PEPE, Gabriele
PEPE, Gabriele. – Nato a Monopoli (Bari) il 4 dicembre 1899, secondogenito di Ludovico e di Gemma Gatti. Il padre, di origini modeste, giornalista e insegnante, fu nella maturità apprezzato studioso di storia pugliese.
Pepe ne avrebbe tracciato un profilo storiografico per una conferenza poi compresa in uno dei suoi più noti volumi miscellanei (Ludovico Pepe storico della società pugliese, in Pane e terra nel Sud, Firenze 1954, pp. 128-137).
Dopo la morte del padre, nel 1901, la famiglia si trasferì a Sessa Aurunca, nel Casertano, luogo d’origine della madre, il padre della quale, Lelio Gatti, patriota mazziniano, anticlericale, aveva partecipato alla vita politica locale.
Pepe fissò queste sue memorie familiari in varie pagine autobiografiche, centrate sulla figura materna, che del padre gli «aveva ispirato addirittura un culto», e che «a noi fanciulli non raccontava fiabe di streghe e di fate, ma la bella leggenda del Risorgimento» (Nascita di uomini democratici (1952), in L. Russo - G. Pepe - E. Lussu - T. Fiore, Nascita di uomini democratici, Manduria 1958, pp. 46-47). La prematura morte del padre provocò difficoltà materiali alla famiglia, passata «dal benessere alla quasi indigenza» (p. 49).
Della sua infanzia e adolescenza Pepe avrebbe serbato un vivo ricordo (Sessa Aurunca, in Un anno di dominio clericale, Manduria 1949, pp. 22-29), che in pagine del secondo dopoguerra si inseriva in una rievocazione di vita sociale articolata, anche se segnata dalla povertà e da forme di indifferenza religiosa; rievocazione volta a confutare, nell’ambito dei forti interessi meridionalistici coltivati in quegli anni, la tesi della cosiddetta inferiorità naturale-ambientale del Mezzogiorno.
Nel novembre 1917 Pepe fu richiamato alle armi, passando poi alla scuola allievi ufficiali di Caserta. Comandante della sua compagnia era l’allora tenente Luigi Russo, con il quale avrebbe in seguito intrattenuto rapporti di collaborazione. Durante il servizio militare Pepe avviò gli studi universitari a Napoli; congedato nel 1920, si laureò in lettere nel luglio 1921. Subito dopo la laurea Pepe intraprese la carriera di insegnante: dapprima a Sessa Aurunca per passare, per un anno, nel ginnasio dell’abbazia di Montecassino.
A tener presenti alcune pagine benedettine della sua opera maggiore, Il Medio Evo barbarico d’Italia (Torino 1941; IV ed. riveduta Torino 1959 e successive ristampe; trad. franc. Paris 1956) – nella quale a s. Benedetto si attribuiva il ruolo storico di aver salvato l’Europa dall’Oriente – si deve concludere che quell’esperienza fu, per Pepe, di indubbio rilievo, e non solo, secondo la sua testimonianza, sul piano dell’avviamento alla ricerca archivistica e paleografica.
Ad Assisi sarebbe giunto nel 1926; poi Palermo, Jesi, Terni, e infine l’approdo romano, al liceo scientifico Cavour, nel 1938. Varie tracce di questi spostamenti si rinvengono nella prima stagione scientifica di Pepe; apprendistato storiografico connesso alla locale disponibilità di materiali e con qualche concessione a questa peculiare dimensione locale.
A partire dalla fine degli anni Trenta Pepe intensificò la propria attività di recensore, scrivendo per La nuova Italia e Civiltà moderna, riviste legate a Russo e a Ernesto Codignola, ma anche su periodici di diverso carattere, come Oggi, settimanale nato nel 1939 e diretto da Arrigo Benedetti e Mario Pannunzio, accostandosi poi occasionalmente all’impresa di divulgazione storiografica avviata da Federico Chabod e Carlo Morandi con Popoli.
Lettore dai larghi interessi – notevole l’attenzione per la storia risorgimentale –, sensibile al confronto con riedizioni di classici e con grandi opere contemporanee da Jules Michelet a Christopher Dawson, da Ernst Kantorowicz a Henri Pirenne, Pepe trasferiva queste sollecitazioni, accanto alle tensioni di una inquietante contemporaneità – in pagine francescane del 1948 affermava che solo ai propri tempi, e non a quelli del santo, era appartenuta la vera «esperienza del diabolico» (Storicità di San Francesco D’Assisi, in Pane e terra nel Sud, cit., p. 12) – in una scrittura storica molto personale.
Il suo complesso rapporto con la tradizione storiografica – esemplari le scelte e i commenti che compongono la terza parte dell’Introduzione allo studio del Medio Evo latino (Milano 1942) –, l’inclinazione attualizzante, l’accostamento allo storicismo crociano, conducevano Pepe ad assumere atteggiamenti polemici verso la storiografia critico-erudita; la sua posizione nei confronti del contesto accademico sarebbe stata condizionata da questi tratti, oltre che dal suo acceso laicismo. Le prime monografie di Pepe apparvero con l’avallo di Benedetto Croce e Adolfo Omodeo. Laterza pubblicò nel 1938 Lo Stato ghibellino di Federico II; Einaudi, nel 1941, Il Medio Evo barbarico d’Italia; entrambe le opere vennero positivamente recensite nella Critica, la prima da Omodeo, la seconda da Croce.
Libro di polemica politica, per ammissione dello stesso Pepe, il primo; l’opera dell’imperatore veniva seguita, sì, per lumeggiare le origini della tirannide, e la soppressione di tutte «le libertà politiche […]. Ma a questa tirannide quanto deve la libera coscienza moderna!» (Lo Stato ghibellino, Bari 1951, pp. 58, 60). Centrale era però lo snodo tematico fra il tentativo, e il fallimento, di una politica italiana, la costruzione dello Stato nuovo, la lotta contro la Chiesa e la spregiudicata resistenza di questa. Più di un nesso si intravede fra questo studio e il volume su La politica dei Borgia (Napoli 1945); ma le pagine borgiane possono anche essere lette come traduzione di uno degli enunciati caratteristici del Medio Evo barbarico: «non c’è stata cosa più funesta nella storia d’Italia del potere temporale della Chiesa» (Il Medio Evo barbarico d’Italia, cit., p. 158). L’alto Medioevo di Pepe era radicalmente diverso da quello romantico-germanico. La lettura di Pirenne contava: non c’era stato reale contributo germanico di civilizzazione, e le invasioni erano state solo un fattore di declino. Non apporti di vigore fisico, di lealtà e di libertà, com’era stato scritto nell’Ottocento; e Pepe insisteva sulla violenza e rozzezza, in specie del dominio longobardo. La questione longobarda veniva ripercorsa guardando ad Alessandro Manzoni e Carlo Troya; né da quella disorganizzazione politica sarebbe potuta scaturire una efficace soluzione unitaria. A dar conto di quell’età di dolore poco valevano le analisi legate a sottigliezze giuridiche; erano la rovina dell’economia, il tracollo demografico e la crisi del sistema sociale, il tramonto e la tormentata sopravvivenza della cultura classica che attraevano l’interesse di Pepe, convinto poi del fatto che non la sopravvivenza formale degli istituti romani, ma quella della vita urbana negli spazi latino-bizantini fosse stata alla base della nuova storia di un popolo nuovo. Del resto, Pepe era netto nell’indicare nel cristianesimo la religione di una civiltà superiore; e Gregorio Magno era stata la più grande figura del Medioevo europeo.
Proprio in questa chiave Pepe avrebbe potuto allargare lo sguardo dall’Italia all’Europa in una monografia già compiuta all’inizio del 1944, ma edita solo nel 1949, Il Medioevo barbarico in Europa. Largo, nel 1941, l’uso dell’anacronismo politico: totalitaria la dominazione dei Longobardi, popolo alla ricerca di «spazio vitale» (p. 80); la radicale barbarie germanica, del resto, si era fondata sul trionfo della pura forza militare. Non mancavano battute contro l’«utilitarismo egoistico del comunismo» (p. 74), contro le forme di conduzione collettiva dell’agricoltura e il livellamento comunista delle coscienze.
Pepe si era iscritto al Partito socialista italiano nel 1920, ma l’accostamento a Croce, maestro di libertà e speranza, non fu di carattere soltanto storiografico. Le sue posizioni dovevano essere note, se nella Roma occupata dai tedeschi (1943-44) fu costretto a nascondersi, protetto da Maria Ortiz, la direttrice della Biblioteca Alessandrina.
Dopo la liberazione di Roma (giugno 1944), e per pochi anni, Pepe ebbe un certo ruolo pubblico. Ne è una riprova il fatto che la celebre invettiva contro il «culturame» pronunciata nel 1949 dal ministro dell’Interno Mario Scelba fosse dichiaratamente diretta contro personaggi come Pepe e Russo. Nominato dal Partito liberale italiano (PLI), nel 1945, alla Consulta nazionale, ne fece parte fino all’aprile 1946, quando, assieme ad altri liberali di sinistra, uscì da quel Partito. La sua azione fu essenzialmente pubblicistica: fondatore e direttore di riviste, come Ethos e soprattutto Civiltà liberale (dicembre 1945-giugno 1946), e molto presente nei dibattiti del tempo anche con più articolati tentativi di riflessione etico-politica come il volumetto La crisi dell’uomo (Roma 1945), nel quale Pepe discuteva della vicenda italiana e delle forze morali ed educative a sostegno della libertà, di patria e tradizione, di rivoluzione e di socialismo, di un socialismo non marxista, fondato sulla prospettiva dell’«associazione dei lavoratori» (p. 94).
La rottura con il PLI era legata alla caduta del governo Parri e alle scelte da compiere sulla questione istituzionale, con Pepe su posizioni repubblicane. Vicino, nel giugno del 1946, a Parri e alla Concentrazione repubblicana, Pepe non avrebbe aderito al Partito repubblicano italiano. Sua vivissima preoccupazione fu quella della rinnovata forte presenza cattolica nella politica italiana; e su questo piano si incrinarono i suoi rapporti con Croce. Se di Alcide De Gasperi poteva scrivere che «è dei pochissimi che non abbiano dimenticato il Vangelo» (Gli eredi del liberalismo, in Un anno di dominio clericale, cit., p. 34), l’atteggiamento di Pepe fu però aspramente polemico, specialmente sul terreno della politica scolastica; Pepe fu tra i fondatori, nel 1946, dell’Associazione per la difesa della scuola nazionale, da lui presieduta fino al 1958.
Al di là della durezza dei toni e dei gesti – Tommaso Fiore narra dell’allontanamento di Pepe dalla Biblioteca vaticana –, il suo essere stato contrario alla Chiesa del Sillabo (Il Sillabo e la politica dei cattolici, a cura di G. Pepe, Roma 1945), del Concordato e dei ‘microfoni di Dio’ non fa di Pepe uno studioso insensibile alle tematiche religiose, incapace di accostarsi alla dimensione spirituale, come è documentato, oltre che dalla sua produzione storiografica – si pensi agli interessi francescani, fino al tardo volume del 1965 –, dall’attenzione mostrata per le forme di religiosità popolare nel Mezzogiorno. A partire dal 1947 lo spostamento a sinistra di Pepe si fece più marcato, con la collaborazione alle riviste Belfagor e Rinascita. In occasione delle elezioni politiche del 1948, tuttavia, Pepe si schierò con la lista di Unità socialista. La scelta frontista avvenne dopo l’esito del voto, con il ritorno al Partito socialista italiano, e con qualche distanza dai comunisti (Perché ho aderito al partito socialista, in Un anno di dominio clericale, cit., pp. 35-38).
Nel 1948 Pepe fu ‘ternato’ in un concorso universitario assieme a Ernesto Sestan e Ottorino Bertolini; nel febbraio 1949 fu chiamato a Bari, dove avrebbe insegnato fino al 1966. L’impegno pubblicistico venne attenuandosi, anche a causa della patologia degenerativa che avrebbe caratterizzato l’ultima parte della sua vita.
Pepe non ebbe famiglia propria, e visse a stretto contatto con la madre e con la famiglia del fratello maggiore, Guglielmo.
In Puglia fu molto legato all’editore Lacaita, e a personaggi come Fiore; alle iniziative editoriali intraprese sotto il segno della «protesta laica», collaborarono fra gli altri Gaetano Salvemini e Aldo Capitini.
L’ultima stagione storiografica di Pepe, legata all’insegnamento universitario, si articola attorno a problemi di tradizione. Poco felice il profilo della medievistica italiana fra Otto e Novecento offerto a Croce, specie per il sommario giudizio sull’opera di Gioacchino Volpe; più significativa l’insistita riflessione di quegli anni attorno al pensiero di Gaetano Mosca. Ma sono due volumi coevi, Un problema storico: Carlo Magno (Firenze 1952) e Il Mezzogiorno d’Italia sotto gli Spagnoli. La tradizione storiografica (Firenze 1952), a richiamare l’attenzione: questioni storiche affrontate sulla base di rassegne storiografiche, secondo uno spunto già presente nel manuale del 1942 sul Medioevo latino, cioè la «priorità dell’uso della letteratura in confronto alle fonti» (Un problema storico, cit., p. 11). L’esercizio metodologico, in parte applicato alla figura di Francesco d’Assisi, e che ha visibili implicazioni didattiche, era anche, nel volume sul Mezzogiorno spagnolo, resa dei conti con Croce: storiografica e politica, dato che troppo giustificatrice era la valutazione delle vicende del viceregno, e che il pensiero politico di Croce «oggi solo, svela ferree esigenze conservatrici sotto la teoria liberale» (Il Mezzogiorno d’Italia, cit., p. 160).
Dopo aver lasciato in anticipo l’insegnamento per ragioni di salute, Pepe morì a Roma il 15 settembre 1971.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica istruzione, Direzione generale Istruzione superiore, Personale, III vers., b. 366, ad nomen. Vari nuclei di corrispondenza sono conservati nella Biblioteca nazionale Sagarriga Visconti Volpi di Bari, Epistolario Fiore; nell’Archivio Ernesto Codignola presso il Centro Codignola, Pratolino (Fi); nella Biblioteca comunale Giosue Carducci di Pietrasanta, Fondo Luigi Russo; presso l’Istituto italiano per gli studi storici di Napoli, Archivio Adolfo Omodeo. Una bibliografia degli scritti di Pepe, dichiaratamente incompleta per quel che riguarda l’attività giornalistica e pubblicistica, è stata curata da G. Musca, Bibliografia degli scritti di G. P.: 1927-1970, in Studi storici in onore di G. P., Bari 1969, pp. 12-49. Cfr. inoltre: G. Musca, G. P., in Nuova rivista storica, LV (1971), pp. 728-748; P. Alatri, G. P., in Critica storica, IX (1972), pp. 161-165; S. Impellizzeri, Ricordo di G. P., in Annali della facoltà di lettere e filosofia. Università di Bari, XV (1972), pp. 179-200; C. Violante, Il Medioevo, in Federico Chabod e la ‘nuova storiografia’ italiana. 1919-1950, a cura di B. Vigezzi, Milano 1984, pp. 71-98; T. Fiore, G. P.e la sua protesta laica, a cura di F. D’Episcopo, Manduria 2001; E. Di Rienzo, Un dopoguerra storiografico. Storici italiani tra guerra civile e Repubblica, Firenze 2004, pp. 230-233, 318-325; G. P. e Federico II. Dallo Stato ghibellino alla Curia Ternana, Arrone 2004; F. Mores, Invasioni d’Italia. La prima età longobarda nella storia e nella storiografia, Pisa 2011, pp. 94-109; C. Nassisi, G. P. e la sinistra liberale: responsabilità e civismo del giornalista, Lecce 2012.