CHIABRERA, Gabriello
Nato a Savona nel 1552 ed ivi morto nel 1638,- ebbe una giovinezza piuttosto agitata, perché gli mancarono nei primi anni le cure del padre, morto quindici giorni prima ch'egli nascesse, e della madre passata subito a seconde nozze.
A nove anni (dice egli stesso nella sua autobiografia) "fu condotto a Roma ove Giovanni (Chiabrera) suo zio faceva dimora, ed ivi fu nudrito con maestro in casa, da cui apparò la lingua latina". Poi fu messo nel collegio dei gesuiti a studiare filosofia e vi stette fino ai vent'anni. Mortogli lo zio (1572), pensò ai casi suoi mettendosi ai servigi del cardinal camerlengo Cornaro, "e stettevi alcuni anni"; ma quella della corte non era vita per lui, che amava la libertà e a stento frenava i bollenti spiriti. Così, essendosi vendicato dell'oltraggio ricevuto da un gentiluomo romano, dovette nel 1581 abbandonar Roma e ritiratosi in patria vi ebbe altre brighe, finché, chetatasi ogni inimicizia, poté darsi alla dolcezza degli studî e godersi lungo riposo. Prese moglie sui cinquant'anni. Da buon cittadino sostenne in patria alcuni onorevoli uffici, senza però sacrificare ad essi troppo gran parte del suo tempo. Similmente nei frequenti viaggi entrò in relazione con principi e signori, senza però mai legarsi al servizio di nessuna corte. Godé i favori di Ferdinando I di Toscana, di Carlo Emanuele I di Savoia, dei Gonzaga di Mantova, e n'ebbe vantaggi pecunari a compenso dei versi scritti per celebrare gesta o fauste ricorrenze o nozze o festeggiamenti. "In lunga età ho composto moltissime cose, parte per mia vaghezza, parte per tentare la liberalità de' Principi, parte per prova di studio, parte per musica e per compiacimento". Ma la liberalità tentata non sempre rispondeva prontamente, onde il Chiabrera si lagnava col duca Vincenzo di Mantova del tesoriere di Casale, ch'era alquanto restio a secondare la "liberalità" destinatagli dal principe; ma prudentemente soggiungeva: "ciò non è biasimo; anzi è pregio del suo ufficio, ed è chiaro che i Tesorieri vogliono l'utilità del Principe e gli scrittori la sua gloria; ma certo quanti Tesorieri ebbero i Signori da Este, non fecero loro servizio pari a quello che trassero da Ludovico Ariosto". Se in questa lettera (30 aprile 1611) il C. osava in qualche modo paragonarsi all'Ariosto, nell'altra, scritta molti anni dopo, ove sono le parole citate prima, egli diceva dei suoi versi: "Di questi, una verità si può affermare, cioè che tutti sono vili cose e da non stimarsi". Né i contemporanei né i posteri consentirono in un tale giudizio, pur mostrandosi gli uni troppo indulgenti, gli altri troppo severi, col far del Savonese o addirittura un Pindaro novello o niente altro che un abile manipolatore di versi, retore vuoto e freddo. La parte della sua produzione poetica che ha resistito al tempo e che non morrà è quella che comprende i brevi componimenti - i più per musica - nei quali l'agile verso ridente e luminoso seconda l'immagine viva e svelta e l'idea lieve e graziosa con movimenti e ritmi carezzevoli e con rapida varietà di piccoli voli. In tali odicine o canzonette il C., anche quando va sulle orme d'Anacreonte o del Ronsard, ci va per conto suo e alla sua maniera con un'impronta personale e originale che lo salva dalla taccia d'imitatore servile. Pure con interesse e diletto si leggono ancor oggi i Sermoni, nei quali sono anticipati il Parini e il Gozzi. Invece le canzoni pindariche, per le quali il C. acquistò gran fama e che tanto piacquero al Leopardi, sono cose morte, specialmente per difetto di vero sentimento eroico, per incomprensione del valore e della funzione del mito in Pindaro, e per mancata rispondenza fra l'ideale perseguito e l'effettiva realtà. Unicamente pregi di stile hanno i Poemetti epico-lirici, sacri e profani, narrativi, descrittivi o didascalici in versi sciolti.
Il temperamento lirico del C. non era fatto per la poesia epica, ond'egli nulla seppe creare di vitale nei varî poemi che compose (La Gotiade, l'Erminia, il Foresto, la Firenze, l'Amedeide). Invece, come nella lirica anacreontica, il C. lasciò un'orma incancellabile nella poesia melodrammatica: suo vanto è l'avere scritto, per la musica di Giulio Caccini, il Rapimento di Cefalo, rappresentato nel 1600 a Firenze in occasione delle nozze di Maria de' Medici con Enrico IV re di Francia.
Ediz.: Opere del C. raccolte in cinque tomi, Venezia 1757; Poesie liriche, sermoni e poemetti scelti da F.L. Polidori, Firenze 1865; Autobiografia, dialoghi e lettere scelte con prefazione di G. Agnino, Lanciano 1912; Liriche, introduzione e note di F.L. Mannucci, Vorino 1926.
Bibl.: O. Varaldo, Bibliografia delle opere a stampa di G. C., in Giorn. ligustico, XIII (1886); Suppl., ibid., XIV (1888); Supplemento secondo, in Atti dello Soc. stor. savonese, II (1890); F. Neri, il C. e la Pleiade francese, Torino 1920; F. L. Mannucci, La lirica di G. C., storia e caratteri, Napoli 1925.