. pen. per l'esercito - art. 239 cod. pen. per la marina) ed è punita con pene autonome e più gravi di quelle comminate per l'altra ipotesi. È perciò indispensabile nei singoli casi determinare in danno di chi il furto militare è commesso per stabilire quale delle due disposizioni sia applicabile. L'indagine non è sempre facile, perché spesso la parte danneggiata non è la persona alla quale la cosa appartiene, ma altra persona o ente, che nel momento del furto ha delle cose la custodia, così da essere obbligato a risponderne in caso di sottrazione. Occorre tener presente che questo secondo requisito, riferentesi al soggetto passivo del delitto, non è necessario in tempo di guerra, perché, concorrendo tale speciale condizione, il furto commesso da militare ha carattere militare anche se commesso a danno di persone estranee alla milizia o di enti diversi (art. 280 cod. pen. per l'esercito). 3° Qualità di militare nel luogo in cui il furto fu commesso. L'art. 214 del cod. penale dell'esercito prevede la caserma, o qualunque altro luogo ove i militari abbiano stanza benché temporanea; e il successivo art. 217, che disciplina il furto a danno del pubblico erario o delle amministrazioni o dei corpi militari, aggiunge che questa ipotesi può verificarsi anche se il furto sia commesso in arsenali, o in qualunque officina o magazzino destinati anche momentaneamente ad uso militare. Analoghe indicazioni sono negli art. 236 e 239 del codice penale per la marina. È stato giudicato che la qualità militare del luogo non si desume dalla sua materialità ma dalla sua destinazione, essendo militare il luogo ove il militare si trovi a causa del suo servizio, per effetto della sua qualità di militare. Non è necessario il concorso di questo terzo requisito, quando il furto sia commesso in tempo di guerra (art. 280 citato) o dal militare verso il superiore al cui servizio personale si trovi addetto (art. 216 cod. pen. per l'esercito e 304 cod. pen. militare marittimo).
Il furto militare è punito più gravemente quando il valore della cosa rubata superi le lire cinquecento o il delitto sia commesso mediante rottura, scalata o chiavi false. Per l'ipotesi del furto in danno di militare l'aggravamento sussiste altresì se il delitto sia commesso dal militare verso il superiore al cui servizio personale si trovi addetto. Le pene sono ancora aumentate se concorrano due o più di tali circostanze. Il codice penale militare marittimo prevede in modo speciale l'ipotesi dell'individuo di marina che, viaggiando a bordo di qualsiasi bastimento catturato o predato, si rendesse colpevole di sottrazione o distruzione violenta delle carte di bordo (art. 241) e ciò per la loro grande importanza (art. 36 e segg. cod. marina mercantile ed art. 301 e segg. regolamento relativo).
Bibl.: V. Manzini, Le varie specie di furto nel diritto vigente, 2ª ed., Torino 1913; id., Trattato di diritto penale italiano, 2ª ed., Torino 1923, VIII; id., Trattato del furto, Torino 1925; P. Vico, in Digesto italiano, s. v.; Relazione al Progetto ministeriale del 1887, p. 251; Giuriati, Delitti contro la proprietà, in Trattato di E. Florian, Milano 1913; G. Marciano, Il Titolo X del codice penale, con introduzione e note di E. Altavilla, parte 1ª, Napoli 1927; Lavori preparatori del Progetto di nuovo Codice Penale presentato dal Guardasigilli Rocco, V, parte II, p. 528 segg. e parte III, p. 235 e segg.; Saltelli e Romano, Commento teorico pratico al nuovo Codice penale, I, II, parte ii, p. 1052 segg.