G20
Il Club dei Grandi
Il G20 della crisi
di Marta Dassù e Roberto Menotti
27 giugno
Preceduto dal G8 nella vicina località di Huntsville, si tiene a Toronto il G20. L’unico accordo sostanziale raggiunto dai capi di Stato e di governo dei 20 paesi più avanzati riguarda il dimezzamento entro il 2013 del deficit e la stabilizzazione del rapporto debito-PIL entro il 2016. Invece sulla crescita e sulla tassazione delle banche ogni paese è lasciato libero di decidere in autonomia.
I limiti della governance globale
La domanda essenziale a cui rispondere, dopo due anni di vertici del G20 a livello di capi di Stato e di governo, è se il Gruppo delle principali economie del mondo sia riuscito a gettare le basi di una governance globale. La risposta, come si vedrà, è necessariamente ambigua. È indubbio che il passaggio dal G8 al G20 abbia segnato, di per sé, la presa d’atto della nuova distribuzione del potere internazionale, caratterizzata dall’ascesa di potenze come la Cina, l’India, il Brasile, tutte sedute ormai al tavolo dei Grandi. Ed è vero che il coordinamento nel G20 ha contribuito, nel 2008-09, ad arginare la crisi finanziaria, con le sue conseguenze sull’economia reale. Ma è vero anche che resta difficile parlare di una gestione collettiva efficace dell’economia globale: se i vertici del G20 hanno risposto a una congiuntura drammatica, non hanno per ora prodotto accordi sostanziali né sulle regole della finanza internazionale (nuove regole sono state in effetti introdotte, ma in ordine sparso, dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea) né sul futuro del sistema monetario o degli accordi commerciali.
Le ragioni sembrano chiare. Da una parte, il superamento della fase acuta della crisi finanziaria ha ridotto gli incentivi ad accordi multilaterali: quale foro di consultazione informale, il G20 funziona meglio nelle emergenze che non in tempi normali. D’altra parte, le due potenze decisive del G20, gli Stati Uniti e la Cina, restano entrambe, anche se in modo diverso, potenze ‘sovraniste’; poco disposte, cioè, ad accettare regole e istituzioni globali che non controllino più (gli Stati Uniti) o non controllino ancora (la Cina). Su questo sfondo, il G20 ha espresso la cooperazione possibile e necessaria fra vecchie e nuove potenze economiche, ma ne ha anche mostrato i limiti.
Origini e formato del nuovo Club dei Grandi
La sigla G20, in realtà, precede la crisi finanziaria del 2008: è il formato in cui si sono riuniti – dal 1999 in poi e come risposta all’onda lunga della crisi asiatica – i ministri delle Finanze e i governatori delle Banche centrali. L’effetto della crisi del 2008, nata nel cuore del sistema finanziario occidentale, è stato di portare il G20 a livello dei capi di Stato e di governo: alla prima riunione di Washington, nel novembre di quell’anno, sono seguiti gli incontri di Londra (aprile 2009), Pittsburgh (settembre 2009), Toronto (giugno 2010) e Seul (novembre 2010). Come meccanismo di consultazione al vertice, il formato G20 (o GX, come poi si vedrà) sembra consolidato: «Abbiamo designato il G-20 quale foro primario della nostra cooperazione economica internazionale», si legge infatti nel comunicato finale del vertice di Pittsburgh.
Rispetto al vecchio formato G7/G8 – nato negli anni 1970 sotto l’impatto della prima crisi petrolifera e allargatosi alla Russia nel 1999 – il G20 ha aperto il club dei Grandi anche alle potenze che fino al 2008 venivano definite ‘emergenti’ (prime fra tutte la Cina) e che sono poi diventate motori della crescita globale. Sono così rappresentati, nel formato G20, più dei due terzi del PIL e della popolazione mondiali.
La composizione dei partecipanti (Arabia Saudita, Argentina, Australia, Brasile, Canada, Cina, Corea del Sud, Francia, Germania, Giappone, India, Indonesia, Italia, Messico, Regno Unito, Russia, Stati Uniti, Sudafrica, Turchia, Unione Europea) è sufficientemente eterogenea da includere tutte le aree regionali (accanto ai quattro paesi europei già membri del G8, siedono sei paesi asiatici, tre paesi islamici, tre paesi latino-americani e il Sudafrica). Da questo punto di vista, il G20 potrebbe in qualche misura riequilibrare le carenze rappresentative di altri fori istituzionali, a cominciare ovviamente dal Consiglio di sicurezza dell’ONU, il cui allargamento, in discussione da decenni, continua a scontrarsi con veti incrociati.
Tuttavia, il criterio di appartenenza non è quello dell’equilibrio regionale in quanto tale: lo dimostra, per esempio, la sottorappresentazione del continente africano. Al tempo stesso, i membri del nuovo club dei Grandi non sono i primi 20 paesi nella graduatoria del PIL: se fosse adottato questo criterio, altri quattro paesi europei sarebbero davanti rispetto ad Arabia Saudita, Argentina e Sudafrica. Ma la realtà è che l’Europa appare già sovrarappresentata con i quattro membri originari del G8 – Francia, Germania, Italia, Regno Unito – a cui si aggiungono gli organismi dell’UE (il presidente della Commissione e del Consiglio) ed eventualmente, come avvenuto nel caso della Spagna, le presidenze a rotazione dell’Unione. Il criterio per la membership, in conclusione, è un mix non del tutto coerente (e sempre esposto a nuove adesioni) di peso economico e rappresentanza geografico-culturale.
L’ascesa del G20, nel fuoco della crisi economica più grave dal secondo dopoguerra in poi, ha azzerato una serie di ipotesi precedenti di allargamento del G8, che ruotavano attorno a ingressi più selettivi: l’ipotesi di un G13 (con l’aggiunta dei cinque paesi del cosiddetto processo di Heiligendamm, avviato nel 2006: Brasile, Cina, India, Messico e Sudafrica) oppure di un G14 (numero che nasceva dalla volontà di includere anche un paese come l’Egitto, secondo lo scenario auspicato dall’Italia). Questa accelerazione, letta come simbolo dello spostamento del potere globale da Occidente verso Est, ha suscitato aspettative eccessive. Al tempo stesso, ha paradossalmente favorito la sopravvivenza del G7/G8 come nucleo like-minded rispetto all’eterogeneità del G20.
Il meccanismo G20 è spesso visto in contrapposizione alle istituzioni internazionali create nel secondo dopoguerra, basate su trattati. C’è evidentemente una differenza molto rilevante fra il multilateralismo istituzionale varato dalla Conferenza di Bretton Woods alla metà del 20° secolo e il multilateralismo à la carte, informale, dei vertici fra i Grandi: il risultato di questa doppia dimensione è un processo abbastanza caotico (Richard Haass, presidente del Council on foreign relations, ha parlato di «multilateralismo pasticciato»). Ma questo non significa che sia anche un processo a somma zero (Alexandroff 2010). La consultazione fra Grandi, infatti, risulta efficace quando riesce sia a coordinare le politiche nazionali sia a orientare azioni e strumenti degli organismi internazionali.
Per la gestione di crisi finanziarie, decisiva è naturalmente l’interazione con il Fondo monetario internazionale. Il secondo vertice del G20, nell’aprile 2009 a Londra, ha per esempio direttamente concordato di triplicare le riserve del Fondo monetario internazionale per limitare gli effetti di contagio della crisi. Il successivo vertice di Pittsburgh, nel settembre 2009, ha poi concordato un Framework for strong, sustainable and balanced growth, quale impegno collettivo dei governi e delle istituzioni finanziarie internazionali, cui sono fra l’altro affidati compiti di monitoraggio.
Resta che – discutendo le ripercussioni della crisi dell’euro e gli sviluppi delle strategie di ripresa – il vertice di Toronto, nel giugno 2010, ha dovuto invece registrare l’esistenza di impostazioni diverse fra i fautori degli stimoli fiscali (anzitutto gli Stati Uniti) e i fautori del rigore finanziario (anzitutto la Germania): sfumata l’urgenza più drammatica legata alla crisi finanziaria, sono riemerse divergenze fra le posizioni nazionali, diplomaticamente ricomposte nel comunicato finale del vertice. A due anni dall’inizio della crisi finanziaria, il G20 ha conseguito più che altro un ‘accordo sul disaccordo’.
Nel corso del 2008-09, il G20 ha utilizzato il supporto e l’expertise tecnica di un organismo come l’OCSE: è nata da questa interazione (e su impulso particolare dell’Italia) la definizione di ‘standard’ globali, ossia di norme generali di riferimento per gli attori dell’economia internazionale.
Il G20 si è anche dotato di un proprio organismo ‘tecnico’, il Financial stability board (presieduto dal governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, e a sua volta frutto di un upgrading del preesistente Financial stability forum collegato al G8). Un dato interessante è che il Board, oltre ai 20, include anche la Spagna, a conferma della natura flessibile dei formati che possono o potranno emergere dal G20 come tale.
Fra il G20 e il GX: l’economia a quattro velocità
L’impostazione funzionale del G20 dovrebbe consentire – anzi consigliare – di non appesantirne la struttura, puntando invece a creare sottogruppi tematici, secondo una logica a geometria variabile e con eventuali allargamenti ad hoc per le singole questioni. Se è vero che il potere internazionale è più diffuso, più frammentato e più settoriale di un tempo (Missiroli e Grevi 2010), una struttura flessibile potrebbe insomma essere più adatta a gestire i problemi globali, rispecchiando l’evoluzione delle dinamiche economiche.
Secondo una classificazione adottata dall’OCSE nel Rapporto sullo sviluppo globale del 2010 (Perspectives on global development 2010: shifting wealth), possono essere identificate, in base al reddito e il tasso di crescita pro capite, quattro categorie di paesi, in un’economia mondiale a quattro ‘velocità’: affluent, convergent, struggling e poor.
Il G20 è costruito attorno alle prime due categorie di paesi classificati dall’OCSE (con qualche aggiunta di paesi struggling) e ne sancisce la ‘convergenza’, anche sul piano simbolico, attraverso il coordinamento. Ma è chiaro che questa classificazione è per sua natura temporanea, proprio perché collegata alla variabilità dei tassi di crescita. Dal G20 si potrebbe passare a un GX.
Il modello di un’economia globale a quattro velocità supera ovviamente la vecchia divisione Nord-Sud. Il rapporto dell’OCSE sottolinea invece la crescita rapida di scambi e interdipendenze Sud-Sud (sia di prodotti sia di capitali): si tratta di un trend rafforzato dalla crisi economica, dal momento che Cina, India e Brasile hanno ripreso più rapidamente dei vecchi paesi ‘affluenti’ la traiettoria di una crescita elevata.
L’intensificarsi dei legami Sud-Sud indica però un possibile rischio per il futuro del G20, ossia la formazione di ‘assi’ contrapposti, che in qualche modo potrebbero riproporre una spaccatura (invece che favorire la convergenza) o comunque frammentare il quadro globale. Nella fase attuale sembra un rischio secondario, data anche la centralità della relazione Stati Uniti-Cina (un G2 di fatto, che tutto sommato nessuno ha interesse a definire apertamente come tale). Molti dei problemi affrontati dal G20 (in campo monetario e commerciale, anzitutto) sono in effetti collegati all’interdipendenza quasi simbiotica tra le due economie transpacifiche, con i loro riflessi globali e il loro impatto sull’Europa.
In effetti, una classificazione diversa – ma utile a cogliere gli squilibri globali – potrebbe essere quella fra grandi paesi in surplus e con una crescita trainata dalle esportazioni (come la Cina e la Germania) e grandi paesi in deficit, ma con una forte domanda interna (come gli Stati Uniti). L’esistenza del G20 non è per ora riuscita a generare sforzi nazionali convergenti: la premessa, insomma, di un riequilibrio globale. Ma ha creato incentivi in questa direzione: è indicativo, per esempio, che Pechino abbia annunciato il parziale sganciamento dell’ancoraggio del renminbi al dollaro non durante il dialogo strategico con gli Stati Uniti (cosa che sarebbe stata impossibile: le scelte del governo cinese vengono in ogni caso presentate come decisioni puramente nazionali e non dettate dall’esterno) ma in vista del vertice G20 di Toronto, a cui la Cina non voleva trovarsi isolata.
Ciò conduce a una prima conclusione: la funzione politica del G20 potrebbe in effetti consistere nei meccanismi di pressione impliciti – non vincolanti ma condizionati, non dichiarati ma taciti e quindi più accettabili anche per le potenze in ascesa – che derivano dall’appartenenza stessa al Club dei Grandi.
Obiettivi e aspirazioni: il dilemma europeo nel G20
Le questioni più dibattute rispetto al ruolo e alla possibile evoluzione del G20 possono essere collocate lungo tre assi: legittimità (o rappresentatività), efficienza (capacità di raggiungere un consenso), efficacia (capacità di attuare le decisioni assunte).
Sul problema della legittimità, le obiezioni sono minori rispetto a quelle tradizionalmente rivolte al G8; ma è abbastanza evidente, per le ragioni esposte sopra, che la questione della rappresentatività tenderà a spingere verso allargamenti ulteriori (una parte degli esclusi preme già in questo senso) e, parallelamente, verso la creazione di sottogruppi funzionali. Difficilmente, insomma, il processo G20 si cristallizzerà nel formato iniziale del 2008-10.
Quanto all’efficienza, una visione possibile è che il G20 funzioni meglio con un mandato ristretto: come luogo di coordinamento, in particolare, per affrontare e prevenire future crisi finanziarie. Solo progressivamente – questa la tesi – il G20 potrebbe espandere le proprie competenze ad altre materie, non solo economiche, configurandosi così come una sorta di steering committee della governance globale.
Di fatto, il G20 a livello di capi di Stato e di governo si è inizialmente concentrato sulle questioni finanziarie direttamente legate alla crisi esplosa nell’autunno del 2008. Questa scelta ha garantito un buon grado di efficienza (gli accordi di Londra e di Pittsburgh) ma non ha prodotto un’efficacia più a lungo termine delle decisioni assunte, come dimostrato dal successivo vertice di Toronto del giugno 2010.
È abbastanza evidente, del resto, che le questioni finanziarie, sebbene decisive in quanto tali, sono anche il prodotto di squilibri attinenti all’economia reale: una capacità di governance internazionale richiede quindi impegni più complessivi e convergenti (anzitutto sulle politiche fiscali) da parte dei governi nazionali. Al G20 di Toronto questo passaggio non è riuscito. Il punto è che quanto più l’agenda si allarga, tanto più diventa difficile raggiungere un consenso: un processo di progressivo ‘slittamento’ dell’agenda è già stato vissuto dal G8, con pessimi risultati in termini di efficacia.
La tendenza a espandere le competenze potrebbe d’altra parte rivelarsi inarrestabile, almeno sul piano delle dichiarazioni di principio o di intenti: alla vigilia del vertice di Toronto, per esempio, il segretario al Tesoro americano, Timothy Geithner, indicava come terza priorità sull’agenda del G20 (dopo le riforme finanziarie e l’uscita dalla recessione) altre ‘sfide globali’ di grande portata, come lo sviluppo e gli approvvigionamenti energetici. L’amministrazione Obama sta quindi investendo una buona dose di capitale politico nel G20, come quadro di riferimento preferenziale entro cui esercitare la leadership americana. Questa posizione degli Stati Uniti – oggi favorevole a un multilateralismo pragmatico, basato su partnership funzionali con le grandi economie – garantisce lo sviluppo del G20; ma non ne assicura il successo. Resta da verificare quali saranno i margini possibili di compromesso fra le grandi economie di oggi: interdipendenti ma restie a vincolarsi a un sistema di governance globale che non sia interamente controllato dagli Stati nazionali. Questo significa che il processo di consultazione informale fra Grandi potrebbe restare dominante, producendo uno sforzo continuo di coordinamento piuttosto che veri e propri accordi sovranazionali.
La realtà, infatti, è che affrontare la questione dei modelli sostenibili di crescita – come il G20 ha cominciato a fare con il vertice di Pittsburgh – significa andare al cuore della distribuzione (o ridistribuzione) di costi e benefici, rischi e opportunità per i singoli paesi; è cosa ben diversa dalla risposta di emergenza a una crisi globale, per quanto drammatica. In altri termini, esiste un evidente salto di qualità nel passaggio eventuale da una sorta di ‘unità di crisi’ a una sorta di steering committee del mondo globale, a cominciare dal fatto che il secondo caso riapre la questione dei requisiti di legittimità (politica se non giuridica).
Questo punto pone dilemmi specifici all’Europa, la quale è il solo attore ad avere sperimentato, nel proprio continente, forme di integrazione sovranazionale e quindi più incline a una governance economica globale costruita su veri e propri trattati multilaterali (da un Trattato post-Kyoto sul clima al compimento del Doha Round in campo commerciale). Il problema è che l’Europa, mentre propone un multilateralismo efficace, tende anche a complicarlo con la frammentazione della propria rappresentanza nei fori istituzionali.
Guardiamo meglio al paradosso europeo. Le proposte iniziali del G20 includono alcune idee di riforma del mandato e della struttura di governo del Fondo monetario internazionale e della Banca Mondiale. In qualunque scenario, la riforma delle istituzioni di Bretton Woods prevede un trade-off fra vecchie rendite di posizioni (quelle dell’Europa in particolare) e nuove aspirazioni dei paesi (Cina, India, Brasile), cui si chiede di assumere responsabilità globali.
Attualmente, l’Europa è sovrarappresentata in tutti gli organismi internazionali, formali e informali. Nei fatti, gli Europei occupano la metà dei seggi del G8, un terzo di quelli del Consiglio di sicurezza e del G20, e detengono un terzo circa dei diritti di voto nel Fondo monetario internazionale e nella Banca Mondiale. È una situazione lontana dalla realtà del potere internazionale di oggi e che, d’altra parte, non garantisce all’Europa nel suo insieme una vera capacità di influenza: la marginalità europea al vertice di Copenaghen sul clima, nel dicembre del 2009, ne è stata una bruciante conferma. La conclusione è molto semplice: la riduzione dei seggi nazionali europei è condizione di un aumento di influenza dell’Unione Europea, che è la principale potenza commerciale del mondo ma che è priva di un peso politico globale commisurato.
Uno scambio del genere – fra presenza (degli Europei in ordine sparso) e influenza (dell’Unione Europea) – è anche la condizione per rendere più credibile la filosofia multilaterale del Vecchio continente.
Il condominio del 21° secolo?
Lo scenario più probabile, a breve termine, è il seguente: il G20 sembra destinato soprattutto a servire da ‘ombrello’ per vari altri formati ad hoc, in parte già esistenti come il G8, in parte in evoluzione come il G4 dei paesi BASIC (Brasile, Sudafrica, India, Cina), in parte dettati dalla dimensione degli interessi economici e strategici in gioco, come il dialogo diretto fra Stati Uniti e Cina.
È difficile che il G20 diventi invece il foro esclusivo, proprio perché la sua stessa nascita riflette la notevole mobilità e complessità degli assetti internazionali: qualunque forma possa assumere la governance globale, sarà comunque la geometria variabile a prevalere.
Un quesito di fondo, ma ancora senza risposta, riguarda la coesione interna al G20, data la distanza fra i sistemi politici del nucleo originario del G7 e il Beijing consensus (autoritarismo politico combinato a economia di mercato) sperimentato e ormai promosso dalla Cina. È evidente, infatti, che le variabili principali saranno di natura interna, prima che internazionale: in che modo evolverà il modello cinese? Per una parte degli analisti della Cina, la crescita economica porterà gradualmente il paese a diventare nel tempo una democrazia controllata di tipo asiatico; per i catastrofisti, il modello non reggerà e la Cina conoscerà una crisi di fondo, con onde d’urto globali.
Anche escludendo scenari estremi, non sarà facile, per il G20, trovare un punto di equilibrio lungo i tre assi sopra ricordati (legittimità, efficienza, efficacia). È abbastanza scontato che chi vorrà criticare il formato del G20 riguardo ai primi due criteri lo farà mediante il terzo, sottolineando cioè una carenza di risultati concreti.
L’efficacia delle decisioni assunte, del resto, farà tutta la differenza. Ci dirà se il G20 possa configurarsi come una sorta di ‘condominio’ o ‘gruppo di contatto’ allargato, adatto a gestire il passaggio ai nuovi equilibri del 21° secolo e capace di compensare, almeno per una fase transitoria, il deficit di governance internazionale.
Il G20 assolverà questo compito se riuscirà a responsabilizzare vecchie e nuove potenze: se – in altri termini - non punterà a modificare gli equilibri di potenza ma invece a collegare potere e responsabilità sul piano internazionale, spingendo gli Stati ad agire in una direzione cooperativa, quindi potenzialmente utile all’intero sistema (compresi gli esclusi).
In questo senso, la funzione essenziale del G20 sarà di fungere da catalizzatore di consenso, per impegni nazionali condivisi e per orientare l’azione di organizzazioni internazionali che dovranno a loro volta riformarsi. Ciò presuppone, d’altra parte, che tale ruolo-guida sia riconosciuto dall’intero sistema.
Nello scenario migliore, il G20 darà vita a un multilateralismo funzionale – che alcuni descrivono come un sistema di governance hub and spokes (The G-20: A «global economic government» in the making? 2010) ossia a raggiera – di cui gli Stati Uniti tenteranno in ogni caso di restare al centro attraverso formati GX. Nel caso peggiore, il G20 fallirà, assieme al primo vero tentativo di coordinamento fra le potenze del 20° secolo e le nuove potenze economiche in ascesa. Un caso realmente peggiore perché la storia ci dice che sono proprio fasi come queste – di rapido spostamento degli equilibri internazionali – a potere sfociare in conflitti.
Economia e politica ai tempi della globalizzazione
Le fasi della globalizzazione
Con l’espressione ‘globalizzazione dell’economia mondiale’ si descrivono fenomeni diversi, che rappresentano più aspetti dinamici dello stesso processo di internazionalizzazione: liberalizzazione, apertura e integrazione internazionale dei mercati di merci, servizi, capitali, lavoro e tecnologia.
La tendenza all’internazionalizzazione dell’economia mondiale non è un fenomeno nuovo, come non lo è la maggior parte delle conseguenze della globalizzazione. Nel corso del tempo ci sono stati diversi periodi nei quali l’integrazione dell’economia mondiale è stata particolarmente rapida e intensa e già nel 16° sec. esistevano legami fortissimi tra paesi che erano anche molto distanti fra loro. La prima fase del moderno processo di globalizzazione, caratterizzata da un’imponente crescita dei flussi di capitali e dei flussi migratori, e dal raddoppio del commercio mondiale, si pone tuttavia fra il 1870 e il 1914. La tendenza dei paesi ad aprirsi nei confronti dell’esterno, sospinta da politiche di liberalizzazione commerciale e dallo sviluppo della tecnologia, che aveva ridotto i costi di trasporto (in particolare grazie a invenzioni come quella del motore a combustione interna), restò comunque limitata a un numero ristretto di nazioni industrializzate e venne bruscamente interrotta fra le due guerre mondiali, quando, complice anche la crisi del 1929, si verificò un ritorno al nazionalismo e al protezionismo. Commercio, flussi di capitale e migrazioni riscesero ai livelli del 1870, mentre povertà e disuguaglianza aumentavano.
Una seconda fase, dal 1960 al 1980, ebbe caratteristiche parzialmente diverse da quella precedente, soprattutto perché vi fu coinvolto un maggior numero di paesi. Le esportazioni, in percentuale del PIL, crebbero infatti non solo in quelli industrializzati, come all’inizio del secolo, ma anche in molti paesi in via di sviluppo (PVS), sebbene con differenze notevoli: le economie di nuova industrializzazione dell’Asia (Newly Industrialized Economies, NIEs) aumentarono nettamente i propri legami con l’economia mondiale, mentre l’Africa venne solo marginalmente coinvolta nel processo di integrazione. Inoltre, mentre nel 1980 il commercio mondiale tornava ai valori del 1914, i flussi di capitale e le migrazioni restarono su quote decisamente inferiori. In particolare i mercati dei capitali soffrirono della mancata liberalizzazione (gli unici a deregolamentare furono i paesi industriali, verso la fine degli anni 1970), mentre le migrazioni avevano una scarsa rilevanza in termini di quota della popolazione mondiale, rispetto al picco dei primi anni del Novecento.
Durante la terza fase, iniziata nel 1980, il rapporto fra i flussi di esportazioni e importazioni e il PIL è aumentato (salvo un breve momento di stallo seguito allo scoppio negli Stati Uniti della bolla speculativa della ‘nuova economia’ e alla crisi successiva agli eventi del settembre 2001), arrivando a livelli mai raggiunti in precedenza. Si è assistito, al tempo stesso, a una radicale trasformazione della struttura del commercio: sono aumentati notevolmente sia il commercio intraindustriale fra paesi con uno stesso livello di sviluppo, sia gli scambi, perlopiù interindustriali, fra paesi in fasi di sviluppo diverse. A partire dai primi anni 1990 si è accelerata anche la globalizzazione finanziaria. Sono nel contempo sensibilmente diminuiti i flussi di capitale ufficiali (inclusi gli aiuti) e aumentati gli investimenti di portafoglio e soprattutto gli investimenti diretti, che facilitano la divisione internazionale del lavoro e si orientano verso paesi e settori diversi rispetto al 19° secolo. Hanno assunto particolare rilievo gli investimenti che riducono i costi di produzione, e molte imprese dei paesi industriali hanno trasferito in paesi a basso costo del lavoro le fasi produttive a minor valore aggiunto. La diffusione delle tecnologie ha avuto una forte accelerazione; il progresso tecnico, con i suoi effetti sui costi di trasporto e comunicazione, ha ridimensionato le barriere naturali agli scambi. In questo mercato ‘globale’, le aziende multinazionali sono diventate il principale motore del crescente processo di globalizzazione. Le nuove tecnologie hanno facilitato il coordinamento di attività geograficamente distanti tra loro e hanno favorito la frammentazione dei processi produttivi e la delocalizzazione dei loro segmenti in paesi diversi, in funzione delle opportunità di crescita e di profitto delle imprese. In risposta alla forte concorrenza internazionale e al crescente bisogno di interazione strategica, le imprese hanno usato le tecnologie delle telecomunicazioni e dell’informazione per organizzare reti transnazionali. Oltre a ciò, grazie anche all’Organizzazione mondiale del commercio (World Trade Organization, WTO), le restrizioni normative alla libera circolazione di merci e capitali si sono gradualmente ridotte, le politiche commerciali di molti PVS che hanno aderito alla WTO hanno mutato indirizzo e si sono notevolmente aperte, inducendo un effetto moltiplicativo sull’espansione dei flussi di commercio e capitali. I movimenti di lavoratori, invece, sono rimasti a un livello inferiore a quello dei primi anni del 20° sec. e hanno continuato a essere regolamentati.
A questa fase di espansione è subentrata nel 2008 una brusca decelerazione del commercio mondiale di beni e servizi, a causa del marcato indebolimento delle importazioni dei paesi avanzati a cui si è aggiunta, nell’ultimo trimestre dell’anno, una caduta degli scambi che ha interessato tutte le aree del mondo.
Aspetti della globalizzazione
Il forte sviluppo del commercio e dei mercati finanziari ha dato vita a un ampio dibattito sui vantaggi e i costi della globalizzazione. Per i suoi fautori l’integrazione permette una maggiore crescita e l’apertura di nuovi mercati corrisponde a un aumento del benessere sociale. Grazie ai più intensi scambi commerciali e ai più facili trasferimenti di risorse finanziarie e umane, l’economia mondiale può infatti conseguire miglioramenti sia sul terreno dell’efficienza sia su quello della crescita. I capitali dovrebbero muoversi verso i paesi a più bassa intensità di capitale, consentendo un aumento della convergenza dei principali indicatori economici, in particolare del tasso di crescita del PIL.
La globalizzazione, spinta dall’innovazione tecnologica, ha facilitato il trasferimento di tecnologie, che a sua volta ha contribuito a un allungamento delle aspettative di vita, oltre che a un sensibile miglioramento della salute e del tasso di alfabetizzazione di molti PVS. Tra il 1970 e il 2000 le aspettative di vita sono raddoppiate in Cina (raggiungendo i 70 anni), sono aumentate di 20 anni in India (64 anni) e negli Stati Uniti sono passate da 70 a 77 anni; la mortalità infantile è calata dal 109‰ al 59‰ nei PVS e dal 16‰ al 6‰ nei paesi sviluppati. Nello stesso periodo l’analfabetismo è sceso di circa 30 punti percentuali in paesi quali Cina, India, Corea del Sud e Messico.
Tuttavia, nonostante questi dati confortanti sul miglioramento degli standard di vita, e nonostante il forte incremento dei flussi di commercio e una crescita più rapida nei PVS, non si è assistito a un aumento della convergenza fra paesi. Come viene messo in evidenza dalle nuove teorie del commercio internazionale, in condizioni di concorrenza imperfetta e rendimenti di scala crescenti viene meno la relazione tra prezzi relativi dei beni e prezzi relativi delle risorse, che costituisce la base delle ipotesi di convergenza; paesi diversi possono specializzarsi in beni diversi e mantenere tassi di crescita diversi, pur avendo forti legami commerciali e finanziari. Di conseguenza, in presenza di imperfezioni e di condizioni differenti dalla concorrenza perfetta, i principali vantaggi della globalizzazione, identificati con efficienza, maggior crescita e convergenza, possono venir meno. La globalizzazione pone anche un problema di equità: non è detto che gli eventuali benefici si distribuiscano in modo uniforme tra paesi, né all’interno di essi. Nei paesi industriali si riscontra per es. un ampliamento della differenza fra i salari dei lavoratori specializzati e non. Nei PVS si ha un aumento della disuguaglianza, dovuto probabilmente a un potere di mercato di ristrette fasce della popolazione (per es. i proprietari di risorse naturali).
I flussi commerciali. Il livello d’integrazione commerciale può essere misurato in modi diversi, ma, nonostante il problema della misurazione della globalizzazione sia molto complesso, l’indicatore tuttora più usato è il rapporto tra esportazioni e PIL. Tale rapporto, , che aveva raggiunto un livello pari a circa l’8% prima della Prima guerra mondiale, scese a un minimo storico subito dopo la Seconda guerra mondiale (5,5% circa); a partire dagli anni 1950 è cresciuto in modo piuttosto stabile, sia nei paesi industrializzati sia nei PVS. L’aumento dell’interscambio mondiale però non ha coinvolto in modo omogeneo tutti i paesi né tutti i settori produttivi. Nella prima fase, i PVS, nella misura in cui furono in grado di integrarsi nell’economia mondiale, si specializzarono in beni primari e ricevettero investimenti esteri soprattutto in infrastrutture e miniere; nel periodo successivo alla Seconda guerra mondiale i PVS che aumentarono i propri legami furono quelli che si specializzarono nella produzione di manufatti e ricevettero investimenti diretti per lo sviluppo delle capacità produttive manifatturiere. A partire dagli anni 1980, tuttavia, i PVS hanno iniziato – o ripreso, come nel caso dell’America Latina – a partecipare più attivamente al commercio mondiale, e l’integrazione ha coinvolto un numero sempre maggiore di paesi. Il caso più eclatante è la crescente integrazione internazionale della Cina e delle NIEs, dove flussi di commercio e investimenti diretti sono aumentati nettamente più della media mondiale. Alcuni paesi e un intero continente, l’Africa, sono restati ai margini del processo di internazionalizzazione.
Come risultato di questi andamenti, il peso delle economie in via di sviluppo nel commercio mondiale è progressivamente aumentato, e si è corrispondentemente ridotto quello delle economie avanzate (dal 60% al 55% circa). Le variazioni della composizione settoriale del commercio che hanno accompagnato il processo di integrazione sono state assai rilevanti. Nel 1913 i manufatti rappresentavano il 35% circa delle esportazioni mondiali di beni (di questi il 6,3% erano macchine), nel 1955 il 45%; tra il 1985 e la metà del 2000 si è avuto un fortissimo incremento, e i manufatti hanno raggiunto il 75% (di cui il 38,3% macchine). Al contempo è scesa la quota delle materie prime (commodities come minerali e prodotti agricoli), prodotte in generale dai paesi più poveri. Nei primi anni del 21° secolo si è inoltre particolarmente intensificato il commercio di servizi. Diversi paesi dell’Asia orientale, infine, soprattutto a partire dal 2000, sono stati caratterizzati da una buona crescita del processo di integrazione commerciale all’interno dell’area, anche grazie alla creazione di ‘filiere di produzione’, per cui ogni paese si è specializzato in una particolare fase produttiva.
La maggiore integrazione commerciale verificatasi negli ultimi decenni del Novecento è stata determinata dall’interazione delle scelte di politica economica e di quella commerciale con i cambiamenti tecnologici, che hanno prodotto costi decrescenti sia nelle telecomunicazioni sia nei trasporti. Tale diminuzione dei costi ha infatti ridotto le barriere naturali tra i diversi mercati. L’evoluzione del settore dei computer e di Internet ha anche indotto e facilitato nuovi modi di produzione per tutti i settori dell’economia, con benefici per consumatori e produttori, ha stimolato il commercio di beni, e ha permesso ai mercati di funzionare per 24 ore al giorno (per es., le Borse telematiche). La tecnologia ha eroso i confini fra beni commerciabili e non, favorendo la crescita del commercio di servizi, una delle caratteristiche dominanti degli sviluppi successivi agli anni 1980. Tra i fattori di stimolo dell’integrazione commerciale, sicuramente hanno avuto un ruolo di rilievo anche i cambiamenti realizzati nelle politiche commerciali, con la riduzione delle barriere tariffarie. Un dato particolarmente significativo riguarda la Cina, dove in 10 anni (1992-2002) le tariffe medie ponderate sono passate dal 40,6% al 6,4%, variazione verificatasi nei paesi industrializzati in cinquant’anni (1950-2000).
I flussi di capitale. Dopo gli ampi flussi che avevano caratterizzato i paesi industriali fra la Prima guerra mondiale e il 1930, e il successivo periodo di stasi, la globalizzazione finanziaria ha riacquistato vigore a partire dal 1980. Questa nuova fase è stata caratterizzata da un aumento particolarmente elevato dei flussi di capitale privato verso i PVS. Parallelamente a tale aumento sono diminuiti fortemente gli aiuti ufficiali allo sviluppo; inoltre la composizione dei flussi privati si è notevolmente modificata, con uno spostamento verso gli investimenti diretti all’estero, che sono divenuti la categoria più importante. Questi ultimi nel complesso si sono più che triplicati fra la fine degli anni 1980 e il 2000. Il rapporto fra lo stock di investimenti diretti esteri e il PIL, pari all’8% nel 1990, ha superato il 20% nel 2004, e l’aumento è avvenuto sia nei paesi industriali sia nei PVS. Questo sviluppo è particolarmente importante perché ha messo in evidenza l’esistenza di sinergie fra movimenti di capitale e flussi di commercio che non si pensava potessero esistere. A partire dal 1985, ma soprattutto dal 1995, le transazioni finanziarie sono cresciute nel complesso più velocemente del commercio. Tuttavia, mentre gli investimenti diretti sono rimasti in generale piuttosto stabili perché hanno un elemento intrinseco di irreversibilità, gli investimenti di portafoglio e i crediti bancari sono stati caratterizzati da un’elevatissima volatilità. Come per il commercio di beni, anche nell’ambito degli investimenti internazionali il peso dei paesi industriali si è notevolmente ridimensionato a favore dei PVS, sia come beneficiari sia come investitori, anche se con differenze importanti al loro interno.
Questo sviluppo dei mercati dei capitali è associato a tre fatti principali: la diminuzione dei costi di transazione (che ha spinto a commerciare in diversi strumenti finanziari), la liberalizzazione finanziaria interna ed esterna, l’interazione fra globalizzazione reale e finanziaria (un aumento dei flussi di commercio tende infatti a indurre maggiori movimenti dei capitali che devono finanziare gli scambi). L’integrazione delle economie nazionali attraverso i movimenti di capitali non è molto diversa da quella che avviene con il commercio di beni e servizi, né per quel che riguarda le cause (sfruttamento di opportunità di profitto offerte dall’arbitraggio) né per le conseguenze. I movimenti di capitali permettono ai paesi di trarre beneficio dalle loro diversità, attraverso trasferimenti di risorse in luoghi dove queste sono più produttive e possono avere effetti positivi, con un aumento dell’efficienza dei mercati finanziari.
L’internazionalizzazione della produzione. L’espansione del commercio internazionale e la liberalizzazione dei movimenti di capitale, grazie anche alla diffusione delle nuove tecnologie, hanno portato una maggior concorrenza a livello internazionale. Le imprese, al fine di essere più competitive nei differenti mercati e nelle diverse aree geografiche, hanno pertanto iniziato a trasferire all’estero il processo produttivo, in parte oppure interamente, in modo tale da ridurre i costi laddove uno o più fattori della produzione (generalmente il lavoro) sono meno costosi e più abbondanti, e in modo da raggiungere più facilmente i mercati di sbocco o di approvvigionamento delle materie prime, sfruttando inoltre, in alcuni casi, le esternalità positive derivanti dalla presenza di altre imprese o istituzioni nel paese estero in cui hanno deciso di investire.
A partire dagli anni 1990, la frammentazione della produzione, con la delocalizzazione di alcune fasi all’estero, anche in subappalto (outsourcing), ha coinvolto in misura maggiore il settore dei servizi (in particolare quelli delle telecomunicazioni e dei servizi alle imprese). Molte di queste attività (ricerca e sviluppo, back office, call center, programmazione di software, data entry ecc.) risultano infatti più semplici da trasferire all’estero, per la minore necessità di contatto diretto con la ‘casa madre’ e i progressi nelle nuove tecnologie della comunicazione e dell’informazione. Hanno inciso in tale processo anche la deregolamentazione e la liberalizzazione nel settore dei servizi, e i maggiori investimenti nell’istruzione in paesi quali l’India e la Cina, che hanno aumentato l’offerta di lavoro qualificato rendendola disponibile a un costo più basso rispetto a quello delle economie avanzate. Il fenomeno dell’outsourcing di servizi, iniziato negli Stati Uniti alla fine degli anni 1980 e notevolmente diffusosi nel corso degli anni 1990, ha subito una progressiva trasformazione: inizialmente limitato ad attività non particolarmente qualificate, quali quelle di back office, si è riorientato verso quelle con un più alto valore aggiunto.
I flussi di lavoratori. La globalizzazione dell’economia mondiale si è manifestata, specialmente nel passato, con migrazioni di lavoratori, che inducono un abbassamento del costo del lavoro nel paese di destinazione e fanno aumentare il reddito nel paese di origine, attraverso l’invio di rimesse. Inoltre le migrazioni di ritorno permettono di trasferire esperienze e tecnologie nei PVS. Fra il 1870 e il 1914 circa 36 milioni di persone lasciarono l’Europa alla ricerca di nuove opportunità. Si diressero nelle Americhe e indussero un forte aumento della produttività nelle industrie caratterizzate da eccesso di offerta di lavoro. Il flusso degli emigranti in seguito diminuì, soprattutto dopo l’introduzione di misure protezionistiche a difesa dei lavoratori nazionali indotte dalla Grande depressione del 1929. Negli anni 1960 e 1970 i movimenti migratori ripresero, soprattutto dal Sud verso l’Europa settentrionale, e a partire dal 1985 hanno registrato un ritmo crescente, soprattutto dai paesi della sponda meridionale del Mediterraneo e dall’Asia. Questo aspetto della globalizzazione tuttavia è meno sviluppato che in passato: basti pensare che la quota della popolazione mondiale residente in un paese diverso da quello di origine era il 3% circa all’inizio del 21° sec., contro il 10% circa all’inizio del 20°.
La maggior parte delle migrazioni avviene fra PVS o da PVS verso paesi industriali, al contrario del commercio di beni, prevalentemente intraindustriale, e dei movimenti di capitali, dove i flussi bilaterali tendono a essere prevalenti. È probabile che le migrazioni possano essere il meccanismo che porterà a una convergenza dei salari a livello globale, anche se per il momento tale fenomeno non si è verificato. Le rimesse degli emigranti rappresentano una delle più ampie fonti di finanziamento esterne dei PVS.
Le politiche economiche. L’influenza delle politiche economiche in presenza di mercati dei capitali integrati dipende dal sistema dei cambi in vigore e, forse, una delle conseguenze principali della maggiore libertà dei flussi di capitali e dell’integrazione finanziaria è il fatto che è diventato più difficile mantenere tassi di cambi fissi e condurre una politica monetaria indipendente, con obiettivi interni. La globalizzazione ha ulteriori importanti effetti sulla condotta della politica economica in generale e monetaria in particolare. Sono cambiati infatti, a seguito della maggiore integrazione finanziaria, i meccanismi e i canali di trasmissione della politica monetaria, ma soprattutto è aumentata nettamente la necessità di coordinamento.
Tuttavia, nonostante l’aumento dell’integrazione internazionale avutosi nel 20° sec. sia anche il frutto di scelte di politica economica, il grado di coordinamento di tali politiche non ha proceduto in misura corrispondente all’elevata integrazione commerciale e dei mercati finanziari, neanche nella seconda metà del secolo. La maggior parte dei paesi ha infatti continuato a decidere e perseguire politiche monetarie e fiscali che davano la priorità a obiettivi interni, anche se questi erano in contrasto con l’internazionalizzazione. Se non coordinate in ambito internazionale, anche le politiche tradizionalmente considerate ‘di competenza interna’, come la fissazione di standard di qualità, la sicurezza dei lavoratori, le politiche antitrust, la regolamentazione ambientale e delle tasse, influenzano la concorrenza internazionale e rischiano di essere usate in modo discriminatorio, andando in direzione opposta rispetto ai processi di internazionalizzazione in corso. Per es., per la tutela dell’ambiente, in assenza di accordi internazionali vincolanti, l’adozione di misure particolari, come il divieto di importare beni con particolari caratteristiche, può mascherare l’intento di attuare politiche commerciali restrittive e si possono creare strategie unilaterali di dumping ambientale. L’indirizzo prevalentemente ‘domestico’ delle politiche monetarie e fiscali (cioè la fissazione di obiettivi indirizzati unicamente a risolvere squilibri interni, senza la preoccupazione dei riflessi delle misure prese al di fuori dei propri confini) e alcune misure di protezionismo selettivo adottate da parte dei paesi industrializzati hanno costituito, fra il 1960 e il 1990, una minaccia ai processi di integrazione mondiale.
In seguito, tuttavia, si sono registrati decisi progressi, in particolare per quel che riguarda le politiche commerciali. A partire dalla fine degli anni 1980, infatti, l’aumento dell’integrazione e la globalizzazione dei mercati nell’area della politica commerciale sono divenuti evidenti: dal 1986 hanno aderito al GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) 24 PVS e molti altri ancora al suo successore, la WTO, nata il 1° gennaio 1995 quale sede privilegiata di confronto per la regolamentazione del commercio internazionale. Fanno parte della WTO 153 paesi, pari a più di quattro quinti della popolazione mondiale e a oltre il 90% del commercio mondiale. Il grande numero di adesioni all’organizzazione e la crescente rilevanza che essa ha assunto non sono stati però sufficienti a risolvere le numerose divergenze commerciali. Negli anni, infatti, sono aumentate anche le critiche e la sfiducia nei confronti delle capacità della WTO di dare adeguate risposte ai problemi economici dei PVS e, per quelli meno avanzati, di riuscire a contenere efficacemente i rischi di marginalizzazione, sempre più accentuati in un contesto di crescente integrazione mondiale. Alcuni importanti nodi, come il timing dell’abolizione dei sussidi agricoli e il problema dei diritti di proprietà, rimangono irrisolti. Parallelamente, di fronte al lento e difficoltoso avanzamento dei negoziati multilaterali, si è andata affermando la tendenza a dare maggiore spazio alla contrattazione commerciale nel quadro di accordi bilaterali o di accordi regionali, piuttosto che in ambito multilaterale.
Riferimenti bibliografici
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