GABRIELLI, Gabriele (Gabriello)
Gabriello) Figlio di Necciolo di Nello di Cante, nacque a Gubbio nel secondo o nel terzo decennio del sec. XIV dal ramo di Cantiano, guelfo per tradizione, della potente famiglia eugubina. Destinato dal padre alla carriera ecclesiastica, abbracciò la vita religiosa entrando nella Congregazione benedettina dei monaci di S. Croce a Fonte Avellana, allora molto influente. Intorno al 1350, divenne priore della ricca badia di S. Andrea dell'Isola, dipendenza di S. Croce sita presso Costacciaro (Gubbio), superando la candidatura di Ceccolo di Cantuccio Gabrielli, pur esso monaco di Fonte Avellana, sostenuta dai Gabrielli del ramo rivale di Frontone.
Uomo d'azione più che pastore di anime, stando alla Cronaca di ser Guerriero da Gubbio, nel 1357, insieme con Francesco Ciccardello, si impadronì della città di Cagli; la perdette, però, subito dopo per opera del card. Egidio Albornoz che era allora legato in Italia e vicario generale nei domini della Chiesa e che lo punì con un decreto di bando. Nel 1359, colpito da un nuovo provvedimento di bando, fu tradotto in Ancona, insieme con altri suoi parenti.
Le fonti note non menzionano più il G. per oltre tre lustri. Tornano a parlare di lui quando, in probabile connessione con i fatti di Firenze del 1375 e la guerra degli Otto santi, la sua famiglia tentò di impadronirsi del potere in Gubbio, sfruttando il malcontento popolare nei confronti della Sede apostolica sotto la cui autorità l'aveva riportata il card. Albornoz allorché, nel 1354, l'aveva conquistata, ponendo fine alla signoria ghibellina e filoviscontea di Giovanni Gabrielli. Il G. appare in quel momento come una delle maggiori personalità di Gubbio non solo per il consenso di cui godeva in città e per le forze di cui poteva disporre, ma anche per gli influenti legami che lo univano alla Curia romana. Rivestiva allora, in particolare, una posizione di rilievo tra i massimi esponenti dei Gabrielli, ricompattatisi per l'occasione: a quanto ci viene riferito, infatti, egli ebbe parte determinante negli eventi che precedettero, accompagnarono e seguirono la restaurazione del libero Comune nella città umbra (1376).
Dopo aver conquistato le rocche dominanti Gubbio dall'alto del monte Ingino e avervi insediato due castellani e uomini d'arme a lui fedeli, il G. strinse un patto con i figli di Giovanni di Cantuccio Gabrielli per il governo della città. In seguito a tale accordo nel marzo del 1376 si ottenne dalle pubbliche autorità la ratifica di un'imposta sui beni del clero, fino a quel momento rimasto esente da prestanze comunali. Nel settembre, quando il popolo insorse a libertà contro il dominio temporale della Chiesa, egli - insieme col fratello Francesco e con propri partigiani - occupò di fatto la magistratura consolare, cercando però nello stesso tempo di circoscrivere le violenze contro i rappresentanti dell'autorità pontificia. In particolare - e ciò viene ricordato in sua lode dalle fonti coeve - riuscì a impedire che lo stesso episcopio venisse assalito e dato alle fiamme. Il riconoscimento ufficiale del ruolo svolto dal G. in tali eventi e del suo peso politico all'interno del nuovo regime instauratosi a Gubbio si ebbe l'anno successivo, quando il Comune deliberò che a lui e ad altri due Gabrielli, Cante e Gabriele di Giovanni, fossero riconosciute le medesime prerogative attribuite ai commissari popolari allora creati per garantire il "pacifico stato" della città. Tuttavia, come dimostreranno gli avvenimenti successivi, le vedute e i propositi del G., che nonostante tutto continuava a mantenere i suoi rapporti con la Sede apostolica e con la Curia romana, non coincidevano, né in politica interna né in politica estera, con quelli perseguiti dagli esponenti del nuovo regime e dai capi delle diverse fazioni della sua stessa famiglia.
Il nuovo gruppo dirigente dovette innanzi tutto affrontare il problema della successione alla cattedra episcopale di Gubbio, rimasta vacante per la morte di Giovanni Benci Caruzzi, avvenuta qualche tempo prima: era un problema non facile, dopo i fatti dell'autunno 1376. Il G. prese subito l'iniziativa e già nel gennaio del 1377, facendo con ogni probabilità affidamento sugli appoggi di cui godeva in Curia, si presentò a Gregorio XI quale candidato alla successione. Ricevette, sul momento, un diniego. Ripeté il tentativo dopo poco e per altre vie, quando si fu consolidato al potere ed ebbe dalla sua il consenso popolare. Siamo infatti informati che il 9 marzo il Comune di Gubbio inviò due lettere - una al pontefice e l'altra al cardinale Géraud Dupuy, allora priore di S. Andrea dell'Isola presso Costacciaro - con le quali presentava la richiesta ufficiale che il G. venisse scelto per la cattedra eugubina. Il 13 aprile Gregorio XI dette il suo assenso, ma il G. dovette impegnarsi a riportare Gubbio sotto l'autorità della Sede apostolica. Il papa stabilì inoltre che a conferire al neoeletto l'ordinazione episcopale dovesse essere il cardinale Roberto di Ginevra. Era una scelta gravida di pesanti implicazioni. Roberto di Ginevra dirigeva infatti in quel momento, con il titolo e i poteri di legato pontificio per la Romagna e le Marche, le operazioni per la restaurazione del dominio della Chiesa nell'Italia centrale e per la lotta contro Firenze e gli alleati di quest'ultima.
Nel suo viaggio, di ritorno da Roma, il G. passò per Perugia dove in quanto vescovo eletto di Gubbio ricevette solenni accoglienze. Anche in patria fu accolto con grandi festeggiamenti, ma vi sostò per poco. Ripartì infatti immediatamente per recarsi in Romagna per l'ordinazione episcopale, che ricevette dalle mani del cardinale Roberto di Ginevra: il successivo 28 maggio fece come nuovo vescovo il suo ingresso ufficiale in Gubbio.
L'ascesa alla cattedra episcopale rafforzò ulteriormente la posizione del G. all'interno della città e della sua stessa consorteria. Egli poté pertanto in tempi relativamente brevi condurre le magistrature municipali e l'opinione pubblica a compiere quel riavvicinamento alla Sede apostolica che la Curia auspicava e al quale egli si era impegnato nei confronti del papa. In ciò fu senza dubbio aiutato dal rapido evolversi della situazione politica generale che vide nell'Italia centrale, tra l'estate del 1377 e i primi mesi del 1378, da un lato il rapido esaurirsi delle velleità di lotta degli avversari della Chiesa e, dall'altro, il disastroso ritorno delle milizie mercenarie rimaste senza paga e senza condotte dopo la fine delle ostilità.
La pace conclusa da Bologna, il 4 luglio, le sottomissioni, che le fecero immediatamente seguito nella tarda estate e nell'autunno, degli altri ribelli, i Comuni e i signori della Romagna e delle Marche, la stessa Firenze, acconciatasi anch'essa a un'intesa nel convegno di Sarzana (marzo 1378), testimoniavano che non era più il momento di mantenere le distanze con la Sede apostolica. D'altro canto, la constatata impossibilità di contrastare i saccheggi e le violenze ai danni delle popolazioni civili compiute dalle compagnie di ventura prive di ingaggio postulava la necessità e l'urgenza di cercarsi altrove - come riteneva il G. - protezione e appoggio. I cittadini eletti a comandare e difendere, in qualità di castellani, le rocche e le fortezze del territorio municipale rifiutavano spesso l'incarico, abbandonando il contado a bande di saccheggiatori e ai ribelli. Divenne complicato persino nominare il capitano del Popolo.
Senza dubbio la morte inattesa di Gregorio XI, avvenuta il 28 marzo 1378, e il convulso conclave che le fece immediatamente seguito dal quale uscì eletto, l'8 aprile, Urbano VI (Bartolomeo Prignano) posero qualche ostacolo ai progressi della linea politica adottata all'interno dal G. e alle trattative da lui avviate presso la Curia romana. Finalmente il Comune deliberò il 25 maggio l'invio di un'ambasceria a Roma. Essa doveva avere come capo lo stesso G. e come mandato quello di discutere e formalizzare i termini del definitivo riavvicinamento alla Sede apostolica. A Roma il G. si acquistò la fiducia del nuovo pontefice e condusse a termine con successo la sua missione. Gli accordi allora conclusi furono ratificati nell'ottobre. Questi buoni risultati consolidarono definitivamente la supremazia del presule nella vita pubblica cittadina. Padrone di fatto di Gubbio, avviò allora una politica tesa ad affermare anche all'esterno la sua autorità, allargandola in tutta l'alta valle del Tevere.
Apertosi il grande scisma d'Occidente, con l'elezione a pontefice del card. Roberto di Ginevra (20 sett. 1378) che assunse il nome di Clemente VII, il G. si schierò con il papa romano e alla sua obbedienza mantenne fedeli sia la sua Chiesa, sia la sua città. Questa decisa presa di posizione aumentò senza dubbio i pericoli che sovrastavano Gubbio e moltiplicò i nemici che la minacciavano. Lo provano le disposizioni messe febbrilmente in atto nel 1379 per rafforzare la cinta muraria, ricostruire il cassero, aumentare le scorte di armi e di approvvigionamenti in vista di un attacco. Lo confermano i messaggi inviati al vescovo quando si recava al di fuori dei territori di dominio eugubino. Si trattava, a ogni modo, di difficoltà di cui il G. aveva valutato la portata allorché si era schierato con Urbano VI. Nel corso del 1379 e fino al successivo 1380, infatti, si allontanò spesso dalla sua città per stringere o rinsaldare i buoni rapporti con le potenze maggiori e minori dell'area: Città di Castello, Siena, Firenze, i Malatesta di Rimini. Tale attivismo diplomatico trova la sua spiegazione nel contesto politico dell'Italia centrale, dove il conflitto religioso provocato dallo scisma si era innestato su antichi contrasti e su motivi di lotta propri di quelle regioni e con essi interagiva. A novembre, grazie al suo intervento, fu ratificata la pace tra Città di Castello e i fuorusciti capitanati da Branca dei Guelfucci. Nei primi mesi del 1380 il G. si recò presso Galeotto Malatesta, signore di Rimini, per stipulare un trattato di alleanza. Fu allora che venne compiuto il primo vero tentativo di esautorarlo.
Una parte dei nobili che avevano favorito l'ascesa del G. passarono all'opposizione, unendosi a quanti osteggiavano dall'interno o dall'esterno la linea politica guelfa da lui promossa e la sua rigida fedeltà al papa romano. Costoro, grazie anche all'appoggio e all'intervento di quelle stesse truppe mercenarie che desolavano la regione, riuscirono a provocare l'ammutinamento delle guarnigioni di molte fortezze del territorio eugubino. Ciò doveva preludere a un rovesciamento del regime. Il moto fu represso con durezza dal G., rientrato direttamente in patria (2 maggio 1380) con un forte contingente di cavalleria teutonica al soldo di Galeotto Malatesta. I ribelli furono vinti e puniti; la stessa città fu saccheggiata.
Alla base di questi eventi furono senza dubbio, non solo dissidi e rivalità di gruppi di pressione locali, colpiti nei loro interessi e nella loro suscettibilità dall'azione di governo svolta dal G., ma anche diffidenze e sospetti nei confronti del prestigio di cui egli godeva presso la Curia romana e dell'autorità che egli si era acquistata in ambito regionale. Però il tentativo di rovesciare il G. fu anche un ulteriore episodio del grande scontro, allora in atto, tra Urbano VI e Clemente VII. Lo provano gli stessi protagonisti della vicenda.
Ripreso saldamente il potere nelle sue mani, il G. provvide a risarcire i danni compiuti dai mercenari teutonici durante le operazioni condotte per ristabilire l'ordine pubblico. Furono allora pagati, a questo fine, circa 600 fiorini d'oro, come risulta da una delibera del 29 agosto contenuta nel registro delle Riformanze comunali. Il 10 settembre accolse il principe Carlo d'Angiò Durazzo (futuro re di Napoli, terzo di questo nome) che, rientrato in Italia nell'agosto, si stava dirigendo con un esercito ungherese verso Roma, con l'obiettivo di strappare, con l'appoggio del partito guelfo e di Urbano VI, il Regno di Napoli a Giovanna I. Il G., presentando all'Angiò le chiavi di Gubbio, gli significava la sottomissione e la fedeltà della città e del popolo e gli confidava la reggenza del Comune in nome del papa. Partendo da Gubbio per recarsi a Roma, dove entrò l'11 novembre, Carlo aveva lasciato come suo rappresentante il senese Raimondo Tolomei, ma già agli inizi dell'anno seguente il G. aveva assunto i pieni poteri sulla città e sul suo territorio, che esercitava con il titolo di rettore e governatore di Gubbio, come appare da un trattato di alleanza e cooperazione militare della durata di cinque anni, da lui stipulato a Perugia con le autorità di quel Comune intorno alla metà di marzo 1381, per ottenere garanzie contro l'attività dei fuorusciti eugubini presenti in quell'area. Il 30 novembre ottenne da Urbano VI il vicariato apostolico della città e del contado di Gubbio. Forte del prestigio derivantegli dalla nuova posizione, il 24 febbr. 1382 il G. si recò nuovamente a Perugia, dove sottoscrisse un nuovo accordo, questa volta assolutamente paritetico nelle sue condizioni, seguito, pochi giorni dopo, da un altro trattato di pace con Gualdo Tadino. Tutto ciò, a ogni modo, non valse a riportare la pace in Gubbio e nel suo territorio. Le incursioni e gli attentati degli "estrinseci" continuarono, certo in connessione con l'evolversi della lotta derivante dallo scisma e, per le medesime ragioni, sempre più dura si fece l'opposizione esterna, tanto che il vescovo, nominato un suo luogotenente, lasciò Gubbio, probabilmente per trattare di persona nuove alleanze. Nel corso dell'anno l'attività bellica non conobbe tregua nel tormentato contado eugubino, dove operarono le milizie di Boldrino da Panicale e quelle dello stesso Galeotto Malatesta. All'inizio del 1383 il G., probabilmente indotto da Perugia, proclamò la tregua con i fuorusciti, assicurando loro la franchigia personale e dei beni. Ciò può forse far supporre che gli oppositori del G., mutando il loro atteggiamento, si fossero rivolti al papa. Tale ipotesi sembra confermata dal fatto che il G., dopo la pubblicazione del bando di tregua, si recò personalmente a Roma, dove, sul finire di aprile lo raggiunse la notizia che i Perugini si erano accordati con i fuorusciti eugubini e avevano richiesto la pace allo stesso pontefice. Il 21 maggio successivo Urbano VI revocò il vicariato al G. che accolse, come era stata sua abitudine, senza contestare la decisione del pontefice.
Pochi giorni dopo, il 3 giugno, venne convocato a Gubbio il Consiglio generale del Comune: alla presenza dello stesso G. fu ratificato un accordo in forza del quale il vescovo rinunziava alle cariche da lui ricoperte nel governo e a ogni autorità sulla città. In cambio venivano riconosciuti a lui e a suo fratello Francesco il possesso dei castelli di Cantiano - l'antico feudo di famiglia - e di Serra Sant'Abbondio; in più si stabiliva che venisse loro concesso un indennizzo in solido pari a 5000 fiorini d'oro.
Il G. si ritirò a Cantiano, dove morì di peste pochi mesi dopo, nell'autunno 1383.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Perugia, Sez. di Gubbio, Armanni, II.B.8, c. 8rv; Comunale, Riformanze, 7, cc. 20v, 46v-47v; 9, c. 16r, passim; Camerlenghi, 1, c. 59r, passim; Guerriero da Gubbio, Cronaca, a cura di G. Mazzatinti, Rer. Ital. Script., 2ª ed., XXI, 4, ad ind.; P. Pellini, Dell'historia di Perugia, Venetia 1664, I, pp. 1180, 1263; G. Mazzatinti, Appendici alla Cronaca di ser Guerriero dei Campioni da Gubbio, in Archivio storico per le Marche e per l'Umbria, III (1886), pp. 203-205; O. Lucarelli, Memorie e guida storica di Gubbio, Città di Castello 1888, pp. 82 s., 422 s.; G. Franceschini, Gubbio dal Comune alla signoria dei Montefeltro, in Storia e arte in Umbria nell'età comunale. Atti del VI Convegno, Gubbio… 1968, Perugia 1971, pp. 384 s.; P.L. Menichetti, Storia di Gubbio dalle origini all'Unità d'Italia, Città di Castello 1987, I, pp. 103-145; P.L. Meloni, La rocca posteriore di Gubbio sul monte Ingino, in Saggi sull'Umbria medievale, Napoli 1994, pp. 364-399; Dict. d'hist. et de géogr. eccl., XIX, col. 585 (ovviamente errate le "certaines sources" che attribuiscono la nomina vescovile del G. a Clemente VII).