ALBURQUERQUE (anche, erroneamente, Albuquerque), Gabriel De La Cueva duca di
Nato nel 1525,di nobile famiglia castigliana distintasi nelle guerre di riconquista, contava tra i titoli ereditari quello di marchese di Cuegliar, visconte di Huelma e duca di Alburquerque. Della sua vita in patria si sa che, già in età matura, sposò Giovanna della Lama, giovanissima nobildonna di elevata educazione e di non comune bellezza, che lasciò vedova a soli ventisei anni.
Nel 1564 l'A. venne nominato governatore di Milano, succedendo al duca di Sessa; fece il suo ingresso il 16 aprile e il 26 pubblicò la prima grida. Remissivo e conciliante, reigiosissimo, riguardoso del Senato e delle istituzioni milanesi e tuttavia legittimamente preoccupato del prestigio della Corona spagnola, nel suo lungo periodo di governo (1564-7 1) dovette continuamente occuparsi delle grandi controversie tra il potere laico e il cardinal Borromeo a proposito della giurisdizione ecclesiastica: talvolta direttamente e personalmente interessato, altre volte come arbitro fta l'arcivescovo e le magistrature milanesi.
Nel governo di Milano, pur confacendosi alle linee generali della politica spagnola, cercò di assecondare l'individualità e l'autonomia dello stato. Nell'ancor notevole attività che Milano esercitava nel campo internazionale, l'A. ebbe pure gran parte. Intervenne nella questione di Casale, che si dibatteva in quegli anni, aiutando Guglielmo Gonzaga a ristabilirvi l'ordine dopo le sollevazioni dei Monferrini (giugno1565); ma poco dopo dovette costringerlo a mitigare i drastici provvedimenti presi contro la città, temenck, che dell'esasperazione dei Monfermi potesse approfittare il duca di Savoia per annettersi la città, a scapito delle pretese spagnole. Motivi di ordine religioso lo indussero a limitare i rapporti tra Milano e la Svizzera e tra Milano e la Germania; solo la necessità di non soffocare l'economia dello stato, che si reggeva in gran parte sul commercio, gli consigliò in seguito un notevole allentamento delle restrizioni.
Nell'amministrazione interna lasciò fare in genere alle magistrature milanesi; riconobbe al Senato le funzioni di organo consultivo del governatore; non nascose mai però una certa gelosia per l'invadenza del ceto patrizio. Per quanto eminente, la sua figura fu tuttavia limitata dalla presenza del Borromeo, la cui personalità dominò ogni altra nel ventennio dal 1565 al 1584.
L'A., che aveva preceduto di un anno la venuta del cardinale a Milano, lo aveva accolto con solennità e onore il 23 sett. 1565. Appena questi si era accinto alla visita pastorale della diocesi, aveva emanato una grida ordinando a tutti di prestargli aiuto ed assistenza nell'opera di riforma. Nonostante questi inizi, ai primi del 1566 si ebbe già un primo screzio. L'A. nelle funzioni che si tenevano in cattedrale pretendeva di avere la precedenza sul cardinale, in qualità di rappresentante del re. Il Borromeo, temendo che ciò potesse interpretarsi come simbolo della preminenza del potere civile sull'ecclesiastico, vi si oppose, facendo pervenire a Filippo II una protesta, mentre l'A. si asteneva dall'intervenire alle solennità religiose, in cui si poteva dar luogo alla controversia. Il re, che in un primo momento aveva approvato tale comportamento, riconobbe poi al Borromeo il diritto di precedenza: del che l'A. si mostrò pienamente acquietato.
Assai più gravi le questioni che intanto nascevano tra l'arcivescovo e il Senato.
Nel novembre del 1565 il Borromeo aveva tenuto a Milano il sinodo provinciale e subito ne aveva dato all'A, un sommario da mandare in Spagna, chiedendogli anche l'appoggio per l'esecuzione dei decreti. Ma il Senato intervenne presso l'arcivescovo pretendendo di subordinarlo al suo placet,specialmente per quanto riguardava le deliberazioni sui laici: anche per i decreti pontifici il Senato dichiarò che solo col suo assenso potevano essere resi esecutivi. Questa volta l'autorità dell'A, indusse i senatori ad abbandonare le loro pretese. Ma l'atteggiamento del governatore spiacque ad un organo così geloso della propria autonomia e di lì a poco, ad insaputa dell'A., adducendo a motivo l'imprigionamento di un pubblico peccatore da parte del bargello arcivescovile che ne aveva avuto mandato dal Tribunale ecclesiastico, fece arrestare (luglio 1567) il bargello stesso, il capo dei birri, che costituivano la cosiddetta "famiglia armata",di cui l'arcivescovo si serviva per antica consuetudine nei procedimenti penali canonici, anche contra laicos:diritto che veniva invece contestato dal Senato.
Questa volta i tentativi di conciliazione dell'A. furono inutili e non valsero nè ad indurre il Senato ad un atteggiamento più remissivo, nè a fermare i drastici provvedimenti presi dal Borromeo e da Pio V, quali la scomunica degli autori dell'arresto e la citazione a Roma di alcuni senatori. L'A., che doveva contemporaneamente placare le reazioni ecclesiastiche, salvare l'autorità del suo governo e difendere la sua personale posizione nei confronti di Madrid, sperava in trattative dirette col Borromeo: ma queste non ebbero successo.
Mentre la questione continuava ad essere discussa a Roma dal marchese di Cerralbo, inviato di Filippo Il, l'A. a Milano si mostrava sempre più freddo con l'arcivescovo e sempre più intenzionato a difendere l'autorità regia sia contro la preponderante personalità del Borromeo sia contro le invadenze del Senato. Ad inasprire i rapporti si aggiunse anche la pubblicazione della bolla In coena Domini.
Alla vigilia di Pentecoste del 1568 l'A. aveva fatto sapere al vicario, in assenza del Borromeo, che non sarebbe intervenuto alla processione se vi avesse partecipato la famiglia armata dell'arcivescovo. Lo aspettava invece un'altra sorpresa: alla presenza sua, del Senato e di altri magistrati il vicario lesse la recente bolla di Pio V In coena Domini.Il contenuto di essa non era diverso da quelle altre volte pubblicate: tutela delle libertà ecclesiastiche, braccio secolare, ininiunità del clero, ecc. Anche l'accenno al divieto delle imposte non era nuovo: ma il popolo vi intravvide subito la speranza di i essere sollevato da qualche gravezza.; perfino ufficiali "preposti alle gabelle si fecero scrupolo di coscienza a riscuoterle" (Bendiscioli, La bolla "In coena Domini"..., p. 393).
L'A. prospettò al Borromeo gli inconvenienti della pubblicazione della bolla. Era chiaro che le gabelle "irregolarmente riscosse", cui accennava la bolla, erano quelle che si pretendevano dal clero immune, ma questo aveva volentieri favorito l'interpretazione più larga. Di fronte al pericolo di un accordo tra il popolo e il clero, l'A. riconobbe con il cardinale di dover fare "qualche provvisione alla esenzione del clero"; il Borromeo da parte sua, riconosciuto che il popolo interpretava la bolla "un poco più a favore suo di quello che è veramente", assicurò che non avrebbe mancato di disingannare alcuno che 1questa bolla non leva le gravezze affatto". (Bendiscioli, cit., p. 394). Ma la risposta non tranquillizzò l'A. completamente.
Ritenne l'A. di provvedere a restaurare la propria autorità, emanando il 25 ag. 1568 un severo decreto, con cui vietò "sotto pena de la vita et confiscationi de' beni a... ogni sorta di persone addette al Tribunale ecclesiastico" di esercitare la loro giurisdizione sui laici; a tutti poi di violare in qualsiasi modo la giurisdizione regia. Il Borromeo reagi ancora prontamente; memoriali, lettere e dispacci corsero tra Milano, Roma e Madrid, sicché all'A. parve opportuno far marcia indietro. Il 28 dic. 1568 in un messaggio al Senato dichiarava che i la mente nostra è stata ed è che in tutto si conservi e mantenga la giurisdizione ecclesiastica e che in niuna parte o punto le sia derogato, nè se le faccia pregiudizio alcuno... come avanti la pubblicazione della grida, del 25 agosto (Orsenigo, Vita di S. Carlo,in S. Carlo Borromeo nel terzo Centenario...,pp. 261-262).
Sembravano così appianate le divergenze; e per suggellare l'accordo e obbligare ancor più l'A. Pio V, forse su consiglio del Borromeo, decise di conferire la Rosa d'oro alla moglie del governatore: onore singolarissimo, da regina, che a Milano era stato concesso solo un'altra volta, da Callisto III a Francesco Sforza nel 1456. Benedetta dal papa nella domenica Laetare del 1569 (20 marzo), la Rosa d'oro fu portata alla duchessa dal legato pontificio Guglielmo Bastone, e consegnatale in duomo nel corso di una solenne cerimonia il 1maggio successivo.
Ma la quiete durò poco, per lo scoppio di un'altra grave questione. Quando, continuando l'opera di riforma, il cardinal Borromeo volle sottoporre a visita i canonici di S. Maria alla Scala, che godevano di una certa esenzione dalla giurisdizione dell'ordinario, essi si ricusarono di ricevere la visita pastorale e respinsero l'arcivescovo con le armi in pugno. Questi ne diede subito relazione all'A., che però la respinse, appoggiando i canonici, forse anche perché S. Maria della Scala era di patronato regio. Anzi l'A. scrisse al papa chiedendo l'allontanamento del Borromeo da Milano per ristabilire la pace. Pio V rispose con una ferma e calda difesa dell'opera dell'arcivescovo, ma non riusci a far cambiare atteggiamento all'Alburquerque. Fu solo la contemporanea opposizione degli umiliati e soprattutto l'attentato del Farina contro il Borromeo a riavvicinare l'A. all'arcivescovo: l'A. corse a rallegrarsi con lui dello scampato pericolo e volle che immediatamente si rintracciasse l'assassino, che venne poi giustiziato. Intanto anche i canonici della Scala avevano fatto atto di sottomissione.
Questa volta la pace fu definitiva. In realtà gli atteggiamenti talvolta energici dell'A. non erano dettati da avversione, ma dalla necessità di non lasciare l'iniziativa al Senato e soprattutto di non apparire troppo tiepido nel difendere l'autorità regia, non tanto di fronte a Filippo Il - di cui invece interpretò esattamente la politica ecclesiastica - quanto ai suoi ministri. Al Borromeo del resto prestò sempre volentieri aiuto nell'opera di riforma religiosa: emise provvedimenti in favore degli inquisitori, emanò gride contro il lusso e per l'osservanza della quaresima, fece bandire gli eretici. Per quanto fossero stati aspri i rapporti con l'A. essi furono certo assai migliori che con i successori, specie il Requesens e il d'Ayamonte.
Quando l'A. improvvisamente mori, a soli quarantasei anni, il 21 ag. 1571, il Borromeo sospese la visita pastorale a cui attendeva per rendere omaggio alla salma. Fu uno dei pochissimi governatori morti a Milano; gli si fecero solenni funerali e venne sepolto nella chiesa di S. Vittore agli Olmi.
Fonti e Bibl.: A. Sala, Documenti circa la vita e le gesta di San Carlo Borromeo,Milano 1857-61, II e III, passim; L. Serrano, Corresp. diplomdtica entre España y la Santa Sede durante el Pontificado de S. Pio V, Madrid 1914, voll. 4, passim; F. Bellati, Serie de' Governatori di Milano dall'anno 1535 al 1776 con istoriche annotazioni, Milano 1776, p.4; F. Piferrer, Nobilario de los Reinos y Señorios de España, II, Madrid 1855, p. 226; C. Orsenigo, Vita di S. Carlo Borromeo, in S. Carlo Borromeo nel terzo Centenario della canonizzazione, Milano 1909-11, pp. 261-262; M. Bendiscioll, L'inizio della controversia giurisdizionale a Milano tra l'arcivescovo Carlo Borromeo e il Senato milanese (1566-1568), in Arch. stor. lombardo, LIII (1926), pp.241-280 C 409-462; Id., La Bolla "In coena Domini" e la sua pubblicazione a Milano nel 1568, ibid., LIV (1927), pp. 381-400; L. v. Pastor, Storia dei Papi, VIII, Roma 1929, pp.274 ss., 278 ss., 307; O. Santoro, Milano d'altri tempi. Milano 1938, pp. 214 ss.; L. Serrano, Primeras negociaciones de Felipe II con el Papa S. Pio V, in Hispania, I (1940), pp. 110 ss.; L. Papini, Il Governatore dello "Estado" di Milano (1535-1706), Genova 1957, pp. 64 ss., 153 ss.; M. Bendiscioli, Politica, amministrazione e religione nell'età dei Borromei, in Storia di Milano, X, Milano 1957, passim; Enciclopedia universal ilustrada, IV, Barcelona s.d., p. 202.