Gabriele D'Annunzio: Poesie teatro prose
Si può presentare d'Annunzio in forma antologica, con la sola eccezione di Alcyone? Potremmo ricordare a nostro favore come egli stesso curasse un volume delle sue Prose scelte, non ribellandosi affatto all'idea di sciogliere dal loro «legame musaico» passi di opere quali i romanzi che di solito piace considerare come opere organiche, con parti di più e di meno risalto, secondo una legge di economia propria d'ogni opera d'arte. Si potrebbe anche osservare che il fatto stesso di non sentire tale avversione, e di presentare la sua opera scelta come un repertorio di modelli esemplari di stile (nell'Avvertimento si riporta un passo della epistola dedicatoria preposta al Trionfo della Morte: «Concorrere efficacemente a costituire in Italia la prosa narrativa e descrittiva moderna: ecco la mia ambizione più tenace», ecc.) è abbastanza indicativo degl'interessi dell'artista, e ci assolve in ogni modo dall'accusa di far cosa ripugnante alla sua natura e alla sua volontà. Un'altra ragione della scelta, allegata in quell'Avvertimento, è puramente contingente, e non ne abbiamo affatto tenuto conto: «Gli animi casti, i quali si astennero dall'accostarsi alle creature del romanziere pei timore della perigliosa materia in cui furono foggiate, troveranno qui raccolto il fiore più salubre e più puro». Ragione, si noti, che contraddice curiosamente a una dichiarazione fatta poche righe sopra nello stesso Avvertimento: «Cosicché noi possiamo considerare questo libro compendiario . . . come una rassegna dei caratteri dominanti nell'opera di un ventennio pieno», quasi che si potesse dare dell'opera di d'Annunzio un'idea esatta limitandola alle pagine accettabili dagli animi casti.
E non è per ottemperare al gusto pel frammento, diffuso in un certo periodo di questo secolo ma che risale a una famosa osservazione di Edgar Poe - che il grado d'intensità d'una composizione non può sostenersi per una durata considerevole - che abbiamo accettato la forma antologica, ma per una ragione propria e peculiare all'arte del d'Annunzio, che subito esporremo fin dall'inizio, dopo aver detto come si sia fatta eccezione per Alcyone sia per l'alta qualità della maggioranza delle poesie contenute in quel libro, sia per la sua organizzazione sinfonica che ai tempi elegiaci alterna quelli ditirambici, presentandoci così la completa fisonomia dell'artista (confessiamo tuttavia di aver esitato a includere i ditirambi, che a nostro giudizio non sono all'altezza delle altre liriche per le quali l'Alcyone è meritamente considerato il capolavoro del d'Annunzio).
Sovente ci è capitato di fare riserve su un metodo critico largamente applicato, per esempio, da Lionello Venturi nei riguardi soprattutto dell'arte neoclassica da lui senz'altro identificata con l'accademia. Il metodo consiste nel sottovalutare o addirittura screditare l'opera elaborata, finita, di quegli artisti, che si sarebbero lasciati traviare da mode e convenzioni correnti, perdendo nel prodotto finale quella genuinità d'ispirazione che si rivela nei loro schizzi ed abbozzi. Così pel Venturi il gusto per l'antico avrebbe due volte nella storia dell'arte soffocato il genuino sentire: nel Rinascimento «uccidendo l'impulso creativo dei maestri medievali», e nel periodo napoleonico «uccidendo le delicate sensibilità settecentesche». A questa stregua le ambiziose composizioni di David non sono che cattiva letteratura, Canova sarebbe un temperamento d'artista settecentesco incapsulato e raggelato in uno stile superimposto, Ingres soffrirebbe della mancata fusione tra una forma d'accatto, suggerita da assurdi princìpi estetici, e un tentativo tendenzialmente romantico; e di conseguenza ciò che è vivo di questi artisti andrebbe ricercato solo nelle composizioni preparatorie e minori.
In Venturi codesto indirizzo critico era frutto d'un punto di vista sostanzialmente romantico, per cui si riconosceva validità solo a ciò che era immediato e libero prodotto della fantasia, sia in un primitivo autentico che in un Mirò e in un Klee. La sua era un'applicazione metodica d'un'osservazione a cui non si può tuttavia contestare una parte di verità. E la verità è questa: che tutti gli artisti, in maggiore o minor misura, rendono omaggio a certe mode, a certe poetiche del loro tempo, fatali non soltanto quando contrarie al loro temperamento, ma anche - e forse più - quando offrono a quel temperamento uno stampo bell'e fatto, un cliché nel quale esso può immaginare di vedere risolti i propri problemi.
Nessuno penserebbe mai, credo, di mettere in questione l'unità delle opere maggiori di uno Stendhal, d'un Flaubert, d'un Tolstoj; ma non sceveriamo forse nei romanzi di Dickens un macchinoso intreccio sovraimposto a un'ispirazione genuina di vivace macchiettista - asservimento a formule sensazionali in voga, che offrivano facili schemi al suo temperamento drammatico? A un temperamento sensuale come quello del d'Annunzio non riuscì forse altrettanto dannosa l'esistenza d'una tematica decadentistica, alla quale egli sollecitamente s'adeguò fino al plagio?
Reagendo contro un indirizzo della critica dannunziana moderna, di cui ora si dirà, Emilio Mariano ha scritto:1 «Dalle Laudi fino alla morte il d'Annunzio rischia di rimanere, a ogni pagina, uno stilista mirabile. I suoi scritti di carattere autobiografico (Faville, Libro segreto) che corrispondono a quella che la critica definì «prosa notturna», sono esemplari e si inseriscono nella letteratura italiana del Novecento; ma non corrispondono ad altrettanti atti creativi. La critica vi si è fermata con interesse, perché vi ha trovato un d'Annunzio ridotto che contraddice a se stesso, sensibile ai problemi esistenziali, umanamente ridimensionato sul denominatore della malinconia, dell'angoscia, dell'impotenza. Vengono fuori pagine ora descrittive, ora intime, piene di folgorazioni, di intelligenza, in una compagine di prosa armonizzata con sapienza e con gusto, ma non è qui il poeta».
Ma se guardiamo alla produzione più caratteristica e «creativa» (nel senso voluto dal Mariano) del d'Annunzio, va osservato che più che di poetica del decadentismo in senso lato (che comprende sì una preferenza per certi motivi, ma soprattutto, come ha notato Walter Binni,2 «un approfondimento del mondo e dell'io fino alla scoperta di un regno metempirico e metaspirituale», culminante nella « ricerca della musica come mezzo di conoscenza sopralogica, mistica»), si dovrebbe parlare, come si diceva sopra, di tematica del decadentismo. Poiché d'Annunzio, per prodigiosa che fosse la sua capacità d'assimilazione, non si assimilò mai nulla dei raffinamenti più carichi di sviluppi del decadentismo straniero (e in questo caso «straniero» vale quasi esclusivamente: francese) quali apparivano in Rimbaud, Lautréamont, Mallarmé. In tali casi il d'Annunzio non si comportò molto diversamente dai rozzi sperimentatori sulla via del decadentismo che l'avevano preceduto in Italia, quali gli «scapigliati» milanesi: fu sensibile alla facile musicalità di Henri de Régnier e di Swinburne, non a quella più complessa di Mallarmé, non cercò di quintessenziare e dissolvere la materia verbale, anzi ne accentuò la carnalità, sicché la tematica sensuale, anziché alleggerirsi in lui (come nella Hérodiade o nell'Après-midi d'un faune), troppo spesso stagnò in abbagliante mosaico.
Ma quanto alla tematica decadente, il d'Annunzio «seguitò la imprenta» di coloro che avevano inaugurato la Bisanzio anglofrancese della fin del secolo, conferendo alle loro invenzioni la speciosa eleganza di certi prodotti artigianali. Fu il d'Annunzio a presentare ai lettori italiani, in quel Poema Paradisiaco a cui il Binni assegna un posto importantissimo nello svolgimento del decadentismo italiano (sia per le dirette derivazioni dal decadentismo straniero che per l'avvio al nostro crepuscolarismo con la raffinatezza del suo languore) la donna fatale adunante in sé tutta l'esperienza sensuale del mondo, reincarnazione di Elena e di Saffo: Pamphila, figura tolta di peso dalla Tentation de Saint-Antoine di Flaubert. A dare a questa figura un colorito decisamente sadico fu determinante l'influsso dei Poems and Ballads del Swinburne che il d'Annunzio conobbe nella versione francese di Gabriel Mourey, ma il sadismo dannunziano, acquisito di seconda mano (diversa, come ha osservato Carlo Salinari,3 è la sensualità giovanile del Poeta) non ha né la coerenza né la capacità di autoironia che possiede nel Swinburne; se, prima di leggere le poesie dell'Inglese, d'Annunzio poteva, per bocca di Andrea Sperelli, rabbrividire agli «orrori del libertinaggio inglese» di cui aveva letto nella «Pali Mail Gazette» e nel Journal dei Goncourt, molto più tardi, dopo aver ampiamente utilizzato passi swinburniani nelle sue opere, e rivaleggiato col poeta inglese in evocazioni di sensualità morbosa, poteva nella Leda senza cigno (1913) scostarsi come da cosa affatto aliena da uno spettacolo di «sensualità ignominiosa» simile a quello offerto dal marchese di Mount Edgcumbe a Andrea Sperelli. Sicché può pensarsi che anche questo motivo supremamente decadente s'acclimatasse in d'Annunzio per un processo di superfetazione retorica, coincidendo con l'avvento d'un'altra figura decadente nella tematica dannunziana, quella del superuomo di marca nietzschiana. Poiché, seguitando l'impulso impressogli dal padre che «gli vietava la barbara terra d'Abruzzi finché non si fosse intoscanito incorruttibilmente», il d'Annunzio s'appropriò della cultura europea tutto ciò che a volta a volta pareva l'ultima parola. Le mode letterarie, fino alla fine del secolo scorso almeno, arrivavano in Italia pel tramite francese. Si tengano presenti certe date francesi: 1880, apoteosi di Schopenhauer; 1886, epifania del romanzo russo, mercé i buoni uffici del visconte Eugène-Melchior de Vogüé; 1885, fondazione della «Revue Wagnérienne» che consacra l'ultima infatuazione musicale; si pensi che proprio a quell'epoca il preraffaelismo inglese e il verbo di Ruskin erano accolti con gran favore in Francia; e poi si riscontrino le date dell' Invincibile (1890)4, di Giovanni Episcopo e dell'Innocente (1891),5 del Fuoco (1900). Si pensi infine alla voga di Walt Whitman e del verso libero; ed ecco che nelle Odi Navali in epigrafe alla poesia In Memoriam (1893) troviamo versi di Whitman, e in verso «liberato» di tipo whitmaniano è scritta la poesia medesima. E indubbiamente il Song of Myself ispirò il primo libro delle Laudi. Non fa meraviglia che il d'Annunzio, alle poste dell'ultima novità, tutto teso verso l'esterno, pronto ad accogliere dall'esterno motivi, filosofie, gusti, si fissasse sugli aspetti più speciosi, sugli artisti più vistosi. Un Lorrain, un Péladan saranno tra i suoi primi modelli; di un Swinburne, di un Nietzsche rileverà certe caratteristiche più evidenti, senza penetrarne le sottigliezze e le sfumature. Non si vuol risollevare qui la vecchia questione dei plagi. Se il d'Annunzio si appropriò le più disparate fonti riducendole a un comune denominatore, non fece che seguire, sia pure su vasta scala, quella che era stata la pratica dei più degli artisti di quella che potrebbe chiamarsi biblicamente l'antica legge, quando l'allusione dotta e la citazione erano il nerbo stesso dell'arte letteraria: ché se ben guardiamo agli antichi, qual è che non derivasse da altri, non si facesse la mano copiando da altri? Da Chaucer e persino da Shakespeare fino a Keats, da Ronsard fino a Baudelaire persino; da Poussin a Ingres, a Manet; e se d'Annunzio si servì di descrizioni altrui per la sua visione dell'incendio della cattedrale di Reims, non aveva fatto lo stesso Chateaubriand per i suoi viaggi d'America? A questo modo l'opera complessiva del Poeta ha finito per presentare l'aspetto d'una monumentale enciclopedia del decadentismo europeo, dalla tematica maggiore (donna fatale, superuomo, voluttà, morte, ecc.) alla minima, fino a quei fasci di rose di cui si abusa (a voler essere leziosi, si direbbe che «fan tenerezza») nel Piacere, nell'Innocente, nel Forse che sì forse che no: «Give me a rose. Andrea andò a ciascun vaso; e tolse tutte le rose, stringendole in un gran fascio ch'egli a stento reggeva tra le mani»; «Ella entrò portando nella sopravveste e tra le braccia un gran fascio di rose rosse, bianche, gialle, vermiglie, brune . . .»; le rose gettate nella neve: «Piansi per voi, d'amore; e piansi per le rose, di pietà. Povere rose! ... Se avessero calpestato le rose, mi avrebbero calpestato il cuore . . .»; «Andando al cimitero inglese, Maria teneva sulle ginocchia un fascio di rose» (Il Piacere); «Ah, quella notte delle rose! Nei vasi languivano larghi mazzi di rose bianche... Ella s'era assopita sul divano. Egli l'aveva contemplata a lungo. Poi, per una improvvisa fantasia, l'aveva coperta di rose» (Trionfo della Morte); il suicidio di Vana nel Forse che sì: «Ella posò la lama presso il fascio delle rose, per consacrarla ... Risollevò il busto per porre su i nudi piedi congiunti le rose, come ad osservare il rito del connubio funebre»; «Avevo comprato col mio gruzzolo, nella Piazza delle Erbe ... un gran fascio di rose. Le rose furono il mio solo ornamento» (Il Fuoco); «Di buon mattino le rose innumerevoli invadono la casa. S'ella fosse qui, se non si fosse svegliata ancóra, la seppellirei sotto il mucchio umido. Ella sfuggirebbe al peso, uscirebbe nuda di tra la massa fresca; e io la prenderei allora sul mucchio divenuto letto ...» (Solus ad solam). La semplicità di un simile manierismo è veramente disarmante. Ma sotto certi aspetti il d'Annunzio è un semplice, vede gli uomini in bianco e nero, o magnanimi o turpi oltre ogni dire, vede nella guerra una forza risanatrice,6 sogna, alla vigilia del discorso di Quarto, un'impresa garibaldina, che poi attuerà a Fiume.
La voce ch'egli ascolta non è certo quella della ragione, da lui disprezzata, ma, come diceva il Belli (e intendeva fare un complimento), la «vosce che vviè dda li cojjoni». Il che, in un poeta, è certo comprensibile, e magari perdonabile. Sì, qui è il poeta, come vuole il Mariano; ma s'ha proprio da cercare il vero d'Annunzio «creativo» in questo d'Annunzio tradizionale, tante volte e a sazietà smontato dalla critica, quel colosso dai piedi di creta la cui ombra ancora aduggia presso le giovani generazioni la fama dello scrittore? Non dovremo piuttosto dire che Nietzsche e Swinburne, per fare solo alcuni tra i tanti nomi, gli offrirono calchi bell'e pronti in cui riversare la sua nativa ispirazione sensuale, onde quei suoi superuomini e quelle donne fatali sui cui corpi dobbiamo oggi passare per giungere all'animo del poeta?
Forse egli aveva bisogno di tanti alimenti culturali, osserverà qualcuno avendo riguardo ai suoi princìpi. Ché a pensare che Primo vere ottenne un certo successo, parve una rivelazione addirittura, rimaniamo trasecolati in senso letterale (tanto quei tempi ci sembran lontani). «E su pe' vitrei flutti fremeano / risate amabili, vocine tremule, / ed i piedini bianchi / ad or ad or mostravansi...» Quest'alcaica carducciana Ai bagni ha un po' il gusto delle cartoline illustrate fine secolo, con nudità in calzamaglia rosa contro sfumati fondali di cartone. Eppure anche in una poesiola così «divertente» pei lettori d'oggi troviamo il gusto per l'espressione rara e sonante che sarà la malattia e il trionfo di d'Annunzio: «Ed or gli aligeri che s'inseguiano / pe 'l sereno aere guatavi: od ilare / palma battevi a palma / verso le cimbe ondivaghe ... ». Aligeri e cimbe, uccelli e barchette. Ancora alla fine della vita d'Annunzio non dirà: «E questo è vero», ma: «Giuro che questa testimonianza è verace». Per questo non gli riusciranno i dialoghi nei drammi moderni, ma solo nei drammi in cui era accettabile un linguaggio d'arte: la Francesca, la Figlia di Iorio.
Ma c'è un d'Annunzio meno lontano dalla sensibilità moderna di quello delle opere che fecero la sua fama e che risentono del gusto della fine del secolo, di quelle opere colle quali il Mariano, immagino, identifica il periodo veramente creativo del Poeta. C'è un d'Annunzio che bisogna sapere ricercare nel modo suggerito da Eleonora Duse in una lettera del 1895 al Poeta: «Chi sa guardare lontano, riduce le cose che incontra tutte in augurio ... e guarda! L'altro giorno, a questo freddo, a questa distanza . . . (da dove ?) - in vista d'un mare che dà l'angoscia, ebben, tutto intorno alle radici d'un enorme sapin, sai cosa ho trovato ? - Indovina. - Tu ridi ora - ho trovato delle foglie di viola, vive, vive e tranquille sotto la neve, come se fossero in una serra. Le ho vedute, e non ne ho staccata nemmeno una, il che vuol dire, nel solo libro che bisogna saper leggere, che quando tutta la neve sarà sciolta . . . allora ... ».
Trasportiamo al morale questo emblema, secondo un modo che al d'Annunzio piacque. Quando tutta la neve sarà sciolta, cioè quando avremo liberato d'Annunzio dal peso del dannunzianismo, suo proprio e dei seguaci; quando avremo spalato via il troppo e il vano, quando avremo tolto di mezzo, non a furia di pallate, ma con sollecita urgenza, i fantocci di neve dell'autolatria dannunziana, quelle autoconferite patenti di «operaio potente», «artista peritissimo», «tecnico infallibile», che offendono gli occhi come la grottesca attestazione della propria efficienza virile posta accanto all'ingresso dal padrone della casa dei Vettii a Pompei; quando ci saremo persuasi che molto di ciò che d'Annunzio chiamava creazione non era propriamente creazione, ma imitazione, o comunque voglia dirsi, di schemi e concetti altrui, e astratte proiezioni dell'io che la pretendevano a personaggi di dramma o di romanzo, e che la vera creazione di d'Annunzio, come bene osservò Giuseppe De Robertis (nel saggio sul Libro segreto)7 nasce allorché egli si sciolse dal pregiudizio e dall'obbligo del soggetto: quando avremo così sgombrato il campo della nostra ricerca, spazzato via tutta quella neve, troveremo le «foglie di viola, vive».
Sia il De Robertis, nel saggio ora citato, che Emilio Cecchi8 hanno osservato in d'Annunzio, il primo un affinamento per un processo d'attenuazione e alleggerimento della materia sensuale, che si fa via via più aerea e musicale, sensualità rapita fuor de' sensi; il secondo un arricchimento nella depauperazione, con parole («Per ritrovarlo nella sua vera novità, occorre cercarlo nella sua maggiore povertà e leggerezza») che fan pensare a un famoso passo dell'Ascesa al Monte Carmelo di san Giovanni della Croce («Per aver quello che non possiedi, devi fare la strada della privazione»). Alla musicalità e alla leggerezza il d'Annunzio arrivò per altra via da quella seguita dal Rimbaud e dal Mallarmé, non per la via dell'invenzione, ma per quella della limitazione: «Certo da una limitazione può nascere la più vasta vita, e una mutilazione può moltiplicare la potenza, come sa il potatore». Il De Robertis fa risalire l'origine di questo processo d'attenuazione e d'alleggerimento alla stagion di grazia dell'Alcyone. Questo d'Annunzio che così si è descritto: «Io sono il miticamente composito tra i frutti di tutti gli orti segreti » ci fa pensare a una di quelle fantastiche figure dell'Arcimboldi, che di lontano han fisonomia umana, ma analizzate davvicino risultano composte appunto di tutti frutti o di tutti fiori. Invero, se il d'Annunzio ha potuto dire: «Io sono un problema per gl'Italiani», non è perché come artista egli sia un artista problematico: i suoi stacchi di luce e d'ombra sono decisi e identificabili. Ma egli sembra, in certo modo, d'una razza a parte, «d'una remotissima stirpe», curiosamente aliena da ogni altra, denunziata da un peculiare taglio delle palpebre, dalle sue «iridi d'angelo neutro», da una strana fissità come di personaggio sumèrico: ma non c'è gran profondità di mistero in questa sottospecie mediterranea. Quel che è strano in lui è l'orientamento dell'attenzione. In una delle più belle prose, sulla genesi di Undulna. ci narra come cavalcando un mattino d'agosto lungo il mare della Versilia, cadde di sella e rimase staffato. Trascinato sulla spiaggia, nonostante la sua posizione sommamente critica, riconosceva e misurava tutte le particolarità del litorale, sentiva l'alga molle, sentiva il giglio marino che ha il greco nome del doppio ludo, si trovava insomma in quello stato d'iperacuta veggenza da cui doveva di lì a poco sgorgare l'invenzione dell'ode alcionia di Undulna. L'episodio ce ne ricorda un altro, di Henry David Thoreau che, caduto egli pure al suolo per una storta del piede, malgrado l'acuta pena fissava la sua attenzione sulle foglie dell' Arnica mollis in terra. Che ci può essere di comune tra un tipico, ascetico puritano come Thoreau, e un sensuale come d'Annunzio? Forse questo, che vedevano più addentro nella vita delle cose che in quella degli uomini?
Se invero riflettiamo all'impressione lasciataci dai romanzi di d'Annunzio, ci accorgeremo che quel che v'è di positivo non proviene dalla psicologia, ma dall'atmosfera. Del Piacere riterremo il quadro della dolce vita romana d'allora, sia pure mitizzata; del Trionfo della Morte il motivo sotteso della passione tragica di Tristano e Isotta, e l'ambiente primitivo e selvaggio d'Abruzzo; delle Vergini delle Rocce il melanconico, grandioso e malioso paesaggio leonardesco in cui il d'Annunzio ha amplificato i dati della sua terra natia, alterandone anche i nomi, e quel senso di fine di un regno e di aristocrazia in esilio che sembra preludere a certo recente atteggiamento nostalgico verso i Borboni. Riteniamo cose, uomini no. Come nei quadri dell'Arcimboldi, non abbiamo a che fare con uomini, ma con cose. A forza di atmosfera e di cose d'Annunzio cerca di creare uomini: ma accostandoci ci accorgiamo di che sostanza son fatti.
Il Cecchi, nello scritto citato, richiamava l'attenzione su una forma di composizione letteraria che, per analogia con le arti plastiche, proponeva di chiamare «astrazione decorativa». «Dal giuoco di elementi decorativi si esprimono significati complessi ed articolati, non meno perfettamente che dai versi d'una canzone, o da un poema drammatico. E quell'astrattezza, quel rapimento di forme, in un'arte allusiva invece che descrittiva e figurativa, conferiscono a tali significati una suggestione più larga, sebbene con qualcosa di misterioso. Arte ridotta a pura musica di pause e di segni ritmici».
Mi è parsa illuminante la coincidenza tra simili osservazioni che han determinato l'indirizzo odierno della critica italiana su d'Annunzio, e quanto Daniel Grojnowski ha scritto nel numero di «Critique» del marzo 1963 su Le Mystère de Gustave Moreau a proposito della recente esposizione parigina dell'opera di questo pittore in cui il decadentismo, grazie a certe famose pagine di Huysmans in À Rebours, riconobbe uno dei suoi maestri.
In Moreau l'esotismo lussurioso e sanguinario dei romantici si raggela in una sterile contemplazione; impotenza e feticismo sembrano sottesi ai princìpi estetici del pittore: il principio della bella Inerzia, e l'altro della Ricchezza necessaria. La sua Salomè che carica di gioielli sulle nude carni s'arresta in un passo di danza, magata dall'apparizione della testa mozza del Battista incorniciata da una duplice aureola, rappresenta una tal confluenza di motivi decadenti, che Huysmans poteva scrivere: «Risalendo alle fonti etnografiche, alle origini delle mitologie, di cui egli raccostava e risolveva i sanguinosi enigmi, riunendo, fondendo in una sola le leggende sorte nell'Estremo Oriente e metamorfosate dalle credenze degli altri popoli, egli giustificava così le sue fusioni architettoniche, le sue amalgame lussuose e inattese di stoffe, le sue ieratiche e sinistre allegorie affinate dalle inquiete perspicuità d'un nervosismo tutto moderno; e restava per sempre doloroso, ossessionato dai simboli delle perversità e degli amori sovrumani, degli stupri divini consumati senza abbandoni e senza speranze».
Questo il Moreau che vedeva un decadente come Huysmans; e ascoltiamo ora un nostro contemporaneo, l'autore dell'articolo in «Critique». Egli nota una contraddizione tra il pittore dei Proci, di Prometeo, che chiosa senza afflato una mitologia morta, e il creatore d'un mondo immaginario grazie all'arabesco e al colore. «Da una parte l'uomo che si esprime per allegorie, dall'altra il pittore che rivela nuove visioni a cui i miti non offrono che dei pretesti». Una frase dei Carnets di Moreau: «Esiste un al di là astratto che trasporta lo spirito e l'anima nei domini sacri e rari dell'immaginario» ha potuto essere volta a pezza d'appoggio per l'astrattismo moderno, ma rivela il suo vero significato allorché la si raccosti a quell'osservazione del Cecchi sull'«astrazione decorativa».
Sia in Moreau che in d'Annunzio l'espressione più alta va ricercata in una sensualità rapita fuor dei sensi, in una sensualità non più calata e appesantita in immagini stereotipe, bellâtres, femelles et androgynes, ma divenuta ritmo e musica stessa del pensiero. Come oggi noi ricerchiamo il d'Annunzio dell'esplorazione d'ombra, lasciando da parte il ceroplaste delle Fedre, delle Basiliole, dei Corrado Brando, dei Ruggero Fiamma, museo Grévin di tediosi fantasmi, così in Francia si cerca di relegare nello sfondo quell'aspetto di Moreau in cui per una trentina d'anni, press'a poco tra il 1880 e il 1910 (si osservi la coincidenza con le date dannunziane) i contemporanei si specchiarono ritrovandovi una immagine particolarmente conforme alla loro sensibilità.
Si rifletta a quel che il Grojnowski dice della voga di Moreau e si veda se lo stesso non possa ripetersi in Italia per la voga dannunziana: «Il mal del secolo di quella generazione in preda allo spirito positivo e satura di realismo prese la forma patologica d'una paura. Mentre le scienze e il progresso sembrano trionfare, trasformando gli uomini e il loro paesaggio, in taluni nasce un male contagioso. Si rimpiangono i tempi passati, la fede perduta. Moreau ha dapprima sedotto meno per quel che egli proponeva che per quel che egli rigettava. I soggetti che tratta, situati in sfondi immaginari, la sua atemporalità semi-favolosa, semi-onirica, han servito di rifugio a quanti non accettavano la loro epoca». Questa atemporalità semi-favolosa, semi-allucinata, non è il clima stesso del teatro e in parte del romanzo dannunziano? E a teatro e romanzo dannunziano non potrebbero attagliarsi queste altre parole dello stesso critico? «Le grandi composizioni di Moreau deludono. L'ispirazione vi è soffocata da un'esecuzione troppo carica d'intenzioni». E ancora: «Al contrario, una moltitudine di schizzi, di quadri non finiti, d'acquerelli, di piccoli paesaggi, incantano pel loro lirismo. Soltanto questo aspetto della sua opera, oggi, tocca sul vivo la nostra sensibilità». Che è precisamente quel che capita tra noi pel d'Annunzio della «prosa notturna». «In Moreau un'elaborazione troppo spinta sembra aver inceppato il libero espandersi del lirismo. I suoi disegni a carboncino e a matita per l’Apparizione, Salomè che danza davanti a Erode, mostrano che egli parte da un'immagine resa spontaneamente con modulazioni di chiaroscuro. Questi delicati abbozzi metteran capo nell'Apparizione, ricostruzione storica che l'irritante minuzia d'esecuzione e la pletora di particolari fanno naufragare nel cattivo gusto e nell'artificio ... In numero e in valore l'essenziale della sua opera è costituito da questi magnifici abbozzi, da questi fantasmi solo intravisti . . . Moreau non ha saputo dare la sua misura che nelle opere cosidette minori». E la conclusione: «Un giorno si getterà per curiosità un'occhiata sulle Figlie di Tespi e C.ia, ma ci si fermerà a lungo sulle allucinazioni dell'artista che le sue messe in opera a tutti i costi soggettive, le sue ricerche incessantemente rinnovate, impongono come il primo dei nostri pittori moderni» - tali parole non potrebbero, mutatis mutandis, ripetersi pel d'Annunzio? Ripensiamo a una frase del Cecchi a proposito del Notturno: «Ma gli abbozzi nei quali lampeggia, fra l'ingombro e le macerie delle espressioni consunte, l'intuizione delle nuove forme, ci attestano che l'artista non è mendace quando esprime quell'ansietà: «Io sono forse un frammento di avvenire, caduto di non so dove, incalzato dall'ansia dei morituri»».9 D'altronde il d'Annunzio stesso ha scritto nel Libro segreto: «Io che per tante volte mi sono compiaciuto nelle più sottili analisi e nell'assottigliare il mio strumento di ricerca fino all'insoffribile acuità, sento che se la nostra arte fosse per rinnovarsi, ella non si innoverebbe per sottigliezza ma per non so qual potente rudezza ingenua ... ».
Effettivamente, con tutto che l'ultimo d'Annunzio sia incomparabilmente più vicino alla sensibilità moderna che non quello delle opere che lo resero celebre fino a farne l'espressione suprema d'un gusto, bisogna riconoscere che la sua poetica è conforme a quelle tradizionali, e poco ha in comune con le moderne. Ho già detto che il d'Annunzio, per prodigiosa che fosse la sua capacità d'assimilazione, non assimilò mai nulla di Rimbaud e di Mallarmé, gli antesignani della poesia moderna. Basta confrontare lo Stabat nuda Aestas di Alcyone con l'Aube di Rimbaud (nelle Illuminations, 1885) che l'ha ispirata, per convincersene. Il d'Annunzio traduce nei termini, sia pur nobili e pieni di sensibilità, dell'antica mitologia, quello che in Rimbaud è un mito moderno, misto di domestico e di surreale: come chi ricopiasse Chagall nello stile di Poussin.
Nel redigere un questionario su certe allusioni rimastemi oscure durante la preparazione della presente antologia, qualcosa nell'aspetto di questo allineamento d'interrogativi mi lasciava perplesso e scontento. Non perché io non avessi trovato il bandolo dei piccoli problemi - un po' di ricerca dovrebbe venirne a capo -, ma perché in tutta questa faccenda c'era un'aria di famiglia con qualcos'altro, e quel qualcos'altro era per me una cosa piuttosto banale, non troppo diversa da quei cruciverba che si trovano nei periodici o da certi tornei radiofonici . . . Ma ecco il genere d'allusioni:
Nel Secondo amante di Lucrezia Buti leggiamo: «L'ammonimento emblematico di quel remotissimo savio «Fa un'isola per te stesso» ...». Nel Libro ascetico della giovane Italia: «E mi risaliva dalla memoria taluna parola di un inno: «Il deserto dell'aria prende la forma d'un mondo nascente..."».10 Nel Proemio alla Vita di Cola di Rienzo: «Ogni notte sento con un brivido l'ora della rugiada, quando l'anima non è contaminata da alcuna grassezza di carne, come direbbe il Beato». Chi è il remotissimo savio? Di che inno si tratta? Chi è il Beato?
Neanche il genere di piccolo trionfo che si può avere dalla soluzione dell'enigma finisce di contentarmi. Così, se una consultazione del Vocabolario della lingua italiana del Manuzzi mi risolve l'ultimo enigma citando alla voce «grassezza» un esempio da Coli. SS. Pad., cioè dal Volgarizzamento della Collazione de' Santi Padri, «testo a penna che fu già di Francesco Allegri nostro Accademico detto il Ricoperto»: «La mente nostra non essendo contaminata d'alcuna grassezza di carne.. .»; se, senza frugar molto nella memoria, posso scoprire chi era il Bilbilico di quest'altra allusione (nel Secondo amante di Lucrezia Buti): «E m'accade talvolta, per imprigionare un pensiero difficile e indocile che vuole isfuggirmi e deludermi, m'accade di spessire la mia materia verbale come quell'ambra che imprigiona la pecchia nell'epigramma del Bilbilico» - cioè di Marziale, nato a Bilbilis in Spagna; in che cosa la mia soddisfazione differisce da quella che posso avere nell'incontro Roma-Londra, nell'indovinare chi è l'uomo politico che ha detto una certa frase, o i nomi dei partecipanti a un certo festival musicale, o degli sportivi che han vinto questa o quella gara, e simili notizie d'attualità che, diciamolo pure, in fondo in fondo lasciano il tempo che trovano?
E mi domando: la poesia consiste dunque nella proposta e nella soluzione di simili enigmi? Un poeta diventa celebre per l'abilità con cui cela tra le foglie d'alloro quella dolce piccia di fichi secchi che è un concetto poetabile? Una rapida occhiata alla storia della poesia mi convince che purtroppo dal tempo di Pindaro, di Licofrone, di Orazio lirico giù giù fino a Chaucer e a Foscolo e appunto a d'Annunzio, l'idea dell'eleganza poetica è stata sempre associata con la civetteria della Sfinge. La ben tornita allusione di solito eroica o mitologica o sentenziosa era considerata fonte di meraviglia e di poetica palpitazione. L'abilità di d'Annunzio nel chiamare «il Beato» l'autore d'un detto piuttosto adespoto trovato in un dizionario, in che differisce da quella di Chaucer nel coniare fittizie autorità, un Lollio, un Trophe, una Corinne, o «antichi saggi», per certe sentenze da lui colte in Boccaccio o altrove?
E se il Foscolo nei Sepolcri, invece di dire «il carme / che allegrò l'ira al Ghibellin fuggiasco», o «il corpo di quel grande / che temprando lo scettro a' regnatori / gli allor ne sfronda», ecc., avesse detto chiaro e tondo che costoro erano Dante e Machiavelli, avesse insomma fatto come i bravi predicatori del Seicento, che in margine ai loro sermoni mettevano l'esatto riferimento, libro e capoverso, dei sacri testi citati, dove sarebbe andata la poesia?
Ora quando Ettore Paratore in un saggio sugli Antecedenti ovidiani nel linguaggio di «Alcyone»11 osserva che «il primo albore della complessa sensibilità di cui Alcyone ci dà così prestigiosi esempi è ravvisabile molto prima della formazione del linguaggio poetico romantico e decadente, è ravvisabile anche prima di quello barocco, si scopre nel poeta latino che del linguaggio barocco è stato uno dei maestri e dei sollecitatori», cioè in Ovidio, mette indirettamente il dito su un punto assai delicato della storia della poesia. Se s'avesse a resuscitare la famosa querelle degli antichi e dei moderni, non v'ha dubbio da che parte militerebbe il d'Annunzio, sebbene egli credesse, come s'è visto, d'anticipare l'avvenire, e d'aver esaurito tutte le possibilità dell'espressione: «Esprimo io l'inesprimibile? Spesso la mia penna latina, il fusto della mia penna scorrevole, è il càlamo: levis calamus». «O mia penna, aggiustata in una delle sette canne della syrinx di Pan disciolta dal lino e dalla cera, dislegata e sparsa! E credo averle provate tutt'e sette, nella mia arte notturna di scrivere, con tutte le generazioni di suoni originate dalle sette e sette e sette».
Sette e sette e sette, ma sempre il càlamo, il levis calamus delle bucoliche virgiliane. È vicino ai Latini, è anche vicino ai secenteschi. Nella Contemplazione della Morte si legge: «Un'allegoria è nascosta in ogni figura del mondo; e giova, secondo la sentenza di san Gregorio, «lo intendimento delle allegorie ridurre ad esercizio di moralitade»». Non diversamente Emanuele Tesauro nel Cannocchiale Aristotelico (Venezia 1655) vedeva il cielo come «un vasto ceruleo Scudo, ove l'ingegnosa Natura disegna ciò che medita: formando eroiche Imprese, e Simboli misteriosi e arguti de' suoi segreti», e si fingeva un dio «arguto favellatore, motteggiando agli Uomini e agli Angeli, con varie Imprese eroiche, e Simboli figurati, gli altissimi suoi concetti». E già Plutarco aveva detto: «Ipsa vero natura sensiles imagines, ac visibilia nobis composuit simulacra»; ed aveva detto Alanus de Insulis: «Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est et speculum; / nostrae vitae, nostrae mortis, / nostri status, nostrae sortis / fidele signaculum». E ancora d'Annunzio, nel Compagno dagli occhi senza cigli: «Figure ed eventi in apparenza poco notabili rimangono impressi indelebilmente, quasi nascondano un enigma dello spirito o un emblema del destino». Un Giambattista Marino avrebbe apprezzato la magniloquenza di d'Annunzio, l’orotunditas, come dicono gl'Inglesi con parola latina allusiva all'arrotondarsi della bocca nel bello stile oratorio, più di quanto non riescano ad apprezzarla i moderni, avvezzi a una nudità di linguaggio che va fino alla volgare piattezza. E un contemporaneo di Marino o magari di Boccaccio avrebbe capito quelle forme d'ironia e di umorismo dannunziani che Emilio Mariano, nel libro citato, cerca di documentare per confutare l'opinione corrente che il Poeta sia incapace di riso e di scherzosa ironia. Le lepidezze cruschevoli delle cento e cento pagine sugli anni passati al Cicognini avrebbero divertito un contemporaneo dell'autore della Hypnerotomachia, un glottocrisio ludimagistro, ma a chi di noi riescono a muover un muscolo faciale?
Della differenza tra un poeta antico ed uno moderno ha parlato E. Glyn Lewis in uno dei saggi del simposio di critici su Dylan Thomas, The Legend and the Poet12 «In un'epoca di conformismo tradizionale un giovane poeta avrebbe avuto disponibile una serie di temi convenzionali che certamente egli avrebbe modificato, ma che ciò nondimeno avrebbero assicurato una continuità coi suoi predecessori, o avrebbero provveduto un'adeguata comunicazione col lettore. In passato tali temi erano indicati dall'antica mitologia, dalla storia biblica, o dalle leggende degli eroi. In un periodo rivoluzionario come il nostro non solo son contestati i capisaldi etici, ma le convenzioni son cadute in discredito, sicché un poeta è costretto a ricadere sulla propria inventiva per abbellire il suo tema, e - cosa ancor più importante - per creare addirittura un qualsiasi tema valido».
Ed ecco il metodo d'un tipico poeta moderno, Dylan Thomas, molto diverso da quello di d'Annunzio, che raccoglieva il suo miele in quell'orto di semplici che era la collezione dei testi citati dalla Crusca (e il metodo di d'Annunzio era quello di Chaucer che aveva scritto: «Poiché dagli antichi campi viene tutto questo nuovo grano un anno appresso all'altro, e dagli antichi libri, in verità, vien tutta questa nuova scienza che gli uomini apprendono»): «Una mia poesia» - dice il Thomas - «abbisogna d'una falange d'immagini, giacché il suo centro è una falange d'immagini. Io creo un'immagine - sebbene «creo» non sia la parola giusta; io lascio, forse, che un'immagine «si crei» in me emotivamente, e quindi vi applico quel tanto di potere critico e intellettuale che posseggo - lascio che ne generi un'altra, lascio che questa nuova immagine contraddica la prima, faccio, dalla terza immagine generata dalla congiunzione delle altre due, una quarta immagine contraddittoria e lascio, nell'ambito dei limiti formali che mi sono imposto, che cozzino tutte insieme. Ciascuna immagine racchiude in sé il germe della propria distruzione, e il mio metodo dialettico, così come io lo intendo, è un costante sorgere e crollare delle immagini che si sprigionano dal germe centrale che è esso stesso a un tempo distruttivo e costruttivo». O, in forma più concisa: «Io faccio sì che un'immagine affiori dal subconscio, e da questa prima immagine faccio sorgere il suo opposto. Queste due immagini allora entrano in conflitto, producendone una terza, e così la poesia diventa una colonna stagna d'immagini».
Stagna, cioè, in fondo, impenetrabile al lettore. Da un altro punto di vista una poesia di Thomas, anziché parere un monolito inattaccabile, potrà abbarbagliare come quelle metamorfosi di ladri nel venticinquesimo dell'Inferno, o come le trasformazioni di Proteo. O, per combinare le due immagini, si pensi a quell'obelisco, tutto di teste umane, scultura di Vigeland che adorna il parco di Oslo. Thomas, ha scritto Edith Sitwell, ha un infinito potere di germinazione, può diventare davvero un albero, «per questo è il grande poeta che è». Il paragone con l'albero ci ricorda i versi omerici su Proteo che nella vecchia versione del Pindemonte suonano: «Leone apparve di gran giubba, e in drago / voltossi, ed in pantera, e in verro enorme, / e corse in onda liquida, e in sublime / pianta chiomata verdeggiò».
La sfinge dei poeti antichi aveva un volto, graziosamente enigmatico come quello delle sfingi in cappellino e falpalà dei parchi settecenteschi di Germania. Ma il Proteo dei moderni, tra tanto barbaglio di aspetti mutevoli, finisce per non avere più volto, tra tante forme è informale, tra tante cose concrete evocate, è astratto.
C'è tal differenza tra gli antichi poeti e i moderni! Gli antichi, osserviamo, arrivano fino a ieri e tra noi si chiamano Carducci, Pascoli, e anche, sia pure con un frammento di avvenire, Gabriele d'Annunzio.
1 In Sentimento del vivere ovvero Gabriele d'Annunzio, Milano, Mondadori, 1962.
2 La poetica del decadentismo italiano, Firenze, Sansoni, 1936. Forse il Binni, accentuando del decadentismo l'aspetto positivo (ricerca di una nuova musica del verso) ha finito per metterlo in una luce che non gli compete che in minima parte ; occorre distinguere, egli osserva, tra « decadenza del romanticismo » e « decadentismo », ma il peso morto, se così lo si vuol chiamare, del decadentismo fu appunto quello sviluppo estremo di motivi già propri del romanticismo che io ho illustrato in La carne, la morte e il diavolo nella letteratura romantica, Firenze, Sansoni, 19483, e la decantazione di quel peso morto che caratterizza il «decadentismo più sottile» andrebbe, se mai, chiamato simbolismo, per evitare un paradosso come quello contenuto in un giudizio del Binni sull’Alcyone. che sarebbe « il libro meno decadente del d'Annunzio, se intendiamo con decadentismo malattia e perversione ; e il più decadente, se si significa con decadentismo la nuova poetica come ricerca della musica ». Il Binni nota giustamente che il d'Annunzio conobbe e cercò dei decadenti francesi più i veri e propri décadents che non i simbolisti.
3 Miti e coscienza del decadentismo italiano, Milano, Feltrinelli, 1960.
4 Parziale stesura del Trionfo della Morte, pubblicata a puntate sulla «Tribuna illustrata» (gennaio-marzo 1890).
5 Data delle stesure.
6 Cfr. G. Tosi, La vie et le róle de D'Annunzio en France au début de la Grande guerre (1914-1915), Firenze, Sansoni, 1961.
7 Ristampato in Scrittori del Novecento, Firenze, Le Monnier, 1943.
8 In Esplorazione d'ombra (1939), ristampato in Ritratti e profili, Milano, Garzanti, 1957.
9 Si vedano in proposito le osservazioni di E. Falqui nel saggio D'Annunzio e gli «Scrittori nuovi», in Novecento letterario, Serie seconda, Firenze, Vallecchi, 1960.
10 Questa citazione è da una pagina non più inclusa nella nostra antologia.
11 Nel volume Gloria alla Terra! Gabriele d'Annnunzio e l'Abruzzo, Pescara, Editrice dannunziana abruzzese, 1963.
12 London, Heinemann, 1960.