Gabrielli da Gubbio, Cante de'
Cante (o Giancante) de' G. appartenne a famiglia nobile di Gubbio, che godette molta fiducia presso i papi e che produsse vari uomini chiamati a importanti magistrature nel periodo conclusivo del conflitto tra guelfi e ghibellini. Fu fratello di Bino, podestà di Firenze nel 1306 e padre di Iacopo, senatore di Roma, capitano di guardia, conservatore della pace, bargello e due volte podestà in Firenze. Rappresentante di Parte guelfa, fu podestà a Gubbio, Siena, Todi, a Firenze per tre volte, a Pistoia, a Lucca. Deve la sua notorietà sopra tutti gli altri podestà forestieri, che si avvicendarono in Firenze, alle prime due sentenze di condanna di D.: quella del 27 gennaio e l'altra del 10 marzo 1302. E, pertanto, una figura che vive di riflesso, sia pure negativo, della luce che promana da Dante.
Il G., come rappresentante di Parte guelfa, era entrato in Firenze al seguito di Carlo di Valois, nel giorno di Ognissanti del 1301, secondo il Compagni, a capo dei cavalieri senesi (era stato podestà di Siena nel 1298; lo era, presumibilmente, nel 1301) cui si unirono successivamente gruppi di Parte nera, alla spicciolata, forse fiorentini o, più verosimilmente, di altri comuni e castelli toscani: " E dicevano che venieno a onorare il signore: i Perugini con CC cavalli: messer Cante d'Agobbio con molti cavalieri sanesi, e con molti altri, a sei, a dieci per volta, aversari de' Cerchi " (Compagni II 9). Fu nominato podestà di Firenze, per la seconda volta, il 9 novembre 1301, come risulta dalla serie dei podestà compilata dallo Strozzi e da una Provvisione dell'11 gennaio 1301 (cfr. Arch. di Stato di Firenze: Provvisioni XI c. 92), un giorno dopo l'entrata in carica dei nuovi priori " pessimi popolani e potenti nella loro parte. Li quali feciono leggi che i priori vecchi in niuno luogo si potessino raunare, a pena della testa " (Compagni II 19). Egli provvedeva subito a nominare i suoi giudici tra cui quel Paolo da Gubbio, che riscontriamo nelle sentenze di condanna, certamente uomo di fiducia del G. e già al suo seguito, incaricato d'inquisire sulle baratterie. Non senza ragione Cante si disse chiamato a tempo rotto in Firenze, prima che scadesse l'ufficio del predecessore Tebaldo Ramberto da Montelupone, per la persecuzione legale dei vinti. Infatti non era inesperto né di guerra né di leggi né dell'ufficio di podestà, che aveva più volte tenuto: a Gubbio, a Pistoia nel 1290-91, a Siena nel 1299, a Firenze nel 1298 (il Del Lungo lo pone podestà a Siena nel 1298, dal 1° al 30 giugno, sulla base di un documento, il Consiglio della Campana LX c. 80v, in Arch. di Stato senese, nel commento alla Cronica di D. Compagni, p. 157 n. 9. La notizia trova riscontro e conferma nel cod. n. 53 del consiglio generale della repubblica senese. Non si sa invece quale carica ricoprisse in Siena nel 1301, all'atto del suo ingresso in Firenze, a capo dei cavalieri senesi: se egli si trovasse colà come podestà o capitano del popolo, o fosse stato chiamato per un'immediata esigenza. Il Davidsohn lo pone a Firenze quale podestà uscente il 29 dicembre 1298, in occasione della cerimonia della pace tra Bolognesi ed estensi sulla piazza di Santa Reparata: cfr. Storia III 72). Che fosse ancora podestà a Firenze dopo il 1° novembre 1298 è confermato dalla controversia nata dal dubbio che la sua nomina del 9 novembre 1301 avesse dovuto superare l'incompatibilità prevista dallo statuto del 1301 per la rielezione entro il triennio (Davidsohn, IV I 144).
La sua inclinazione verso i Neri si manifesta già in quel primo periodo podestarile attraverso la condanna a morte di Neri di Gherardino Diodati, figlio di uno dei priori di Parte bianca, che ritroviamo condannato accanto a D. nella sentenza del 10 marzo 1302. Il processo di Neri, che, ritenuto innocente dalla pubblica opinione, si sottrasse alla pena con la fuga, fu poi soggetto a revisione su richiesta di Dante. Ne seguì l'amnistia (Decreto del Consiglio dei Cento del 28 settembre 1301, in Davidsohn, III 83). Il Neri però, in seguito al capovolgimento del novembre di quell'anno, non poté tornare in Firenze e fu costretto a raggiungere il padre sulle vie dell'esilio.
Un freno alle indiscriminate violenze, seguite immediatamente all'ingresso del Valois, sembra porre l'elezione di Cante a podestà; ma si tratta piuttosto di una parvenza di legalità che consente di colpire i capi più influenti della Parte soccombente. Le parole del Compagni non ammettono dubbi: " E compiuti i VI dì utili stabiliti a rubare elessono per podestà m. Cante Gabrielli d'Agobbio. Il quale riparò a molti mali e a molte accuse fatte, e molte ne consentì " (Compagni II 19). In effetti, le accuse consentite furono molte e molte e molto gravi le condanne: a tutto giugno 1302 risultano iscritte nel Libro del Chiodo 689 condanne, di cui 559 alla pena capitale: tra queste 209 appartengono al Gabrielli. È vero che il suo successore, Gherardino di Gambara da Brescia, ha al suo attivo un numero maggiore di condanne, ma è anche vero che i rappresentanti più influenti e, per la fazione, più pericolosi, erano stati eliminati dal G. con le sue prime sentenze: tutti i quindici condannati a morte nella sentenza del 10 marzo 1302 avevano esercitato eminenti funzioni politiche nelle magistrature della Firenze bianca (priori e gonfalonieri) dal novembre 1299 al novembre 1301. E sono quelli destinati a rimanere esclusi dall'amnistia del 1315. Tra questi è D., su cui si abbatteranno altre due gravi condanne (del 15 ottobre, e del 6 novembre 1315), nel mentre al traditore Baldinuccio degli Adimari venivano riaperte le vie del ritorno in patria.
Il Davidsohn è indotto, oltre che dal movente politico, dal numero e dall'entità delle condanne, dall'uniformità delle sentenze, tipica delle rivoluzioni, e dalla fretta con cui queste appaiono stilate " dagli ignoranti suoi giudici " a considerare il G. " natura di carnefice piuttosto che di giudice " (III 313). In realtà, per quanto non sia certo di animo generoso e imparziale organizzare un così gran numero di condanne a morte a carico di eminenti personalità di Parte bianca - la discriminazione politica emerge evidente oltre che dai fatti altrove indicati e dalla stessa motivazione, anche dai provvedimenti di ripresa e di revisione dei processi avviati o conclusi dal precedente podestà, dal 10 novembre in poi - bisogna pur ammettere che Cante esercitò il potere giudiziario con la dignità consentita a un magistrato di parte, in quelle circostanze e in quella città, se lo stesso Compagni, cronista bianco, dimostra verso di lui un certo riguardo che non usa per altri podestà. Relativo appare anche, a uno studio più attento, il giudizio di frettolosità e di grossolanità delle sentenze. Il Davidsohn cede anche lui alla suggestione di quei biografi, che sulla scorta del Villani e del Compagni, propendono per il cosiddetto " ostracismo tumultuario ", dettato dall'ansia e dalla fretta della sopraffazione politica, che tende a ridurre e a compromettere la regolarità del processo. Eppure nella scelta del G. c'era stata, insieme con un interesse di parte, anche una preoccupazione di regolarità e di legalità. Sulla scorta dei numerosi documenti messi in luce da I. Del Lungo, da B. Barbadoro, da C. Biagi, da G.L. Passerini, da R. Caggese, ecc., dopo i primi studi del Barbadoro e del Barsanti, gli studiosi più recenti dal D'Amelio al Cuboni, ai giudici e testimoni del processo aretino di D. del 1966, sono invece per il riconoscimento della regolarità formale e della legalità processuale e politica delle condanne del 1302. Il che non modifica le conclusioni di non colpevolezza di D., né toglie al processo il suo carattere politico, o meglio di sopraffazione politica. Sia l'imputato D. nonché il podestà G., che ne siglò la condanna, vanno inquadrati nella prospettiva storica delle lotte municipali della Firenze del Trecento, in cui una fazione affermava e consolidava il suo potere attraverso l'eliminazione delle più eminenti personalità della fazione opposta mediante condanne a morte, bando, rovina economica e politica.
Bibl. - F. Sansovino, Signori G., in Della origine e dei fatti delle famiglie illustri d'Italia, Venezia 1582, 369-378; C. Gabrielli, I G. di Gubbio, in " Arch. Stor. Gentilizio del Napoletano " I (1895); G. Giovagnoli, D. e Gubbio, in Gubbio nella storia e nell'arte, Città di Castello 1932; E. Colombi, I G. da Gubbio, in " Palatino " V (1961); I. Dei, Lungo, Dino Compagni e la sua Cronica, II, Firenze 1879; ID., Dell'esilio di D. (con un regesto delle Condannagioni del 1302, estr. dal Libro del Chiodo), ibid. 1881; E. Barsanti, I processi di D., ibid. 1908; B. Barbadoro, La condanna di D. e le fazioni politiche del suo tempo, in " Studi d. " II (1920) 5-74; ID., La condanna di D. e la difesa di Firenze guelfa, ibid. VIII (1924) 111-127; ID., I consigli della repubblica fiorentina (1301-1307), Bologna 1921; G. Biagi-G.L. Passerini, Codice diplom. dant., Città di Castello 1895-1911; R. Caggese, Statuti della repubblica fiorentina, Firenze 1910-1921; ID., Duecento e Trecento, Torino 1939; Zingarelli, Dante, Milano 1931; Piattoli, Codice 90, 91, 183; Davidsohn, Storia III, IV I; N. Ottokar, Il Comune di Firenze alla fine del Dugento, Firenze 1927; C. Cuboni, La condanna di D., in " Convivium " XI (1939) 1-45; Il Processo di D., a c. di D. Ricci, Firenze 1967.