Futurismo
«È dall’Italia che noi lanciamo per il mondo questo nostro
manifesto di violenza travolgente
e incendiaria col quale fondiamo
oggi il futurismo»
(Filippo Tommaso Marinetti)
Il futurismo e la figura umana in movimento
di Marco Bussagli
5 febbraio
La mostra Futurismo 1909-2009 Velocità+Arte+Azione si inaugura al Palazzo Reale di Milano nel centenario della pubblicazione, sulla Gazzetta dell’Emilia, dell’anticipazione del Manifesto, nel quale Filippo Tommaso Marinetti teorizzò la poetica futurista, centrata sull’esaltazione del progresso e del dinamismo in tutte le sue forme.
Figura, dinamismo, velocità
Nell’introduzione al mio Il corpo umano. Anatomia e significati simbolici (Milano, Electa, 2005), richiamavo l’attenzione sul fatto che «pur rimanendo, in età storica, sostanzialmente uguale a sé stesso, il corpo dell’uomo in quanto soggetto artistico ha prodotto, nel corso dei secoli, soluzioni formali talmente discordanti da far dubitare di una simile affermazione. Si pensi alle diversità profonde che distinguono opere come il pluteo dell’altare di Ferentillo scolpito da ‘Magister Ursus’, il David di Michelangelo e le Forme uniche di continuità dello spazio di Boccioni: sono differenze […] che rispecchiano il modo di pensare di un’epoca ed esemplificano il punto di vista dal quale gli uomini vedevano il mondo» (p. 7). La rappresentazione della figura umana, infatti, deve considerarsi come la ‘cartina di tornasole’ di un periodo storico e di un movimento artistico, perché obbliga chi la realizza a impiegare, più o meno consciamente, i principali parametri espressivi che quel periodo (è qui l’inconsciamente) o quel movimento artistico (in questo il consapevolmente) utilizzano per comunicare la loro idea di realtà rappresentata. Non solo, ma essendo la figura umana luogo simbolico per eccellenza – visto che è conseguenza e causa della condizione umana –, l’impatto espressivo è assai più dirompente di quanto non lo sarebbe se a essere rappresentato fosse un fiore, un paesaggio o un animale. Inoltre, se si riflette al fatto che nessuna delle componenti anatomiche presenti nella figura risulta superflua, si finisce per richiedere all’artista che affronta questo tema una capacità di sintesi che per altri soggetti non è affatto indispensabile. Il percorso per summa fastigia che proponevo in quel passo del mio testo si concludeva con un riferimento a un futurista, Umberto Boccioni, e al suo capolavoro scultoreo che più avanti indagheremo da vicino. Rispetto alle altre correnti artistiche del Novecento, il futurismo si distingue nella problematica della rappresentazione della figura umana per un motivo preciso che può essere sintetizzato in una sola parola: dinamismo. L’attenzione al movimento della figura non costituisce certo una novità per le arti figurative. Ogni epoca ha trovato espedienti più o meno convenzionali con i quali è riuscita a suggerire gesti e movimenti di un personaggio dipinto o scolpito e quindi inesorabilmente fermo. Tuttavia, questi tentativi – peraltro destinati a essere vani fino all’invenzione del cinema da parte dei fratelli Lumière nel 1895 – non hanno mai implicato la deformazione del soggetto rappresentato e neppure il coinvolgimento dinamico dell’ambiente nel quale la figura si muove, così come invece accade nelle opere futuriste di pittura e di scultura. Il tema della velocità costituisce una costante del futurismo, sia pur declinata in vario modo lungo tutto l’arco di sviluppo di questo movimento artistico: basta riflettere sull’accezione della velocità come impeto politico, esemplificata dal vettore rosso di La rivolta di Luigi Russolo (1911; L’Aia, Museo municipale), o sulla restituzione stilizzata dell’effetto del passaggio di un’automobile in corsa, più volte sperimentata da Giacomo Balla (per esempio in Automobile+velocità+luce, 1913, Milano, Civico museo d’arte contemporanea), o, ancora, sul recupero dell’esperienza del volo in aeroplano trasposta in pittura da Gerardo Dottori e dai suoi seguaci (per esempio, Alessandro Bruschetti, Acrobazia fra le nubi, 1934, Perugia, Camera di commercio). Filippo Tommaso Marinetti sentì il bisogno di rendere sistematici questi indirizzi artistici articolati intorno alla «bellezza della velocità», come lui stesso la definiva, riassumendoli in un manifesto dedicato alla «nuova religione-morale della velocità», pubblicato l’11 maggio 1916 sul primo numero del giornale L’Italia futurista. Nel testo di Marinetti si trovano concentrate e coordinate in una visione d’insieme tutte quelle sfaccettature che, secondo il poeta, ruotano intorno all’idea della velocità. Questa si configura come «disprezzo degli ostacoli, desiderio di nuovo e d’inesplorato. Modernità, igiene». Per questo, anche «il patriottismo è la velocità diretta di una nazione», secondo un’equazione che, più in generale, prevede «genio creatore = velocità». Queste diverse suggestioni che intrecciano insieme l’idea della modernità, il mito della macchina (automobile, treno, motoscafo o aereo che sia), l’ebbrezza della velocità e la passione politica per la nascita di un mondo nuovo, diverso da quello che era stato fino ad allora, trovano un punto d’equilibrio nella loro applicazione alla figura umana che non necessariamente ‘corre’, ma che si muove coinvolgendo con sé lo spazio circostante. I fotogrammi fissi, ma in successione, di una figura che salta, corre o cammina di Eadweard Muybridge, oppure le ‘cronofotografie’ ottenute con il fucile fotografico di sua invenzione da Étienne-Jules Marey (molto simili a quelle dell’americano Thomas Eakins, che, però, i futuristi non potevano conoscere) devono essere considerati come una delle radici dell’interesse di questi artisti per il tema del movimento e della velocità. Da questi esperimenti fotografici ottocenteschi, infatti, derivarono celeberrime opere di Balla come Ragazza che corre sul balcone (preceduta da una serie di disegni estremamente tecnici e puntuali, molto vicini alle cronofotografie di Marey), Dinamismo di un cane al guinzaglio e La mano del violinista, tutti dipinti nel 1912. Questi capolavori, appartenenti al momento iniziale del futurismo, non a quello maturo che si paleserà con le opere di Boccioni, si possono avvicinare alle esperienze fotografiche di Anton Giulio Bragaglia, che nel 1911 realizzò immagini come Mano in moto e Dattilografa. Proprio nell’opera del grande fotografo, regista, scenografo di Frosinone si può individuare la base delle future esperienze di Boccioni, i cui assunti teorici si trovano esposti nel Manifesto tecnico della scultura futurista, pubblicato l’11 aprile 1912 a Milano. Boccioni si lamenta dell’arretratezza dell’approccio linguistico alla scultura (non così per la pittura, il cui Manifesto era comparso due anni prima) tipico dei suoi colleghi più o meno contemporanei, i quali sono ancora schiavi del «famoso “ideale di bellezza” di cui tutti parlano genuflessi». Questo ideale da aborrire è quello greco-romano, incapace di staccarsi «dal periodo fidiaco e dalla sua decadenza…». Il manifesto passa in rassegna i principali scultori del primo Novecento, dal belga Constantin Meunier (1831-1905), cantore della condizione operaia, ai più noti Auguste Rodin (1840-1917) ed Émile-Antoine Bourdelle (1861-1929), non senza sottolinearne l’accento enfatico e retorico che, ovviamente, non può essere condiviso. Il fatto è, spiega Boccioni, che «in tutte queste manifestazioni della scultura e anche in quelle che hanno maggior soffio di audacia innovatrice si perpetua lo stesso equivoco: l’artista copia il nudo e studia la statua classica con l’ingenua convinzione di poter trovare uno stile che corrisponda alla sensibilità moderna senza uscire dalla tradizionale concezione della forma scultoria», vale a dire quella della bellezza greco-romana. Da questa ecatombe, Boccioni salva soltanto Medardo Rosso, l’unico che abbia tentato di «rendere con la plastica le influenze d’un ambiente e i legami atmosferici che lo avvincono al soggetto». Quale può essere allora la soluzione a un simile dilemma? La ricetta proposta da Boccioni si riassume in alcune formule precise. Innanzitutto, spiega l’artista, «Bisogna distruggere il nudo sistematico, il concetto tradizionale della statua e del monumento». Per farlo, la prima cosa è, in pittura come in scultura, considerare il soggetto mentre si sposta. Infatti, «non si può rinnovare se non cercando lo stile del movimento, cioè rendendo sistematico e definitivo come sintesi quello che l’impressionismo ha dato come frammentario, quindi di analitico. E questa sistematizzazione delle luci e delle compenetrazioni dei piani produrrà la scultura futurista, il cui fondamento sarà architettonico, non soltanto come costruzione di masse, ma in modo che il blocco scultorio abbia in sé gli elementi architettonici dell’ambiente scultorio in cui vive il soggetto. Naturalmente, noi daremo una scultura d’ambiente». Molto probabilmente, quando scrive queste cose, l’artista da una parte ha in mente Medardo Rosso, ma dall’altra guarda alle esperienze fotografiche di Bragaglia e alla sua ‘fotodinamica’ che fissa il movimento della figura sulla lastra non con gli intenti documentari di Muybridge o di Marey, ma con la volontà di utilizzare la velocità del movimento per trarre fuori dal soggetto una forma nuova e diversa. Un esempio chiarificatore è offerto dalla Fotodinamica di U. Boccioni, attribuita a Giannetto Bisi, giornalista, fotografo, critico d’arte e marito di quell’Adriana Bisi Fabbri (1881-1918), pittrice futurista della prim’ora che al tema del dinamismo aveva rivolto molta della sua attenzione creativa. La Fotodinamica di Bisi, fissando in un’unica immagine il rapido movimento di rotazione della testa di Boccioni, crea un’altra immagine dell’artista, capace di espandersi nello spazio. Lo stesso percorso poteva anche condurre a soluzioni vicine a quella adottata dalla boema Rougena Zatkova, autrice di un celebre ritratto di Marinetti (Sole Marinetti, 1920). Certo è che la Fotodinamica di Bisi rappresenta una soluzione consapevole delle esperienze di Bragaglia come Un gesto del capo (1911), ma è anche vicina alle creazioni scultoree e pittoriche dell’Antigrazioso di Boccioni, nonché alle sue ‘sculture d’ambiente’, come le distrutte Testa+casa+luce, oppure Fusione di una testa e di una finestra.
Disarticolazione anatomica
La figura umana cacciata con ignominia dalla porta nelle pagine tonanti del Manifesto della scultura rientra dunque dalla ‘finestra’ nei capolavori di Boccioni, visto l’interesse attribuito dall’artista alle problematiche della sua rappresentazione. Naturalmente, si tratta di una figura umana del tutto nuova, lontana mille miglia dalla retorica populista di Meunier oppure dall’eroica monumentalità di Rodin e del suo allievo Bourdelle. Boccioni, però, è attratto dalle medesime problematiche anatomiche che i tre scultori da lui aborriti avevano a loro modo affrontato e risolto. Certo, la soluzione che propone è ben diversa. La plastica e la volumetria del volto escogitate in Pieni e vuoti astratti di una testa, una scultura del 1912 purtroppo perduta, inventano, sulla base della struttura anatomica, una nuova sintesi di rappresentazione. L’intento è quello di mostrare la verità anatomica del muscolo grande zigomatico
(a destra guardando) e subito di negarla (a sinistra), di seguire l’andamento dell’arcata sopracciliare (a sinistra) e di rivisitarla (a destra) attingendo all’andamento a virgola del muscolo corrugatore del sopracciglio. La medesima attenzione alla disarticolazione dei piani, stilizzati con sensibilità e maestria, si ritrova in pittura, come ben testimonia la Scomposizione di figura di donna a tavola, dipinta da Boccioni in quello stesso anno (Milano, Palazzo Reale, Civico museo d’arte contemporanea). Si potrebbe cogliere in queste proposte di Boccioni una relazione con la poetica di Picasso e del suo cubismo analitico di questo periodo e segnalare un’affinità con il celebre Ritratto di Ambroise Vollard, dipinto dall’artista catalano fra il 1909 e il 1910 (Mosca, Museo Pushkin). Tuttavia, con un tale semplicistico nesso fra le due forme d’espressione ci fermeremmo a una lettura superficiale, perché il Ritratto di Vollard è statico, mentre le opere di Boccioni sono dinamiche. Elemento comune, è vero, è la compenetrazione dei piani fra il personaggio rappresentato e l’ambiente circostante, che poi si configura come lo sfondo del quadro, ma l’opera di Boccioni si va strutturando in velocità, sfruttando ‘lame’ di luce e di ombra che ritroviamo anche in Hommage à Picasso di Juan Gris (Chicago, Art Institute), mentre quella di Picasso assomiglia a un sofisticato puzzle. Se ne ha un’ulteriore conferma, affiancando ai Pieni e vuoti astratti di una testa di Boccioni la Testa femminile (1913) di Mario Sironi (Milano, Civiche raccolte d’arte, Museo del Novecento), che della scultura ricordata sembra essere la fedele trasposizione pittorica, arricchita della presenza del colore. Anche in questa tela del 1913 è evidente la profonda comprensione della struttura anatomica, restituita con un’accurata stereometria di piani smontati e ricomposti lungo linee dinamiche curve che tendono a suggerire movimento anche in un’immagine ferma. Si tratta di un percorso che ha certo affinità con il cubismo, ma che reinventa la figura come se fosse in caleidoscopico continuo divenire. Le ricerche di Boccioni devono essere considerate parallele a quelle di Picasso, ancorché congruenti in molti punti, dal momento che il pittore italiano delle opere dell’artista catalano ebbe modo di conoscere, forse, solo la testa di bronzo (Fernande, New York, Museum of Modern Art), realizzata in gesso da Picasso nel 1909 e poi fusa da Vollard che l’aveva acquistata per farne dei multipli (F. Benzi, Il futurismo, Milano, Motta Editore, 2008, p. 92). La differenza fra la statica del cubismo e la dinamica del futurismo non scompare neanche se prendiamo in esame l’intera figura umana. Il tanto vituperato nudo ritorna con prepotenza nella poetica di Boccioni. Non si può, infatti, pensare a un interesse sporadico, se l’artista calabrese, fra il 1912 e il 1913, dedicò al tema dell’uomo che cammina ben quattro sculture: Sintesi del dinamismo umano (1912), Espansione spiralica di muscoli in movimento (1913), Muscoli in movimento (1913) e Forme uniche di continuità dello spazio (1913), la sola che ci sia pervenuta, perché le altre, esposte alla retrospettiva dedicata all’artista nel 1916-17, furono lasciate all’esterno e quindi si deteriorarono, sicché sono note solo attraverso fotografie in bianco e nero, non tali da permetterne un’analisi compiuta. Forme uniche di continuità dello spazio ha avuto invece anche una versione in bronzo, conservata presso il Civico museo d’arte contemporanea di Milano (anche se multipli si trovano in altri musei del mondo), ricavata dal gesso originario. Nonostante la forma apparentemente incongrua, questa e le altre opere di Boccioni dimostrano una notevole conoscenza anatomica, affinata a Roma frequentando, nel 1899, la Scuola libera del nudo dell’Accademia di Belle Arti e lo studio del cartellonista Giovanni Mataloni. Non è difficile osservare quanta attenzione Boccioni abbia posto nel descrivere la plastica del vasto laterale del quadricipite femorale della coscia flessa che mostra la depressione della fascia lata, nonché la diversa volumetria dei due glutei, secondo che l’arto inferiore sia flesso o esteso posteriormente. Coerentemente con queste scelte, l’artista descrive anche il bicipite femorale e il suo tendine, che prende inserzione sulla testa del perone della coscia flessa e il gruppo del semitendinoso e semimebranoso nella coscia estesa. Simili elementi contribuiscono notevolmente a creare il senso di un dinamismo concepito in funzione dell’idea che, muovendosi, il corpo si modifica con la velocità. Non è sufficiente, infatti, ricorrere solo all’indagine anatomica per spiegare questa forma. L’assimilazione dell’uomo che corre o cammina a una macchina si sposa bene con i primi esperimenti di aerodinamica applicata alle automobili e agli aerei. Proprio come questi nuovi mezzi di trasporto, progettati secondo la forma ottimale per viaggiare rapidamente, il corpo umano immaginato da Boccioni si dispone nello spazio quasi fosse una macchina avveniristica, levigata e scintillante, che fende l’aria e ne viene compenetrata. Lo stesso avviene in un’opera dipinta dall’artista in quegli stessi anni, ovvero Dinamismo di un footballer (New York, Museum of Modern Art) dove pure è riconoscibile la struttura anatomica dell’atleta, deformata però dalla foga della corsa e dalla compenetrazione dell’aria, della luce, dell’erba del campo di calcio. È nato così un modo nuovo di concepire la figura umana, che è il punto d’incontro fra le varie sollecitazioni del movimento futurista. La lezione di Boccioni fece proseliti diretti (come per esempio Primo Conti, Gino Severini, Mino Rosso e altri su cui torneremo) e indiretti come Marcel Duchamp. Pur partendo da posizioni cubiste, il suo Nudo che scende le scale (Philadelphia Museum of Art), realizzato nel 1912 dopo una serie di studi preliminari, fu rifiutato dai cubisti del Salon des Indépendants perché considerato provocatorio nei confronti della loro poetica. Sebbene lo stesso Duchamp non considerasse questa sua fatica vicina alla pittura futurista, non si possono negare affinità evidenti con le ricordate sculture di Boccioni e altre opere futuriste che, peraltro, l’artista francese ebbe modo di vedere, nel febbraio del 1912, visitando la mostra dedicata a Les peintres futuristes italiens presso la Galleria Bernheim-Jeune di Parigi. Studiando fotografie di sé stesso nell’atto di scendere le scale, realizzate con il metodo di Marey, Duchamp conquistava la sintesi dinamica della forma e interpretava in maniera totalmente nuova l’immagine del nudo, ormai lontanissimo dal «famoso “ideale di bellezza” di cui tutti parlano genuflessi», come avrebbe detto Boccioni. Anche nell’opera di Duchamp, trionfa il mito della macchina cui il corpo umano tenta di avvicinarsi: gli arti inferiori sono stantuffi, quelli superiori semiassi basculanti, la testa una molla e via di questo passo nella potente trasfigurazione della figura in un meccanismo dall’irresistibile dinamismo automatico. Quello di Duchamp rappresenta un altro caposaldo della nuova estetica della figura umana, nonostante il quadro fosse definito da un giornalista americano nella sua critica all’Armory Show di New York (1913) «l’esplosione di una fabbrica di targhe». Altrettanto significativi sono i pittori che, con maggior consapevolezza, si ispirarono all’opera di Boccioni. È indubbio, infatti, che l’acquarello il Seminatore di Conti, del 1914, richiama molto da vicino la citata Sintesi del dinamismo. In altri casi, la linea di Boccioni è ripresa con esiti assai più sofisticati e, soprattutto, originali, come accade per esempio in Dinamismo di una danzatrice di Severini (1912, Milano, Collezione Ricardo e Magda Jucker, deposito Pinacoteca di Brera), che riprende e fonde insieme le soluzioni già proposte da Balla nel gruppo delle opere del 1912 rammentate all’inizio di questo testo e quelle sperimentate da Boccioni in tele come Materia (Milano, Collezione Mattioli), del medesimo anno. Nel Fuggiasco (Torino, Collezione Narciso), scolpito in bronzo nel 1927 da Mino Rosso, invece, troviamo una rivisitazione del celebre Linee-forza del pugno di Boccioni, dipinto da Giacomo Balla su carta nel 1915 e tradotto prima in modello di legno e cartone dipinti (1915-16) e poi in scultura in bronzo, nel corso di un lungo lasso di tempo che si protrasse fino al 1959. Se si prescinde dal soggetto, non è difficile leggere questa opera di Rosso (che si astrae dal dato anatomico, anche se è possibile riconoscere l’eminenza tenar contratta e il pollice ripiegato di un pugno chiuso), come la declinazione antropomorfa dell’opera di Balla. Si nota così un dinamismo direzionato che non lascia affatto dubbi sulla rappresentazione di un uomo in movimento a grandi passi, ma con un’andatura meccanica, vicina alle ricordate opere di Boccioni e tale da evocare l’assimilazione fra macchina e uomo. Tuttavia, mentre le figure di Boccioni sono ‘bioniche’, si potrebbe dire con un termine poco appropriato, ma chiarificatore, ovvero rendono il meccanismo fluido come un organismo biologico, la statuetta di Rosso rivela un incedere a scatti che rammenta quello di un burattino.
La figura meccanica
Proprio il rapporto fra figura umana e burattino è un’altra declinazione dell’iconismo futurista, il cui prototipo va rintracciato nell’Autoritratto di Filippo Tommaso Marinetti. Nota soltanto da una foto del 1914 (anno di realizzazione) la scultura ha come significativo sottotitolo: Combinazione dinamica d’oggetti. Su questa medesima linea si collocano i Personaggi di Gerardo Dottori, che perpetuano l’aspetto ironico e surreale già presentato da Marinetti. Mi riferisco in particolare al Personaggio in chiave futurista, realizzato dall’artista perugino verso il 1928 e costituito da chiavi di ferro che compongono la testa, il tronco e gli arti (Modena, Galleria Fonte d’abisso). L’ispirazione, per la verità, potrebbe essere anche dadaista, ma quel che piace sottolineare è l’attenzione a questo mondo meccanico, che pur fermo, si muove a scatti. Figura di spicco in questo percorso che ripensa la figura umana in chiave ironica e giocosa è Fortunato Depero, il quale, firmatario insieme a Balla del Manifesto per la ricostruzione futurista dell’universo, dedica un paragrafo alla teoria del «giocattolo futurista». Questo, a differenza dei giocattoli tradizionali capaci solo di «istupidire e avvilire il bambino», deve insegnargli a «ridere apertissimamente», favorirne lo «slancio immaginativo» e aiutarlo a sviluppare la «sensibilità». Obbiettivi pedagogici del tutto condivisibili anche oggi, salvo l’ultimo che dovrebbe incentivare non solo «il coraggio fisico» (e fin qui è l’intento è accettabile), ma pure la predisposizione «alla lotta e alla guerra». Tuttavia, nella produzione artistica di Depero non c’è alcuna traccia di questa violenza, mentre, a cominciare dal polimaterico La toga e il tarlo (1914), emerge un prorompente sentimento ludico che finisce per avvicinare la figura umana all’automa e alla marionetta meccanica, come dimostra, per esempio, un’opera come Meccanica di ballerini, dipinta nel 1917. L’attenzione al mondo dei bambini e a quella dei burattini è tutt’altro che teorica in Depero, il quale lavorò per il Teatro dei Piccoli a Roma, allora collocato nella Sala Verdi di Palazzo Odescalchi, negli anni in cui era frequentato anche da Sergio Tofano che, con lo pseudonimo di Sto, pubblicava Le avventure del Signor Bonaventura, un personaggio che certo fu suggestionato dall’arte grafica di Depero (M. Bussagli, Il Signor Bonaventura e Depero. Un’avventura futurista, «Art e Dossier», 184, dicembre 2002, pp. 22-26). Per il Teatro dei Piccoli l’artista trentino realizzò Balli plastici, andati in scena nell’aprile 1918 con musiche di Alfredo Casella e
coreografie di Gilbert Clavel, egittologo e scrittore franco-svizzero di grande cultura, amico intimo di Depero, il quale, per lo spettacolo, produsse una serie di marionette di cui si possiedono ancora disegni e progetti, nonché studi per i costumi dei Baffuti giganti che interpretavano la figura umana in termini meccanici e burattineschi. Il rapporto fra la figura umana e la macchina attraversa anche le altre esperienze futuriste (o comunque legate al movimento) in Europa e nel mondo: oltre al già citato Duchamp, si possono ricordare Francis Picabia, Kazimir Malevich, Gösta Adrian-Nilson e molti altri. In Gran Bretagna Jacob Epstein – uno degli esponenti del vorticismo, movimento affine al futurismo ma che se ne vuole esplicitamente distinguere – utilizza componenti meccaniche per la costruzione della figura umana, come in La perforatrice (Londra, The Trustees of the Tate Gallery), scolpita in bronzo fra il 1913 e il 1914. Gli elementi che popolano le opere di questi artisti derivano dal mondo della meccanica, dalle fabbriche. Anche se il nome vorticismo ha origine da una riflessione di Boccioni sul vortice come percorso delle emozioni provocate dall’arte, a impiegarlo per primo per la definizione di questo movimento artistico fu Ezra Pound (1885-1972) che, nel primo numero della rivista Blast, organo di stampa del vorticismo fin dagli esordi, spiega: «…il vortice è il punto di massima energia. Nella meccanica rappresenta la massima efficienza. Usiamo i termini “massima efficienza” nel loro significato esatto, cioè come verrebbero usati in un testo di meccanica». Tuttavia quello che sta scrivendo Pound non è un «testo di meccanica» e quindi il vortice si trasforma in una metafora per rappresentare «ogni concetto, ogni emozione che si presenta vivida alla coscienza in una qualsiasi forma primaria».
La dimensione esoterica
Pound fu uno degli esoteristi e degli occultisti più importanti del Novecento (D. Tryphonopoulos, Pound e l’occulto. Le radici esoteriche dei Cantos, Roma, Mediterranee, 1998). Questa considerazione autorizza una lettura simbolica del concetto di vortice e delle forme utilizzate dagli altri artisti del vorticismo, come Percy Wyndham Lewis che già nel 1912 si avvicina al problema della figura umana con soluzioni che ricordano quelle di Balla (per es. Figura futurista, Londra, Anthony d’Offay Gallery) o quelle di Depero (Figura danzante, 1914, Londra, Anthony d’Offay Gallery). La dimensione esoterica, per altro, non appartiene soltanto alla declinazione inglese del futurismo, ma è ben radicata anche in Italia. Balla – come è stato ben dimostrato (F. Matitti, Balla e la teosofia in Giacomo Balla. Verso il futurismo, catalogo della mostra a cura di M. Fagiolo dell’Arco, Padova, Palazzo Zabarella, Venezia, Marsilio, 1998; F. Benzi, Giacomo Balla. Genio futurista, Milano, Electa Mondadori, 2007, pp. 140 ss.) – faceva parte del circolo teosofico del generale Carlo Ballatore, frequentato a partire dal 1916, se non da prima, e fino al 1920, anno della scomparsa del militare. Alla luce di queste considerazioni, molte opere acquistano un significato più profondo, come pure le decisioni artistiche di Balla e le scelte dei soggetti affrontati (penso alla serie dei Vortici del 1913-14) nonché l’idea, pure boccioniana, della compenetrazione tra ambiente e figura. Leggendola alla luce di tali influssi derivati dal pensiero di Rudolf Steiner e dei suoi proseliti, si chiariscono certe affermazioni presenti nel ricordato Manifesto della scultura, dove si legge di un «trascendentalismo fisico» e del forte legame che lega «invisibilmente, ma matematicamente» le «nuove forme» da una parte all’«infinito plastico apparente» e dall’altra «all’infinito plastico interiore». Tali concetti si attagliano perfettamente anche a opere come Autostato d’anima dipinto da Balla nel 1920 (Milano, Galleria d’arte moderna, raccolta Grassi). L’idea che si ha del cosmo, infatti, è quella di un universo a quattro dimensioni nel quale la ricerca teosofica del trascendente si rapporta in maniera strettissima alle moderne ricerche matematiche e scientifiche. Ricerche che avrebbero raggiunto compiutezza estetica nelle opere di Balla, di Boccioni o di Depero (pure interessato all’esoterismo) e, in particolare, nelle sfaccettature della nuova immagine della figura umana, vero momento d’altissima creatività pittorica e scultorea. Lo dimostrano, anche, l’approccio di Balla alla moda e la volontà di riconsiderare la simmetria bilaterale della struttura umana, ‘destabilizzandola’, per così dire, con la predilezione per la linea diagonale e le abbottonature asimmetriche. Come si vede, nel futurismo l’attenzione per la figura umana è presente e pressante, con una molteplice gamma di soluzioni ‘dinamiche’ che vanno dal monumento in bronzo al gilet.
Il movimento futurista
Il futurismo, avanguardia storica di matrice italiana, fu un movimento letterario, artistico, culturale e politico fondato a Parigi nel 1909 dal poeta e scrittore Filippo Tommaso Marinetti (Alessandria d’Egitto 1876 - Bellagio 1944). Nato come corrente letteraria, divenne un movimento ‘globale’, esteso a ogni forma d’arte e attività umana con una tensione eversiva che investì tutti gli aspetti intellettuali ed esistenziali, mostrandosi come negazione di ogni convenzione. Attraverso una serie di manifesti e clamorose polemiche propugnò un’arte e un costume che avrebbero dovuto fare tabula rasa del passato e delle forme espressive tradizionali, e che in effetti si conformarono al dinamismo della vita moderna, della civiltà meccanica, proiettandosi verso il futuro e fornendo il modello alle successive avanguardie.
Il primo manifesto
Il primo dei manifesti di Marinetti, pubblicato sul quotidiano Le Figaro il 20 febbraio 1909 dopo un’anticipazione sulla Gazzetta dell’Emilia, contiene, seppure embrionalmente, tutte le linee essenziali del movimento: culto della macchina, della velocità, della tecnologia, del prodotto industriale, dell’agonismo e del vitalismo senza freni, della guerra. Dopo una parte introduttiva, Marinetti sintetizza in 11 punti i principi del nuovo movimento: «Noi vogliamo cantare l’amore del pericolo, l’abitudine all’energia e alla temerità. Affermiamo che la magnificenza del mondo si è arricchita di una bellezza nuova: la bellezza della velocità; un automobile da corsa… è più bello della Vittoria di Samotracia. Bisogna che il poeta si prodighi con ardore… per aumentare l’entusiastico fervore degli elementi primordiali. Vogliamo glorificare la guerra – sola igiene del mondo –, il militarismo, il gesto distruttore dei libertari. Canteremo le marce multicolori e polifoniche delle rivoluzioni nelle capitali... gli arsenali e i cantieri incendiati… le locomotive… i piroscafi... il volo scivolante degli aeroplani». Già al suo nascere il futurismo si connota dunque per due caratteri fondamentali: l’esaltazione della modernità, l’impeto irruento del fare artistico. L’automobile, l’aereo, la città industriale sono elevati a simbolo, come innovazioni paradigmatiche atte a mutare l’ambiente e la percezione della realtà da parte dell’uomo; la loro immagine è connessa ai concetti di dinamismo, flusso continuo, simultaneità, in contrapposizione ai canoni classici di ordine e stabilità. Al primo fecero seguito numerosi manifesti e proclami con precisazioni sempre più nette sulla tecnica espressiva che il movimento voleva imporre alle singole arti. Uno dei tratti tipici del futurismo fu proprio la vasta produzione di questi manifesti, in cui gli artisti dichiaravano i propri obiettivi e gli strumenti per ottenerli: scritti importanti in quanto consentono di valutarne non solo gli intenti ma anche in quale misura si siano attuati nei prodotti reali.
La genesi del movimento
Le conquiste scientifico-tecnologiche della seconda metà dell’Ottocento introdussero in Europa grandi trasformazioni: la diffusione del motore a scoppio e dell’elettricità, il potenziamento dei trasporti, l’uso del telegrafo e del telefono, lo sviluppo dell’industria e dell’economia impressero un’accelerazione alle società che diventarono moderne. Proprio mentre celebrava i suoi trionfi nel campo delle realizzazioni scientifiche e industriali, il positivismo entrò in una fase di rapida involuzione; si rivelò sempre più insufficiente la sua visione della realtà limitata agli aspetti fenomenici e man mano i postulati su cui si basava furono contraddetti e smentiti. Da una concezione della realtà come fatto oggettivo e lineare si passò progressivamente a una diversa percezione della complessità del reale, dove entravano in gioco elementi molteplici. Alle soglie del 20° secolo appariva minato l’intero edificio della matematica e della fisica classiche e le nuove scoperte facevano vacillare le precedenti certezze: le obiezioni di Henri Poincaré al principio di causa ed effetto, uno dei cardini del metodo positivo, la tesi dei ‘quanta’ di Max Planck (1900) che configurava una natura discontinua e imprevedibile, la teoria della relatività di Albert Einstein (1905), il quale dimostrava che la matematica e la geometria, considerate sino allora le più rigorose e assolute discipline umane, si fondavano su presupposti convenzionali e relativi. Contro i criteri meccanicisti e quantitativi applicati dal positivismo nello studio dei problemi psicologici, nella persuasione che i fenomeni mentali e psichici obbedissero alle stesse leggi della fisiologia, con la psicanalisi Sigmund Freud mostrava l’infondatezza delle vecchie concezioni psichiatriche e antropologiche contrapponendo loro la teoria dell’inconscio. Al mutamento delle coordinate conoscitive concorreva il pensiero negativo e asistematico di Friedrich Nietzsche il quale polemizzava contro l’ottimismo positivistico, i principi della filosofia ufficiale e il conformismo della morale corrente con un’opera di demistificazione che ebbe un’immediata forza d’urto. Accanto alla teoria del ‘superuomo’ di Nietzsche, interpretata spesso con arbitrarie semplificazioni, si ponevano il vitalismo e l’intuizionismo di Henri Bergson che elaborò una concezione dinamica e in continuo divenire dell’esistenza (la vita è intesa come ‘slancio vitale’, creazione continua la quale può essere rivelata solo dall’‘intuizione’, forma privilegiata di percezione che permette di superare gli schemi dell’intelletto per giungere a una più vera comprensione dell’oggetto). La visione nietzschiana portò a riscoprire il pensiero di Max Stirner che nel saggio L’Unico e la sua proprietà (1844) aveva teorizzato l’esistenza di una società anarchica, retta dall’arbitrio degli individui più egoisti e più forti. Altri orientamenti variamente riconducibili a concezioni vitalistiche e dinamiche furono, a fine Ottocento, il sindacalismo rivoluzionario di Georges Sorel, il pragmatismo di William James, la filosofia dell’azione di Maurice Blondel. Sul piano politico, tendenze nazionaliste e imperialiste da un lato e rivoluzionarie dall’altro misero in discussione le democrazie parlamentari, mentre si facevano sempre più pressanti le istanze operaie. L’Italia giolittiana, impegnata a risolvere i problemi interni derivanti dall’unità nazionale da pochi decenni raggiunta, appariva in confronto all’Europa culturalmente ed economicamente arretrata. Qui il decollo industriale avvenne all’inizio del Novecento, con un ritardo effettivo rispetto a quello delle nazioni più forti e avanzate: due date significative sono rappresentate dalla fondazione della Fiat nel 1899 e dall’esposizione universale di Torino del 1911, in cui il cinquantenario dell’Unità fu celebrato attraverso una rassegna delle conquiste del progresso scientifico e tecnologico. L’ansia di rinnovamento nasceva dall’impazienza di colmare antiche lacune, dal bisogno di un mutamento capace di cogliere i fermenti del presente in un senso più ampiamente europeo e internazionale, che, al di là di certi velleitarismi e dilettantismi, imprimeva all’azione culturale un impulso straordinario. La cultura dell’Ottocento era stata condizionata dai modelli del passato e sul finire del secolo si era anche caratterizzata per quel decadentismo che proponeva un’arte intimista, fatta di estasi e atmosfere rarefatte quale fuga dalla realtà nella dimensione del sogno. L’esigenza di un aggiornamento della cultura e della letteratura era largamente diffusa presso la giovane generazione degli intellettuali che crearono le condizioni favorevoli per lanciare, anche attraverso la fondazione di importanti riviste, le loro idee e i loro programmi. Tra i fautori più attivi e intraprendenti del rinnovamento vi furono Giovanni Papini e Giuseppe Prezzolini che animarono la stagione fiorentina nel periodo anteriore alla guerra; dopo aver dato vita, nel 1900, a un’associazione di ‘spiriti liberi’ basata su un programma anarchico e individualistico, fondarono nel 1903 la rivista Il Leonardo, aperta alle correnti di pensiero più vive del tempo. In questo contesto Marinetti, che aveva respirato l’aria cosmopolita di Alessandria d’Egitto e vissuto a Parigi i fermenti di una società moderna, ricollegandosi all’irrazionalismo filosofico e spingendo alle estreme conseguenze la confusione tra arte e vita delle poetiche di fine Ottocento, si fece promotore di un progetto volto a sovvertire tutti i modelli «passatisti» mediante una «scossa tellurica» e a riplasmare ogni dominio artistico e culturale in funzione di un mondo nuovo basato su una nuova estetica. I fondamenti del futurismo si ritrovano nelle filosofie dell’epoca: dall’estetica crociana Marinetti derivava, con riecheggiamenti deformati, la concezione della poesia come pura intuizione della realtà, libera da strutture logiche; dalle dottrine di Nietzsche e di Sorel desumeva l’esaltazione dell’energia e della volontà di potenza, allineandosi con le posizioni dei trionfanti nazionalismi; da James la visione pragmatica della vita. Nondimeno, allontanandosi dal pensiero di questi lontani maestri, Marinetti poteva conservare nella sua poetica anche un’ingenua fiducia, di tipo naturalistico e di ascendenza positivistica, nella realtà materiale intesa come essenza della creazione artistica. L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori; il maggior protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono, insieme ad altri, Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo, Carlo Carrà, Fortunato Depero. Il movimento conobbe due fasi, separate dalla Prima guerra mondiale. Lo scoppio del conflitto disperse molti artisti: Boccioni e Antonio Sant’Elia, architetto, morirono al fronte nel 1916; Carrà, dopo aver incontrato Giorgio De Chirico, si rivolse alla pittura metafisica, come anche Mario Sironi e Giorgio Morandi, i cui esordi erano stati futuristi. Sotto il profilo politico, mentre nella prima fase coesistevano posizioni confuse (accanto all’anarchismo, all’anticlericalismo e all’esaltazione delle lotte proletarie, il nazionalismo, l’antisocialismo e l’interventismo – con plateale esibizione di atteggiamenti fanatici e guerrafondai, in pieno contrasto con le altre avanguardie – che alimentarono l’humus dal quale si sviluppò il fascismo), nel dopoguerra il carattere di energia di questo movimento finì per farlo integrare e assorbire negli schemi dell’ideologia fascista, esaurendo la sua spinta rinnovatrice e soggiacendo agli stilemi della comunicazione ufficiale del regime (nel 1929 Marinetti fu nominato Accademico d’Italia).
Letteratura e teatro futuristi
Il Manifesto tecnico della letteratura di Marinetti uscito nel 1912 segnò l’inizio ufficiale del movimento letterario futurista, sostenuto da postulati di poetica che trovarono una sede dove tradursi in discussioni, polemiche (cronaca anche delle ‘serate’ concluse in gazzarra), esempi di prosa e di versi nella rivista internazionale Poesia fondata nel 1905 a Milano e diretta da Marinetti, così come la casa editrice dei Poeti incendiari. I futuristi posero a fondamento del loro programma, aderente alla nuova visione del mondo basata sulla civiltà delle macchine, il concetto di «simultaneità fra impressione ed espressione», da attuarsi attraverso la distruzione della sintassi disponendo i sostantivi a caso, l’abolizione di punteggiatura, aggettivo e avverbio, l’uso verbale dell’infinito, l’«immaginazione senza fili» implicante il predominio dell’analogia, la «soppressione dell’Io e sua sostituzione con la materia». Al centro delle formulazioni di tecnica poetica, l’imperativo a ricercare il puro accostamento di suono e a rendere la simultaneità delle impressioni visive, sonore e tattili, fino alla dissoluzione della parola, deformata e risolta in formule aritmetiche, segni musicali, onomatopee di suoni animali o meccanici. Eliminata ogni consequenzialità logica e psicologica, sostituita alla mediatezza della costruzione sintattica l’immediatezza dell’onomatopea, il futurismo promosse le ‘parole in libertà’, in cui l’esasperato associazionismo analogistico si tradusse nell’iconismo della poesia visiva («auto-illustrazione») e nella rivoluzione tipografica, ma contagiò anche lo stile espressivo dei manifesti e non rimase senza conseguenze neppure sulla vocazione letteraria dell’oratoria politica del tempo. Sorto in reazione, oltre che alla letteratura borghese dell’Ottocento, alla magniloquenza e all’estetismo dannunziani – ma anche alla nuova letteratura postpascoliana e postdannunziana rappresentata dai crepuscolari e dai vociani –, il futurismo fu per molti aspetti la metodica radicalizzazione del dannunzianesimo, e la sua involontaria parodia, dissolvendo in una profusione spesso meccanica di ‘rumori’ la sensualità verbale di D’Annunzio.
Le vantate ‘simultaneità’ liriche futuriste si risolsero il più delle volte in esperimenti velleitari, scarsi di risultati e le opere poetiche, narrative o drammatiche di Marinetti e dei suoi seguaci (Luciano Folgore, Paolo Buzzi, Francesco Cangiullo, Bruno Corra, Enrico Cavacchioli, Libero Altomare, Giuseppe Carrieri, Italo Tavolato, Guglielmo Jannelli ecc.), oppresse dalla retorica dell’antiretorica, mantengono un valore puramente documentario (così le pagine marinettiane Zang Tumb Tumb, 1914, ispirate dalla guerra balcanica). D’altra parte, l’importanza storica del futurismo risiede in questo suo attivismo pratico, in questa sua funzione disgregatrice che, fra tanti equivoci e confusioni, ebbe il merito di liquidare residui anacronistici e di «svegliare dal sonno» istituzioni letterarie fossilizzate in accademia.
Per autori più dotati, Ardengo Soffici, Corrado Govoni, Giovanni Papini, Massimo Bontempelli e Aldo Palazzeschi con la sua estrosità divertita (L’incendiario, 1905-09), l’esperienza futurista fu l’incontro fra la propria ansia di adeguamento a un piano di cultura europeo, di libertà espressiva che era pure al fondo di questo tumultuoso movimento, e una prima completa formulazione di poetica d’avanguardia.
Nel Manifesto del teatro sintetico (1915) di Marinetti, Emilio Settimelli e Corra, i futuristi proposero un nuovo dramma, rapido, alogico, irreale, che, pur con soluzioni talora aberranti, valse a sprovincializzare il repertorio teatrale. Punti programmatici: «abolire la tecnica del teatro passatista portando sulla scena l’astrazione pura, il cerebralismo, la fisicofollia (Vengono: dramma di oggetti e Indecisione: sintesi tattile di Marinetti); bandire la farsa, la commedia e il dramma borghesi sostituendo loro le forme del teatro futurista (le battute in libertà, la sensazione sceneggiata, la discussione extralogica); creare con la folla, mediante un contatto continuato, una corrente di confidenza senza rispetto». Il pittore Enrico Prampolini, nei manifesti Scenografia futurista (1915) e Atmosfera scenica futurista (1923) precisava i principi della scenosintesi, architettura di piani e superfici bidimensionali; della scenoplastica, o gioco e contrasto tridimensionale di forme, volumi e architetture; della scenodinamica quadridimensionale, architetture cromatico-luminose in gioco nello spazio; nel Teatro magnetico (1925) presentava lo «spazio come l’unico attore» (pantomime al Teatro della Madeleine di Parigi, 1926).
Le arti figurative e visive, l’architettura
L’11 febbraio 1910 Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini lanciarono dalla ribalta del Teatro Chiarella di Torino il Manifesto dei pittori futuristi, integrato di lì a poco dal Manifesto tecnico della pittura (11 aprile). La prima grande mostra delle opere futuriste si tenne alla Galleria Bernheim-Jeune di Parigi (1912) seguita da altre a Berlino, Londra ecc., accompagnate sempre da dichiarazioni. Alla programmatica necessità di un totale distacco dal «culto snobistico dell’antico che soffoca l’arte», e di una piena adesione alla vita moderna corrispose un’intensa elaborazione teorica dei concetti di dinamismo, simultaneità, compenetrazione dei piani, in un ampio ventaglio di sfumature, dalla sintesi soggettiva di Boccioni (La città che sale, 1910-11; Stati d’animo e Dinamismo di un ciclista, 1911) all’analisi oggettiva della rappresentazione dinamica come sequenza o traiettoria di Balla (Ritmi del violinista e Bambina che corre sul balcone, 1912; Automobile+velocità+luce, 1913), alla ricerca di una struttura di matrice cezanniana in Carrà (I funerali dell’anarchico Galli, 1911; La galleria di Milano, 1912), di effetti ritmici nella frammentazione della forma e del colore in Severini (Danse du Pan-Pan au Monico, 1911-12; Dinamismo di una danzatrice, 1912), alla simultaneità come sintesi mnemonica in Russolo (La rivolta, 1911). Ricerche che affondavano le loro radici nel divisionismo e più ampiamente nella cultura europea tra simbolismo e decadentismo e trovarono stimoli fecondi nella contemporanea esperienza cubista, dalla quale i futuristi, tuttavia, presero le distanze per la fondamentale diversità d’impostazione del movimento: per il cubismo la scomposizione rendeva possibile una visione del soggetto fermo lungo una quarta dimensione spaziale; il futurismo, in polemica con la staticità del cubismo (P. Picasso e G. Braque), utilizzava la scomposizione per rendere la dimensione temporale, il movimento. Il cubismo adotta un impianto architettonico, basato su linee rette; il futurismo è interamente curvo: cerchio diventa ellissi e poi elica, «movimento fino alle vertigini». Rifacendosi a Eraclito, nel secondo manifesto i futuristi dichiaravano: «Il gesto per noi non sarà più un momento fermato del dinamismo universale: sarà la sensazione dinamica eternata come tale. Tutto si muove, tutto corre, tutto volge rapido. Così un cavallo da corsa non ha quattro zampe: ne ha venti e i loro movimenti sono triangolari». La pittura futurista contiene tre nuove concezioni: quella che risolve la questione dei volumi nel quadro, opponendosi alla liquefazione degli oggetti conseguente alla visione impressionista; quella che traduce gli oggetti secondo le linee e forme forze e i colori forze che li caratterizzano; quella dello stato d’animo che vuol dare l’ambiente emotivo del quadro, sintesi dei diversi ritmi astratti di ogni oggetto. Il più tardo Manifesto dell’aeropittura – di Marinetti e Mino Somenzi, 1929, riproposto nel 1931 a firma di Balla, Depero, Gerardo Dottori, Fillia (Luigi Colombo), Tato (Guglielmo Sansoni) – enuncia il principio delle prospettive aeree: i moti a spirale e mutevoli del volo, che non hanno un punto fermo e sono un’incessante e graduata moltiplicazione di forme e colori con dei crescendo e diminuendo elasticissimi. Dipingere dall’alto impone «eliminazione del dettaglio e sintesi trasfigurante»; le parti del paesaggio appaiono in volo «schiacciate, artificiali, provvisorie, appena cadute dal cielo»; il quadro o complesso plastico di aeropittura deve essere «policentrico» (Dottori, Aurora sul golfo, 1935). Boccioni iniziò la scultura con una clamorosa esposizione nella galleria La Boëtie di Parigi (1912) preceduta dal Manifesto tecnico della scultura che affermava la necessità di partire dal nucleo centrale dell’oggetto che si vuole creare, per scoprire le nuove leggi, cioè le nuove forme che lo legano invisibilmente ma matematicamente all’«infinito plastico apparente» e all’«infinito plastico interiore». La nuova plastica sarà dunque la traduzione nel gesso, nel bronzo, nel vetro e in qualsiasi altra materia, dei piani atmosferici che legano e intersecano le cose (visione del «trascendentalismo fisico»: Forme uniche della continuità nello spazio, 1913).
Il campo della ricerca futurista si allargò alla fotografia (Anton Giulio Bragaglia sperimentò fin dal 1911 il fotodinamismo), al cinema (Manifesto della cinematografia futurista, di Marinetti, Settimelli, Corra, Arnaldo Ginna, Balla, 1916). Nella pratica e nella teoria agli importanti spunti sul superamento dei tradizionali campi artistici (polimaterismo) si accompagnò, con il manifesto Ricostruzione futurista dell’universo, firmato nel 1915 dagli «astrattisti futuristi» Balla e Depero, la proclamazione della totalità dell’intervento creativo, in chiave ottimistica e giocosa, impostazione che, dopo la drammatica frattura della guerra, caratterizzò l’attività della seconda generazione futurista in ambiti che vanno dall’arredamento e dagli oggetti d’uso alla moda, alla pubblicità, all’arte postale, allo spettacolo d’intrattenimento, alla gastronomia, con incalzante stesura di manifesti (delle sinopsie o trasposizioni visive della musica, di Bragaglia, Sebastiano Arturo Luciani, Franco Casavola, 1919; del mobilio, di Francesco Cangiullo, 1920; del tattilismo, di Marinetti, 1921; della cucina futurista, di Marinetti, 1930). Avanzando l’idea di un’arte totale e collettiva, tale da influire su tutti gli aspetti dell’esistenza, i futuristi ebbero l’intuizione dell’impatto della comunicazione, dell’incidenza del mezzo grafico e pubblicitario, del cinema, della radio, del foglio propagandistico, del giornalismo anche gridato.
Al centro dell’attenzione degli architetti futuristi è la città, vista come simbolo della dinamicità moderna. Nel 1914, nella mostra organizzata a Milano dal gruppo Nuove Tendenze, Sant’Elia espose le tavole della Città nuova e Mario Chiattone disegni con edifici per una metropoli futura, senza rapporti formali con il passato, estremamente industrializzata e meccanizzata. L’architettura doveva caratterizzarsi per dinamismo di masse (grattacieli, costruzioni a gradoni, con piani inclinati, corpi in aggetto, molteplicità di punti focali nella visione prospettica, linee ellittiche e oblique lontane dalla simmetria classicamente intesa), per colori forti e per il movimento degli impianti tecnologici e di trasporto veloce che collegano e attraversano gli edifici (ascensori esterni, strade sospese, ponti ferroviari, passerelle aeree). L’utopia futurista è una città in perenne mutamento, agile e mobile, enorme cantiere e conurbazione multilivello, interconnessa e integrata. Le «proiezioni megalopolitane» di Sant’Elia, cui diedero contributi Balla, Depero, Prampolini, Severini, Vinicio Paladini, anche rielaborando influenze dell’art nouveau filtrate attraverso la secessione viennese, misero l’Italia alla pari degli altri paesi europei nella ricerca artistica dell’avanguardia e videro nell’architettura uno strumento di quella ricostruzione futurista dell’universo nella quale far confluire tutte le arti rinnovate. Nessuna opera fu realizzata prima della guerra, ma dai progetti di Sant’Elia scaturì la grande rivoluzione architettonica che nel periodo postbellico mise in luce i nomi di Robert Mallet-Stevens, Le Corbusier, Theo van Doesburg. All’interno del secondo futurismo proposte creative ma episodiche per una modernizzazione in un paese per molti versi arretrato vennero da Depero per un’architettura tipografica (padiglione del libro alla II Triennale di Milano, 1927), Alberto Sartoris (padiglione degli artigiani alla mostra internazionale di Torino, 1928), Guido Fiorini (padiglione all’esposizione coloniale di Parigi, 1931), dagli ambienti di Fillia e Pippo Oriani, dai progetti fantastici di Ottorino Aloisio, Cesare Augusto Poggi, Virgilio Marchi e altri, da Giuseppe Terragni (monumento ai caduti a Como, 1931-33, su disegni di Sant’Elia).
La musica
Due manifesti sulla musica, apparsi nel 1910 e 1911, proclamavano tali criteri: concepire la melodia come sintesi dell’armonia e considerare le definizioni di maggiore e minore, eccedente e diminuito come un unico modo cromatico atonale; valutare la «enarmonia» una grande conquista futurista; creare la polifonia fondendo armonia e contrappunto; infrangere il dominio del ritmo di danza borghese; guardare alla strumentazione sotto l’aspetto di universo sonoro incessantemente mobile; combattere i critici, lo «stile grazioso», i conservatori. Teorico e compositore più noto fu Francesco Balilla Pratella (L’aviatore Dro, 1911-14), altri aderenti Silvio Mix e Casavola. Una manifestazione vicina alla musicale fu quella dell’Arte dei rumori creata nel 1913 da Russolo e presentata in Italia, a Parigi e Londra, con una prima orchestra di «intonarumori», strumenti che intonano e regolano armonicamente e ritmicamente i rumori anziché i suoni propriamente detti.
Il futurismo nel mondo
Il futurismo ebbe vasta risonanza in Europa e in altri paesi, generando o influenzando, talora con un polemico interscambio di stimoli, altri movimenti d’avanguardia. Francia, Inghilterra, Germania, Svezia Le esperienze ottiche di Georges-Pierre Seurat, le conquiste coloristiche dei fauves, l’intellettualismo dei cubisti e l’orfismo teorizzato dal poeta Guillaume Apollinaire – che, in occasione di una mostra a Berlino nel 1912, parlò di ‘cubismo orfico’ riferendosi al modo di dipingere per cerchi concentrici del gruppo di Robert Delaunay, Frantisek Kupka, Francis Picabia, e a tutte quelle manifestazioni coloristiche che «riscaldano» la rigorosa e fredda monotonia del cubismo – si incontrarono con l’arte del futurismo, tesa a enunciare le proprie teorie sulla velocità, la prospettiva e gli effetti cromatici. Nonostante l’impegno di Marinetti, però, il futurismo non divenne mai un movimento francese. Apollinaire firmò nel 1913 il Manifesto dell’antitradizione futurista. Delaunay, Felix Delmarle, Marcel Duchamp, Raymond Duchamp-Villon, Fernard Léger, Picabia furono tra i pochi artisti interessati alle manifestazioni futuriste, condividendone alcuni principi. Delmarle, legato da amicizia a Severini con cui divideva un atelier, fu l’unico pittore che si dichiarò apertamente futurista, pubblicando sul Paris-Journal il Manifeste futuriste contre Montmartre (1913). Le sue opere Il porto (1913-14) e Gatti (1913) richiamano nel segno grafico lo stile di Boccioni confermando rapporti con il futurismo italiano. Più che le conferenze di Marinetti del 1910 o l’esposizione parigina del 1912, fu una mostra di Severini a Londra nel 1913 a creare il terreno favorevole per la ricezione delle idee futuriste in ambiente inglese. Nel 1914 prese vita il movimento culturale del vorticismo, che nella raffigurazione pittorica di forme a vortice intendeva esprimere i concetti di energia e movimento. Il termine fu coniato da Ezra Pound, assieme a Wyndham Lewis fondatore della rivista Blast: a review of the Great English Vortex, desumendolo da un’affermazione di Boccioni che definiva l’arte come risultato finale di un vortice di emozioni. Nelle aspirazioni dinamico-plastiche il vorticismo trasse spunti dalle operazioni analitico-compositive del cubismo, dall’astrattismo spiritualistico di Der Blaue Reiter e dalle istanze moderniste del futurismo. Figura rappresentativa fu Davig Bomberg, che elaborò un linguaggio tipicamente vorticista, spigoloso e duro, con giochi di linee geometriche, ritmi obliqui e colori contrastati (In the Hold, 1913-14). Aderirono al movimento i pittori Christopher Nevinson, William Roberts, Edward Wadsworth, gli scultori Jacob Epstein e Henri Gaudier-Brzeska, il fotografo Alvin Langdon Coburn. La corrente stilistica ebbe breve durata (1914-15: la guerra disperse il gruppo) ma anche un certo rilievo per essere la prima espressione di un astrattismo inglese.
In Germania, come in Francia, il futurismo non acquisì importanza determinante. Analogie esistono tra il futurismo italiano e l’espressionismo tedesco che, dalla sua nascita nel 1905 a Dresda con il gruppo Die Brücke (Ernst Kirchner, Emil Nolde e altri), subì cambiamenti nel tempo sviluppando percorsi ideologici e stilistici diversi. Nel 1911 esordì a Monaco di Baviera il movimento Der Blaue Reiter, con tendenze astratte: vi aderirono Vassilij Kandinskij, Franz Marc, Paul Klee, August Macke, artisti attenti alle manifestazioni d’avanguardia di quegli anni che trovarono interpreti anche in George Grosz e Otto Dix. L’immediatezza ricercata dai futuristi italiani, gli ‘stati d’animo’ privilegiati da Boccioni e Russolo sono risolti in chiave pessimistica e la realtà viene deformata, anche attraverso la forte accentuazione cromatica e l’incisività del segno, a esprimere il crescente ‘disagio della civiltà’.
In Svezia l’esperienza futurista più interessante è quella di Gösta Adrian-Nilsson, che assimilò e trasmise nei suoi quadri i concetti e gli stilemi del futurismo italiano (Treno rapido, 1915). Spagna
Negli anni 1916-20 il futurismo trovò una larga diffusione nella letteratura, in cui ricorre l’uso disinvolto delle ‘tavole parolibere’ – prontuari di accostamenti arbitrari di suoni e rumori –, e nelle riviste che ricalcavano le idee degli artisti italiani. In pittura aspetti del sentimentalismo uniti al dinamismo informano le opere vibrazioniste dell’uruguaiano Rafael Pérez Barradas, attivo a Barcellona e a Madrid. Teorico del vibrazionismo, che presentò pubblicamente nel 1918 alla prima esposizione personale presso le Gallerie Layetanas, Barradas si ispirò anche alle scomposizioni paesaggistiche di Soffici (Sintesi di paesaggio autunnale, 1913) per realizzare il suo Dal Pacifico alle porte di Antiochia (circa 1920). Nello stesso anno, nelle tertulias del madrileno Cafè Colonial si delineava il movimento letterario dell’ultraismo, rappresentato da Rafael Cansinos-Assens, Guillermo de Torre, Juan Larrea, Gerardo Diego e dall’argentino Jorge Luis Borges, allora in Spagna. Seguendo la scia del futurismo italiano e russo, del dadaismo e del surrealismo francese, il movimento ultraista – che si esaurì nel 1922 con la chiusura della rivista Ultra – proponeva, in polemica con il modernismo dominante nella produzione poetica dalla fine del 19° secolo, l’uso di immagini forti, anche scioccanti, l’abbandono della rima in favore dello schema libero, l’adozione di un sistema di disposizione del componimento sulla pagina capace di fondere ipertestualmente le arti plastiche e la poesia. In un articolo sulla rivista Nosotros (Buenos Aires, 1921), Borges ne sintetizzò gli intenti: riduzione dell’elemento lirico al suo elemento primordiale, la metafora; soppressione di congiunzioni e aggettivi, di nebulosità e artifici ornamentali; sintesi di due o più immagini in una, ampliandone la suggestività.
Russia, Ucraina, Polonia
Sviluppo autonomo ebbe il futurismo letterario in Russia, dove accomunò tendenze e figure dissimili e in cui, oltre a gruppi minori (Mezonin poezii, Il Mezzanino della poesia o Centrifuga), si distinguono le correnti Egofuturizm e Kubofuturizm. La prima, nata nel 1911 a Pietroburgo, ebbe come esponente principale Igor Severjanin, come canoni l’egocentrismo e l’autocelebrazione narcisista; fu la corrente più vicina al futurismo italiano, da cui mutuò neologismi e prestiti. Il cubofuturismo, il più importante di tutti i gruppi letterari che si richiamano al futurismo, si sviluppò a Mosca con figure di rilievo come Vladimir Majakovskij, David Burljuk, Viktor Chlebnikov, accomunate dall’esigenza di rompere con la convenzione poetica e sperimentare nuovi e rivoluzionari mezzi espressivi. La nascita del movimento risale al 1913 con la pubblicazione della raccolta-manifesto intitolata «Schiaffo al gusto del pubblico»), in cui si sostenevano il rifiuto iconoclastico del passato, la rivendicazione di indipendenza dal futurismo italiano, la valorizzazione dell’involucro fonico della parola in quanto entità autonoma. Dall’ultimo postulato scaturì la creazione della zaum´, lingua transmentale o translogica. La Rivoluzione d’ottobre spazzò via tutti i gruppi, salvo quello moscovita, che aderì al nuovo regime illudendosi di poterne rappresentare l’arte ufficiale, e si batté poi per un’arte che, pur al servizio del socialismo, si caratterizzasse per forme e tecniche innovative, conciliando individualismo e collettivismo. La rivista LEF («Fronte di sinistra delle arti»), fondata nel 1923 e diretta da Majakovskij, unì futuristi, costruttivisti, formalisti e vi collaborarono i nomi più brillanti che la Russia potesse contare in quegli anni: tra questi, Isaak Babel´, Boris Pasternak, Sergieij Ejzenstejn, Aleksandr Rodcenko, Viktor Sklovskij, Boris Ejchenbaum. Da ultimo il gruppo lottò per la sopravvivenza, in una società che stava divenendo ideologicamente sempre più intollerante; il suicidio di Majakovskij (1930) pose fine all’illusione di un’alleanza fra l’avanguardia e la rivoluzione. Sempre a Mosca Michail Larionov lanciò in pittura il raggismo, con un manifesto alla mostra «Il bersaglio» (1913). In una sintesi di cubismo, futurismo e orfismo, il raggismo creò forme spaziali risultanti dall’intersezione di raggi riflessi da vari oggetti e convenzionalmente rappresentati da tratti di colore; nella parziale traduzione italiana del manifesto (1917) al termine raggismo fu preferito radiantismo. All’esposizione futurista 0.10 allestita a Pietroburgo nel 1915 Kazimir Malevich inaugurò il suprematismo, pittura astratta e geometrica che si fonda sulla supremazia della pura sensibilità nell’arte, distaccata dalla realtà naturale. Mychajl Semenko, esponente principale del futurismo ucraino, pubblicò a Kiev la raccolta Kverofuturizm (Querofuturismo, dal lat. quaero «cerco», 1914), in cui confluiscono tratti di ego- e cubofuturismo; verso il 1930 anche questo movimento fu ridotto al silenzio
In Polonia il futurismo si sviluppò tra il 1917 e il 1922 a Cracovia e a Varsavia, con la pubblicazione dei Manifesty futuryzmu polskiego («Manifesti del futurismo polacco», 1921) dei poeti Anatol Stern e Bruno Jasieƒski. Tra i maggiori sperimentalisti Tadeusz Peiper, fondatore della rivista Zwrotnica («Lo scambio», 1922-27), l’organo più audace del novecentismo polacco.
Giappone
Negli anni 1910-20 le teorie del movimento italiano approdarono in Giappone per la mediazione diretta di Marinetti, conosciuto sia per la traduzione del primo Manifesto sia per il contatto epistolare che teneva con numerosi artisti del luogo. Esempi dell’influenza della pittura futurista sono Vista perpendicolare di una città attraverso gli alberi di Tetsugaro Yorozu e l’Uomo che si è messo il cappello (1920) di Seiji Togo. In seguito, su impulso di David Burljuk, il futurismo giapponese si distaccò da quello italiano per assumere caratteristiche più vicine a quello russo, sensibile a temi social-rivoluzionari.
Stati Uniti e America Latina
Negli Stati Uniti il tramite principale per la conoscenza del movimento futurista fu la mostra parigina del 1912, dove il pittore Joseph Stella, italiano di nascita ma americano d’adozione, conobbe Carrà e Severini, iniziando poi a realizzare opere convergenti verso forme astratte, in cui il gioco frammentato di luci e colori modella ambienti urbani e industriali con effetti di energia e dinamismo (Battaglia delle luci: Coney Island, 1913). Lo stile successivo, meno concitato (Ponte, 1920-22), riflette l’interesse dell’artista per il cubismo.
Nell’America Latina il futurismo è accettato in maniera marginale e solo nelle espressioni che più si accostano allo stridentismo, movimento fondato dal poeta Manuel Maples Arce a Città del Messico nel 1921. Come il futurismo, lo stridentismo rifiuta il passato, inneggia alla bellezza delle macchine, delle industrie e all’interventismo bellico, ma si dissocia dal movimento italiano e da Marinetti nella propensione verso le parole in libertà: il linguaggio per Maples Arce è un mezzo di comunicazione troppo importante per poter essere reso intelligibile solo a pochi iniziati.