ARCANGELI, Gaetano
Nacque a Bologna il 19 apr. 1910, da Adolfo, romagnolo, e da Maria Vellani.
I primi anni sensibilmente umbratili e miti, la madre tenerissima e forte fino al sacrificio, l'intenso affetto come figlio più anziano per la sorella Bianca e il fratello Francesco (che diventerà docente di storia dell'arte nell'ateneo bolognese), la stagione estiva delle vacanze sulla marina adriatica, questi e altri elementi autobiografico-infantili affiorano nel lungo racconto L'anima del mare (Padova 1968). Difficili l'adolescenza e la giovinezza; compì gli studi medi e universitari tra difficoltà economiche e gravi responsabilità familiari che lo costrinsero ad un assiduo lavoro di ripetitore per aiutare finanziariamente il padre, presto inabile a causa della vista. All'università di Bologna, mentre abbozzava le prime esercitazioni critiche coraggiose e illuminanti (ma allora incomprese e addirittura osteggiate) sulle tele di Modigliani e la lirica di Cardarelli, manifestò sinceri interessi creativi in proprio nell'ambito della poesia e delle arti figurative; i suoi Nutrimenti terrestri pubblicati su La Ruota (ottobre-dicembre 1941, pp. 242-245), portano il sottotitolo sintomatico Alle care immagini dell'arte.
La laurea in lettere con una originale, convinta tesi su Pascoli, aprì all'A. la strada dell'insegnamento; dapprima all'istituto magistrale "Carlo Sigonio" di Modena, dove divenne amico di V. Sereni (il poeta del Diario d'Algeria), quindi al liceo classico "Galvani" di Bologna dal 1944 fino alla morte.
Qui l'A. conobbe e frequentò nomi che contavano come G. Morandi e R. Longhi, G. Ungaretti e il "rondista" bolognese G. Raimondi. Eppure ad ogni sua opera, da Solo se ombra (Parma 1951) a L'Appennino (Padova 1958), da I passi notturni (ibid. 1959) al citato L'anima del mare, sembra corrispondessero in disobbligante, inversa proporzione, altrettanti motivi di perdita socio-esistenziale.
I primi dieci anni di preparazione e prove letterarie, a cominciare dal 1927, rimangono documentati dal volume Dal vivere (Bologna 1939): dove più che le poesie, riprese ed elaborate sulla linea decadente di Pascoli e D'Annunzio, valgono le prose che in stile "rondesco" costruttivo e analitico presentano sequenze e paesaggi, le terre di Romagna, la via Emilia, la spiaggia adriatica, San Marino, il "medievale paesano Appennino". Se nell'economia di Dal vivere dominano le prose e gli elzeviri (frutto della collaborazione alle bergamasche Cronache dirette da Gino Visentini, al bolognese Il Resto del carlino e a IlLavoro di Genova), il decennio 1940-50 vide prevalere la ricerca lirica in vista di Solose ombra, l'opera che segnò il tempo pieno dell'A., il suo marcato distacco dall'esperienza ermetica.
La condizione superstite del poeta (lo "scampato cuore") man mano che avanzano gli anni, il suo "mite" esistere messo a dura prova dai logoramenti, dalle distruzioni della vita e della guerra, scandiscono Solose ombra (ediz. ritoccata e accresciuta, Milano 1954) intorno a tre nuclei di chiara impronta antiermetica ed esistenziale: il ricordo del padre morto, i paesaggi tramontati dell'infanzia, gli amici della giovinezza e i loro volti scomparsi, nella prima parte della raccolta; al centro, la sezione Tra rovine imploranti provocata dagli eventi bellici 1943-45; e infine la serie intitolata Una blanda catastrofe che vede il tempo interiore dell'A. riassunto, raggelato nel presentimento di una imminente, personale "apocalisse" degli affetti, per un proprio tragico destino di uomo "morto alla rissa del mondo".
Intervenendo nel dibattito su letteratura e società durante gli anni in cui la "cultura dell'impegno" sosteneva ad oltranza la "poesia della resistenza", la "narrativa-inchiesta" e la "narrativa-documento", l'A., contro il neorealismo e il populismo imperanti, contro gli "adoratori del collettivismo integrale", richiamava alla diversa esigenza, alla sostanziale necessità dell'individualismo e della meditazione privata (Realtà e poesia, in Paragone, I [1950], n. 10, p. 60), sottolineava lo stesso diritto alla solitudine come "eterna misura dello spazio meditativo", ribadendo l'amara, tenace fedeltà alla cronaca "apocalittica" del proprio vivere.
Parlando del racconto lungo Vicenda, vincitore del premio Taranto 1950 e la cui elaborazione ha prodotto a distanza di quasi vent'anni L'anima del mare, l'A. dichiarava (Colloquio con G. A., in Alto Adige, 25 genn. 1950) che il mare dell'infanzia e dell'adolescenza (l'Adriatico del Borgo di San Giuliano di Rimini) non era per lui una calma, rasserenante distesa d'acqua, ma una voce "ostile, misteriosa e perfida come quella di un mostro implacabile che ruba la vita agli uomini e poi getta le vittime sulla spiaggia, con noncuranza". Questa volta è la "paura del mare" a produrre l'incontro-scontro tra il turbamento del "ragazzetto" protagonista autobiografico (che ha abbandonato per le vacanze la protezione della sua casa-città) e l'inedito, nemico mondo del mare-incubo, la sua presenza intuita e sofferta come dura e lesiva. Nel poemetto L'Appennino (ediz. accresciuta: L'Appennino e nuove poesie, Milano 1963) sarà lo spettacolo della montagna desolata dall'emigrazione e sconvolta, "offesa" dal turismo di massa a configurare il destino dell'uomo secondo un altro rapporto di identificazione e di sofferenza presaga con la natura, un sentimento di fine, di perdita percorre L'Appennino, con le sequenze lirico-narrative che parlano della montagna consumata dallo squallore della decadenza (le "cime" dai nomi vanamente superbi, i borghi spenti, spopolati, in preda all'abbandono, al non esistere).
Nell'ultimo decennio 1958-68, l'A. condusse pagine di polemica letteraria e di costume su La Fiera letteraria e Il Caffè di G. Vicari (firmando le rubriche "Colèdoco" e "Diario dell'appartato") e pubblicò la raccolta Canzonetta all'Italia (Padova 1969). Se già in altro tempo storico Petrarca aveva scritto una solenne, degna Canzone all'Italia, oggi in anni diversamente indegni di odioso, dilagante arrivismo, al poeta novecentesco "appartato" non restava che comporre una Canzonetta all'Italia.
Sotto l'ironia del titolo spiccano motivate, documentate insofferenze e rilievi polemici, corrono scherzi mordenti e salaci epigrammi; sono "botte" distribuite con efficace, asciutto impeto linguistico, ciottoli "calandrineschi" scagliati contro i letterati fasulli, contro tutti i profittatori del mondo della cultura, gli esecutori ineffabili di "novità" alla moda, gli zelanti morsi dalla tarantola dell'"ultimismo": neoavanguardisti, sperimentali, poeti che si autoproclamano "novissimi", marxisti di Paese sera.
Anche negli ultimi mesi, quando sentiva riprendere vigore e trasformarsi dentro di sé, in direzione e modi intensi, sempre più maturi, il suo lungo, tenace amore della poesia, l'A. non volle rinunciare all'isolamento vigile, meditativo, né smettere quella dignitosa lotta controcorrente che rappresentava ormai per lui una seconda forma di esistenza.
L'A. morì a Bologna l'8 sett. 1970. Nel 1971 fu pubblicata postuma a Milano la raccolta Le poesie (Prime poesie, Solo se ombra, L'Appennino e nuove poesie, Da "Canzonetta all'Italia", Postume e inedite).
Bibl.: R. Bertacchini, G. A., in Letteratura italiana. Il Novecento, IX, Milano 1979, pp. 8505-18, con bibliografia aggiornata dal 1950 alle pp. 8525-27; M. Forti, Poesia di A., ibid., pp.8518-25; Recenti rassegne di scrittori padani, in Otto-Novecento, III (1979), pp. 445-53; G. Marchetti, Ricordo di G. A., in La petite capitale e altri studi padani, Parma 1979, pp. 199-202; M. Visani, A. G., in Diz. della lett. mondiale del 900, Roma 1980, pp. 145 s.; M. Cucchi, A. G., in Diz. della poesia italiana, Milano 1983, p. 16.