EMO, Gabriele
Nacque a Venezia, nella parrocchia di S. Marina, attorno alla metà del XIV secolo, da Benedetto di Gabriele e dalla sua prima moglie, Antonia (forse una Malipiero, ma il casato non è identificabile con sicurezza).
Questi, ancorché esigui e tutt'altro che certi, sono i dati più attendibili, perché sull'uomo (o meglio, gli uomini, dal momento che è sicuro che, nel 1390, compaiono almeno due di tal nome: un provveditore in Morea ed un ambasciatore presso gli Estensi) le fonti appaiono discordi: inattendibile il Barbaro, che lo dice figlio di Maffeo e gli attribuisce dati e notizie riconducibili invece a un cugino, il cavaliere Pietro; fuorviante il Priuli, il quale lo fa addirittura figlio di questo Pietro: non resta che dar credito al Rumor, che nel ricostruire le genealogie degli Emo si valse di archivi privati. Egli però prevede due Gabriele e sbaglia il nome della madre.
Per nostra fortuna, l'E. ebbe due mogli, delle quali ci sono conservati i testamenti, e questo permette di poter contare su alcuni dati sicuri. Sappiamo cosi, dalle ultime volontà di Bellela Pisani di Bertuccio, la quale testò "corpore languens" l'11 sett. 1382, che il marito era meglio conosciuto con il soprannome di Bianco, che risiedeva a S. Cassiano e che era di agiate condizioni, la qual cosa farebbe pensare ad un perdurante esercizio della mercatura, peraltro tradizionale nella famiglia: questo spiegherebbe la sua tardiva partecipazione al mondo della politica; la seconda moglie, Mabilia Venier di Ermolao di Nicolò, del ramo a S. Vio, fece più testamenti: in quello del io sett. 1391 risulta risiedere a S. Maria Formosa, nell'altro del 23 apr. 1432 (presente in più copie, perché con esso venne istituito un ragguardevole legato per i poveri) è vedova, non ha figli (entrambi i matrimoni dell'E. risultarono sterili) ed appare molto ricca.
Una riprova delle fortune dell'E. ci è offerta dalle 2.000 lire di prestito sottoscritte nel debito pubblico in occasione della guerra di Chioggia, nel 1379; il consolidamento del suo prestigio dalla carica di podestà di Verona, esercitata dall'agosto 1384 al febbraio 1386.
Gli ultimi tempi della dominazione scaligera furono contrassegnati dal monopolio della magistratura da parte di nobili veneziani, ma per Antonio Della Scala l'E. seppe divenire il motore e l'anima dei suoi rapporti con la Serenissima. Tra gli ultimi podestà veronesi, egli fu dunque il più importante, e le cronache dei Gatari ne sottolineano l'esorbitante influenza esercitata in funzione anticarrarese sullo Scaligero, "per meglio solicittarlo alla sua propria rovina"; superata la bufera della guerra di Chioggia, la Repubblica badava soprattutto a rinforzare il dispositivo militare in Levante, per far fronte alla potenza ottomana, e nel Veneto a gestire una politica d'attesa, badando ad impedire il formarsi di signorie troppo potenti: per questo, timorosa delle mire sul Friuli di Francesco il Vecchio da Carrara, si era alleata con il patriarca di Aquileia e cercava l'adesione degli Scaligeri.
In questa complessa realtà l'E. si inseri con grande destrezza, giocando su due fronti, ma nella pratica operando a vantaggio della patria; nel dicembre 1384 era a Venezia, come procuratore di Antonio, col compito di ottenere dal Senato il permesso di assoldare truppe, e nella sua città tornava ancora nel febbraio 1385, per negoziare un'alleanza con la Repubblica. I colloqui si svolsero il io e il 2 marzo, poi l'E. tornò a Verona per ottenere un più ampio mandato; il 19 maggio concludeva l'alleanza, che per parte veneziana Giovanni Gradenigo sottoscriveva alle seguenti condizioni: lo Scaligero si impegnava a perseguire una politica avversa ai Padovani e, in caso di guerra, il Senato si offriva di sostenerlo con la consegna di 5.000 ducati al mese.
La spola dell'E. - nel frattempo divenuto cavaliere - continuò per tutto l'anno e sino agli inizi dei successivo, tra Verona e Venezia: il 12 giugno era nuovamente fra le lagune per notificare l'adesione di Antonio alla lega costituita in Friuli dagli alleati della Repubblica, due mesi più tardi inoltrava al suo signore la richiesta del governo marciano di veder concretamente realizzato l'impegno assunto, il 28 dicembre fungeva ancora una volta da mediatore nella rinnovata alleanza veneto-scaligera, nel gennaio 1386 precisava ulteriormente, di fronte ai Pregadi, le condizioni dei Veronesi per muovere guerra a Francesco da Carrara.
A questo fitto intrecciarsi di questioni politiche, dove l'E. fu spesso assistito dal fratellastro Leonardo, figlio di secondo letto di Benedetto e di Caterina Contarini di Nicolò, si sommarono interessi di carattere economico, che contribuiscono a spiegare meglio il ruolo e l'influenza assunti dall'E. nell'ambito della società veronese: significativi, a tale proposito, i 2.021 ducati consegnati all'E., il 7 maggio 1386, da Cortesia da Serego, perché fossero investiti nella mercatura. Neppure la sconfitta subita nel 1387 al Castagnaro valse ad indebolire il prestigio di cui l'E. godeva alla corte scaligera, a vantaggio della quale egli anzi riusci ad ottenere l'invio di soccorsi da parte veneziana.
Lasciò tuttavia Verona per qualche tempo e nel 1388 si recò a Cividale, per ordine del Senato, nel tentativo di stabilire preliminari di pace tra il patriarca Giovanni di Moravia e gli Udinesi. La missione sembrava bene avviata, senonché l'uccisione di Federico Savorgnan, nel febbraio 1389, acui l'odio ed il sospetto tra le parti: per far decantare la situazione, la Repubblica decise di inviare di nuovo l'E. in Friuli, col duplice compito di convincere Ursina Savorgnan a rinunciare a un'immediata vendetta e, ancora, di esprimere cautamente al patriarca il risentimento dei Veneziani per il delitto. Gli sforzi dell'E. si concretizzarono nel patto del io marzo 1389, che facilmente avrebbe potuto alleggerire la tensione se veramente le parti l'avessero sottoscritto senza riserve, e invece nel giugno l'E. dovette ritornare a Cividale, per intimare al prelato il rispetto di quanto convenuto, facendogli presente, in nome del Senato, i danni che sarebbero derivati da tale atteggiamento per la sua Chiesa e tutta la Patria del Friuli.
Dopo ulteriori febbrili trattative, nel luglio l'E. riproponeva la questione in termini decisamente perentori: a tanta caparbietà sarebbe seguita una notalis destructio Patrie", ma stavolta la minaccia fece effetto ed il patriarca cedette.
La maggior fonte di preoccupazioni per la politica veneziana in Terraferma continuava, però, ad essere costituita dai Carraresi, che ora minacciavano il Polesine; per questo l'E., alla fine dell'anno, venne inviato presso il marchese d'Este, onde persuaderlo a rompere l'alleanza con i Visconti, che proteggevano i Padovani. Ancora una volta riusci a guadagnarsi l'animo del principe, al punto da ottenere la nomina a suo procuratore nelle complesse trattative che avrebbero dovuto portare alla pace: in realtà egli faceva il gioco del Senato, come prova chiaramente una lettera di istruzioni speditagli il 4 ott. 1390, nella quale gli si suggeriva più opportuna per gli interessi della Repubblica una politica cauta e temporeggiatrice: in sostanza, ambigua.
Di li a poco l'E. riceveva un incarico che doveva portarlo per qualche tempo lontano: venne infatti nominato bailo e capitano a Negroponte, dove rimase tra l'estate del 1391 e gli inizi del 1394. Proprio in quegli anni l'isola era il perno dell'espansionismo veneziano nell'Egeo: dopo aver finito di sottomettere i riottosi nerziari", discendenti degli antichi feudatari franchi, Negroponte era riuscita ad estendere il suo dominio su gran parte dell'arcipelago e proprio l'anno precedente, nel 1390, gli abitanti di Micono e Tino avevano chiesto e ottenuto di sottomettersi alla Repubblica; toccò dunque all'E. inviare un rettore in quelle isole ed organizzarne l'amministrazione. A parte qualche attrito con i Tessalonicesi, il mandato si sarebbe svolto senza troppe preoccupazioni, se non fosse scoppiato un grave contrasto tra l'E. e i suoi consiglieri, a motivo della condotta da tenere nei riguardi di Domenico Bollani, ricco ed influente veneziano colà trasferitosi da molti anni, al punto che, il 5 ag. 1393, il Senato incaricava l'avogador di Comun Leonardo Bembo di inquisire sul comportamento del bailo, il quale poi (3 febbr. 1394) venne riconosciuto colpevole e condannato a pagare un'ammenda di 200 ducati, con l'interdizione per cinque anni dai pubblici uffici.
In una diversa congiuntura storica l'allontanamento dell'E. dalla vita politica sarebbe potuto risultare definitivo, ma l'incalzare degli eventi succedutisi dopo l'improvvisa scomparsa di Gian Galeazzo Visconti, e che sarebbero culminati nel regolamento del vecchio contenzioso venetocarrarese, lo riportò in primo piano: eletto savio sopra le Milizie sin dal 20 marzo 1404, qualche mese più tardi era inviato a Milano e a Padova per tentare una composizione tra Francesco Novello e la duchessa reggente, Caterina Visconti. In settembre, infine, veniva nominato provveditore in campo presso le truppe che operavano nel Veronese. Nonostante il valore di Giacomo da Carrara, tra l'autunno del 1404 e la primavera del 1405 tutto il contado cadde nelle mani dei Veneziani; quindi, spossati dalla lunga guerra, i Veronesi insorsero il 22 giugno, e l'indomani le truppe della Repubblica entravano nella città, con alla testa il provveditore E., che in precedenza aveva trattato i patti della dedizione allo Stato marciano.
Su di lui poco resta da dire: fu capitano a Candia dal 1406 al 1408, poi a Padova, dal dicembre 1409 al luglio del 1411 (documentata la sua presenza al conferimento di lauree), ed infine a Verona; tornò nella città ch'egli aveva assicurato alla Repubblica tra il 1411 ed il 1412, e ancora una volta la sua azione risultò determinante: insieme col collega Bernardo Loredan riusci infatti a sventare la congiura di Marsilio da Carrara e di Brunoro Della Scala, che speravano di recuperare i loro Stati appoggiandosi all'imperatore Sigismondo; gli insorti avevano già levate le insegne con l'aquila, ma furono posti in fuga dalla decisa reazione dei rettori veneziani.
Nient'altro sappiamo dell'Emo. Secondo il Priuli, "mori circa l'anno 1414, se pur si può dire che sia morto chi ha di sé lasciato immortal nome".
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