NAVA, Gabrio Maria
– Nacque il 17 aprile 1758 a Barzanò (Lecco), pieve di Missaglia e diocesi di Milano, da don Nicolò, capitano di cavalleria dell’armata imperiale asburgica, e dalla nobile Antonia Gemelli. Il fratello Francesco fu l’ultimo vicario di Provvisione della Congregazione di Stato della Lombardia austriaca.
Educato dapprima dai barnabiti e poi dagli oblati, dove perfezionò gli studi in filosofia, frequentò le scuole teologiche di Brera e nel 1782 fu consacrato sacerdote. Nel 1784 conseguì un dottorato in teologia a Pavia, frequentando anche i corsi di due famosi giansenisti, Pietro Tamburini e Giuseppe Zola.
A 26 anni fu nominato prevosto della basilica di S. Stefano Maggiore a Milano e si occupò essenzialmente dell’educazione dei giovani. In virtù del suo zelo e delle sue capacità pastorali, passò nel 1795 alla parrocchia di S. Ambrogio, nella quale divenne canonico metropolitano. Qui fondò un oratorio per la gioventù, dividendolo in classi e dotandolo di un regolamento, cui si ispirarono anche altri oratori milanesi. Ebbe modo di mostrare le eccezionali doti del suo carattere e la forte vocazione pastorale negli anni della dominazione napoleonica, mediando tra le continue esigenze di requisizione dei francesi e le necessità dei milanesi più poveri. La cura dei malati e degli indigenti fu, infatti, tra le sue principali preoccupazioni di quegli anni. Quando l’entrata in Italia degli austro-russi costrinse l’esercito napoleonico a evacuare Milano si prese cura dei feriti che i francesi dovettero abbandonare in città e gli ufficiali napoleonici gli testimoniarono grande riconoscenza in una lettera, pubblicata dopo la sua morte nell’Ami de la religion (1836, p. 18).
Godeva di tale stima presso gli ambienti della Curia che l’arcivescovo di Milano Filippo Maria Visconti volle condurlo con sé come rappresentante del clero milanese ai Comizi di Lione nell’inverno del 1801-02, non solo per la sua grande padronanza del francese, ma anche per le doti di equilibrio e prudenza che aveva rivelato nel trattare le questioni ecclesiastiche durante il triennio giacobino. In qualità di accompagnatore personale dell’arcivescovo fu testimone diretto della sua morte, avvenuta a Lione il 20 dicembre 1801.
Iscritto nel Collegio dei dotti del dipartimento dell’Olona, nel corso del Regno d’Italia ricevette i titoli di elemosiniere del re d’Italia e di cavaliere della Corona di ferro, oltre che quello di barone del Regno. In quegli anni divenne anche amico intimo del viceré Eugenio di Beauharnais e della moglie Maria Amalia, di cui fu a lungo confessore, e che gli testimoniarono più volte la loro stima personale.
Proprio su proposta del principe Eugenio il 15 aprile 1806 fu designato arcivescovo di Brescia, una delle diocesi più importanti dell’antica ex Repubblica veneziana e una delle più estese d’Italia, seconda dopo Milano. Primo vescovo non veneziano dopo oltre tre secoli, fu consacrato a Milano il 1° novembre 1807 dall’arcivescovo di Ravenna Antonio Codronchi e fece il suo ingresso solenne a Brescia il 17 gennaio 1808. Il suo episcopato si protrasse fino al 1831 e fu un esempio significativo della ricerca di conciliazione fra trono e altare, soprattutto per la sua capacità di interagire con le autorità napoleoniche senza tradire la propria fede e missione, anche se tale attitudine gli procurò spesso l’accusa di essere completamente asservito al governo d’Oltralpe.
Si dedicò subito con zelo alla cura della diocesi, rivolgendo particolari attenzioni al seminario, che era stato chiuso nel 1797 e ai pochi collegi religiosi sopravvissuti alle soppressioni. Grazie al suo intervento ripresero l’edilizia per il culto e l’attività educativa e caritativa. Fu abile nel condurre una politica di graduale restaurazione delle istituzioni ecclesiastiche, anche se non mancarono scontri con le autorità del Regno d’Italia, in particolare con il direttore generale della Pubblica Istruzione circa il testo del catechismo e la volgarizzazione di Vangeli: nelle sue prese di posizione affermò apertamente che solo l’autorità episcopale era competente in materia. Lottò a lungo anche per evitare che i chierici della sua diocesi fossero obbligati al servizio militare e cercò di ottenere il maggior numero di esenzioni possibile. Iniziò una lunga e capillare visita pastorale che proseguì fino al 1821, con l’aiuto di due suoi nipoti chierici giunti da Milano, i conti Giovanni e Ambrogio Lurani, figli della sorella, preoccupandosi soprattutto della corretta applicazione del catechismo come strumento educativo.
Riorganizzò anche l’archivio della Curia, rendendosi conto che mancava di annotazione sulle varie contingenze e ordinò quindi il protocollo ufficiale di Curia che iniziò proprio col suo insediamento in città. Al fine di incrementare ulteriormente gli studi nel seminario, già nel 1808 inaugurò un’Accademia di lettere e scienze di cui divenne presidente e che dedicò a s. Carlo Borromeo. Nel seminario istituì nuove cattedre, come quella di ermeneutica, ideando per essa una nuova accademia di studi all’interno del palazzo vescovile, che affiancò alle altre di greco, ebraico, storia ecclesiastica, diritto canonico e teologia pastorale.
La tensione che da tempo connotava i rapporti tra papa Pio VII, ‘prigioniero’ a Savona dal 1809, e Napoleone fece sì che Nava rifiutasse di recarsi a Parigi per assistere al matrimonio tra l’imperatore e Maria Luisa d’Austria, nonostante la carica di elemosiniere lo obbligasse, di fatto, a presenziare. La scusa addotta fu che l’invito gli era pervenuto in ritardo.
Quando, il 25 aprile 1810, Napoleone soppresse tutti gli ordini religiosi, la reazione di Nava fu immediata: interpellò il prefetto del dipartimento del Mella, Francesco Torriceni, per concordare un’azione congiunta «pel fine importantissimo del buon ordine e del bene comune» (Brescia, Arch. vescovile, Protocollo generale, anno 1810). La sinergia tra il prefetto e il vescovo fece sì che la fuoriuscita dai conventi e dai monasteri di un gran numero di persone si compisse senza eccessivi disordini, anche grazie ai poteri ‘particolari’ che Nava aveva chiesto a Pio VII mediante una supplica e che il papa gli aveva concesso.
Lo scontro tra l’imperatore francese e Pio VII si riacutizzò dopo che il 14 ottobre 1810 il cardinale Jean-Siffrein Maury, ormai fedele all’Impero, fu posto da Napoleone a capo dell’arcivescovato di Parigi e il papa gli rifiutò l’investitura canonica, vietandogli così di governare la diocesi. Nel tentativo di ottenere l’istituzione dei vescovi da parte dei metropoliti – cosa che avrebbe ridotto ulteriormente le competenze della sede apostolica e minacciato l’unità dei cattolici – Napoleone convocò a Parigi il Concilio nazionale dei vescovi dell’Impero e del Regno d’Italia. Composto da 6 cardinali, 8 arcivescovi e 81 vescovi (di cui 41 titolari italiani), il Concilio, sul versante italiano organizzato dal ministro del Culto del Regno d’Italia, Giovanni Bovara, si aprì nella basilica di Notre-Dame il 17 giugno 1811. Nava, che qualche giorno prima aveva assistito anche al battesimo del re di Roma, fu scelto come uno dei quattro segretari dell’assemblea. Nel corso delle prime sedute dell’assemblea la preparazione di un documento da indirizzare all’imperatore diede luogo a lunghe e dure discussioni fra i vescovi francesi, che vi inserirono riferimenti ai quattro articoli del 1682 relativi alla chiesa gallicana, e i prelati italiani, che si opposero. Il 27 giugno Nava lesse e depositò una memoria nella quale criticava in modo deciso la scelta di introdurre nel documento all’imperatore opinioni e dottrine sul gallicanesimo, a suo avviso completamente avulse dalle necessità imposte dalle circostanze. Si sforzò soprattutto di dimostrare che la maggioranza dei cattolici non riconosceva valide le ‘libertà della chiesa gallicana’, contro cui molti vescovi italiani, come lui stesso, avevano sovente protestato. In tal senso era impossibile apporre la firma al documento, tanto più che era stata commessa un’irregolarità nell’introdurre all’interno di una comunicazione all’imperatore questioni che non avevano potuto essere esaminate prima da tutti i vescovi, come era previsto dal cerimoniale di tutti i concili. Chiedeva dunque che il documento riservato all’imperatore si limitasse ai consueti omaggi di fedeltà previsti per la persona di un sovrano, senza entrare nel merito di questioni di dottrina. La memoria di Nava destò notevole stupore tra i vescovi presenti e, se provocò una certa soddisfazione tra gli italiani, causò malcontento nella compagine di quelli francesi, in particolare al cardinale Maury che vedeva così negata la tradizione della chiesa gallicana; non piacque altresì a Bovara presente a Parigi, soprattutto per le modalità con cui Nava aveva esposto le sue opinioni personali. Richiesto di ritrattare, rifiutò e perciò fu escluso dalla carica di segretario del Concilio. Comunque, anche se all’interno del Concilio sembrarono profilarsi minacce di scisma, la quasi totalità dei prelati presenti riaffermò la propria fedeltà alla sede apostolica e all’unità della Chiesa. Fortemente irritato per la resistenza dei vescovi, Napoleone li congedò il 2 ottobre 1811, senza aver ottenuto nella sostanza alcun risultato.
Tornato a Brescia, Nava riprese a dedicarsi alle cure della diocesi, prestando particolare attenzione al seminario e al completamento del duomo nuovo. Quando, il 28 aprile 1814, dopo la caduta di Napoleone, le truppe austriache entrarono in Brescia, Nava si rivelò un abile traghettatore della diocesi verso la Restaurazione. Il 14 maggio fu convocato a Milano per i comizi elettorali e chiese al nuovo governo insediato il permesso di recarsi a Roma in visita dal papa, ma gli venne negato. La carestia che colpì la diocesi nel triennio 1815-17 lo vide impegnato in grandi attività caritative, alle quali contribuì anche con denaro personale ottenuto dalla vendita di preziosi oggetti privati ricevuti in dono sia da Napoleone sia dai Beauharnais. A lui si debbono numerosi edifici realizzati in quegli anni sul territorio bresciano, fra cui, oltre al seminario di Lovere, numerosi oratori all’interno della città. Nel 1818 fece edificare l’Istituto delle salesiane per l’educazione della gioventù e nel 1823 creò in città un Oratorio di s. Filippo Neri destinato ai preti e ai missionari anziani, malati o collocati a riposo. Sempre su suo suggerimento nel 1822 fu fondato a Brescia un istituto per accogliere le donne abbandonate e le prostitute. Nel 1827 riaprì un convento di orsoline all’interno di un locale ricevuto in dono dall’imperatore Francesco I, di passaggio a Brescia nel 1825, al quale aveva anche domandato clemenza per i condannati bresciani dello Spielberg e di Lubiana. Cugino di Federico Confalonieri, si prese infatti a cuore non solo le sorti del famoso parente, ma anche quelle dei detenuti bresciani, in particolare Domenico Zamboni di Passerano, del conte Cigola, di Silvio Moretti e di Antonio Solera.
Negli anni della Restaurazione accordò ospitalità all’Ateneo cittadino nelle sale del Palazzo arcivescovile, aperto ogni sera a ricevimenti e conversazioni, attirandosi spesso i controlli governativi. Nelle fonti archivistiche si trova poi ampia testimonianza di ingenti opere di carità che destinò personalmente a istituti e parrocchie dell’intera diocesi.
Morì il 2 novembre 1831 e fu sepolto nel Duomo nuovo di Brescia.
Opere: Istituzione cristiana, per ordine di mons. Gabrio Maria Nava, Brescia 1821.
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