DE SANCTIS, Gaetano
Terzogenito d'Ignazio e di Maria Orlandini, nacque a Roma il 15 ott. 1870, in una famiglia che aveva rifiutato di riconoscere, e fu costante nel non volere mai riconoscere, lo Stato italiano.
Il padre, capitano della gendarmeria pontificia, e il nonno materno, "segretario generale presso l'Amministrazione dei sali e tabacchi" (G. De Sanctis, Ricordi della mia vita, Firenze 1970, p. 16) rifiutarono, entrambi, il richiesto giuramento e affrontarono con la massima decisione l'impopolarità e il bisogno.
Il rifiuto dell'Italia importava, per il D., una duplice scelta: di esistenza e di educazione. Visse, infatti, non pur lontano, ma ignaro di quanto accadeva nella "nuova" Roma, anche, o soprattutto, dell'esperienza carducciano-sommarughiana in cui maturò (salvo poi a rinnegarla, ma senza riuscir mai ad affrancarsene) il suo quasi coetaneo G. Salvadori; e ignaro altresì, o soprattutto, di quale era la storia e di quali erano le tradizioni della penisola. Non giornali, se non modesti organi della Restaurazione europea, inneggianti ad Enrico V (il titolo che in casa De Sanctis portava il conte di Chambord) e allo spagnolo Don Carlos; silenzio, od invettive faziose, non pur a "colui che detiene", ma a Garibaldi e a Mazzini; convinti di trame settarie e di sanguinosi attentati i patrioti, massime se operosi nel periodo fra la vigilia di Mentana e la giornata di Porta Pia: Letture controllate e filtrate anche dei nostri classici, scarso entusiasmo (che il D. ebbe poi sempre) per il Manzoni (il cui Discorso sulla storia longobarda, tuttavia, lesse in liceo e giovò non poco ai suoi studi storici) e moderata apertura a scritture neoguelfe, massime il Sommario di C. Balbo (che restò fra i libri formativi e normativi del giovane De Sanctis).
Nell'ambiente chiuso, rigorosamente legittimista e "classista", di casa De Sanctis (dove i figli diedero sempre del "Lei" ai genitori, e dove non si ricevevano e non si facevano visite neppure agli scarsi e lontani parenti, alcuni dei quali erano "passati al vincitore"), lo stesso problema scolastico quasi non si poneva. Obbligata la scelta delle scuole ecclesiastiche (vuoi elementari, vuoi secondarie): dal 1883, il Seminario romano a S. Apollinare (dove il D. rimase fino alla licenza liceale, nell'88).
Qui, poteva dirsi tecnicamente ottimo l'insegnamento del latino e sufficiente quello del greco, mentre l'insegnamento delle scienze doveva contendere con (e difendersi dai) nuovi avanzamenti di matrice positivistico-evoluzionistico-darwiniana, e l'insegnamento dell'italiano isteriliva nella vieta retorica (senza che i ragazzi imparassero a scrivere: altra difficoltà e altra conquista dello storico, la patina arcaicistica delle cui prime pagine tradisce appunto l'incapacità di trascendere il materiale linguistico tradizionale o d'imprimervi il segno d'una personalità propria). L'ambiente domestico non era, tuttavia, incolto e, in certo senso, neppure chiuso. In traduzione francese (una lingua della quale il D. ebbe sempre sicuro possesso) si leggevano romanzi storici e novelle fantastiche anglo-scozzesi, tardo retaggio scottiano, e il più moderno Dickens: mentre il ragazzo, sia pure sul Rollin e sull'Anacharsis dell'abbé Barthélemy, veniva scoprendo, con fremiti, entusiasmi e lagrime, la storia di Grecia e di Roma, in ispecie il "mito" di Roma (Bruto, Virginia, Cincinnato, Hannibal ad portas ...). Dal Rollin al Sommario del Balbo veniva, tuttavia, costruendosi, nella giovane mente del D., un'ideale traiettoria romano-italiana, che portava all'eversione della lectio recepta, del tradizionalismo restaurativo, della fedeltà all'ancien régime e al pontificato temporale: e portava altresì, in un primo, ancora mal certo, congiungimento fra storia e praxis, al "colonialismo" desanctisiano. Il quale data, per sua confessione, dall'eccidio di Dogali (1887). L'Italia, dunque, che già era, doveva essere, come l'antica Roma e i moderni Stati europei, colonizzatrice e incivilitrice cristiana dell'Africa nera: nel che influivano e agivano anche elementi, spesso antitaliani, del missionarismo cattolico (quali adombra, per esempio, il romanzo del gesuita A. M. Casoli).
La rottura, o il superamento dell'ambiente domestico, erano consumati quando il D., trionfalmente superato da privatista l'esame pubblico di maturità. decise (1888) d'iscriversi non pur all'università nella Sapienza sconsacrata, ma in una facoltà (lettere e filosofia) il cui sbocco pratico era l'insegnamento, cioè non solo il riconoscere, ma il servire, lo Stato italiano. All'università gli studenti "cattolici" erano minoranza, ma una minoranza, per qualità di giovani e impegno scientifico, autorevole: padre Tacchi Venturi, Pio Franchi de' Cavalieri, il barnabita G. Semeria, don Paolo Savi, prediletto del De Rossi e assai precocemente scomparso per etisia (alla sua memoria il D. dedicò l'Atthís), il gesuita Corsetti, ecc. Ed essi tutti, nonostante alcune simpatie (del Murri e del Semeria, per esempio, dal D. peraltro non mai condivise) per l'insegnamento del marxista Antonio Labriola, si ritrovarono ubbidienti discepoli del "positivista", e sostanzialmente anticattolico, K. J. Beloch.
Il Beloch, infatti, dava loro non solo una disciplina di lavoro, una severità rigorosa di metodo, e l'avviamento altresì a studi fin allora pressoché inesistenti in Italia (economia, finanza, statistica, topografia, geografia storica del mondo greco-romano); ma uno strumento capace di risvegliare, di costituire una scienza "cristiana", che permettesse la concorrenzialità e, soprattutto, l'inizio d'uno studio critico della religione. Come operavano Oltralpe Loisy, Harnack, Duchesne, ecc., si poteva, anzi si doveva, tentar di fare altrettanto in Italia.
Questi, i due sentieri paralleli che il D. percorse negli anni universitari e postuniversitari, sino alla fine del secolo (e del suo soggiorno romano). Da un lato, la storia antica, nella scia e conforme al magisterio (antimominseniano, e antitradizionalista) del Beloch. E, d'altro lato, l'organizzazione d'un centro "cristiano" di studi: prima il circolo di S. Sebastiano (con Ermini, Salvadori, Crispolti, ecc.) poi la difficile collaborazione alla Rivista internazionale di scienze sociali, prontissima ad accogliere (1894) il Saggio su trent'anni di storia greca 258-228) (rist. in Scritti minori, I, pp. 373 ss.), ma lungamente esitante a stampare una recensione del Semeria allo scritto del medesimo D., pubblicato in un opuscolo a sue spese perché rifiutatogli dalla Rivista, sulla divinità omerica (cfr. Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXVI [1972], pp. 33, 35-36). Né, d'altronde, furono mai né intrinseche né sostanzialmente amichevoli le relazioni del D. col Toniolo, ancor prima che il loro filofascismo l'obbligasse a rompere col Crispolti e col Tacchi Venturi.
Infrangibile vincolo di fedeltà strinse il D. al Beloch, pur nella diversità delle ideologie e nei frequenti dissensi metodici e "concorsuali". Al Beloch il D. dovette la consapevolezza e lo strumento del proprio mestiere, nonché (come si legge al termine del necrologio del maestro: Scritti minori, IV, pp. 365 ss.) il suo ubi consistam, la giustificazione e la conferma della propria scelta. E a quella scuola, in anni dominati dalla scoperta dell'aristotelica Athenaion Politeia, il D. lavorò sodo, già nei suoi primi articoli sulla Rivista di filologia dimostrando una maturità impressionante. Ancora studente, precedette di quasi un decennio Eduard Meyer nel chiarire l'errore cronologico, né solo cronologico, di Diodoro sulla battaglia dell'Eurimedonte. La sua dissertazione di laurea (1892), tosto insignita del premio Corsi, Contributi alla storia ateniese dalla guerra lamiaca alla guerra cremonidea (immediatamente edita dal Beloch ne' suoi Studi di storia antica, II [1893], pp. 3s.: rist. in Scritti minori, I, pp. 249 s.) è, nonostante la sostanziale (e tipicamente belochiano-germanica) trascuratezza del Niebuhr "greco", il primo tentativo d'una storia, quale poi scriverà W. S. Ferguson nel 1911, di Atene ellenistica, sebbene trattisi di storia meramente "politica", o Staatsgeschichte, anziché di Kulturgeschichte (quale la natura medesima della materia e dei materiali superstiti richiedeva) e sebbene il D. accetti senza esitare (e fu poi sempre il suo maggior limite di storico della grecità) la tesi dell'unitarismo macedonico, al quale si oppone "il principio separatista e repubblicano" (ibid., p.283), la polis (e l'idealità) "demostenica". Alla tesi unitaristica il D. toglieva, d'altronde, il suo più solido fondamento, e qui e nello scritto su Eschine e la guerra contro Anfissa (Riv. di filol., XIV [1897]; ristam. in Scritti minori, I, pp. 139 ss.) in quanto dava la dimostrazione ineccepibile della fede nella libertà che animò sempre gli Ateniesi dall'ultima resistenza contro Filippo all'ultima resistenza contro i Romani. I quali, pertanto, già in questi primi scritti del D., per esempio nel saggio su Agatocle del 1895 (rist. in Scritti minori, I, pp. 205 ss.), appaiono in veste di distruttori della civilta greco-ellenistica nel loro Drang nach Osten, al quale il D. implicitamente contrappone il loro compito positivo di colonizzatori ed incivilitori dell'Occidente.
Con questo bagaglio "scientifico" ben poteva il D. meritarsi la borsa di perfezionamento, che gli permise di sbarcare il 5 genn. 1895 al Pireo per un viaggio di studio e di ricerche epigrafiche in Grecia, dove anche strinse durevoli amicizie con i maggiori dotti stranieri (da Th. Homolle a M. Rostovcev: vedi Ricordi, pp. 66 ss.) e dove "io mi sentii veramente, per la prima volta, europeo tra gli europei" (ibid., p. 76). Al ritorno, appena conseguita la libera docenza, sperimentò la prima delusione accademica. Vincitore (con tre voti su cinque, contrario E. Pais) del concorso alla cattedra di storia antica nell'università di Padova, ebbe il concorso annullato dal ministro della Pubblica Istruzione su parere conforme del Consiglio superiore, non senza qualche giustificazione formale, per lo scarso punteggio, la scarsa copia di scritti "romani" e la troppo recente docenza. Poco avanti, la rotta di Adua, la caduta di Crispi (dal D. ammiratissimo sempre, nonostante la successiva adulterazione o trasfigurazione fascista) e l'avvento del governo della vergogna, impersonato per lui dal marchese A. di Rudini, apersero nel suo cuore di colonialista, che sognava per la nuova patria italiana l'animo indomito di Roma postcannense (lett. al Semeria del 29 dic. 1896, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXVI [1972], p. 35, dov'è caratteristica la citazione carducciana, poi frequentemente ripetuta in più altri luoghi dell'opera sua), una ferita immedicabile, ch'egli s'illuse potesse rimarginarsi con l'avventura etiopica del Mussolini (lett. del 19 maggio 1936, pubbl. da S. Accame, in Critica storica, XXI [1984], pp. 97 ss.).
L'incertezza del vivere e della carriera lo costrinse ad accettare l'insegnamento del greco per l'anno accademico 1896-1897 al collegio scolopio dei Nazareno, del quale era rettore il dantista (dal D. punto amato) Luigi Pietrobono e dove, l'estate successiva, lo scovò, e raccomandò all'invitaMinerva, l'ispettore ministeriale degli esami di maturità, ch'era Giovanni Pascoli. Questi non mancò di elogiare allora (e di rammentare poi sempre) "l'egregio Gaetano De Sanctis, insegnante di greco, libero docente di storia antica nell'università, di ottimi studi, di grande perspicacia, retto e severo" (cfr. M. Petrucciani, in Nuova Antologia, giugno 1957, p. 257). E fu la prima, commendatio non tecnica dell'umbratile studioso, di tal tempra però da rifiutare la partecipazione al concorso per Catania, avendogli il Beloch preannunziato il secondo posto, anziché il primo, come nel concorso per Padova, in quanto si doveva dare un contentino al genus inritabile degli universitari; mentre accolse nel '99 l'invito del suo insegnante e fedele amico F. Halbherr ad essergli compagno nell'esplorazione archeologica in Creta (Ricordi, pp. 78 ss.).
Nel frattempo aveva pubblicato (per un terzo a sue spese) presso la Tipografia poliglotta di Propaganda Fide, Atthís. Storia della Repubblica ateniese (1898: vedi S. Accame, nella premessa alla terza edizione dell'opera, Firenze 1975, pp. X ss.). L'autore medesimo, pur difendendone giustamente nel 1936 l'impianto ideologico e quasi autobiografico (Scritti minori, VI, 2, pp. 937-938), usava parlarne come d'un libro "poco leggibile".
La scarsa leggibilità non è, peraltro, dovuta a meri difetti stilistici, quanto alla scarsa chiarezza metodico-compositiva. Ondeggia, infatti, fra l'opera "storica" e il manuale antiquario, nel proposito medesimo di lumeggiare lo sviluppo singolo e sincrono delle varie istituzioni arcaiche ateniesi e d'interpretare a tal fine Aristotele, in un costante confronto di "fonti", senza mai chiarire al lettore le premesse politico-ideologiche del trattatello aristotelico. Dunque, ricerca filologica, ricerca antiquaria, ricerca storica variamente confuse e commiste, mancanza d'un centro narrativo e d'una linea di continuità (a prescindere dalle varie ipotesi avventate, belochiane le più, ad esempio la cosiddetta cronologia "bassa" di Alceo e di Saffo). A dritto o a torto, e sia pure assai più a torto che a dritto, non si vide, nel libro, se non il prodotto degl'insegnamenti "rivoluzionari", arbitrari, impressionistici ed immetodici del razionalista Beloch; e lo si giudicò di conseguenza, come insegnano, per esempio, le due lettere di U.v. Wilamowitz al D. e a G. Vitelli, che aveva chiesto al maestro germanico una recensione per Atene e Roma (Cfr. R. Pinfandi a C. Roemer, in Ann. d. Scuola norm. sup. di Pisa, s.3, XI [1981], 2, pp. 369 s.; M. Gigante, Wilamowitz nella cultura classica italiana, Napoli 1984, p. 11).
È, d'altro canto, significativo che il D. medesimo non abbia mai "ripensato" il suo libro quand'anche l'abbia sostanzialmente riscritto per la seconda edizione (Torino 1912) e vi abbia, in quell'occasione, aggiunto due capitoli sul V secolo, che, fortemente "storici" come sono, poco legano con ciò che precede: e con esso, anzi, formano un certo iato. Gli Ateniesi, piccola e povera repubblica, ignara (ex hypothesi) di grosse complicazioni internazionali (nonostante Pisistrato, nonostante l'esperienza democratica e marinara) sono, tuttavia, coinvolti a un tratto e nella rivolta ionica e nella rappresaglia persiana: e sanno, però, miracolosamente vincere a Maratona (e dare inizio al più vero miracolo del loro impero). Lo iato, irrisolto nell'Atthís, dovrà attendere, per essere infine risolto, l'autore della Storia dei Greci.
Massime ne' suoi studi di storia romana, ma per un criterio metodico generale, il D. veniva frattanto avvertendo la necessità d'una "critica temperata", cioè, fuor dall'astrattezza delle formule, una critica ugualmente capace di superare tanto la metodica economico-giuridica di E. Ciccotti (pur riconoscendo a quest'ultimo, o accettando da quest'ultimo, la concretezza dei problemi - guerra, pace, schiavitù, prezzi, salari, ecc. - e la conseguente vanificazione della mera storiografia filologica) quanto la metodica negatrice del Pais, la sostanziale tabula rasa della tradizione romana fino almeno alle guerre sannitiche. Vittorioso (con tre voti su cinque, contrari il Pais e A. Coen), i primi mesi del 1900, nel concorso alla cattedra di ordinario di storia antica nell'università di Torino, e forte dell'implicito consenso che alla sua teoria d'una "critica temperata" veniva dalla scoperta e dalla corretta esegesi del lapis niger, il D. terminava l'apposita memoria, l'ultima da lui redatta prima di lasciare Roma (e datata 7 giugno 1900), con queste parole emblematiche, cui sarebbe riuscita conforme la metodica del suo lavoro nel primo decennio del Novecento: "la iscrizione arcaica del foro, né più né meno che tutti i documenti a noi pervenuti, ci ammonisce ad usare di quella critica temperata che nulla ciecamente afferma per servile ossequio alla tradizione, nulla ciecamente nega per sola smania di negare. Dal modo onde si darà ascolto a questi ammonimenti dipende l'avvenire della scienza storica in Italia" (Scritti minori, II, p. 211).
Torino gli cambiò la vita. Anzi tutto perché, sceso inizialmente a dozzina presso la madre del Semeria, trovò tosto una compagna e una casa. Sposò una sua ex allieva, la dottoressa Emilia Rosmini di Mondovi della quale aveva soprattutto apprezzato la coraggiosa tesi di laurea sulla necessità dell'insegnamento religioso in un'Italia non tanto laica quanto massoneggiante ed anticlericale. Con la futura studiosa di santa Caterina e della spiritualità domenicana il D. visse, per tutto il suo periodo torinese, in palazzo Rossi, di proprietà del deputato, ministro e sindaco della città, conte Teofilo Rossi. E qui tosto convennero gli allievi (P. Ghione, G. Corradi, O.M. Barbano), precipuamente avviati allo studio della storia ellenistica, mentre il maestro attendeva a redigere i primi due volumi della Storia dei Romani. Coronano essi, e le polemiche furibonde che vi tennero dietro, un decennio di attività diretta a "liquidare" parecchi avversari, nel mentre il D. profittava della favorevole congiuntura, cioè del clima propizio agli studi romani, del ravvivato interesse per essi, come documenta il successo, nazionale e più ancora internazionale, di Guglielmo Ferrero.
Uno de' suoi primi scritti "torinesi" fu, perciò, l'integrale stroncatura del primo volume di Grandezza e decadenza di Romaantica (Scritti minori, VI, I, pp. 37 ss.), la quale culminava nella condanna del "dilettantismo", una formula ch'ebbe fortuna contro il Ferrero e al D. fu variamente elogiata e rimproverata (lett. del D. al Beloch, non spedita, del 29 apr. 1912, presso L. Polverini, in Ann. della Scuola norm. sup. di Pisa, s. 3, III [1973], pp. 1084-1085). Né meno aspro fu l'attacco al "materialismo storico" del Ciccotti, e ad ogni intrusione o incursione "marxista" negli studi di storia antica, cioè il discorso accademico (1904) La guerra e la pace (rist. in Scritti minori, III, pp. 203 ss.). Il D. tuttavia era anche più avverso ai denegatori, al loro più agguerrito campione (e più ostile), il Pais, la cui Storia di Roma (1898) aveva, peraltro, con l'improbabilità medesima del suo sterile "pirronismo" e la sua assoluta illeggibilità, comprovato che nulla, o pressoché nulla, poteva cavarsene per soddisfare il ridesto sentire storico degl'Italiani, se n'avvedessero o non se n'avvedessero i cattedratici, torinesi e non, della cosiddetta "scuola storica". Donde la necessità d'una via media fra l'illeggibilità del Pais e la soverchia leggibilità del Ferrero.
Vi si accinse animoso e solitario il D., quand'anche ai primi due volumi della sua Storia difettino un chiaro impianto "stilistico" (il testo ondeggia, infatti, fra il racconto e la ricerca filologica, nonostante i generosi interventi "letterari" di Giuseppe Fraccaroli: vedi S.Accame, nella premessa al primo volume della 3 ediz., Firenze 1979, pp. XIVss.) e, soprattutto, un chiaro impianto "metodico". Giova, naturalmente, nel dar giudizio dell'opera, prescindere affatto dalle recenti, e meno recenti, scoperte archeologico-letterarie, che dalla decifrazione della lineare B alla stratigrafia degli scavi di S. Omobono e al ritrovamento di resti "micenei" in terra italiana hanno anticipato di secoli (rispetto alla stessa tradizione) la presenza greca in Italia, nonché il formarsi e divulgarsi del "mito" di Enea. Ma l'inveramento medesimo della sia pur dubbia ipotesi niebuhriana, difesa tra noi poco avanti il D. da R. Bonghi e da E. Cocchia, la rivendicata esistenza d'una poesia storica romana, popolare, preletteraria (e pregreca), importa il riconoscimento d'un grado di civiltà nella Roma antichissima, cui Roma non sarebbe pervenuta senza il contatto e il commercio con altri centri, cioè, in ultima analisi, con la civiltà greca, attinta o direttamente (già nel V secolo i Greci sapevano, se non di Roma, della sua penetrazione lungo le coste adriatiche e tirreniche della nostra penisola) o indirettamente per mediazione sia etrusca sia delle colonie di Magna Grecia. I Romani perciò, in virtù appunto e soltanto della cosiddetta ipotesi niebuhriana, risultano assai più anticamente maturi e civili che nell'opera del D. non appaiano (e questo è da ritenersi pesante retaggio del Pais e del Beloch e, in genere, dell'antiromanesimo di marca tedesca), né in verità ben si spiega, quindi, il loro gravitare in area ellenica nel IV secolo, né la loro adeguatezza politico-ideologico-diplomatica nel conflitto con Pirro.
Più che i singoli meriti o demeriti (e rilevata la sostanziale indifferenza del D. alle alterazioni "propagandistiche" della tradizione annalistico-liviana, per esempio in margine alle spoglie opime di Cornelio Cosso), pesano, in una valutazione "storica" dei due volumi, i presupposti sui quali appoggia la costruzione "ideale" dell'opera. Per un verso, nella lettera dedicatoria al Beloch (irresponsabilmente soppressa nella ristampa, come avverti e deprecò N. Criniti, in Nuova Riv. stor., LVI [1972], p. 741), la condanna di "un cieco tradizionalismo" e di "una non meno cieca smania di negar fede a ogni costo alla tradizione", mentre "anche più esiziale alla serietà scientifica è il diffondersi d'un dilettantismo borioso e ignorante, che trova una degna alleata in quella impudente ciarlataneria pseudosociologica che è tanto diffusa purtroppo in Italia con grave iattura della vita intellettuale e politica della nazione"; e, per altro verso, il riconoscimento e l'esaltazione "di quella forza che lo scienziato cristiano designa col nome di Provvidenza" (II, 1 ediz., p. 537; II, 2 ediz., p. 516). Sia pur vero, come non esitò ad asserire B. Croce (in Critica, VI[1908], pp. 290 s.), che i due volumi sono naturalistico-filologici nel racconto e finalistico-provvidenzialistici nella conclusione; ma questo "finalismo" cristiano era il vero D., il suo "storicismo", lo strumento, fideistico e scientifico a un tempo, della sua ulteriore attività.
Non che i due volumi non offrano delle premesse le quali rimasero le costanti dell'esegesi desanctisiana della storia di Roma. Anzi tutto, il principio dell'unità, onde lo storico accetta il sacco di Veio come "il primo e più arduo passo sulla via della riduzione d'Italia ad unità nazionale" (II, 1 ediz., p. 146; II, 2 ediz., p. 138) e saluta nella giornata di Sentino l'antico equivalente o precorrimento di Solferino, che fece l'Italia italiana, come Sentino fece l'Italia romana (II, 1 ediz., p. 357; II, 2 ediz., p. 340). L'ultimo D. accennò, tuttavia, ad un'implicita, ma radicale, revisione del suo concetto di "unità" e del rapporto fra Italia e Roma (si veda il postumo saggio La guerra sociale, Firenze 1976, pp. 40 ss. e le osservazioni di G. Bandelli, in Quaderni di storia, XIV[1981], p. 245). Il principio dell'unità (sotto Roma) riduce d'assai il contributo delle altre popolazioni italiche: e quindi permette al D. il rovesciamento di posizioni care al Micali e ad altri antichisti del secolo scorso, la rivendicazione, cioè, in funzione antiromana, vuoi dei Sanniti vuoi degli Etruschi, laddove il D. quasi si fece un merito della propria "antipatia recisa contro la ... etruscomania" (Ricordi, p. 157); e severamente limitò l'importanza e l'"etruscheria" di quella che almeno dal Pasquali in poi si è convenuto di chiamare "la grande Roma dei Tarquini".
Chiuso il decennio con la pubblicazione di quello strano ed infelicissimo volume Per la scienza dell'antichità (Torino 1909: rist. in Scritti minori, III, pp. 89 ss.), raccolta di alcuni, validi, saggi anteriori (in ispecie i saggi omerici, a confutazione di V. Bérard, G. Fraccaroli e d'altri "unitari") e di lunghe polemiche, contrattacchi e controcritiche (al Ciccotti e al Ferrero, al De Marchi, al Bonfante e al Pais, con cui la rottura, anche personale, fu presto definitiva), le stesse piuttosto frequenti (e da parte d'un professore di storia antica allora inconsuete) citazioni del Croce lasciano intendere donde il D. attendesse aiuto e salute alla restaurazione della storia (cfr. F. Natale in Nuova Riv. stor., XLII [1958], p. 29 n. 2). Seguì, difatti, attento e partecipe il vario lavorio dal quale uscirono le memorie successivamente costitutive di Teoria e storia della storiografia (Bari 1917), mentre ne discuteva con i propri discepoli, ormai aperti al nuovo clima "idealistico" (A. Rostagni, A. Ferrabino, G. Falco, ecc.), leggeva da antico abbonato La Critica e iniziava un dibattito che avrebbe continuato fino ai suoi ultimi anni (si veda la "breve disputa" con G. Patroni, dei primi del '14, in cui il D. già attesta il suo debito al Bergson e al Croce, riesurnata da S.Accame in Nona miscellanea greca e romana, Roma 1984, pp. 344 ss.; cfr., altresì, Id., in Studi in onore di G. Dupré Theseider, Roma 1974, I, pp. 375 ss.; G. Giannantoni, in Elenchos, I[1980], p. 35).
Poteva dire di avere vinto la sua battaglia, in quanto sgomberarono il campo dell'antichistica i seguaci della scuola economico-giuridica (Ciccotti, Ferrero, Barbagallo, ecc.), pochissimo di buono vi contribuì quind'innanzi il Pais (quanto più si concedeva al tradizionalismo nazionalistico, all'antigermanesimo, ecc.), e ormai tacevano i tradizionalisti o restavano sterilmente operosi sul piano della mera filologia. Ma sentì che doveva vincere ancora se stesso, le remore del proprio passato, le scorie d'una disciplina ecclesiastica e discepolare, in obbedienza a cui, per esempio, nonostante le sollecitazioni del Semeria e i personali contatti con A.A. Alfieri, non aderì né al "modernismo", né al gruppo milanese del Rinnovamento in cui pur militavano futuri amici suoi e compagni della battaglia antifascista, quali T. Gallarati Scotti, A. Casati e S. Jacini. Anzi, abbonatosi alla rivista, disdisse dopo un anno l'abbonamento (1908), quando Casati ed Alfieri decisero di continuarne le pubblicazioni nonostante la condanna ecclesiastica (S. Accame, in Studium, LXVIII [1972], pp. 898 ss.).
La scuola torinese di storia antica, strettasi intorno al fresco tumulo del compagno Emilio Pozzi a rendergli omaggio con una miscellanea nel campo degli studi a lui cari (Entaphia, Torino 1913), attestava in quel libro non soltanto la propria maturità, sì anche la propria libertà, la propria indipendenza critica di fronte al maestro, se per esempio A. Rostagni vi dettò una ricostruzione del "panellenismo" d'Isocrate che infirmava in radice il pregiudizio dell'unità macedonica della Grecia (quindi, i presupposti medesimi della storiografia desanctisiana). Perciò i due volumi sulle Guerre puniche (Torino 1916-17) riflettono una diversa temperie, suggerita al D. e dall'esperienza "idealistica" e dall'esperienza della guerra.
Il D. non esitò, già il settembre del 1914, a rivendicare la validità della Triplice e la convenienza, o il dovere, della neutralità italiana. In questa posizione lo confermarono. oltre l'insipienza politico-diplomatica dei governanti, anche l'impreparazione militare, le sterili illusioni del patto di Londra (e tanto più le violenze antipariamentari ed anticostituzionali del "maggio radioso", complice la Corona), l'antica ammirazione per la Germania, il pericolo d'un indebolimento o d'un crollo della monarchia asburgica, solo baluardo contro la "marca slava", l'intima avversione alla Francia illuministico-massonica e all'Inghilterra imperialista. Partecipe con l'Halbherr, e per suo invito, ad una campagna archeologica nella Cirenaica tuttavia turca il 1909, ch'egli considerò come un'esplorazione preventiva del territorio ai fini d'una permanente occupazione italiana (la quale in effetti seguì fra l'11 e il '12), ritenne e scrisse che l'espansione coloniale sarebbe stata assai più utile al nostro popolo della conquista di Trento e Trieste, mentre al controllo difensivo dell'Adriatico poteva servire, e bastare, l'occupazione di Valona. Vide, cioè, nella prima guerra mondiale, un conflitto di potenze non cattoliche contro le potenze cattoliche o, comunque, antislave, con tanto maggiore danno per l'Europa quando la vittoria degli alleati fu decisa dall'associato d'oltre Atlantico, ed aveva inizio la decadenza del continente europeo il quale cessava d'essere ormai il centro unico della storia.
Questi concetti governano il libro delle guerre puniche, e ne ricevono concretezza e luce, in quanto la guerra annibalica insegna che la prima guerra totale dell'antichità terminava con l'annientamento dell'avversario (rendendosi quind'innanzi impossibile una politica di equilibrio mediterraneo), ma con la vittoria altresì delle potenze navali sulle potenze terrestri, conforme alle teorie pubblicistiche della stessa "antichistica" in era napoleonica. E non v'ha dubbio che, di quanto si avvantaggia il linguaggio storiografico, l'austera leggibilità dell'opera rispetto ai due antecedenti volumi, di altrettanto la critica delle fonti, opportunamente relegata in apposite appendici, supera, o mostra la tendenza a voler superare, la Quellenkunde nella storia della storiografia, soprattutto per un'aderente ricostruzione dell'animus di Livio nel raccontare, o nel ricantare, la gesta annibalica.
Parallela a quest'attività del D., svolta in totale isolamento dagli ambienti "bellicistici" dell'università e dell'accademia, e anch'essa conseguenza del suo "neutralismo", è da considerarsi l'attività ch'egli svolse in favore di vittime dell'insana e mendace propaganda bellica. L'intervento, per esempio, con B. Croce, presso la magistratura torinese cui era stato deferito per "disfattismo" un insegnante integerrimo e probo studioso, ma scrittore della Stampa giolittiana, il professor Umberto Cosmo, denunziato da V. Cian e assolto per la probantissima documentazione presentata dal D. appunto, e dal Croce (Ricordi, p. 111 e B. Croce, Epistolario, Napoli 1967, pp. 28 s.). E la campagna perché (giusta la deprecazione del maestro) non andasse "ai cani" la cattedra romana del Beloch.
Questi, impedito, quale cittadino germanico, dal far lezione fin dall'inizio delle ostilità, fu, dopo Caporetto, destituito e internato a Siena, non senza che la stampa nazionalistica, in parte ad opera del fedifrago discepolo e del Beloch e del D., Luigi Siciliani, inveisse contro il "caduto", dopo avere contribuito con menzognere dicerie appunto alla caduta del vecchio storico (si veda la lettera, stranamente non ristampata negli Scritti minori, del D. al Marzocco, 24 marzo 1918). Apertasi la vacanza presso la facoltà di lettere dell'università di Roma, cominciarono le pressioni per il trasferimento del Pais che da anni più o meno scopertamente manovrava a tal fine. Presentò domanda di trasferimento anche il D., ch'ebbe l'appoggio di N. Festa, F. Halbherr, E. Buonaiuti, ecc., mentre pencolava il suo stesso condiscepolo P. Fedele e crescevano le ingiunzioni ministeriali per una spedita soluzione della vertenza. L'ultima votazione, insufficiente alla vittoria dell'uno o dell'altro candidato, indicava però nettamente la prevalenza del D., che sarebbe certo riuscito alla ripresa dell'attività accademica dopo le ferie estive del 1918, non fosse nel frattempo intervenuto, si disse per solidarietà massonica, con una misura chiaramente illegale, il ministro A. Berenini. Questi, in virtù dell'art. 69 della legge Casati, nominò il Pais per chiara fama (cfr. in Letteratura e critica, A. M. Ghisalberti, Baruffe in facoltà, in Studi in onore di N. Sapegno, Roma 1975, pp. 923 ss.).
In genere, su G. D. e la prima guerra mondiale, si vedano l'articolo così appunto intitolato di S. Accame, in Critica storica, VI [1969], pp. 712-720; M. Pavan, in Rassegna storica del Risorg., LI (1964), pp. 71 ss.; e le lettere al e del Semeria edite da S. Accame, in Riv. di storia della Chiesa in Italia, XXV (1971), pp. 479 ss., e XXVI (1972), pp. 66 ss. Da ricordare altresì la "fischiata" al D. del maggio 1915: Ricordi, pp. 107 s., e lett. alla Stampa edita da N. Criniti, in Nuova Riv. stor., LVI (1972), p. 742; nonché la denunzia per "disfattismo" presentata alla magistratura dal collega archeologo G. E. Rizzo, in quanto il D. avrebbe paragonato e affiancato a C. Battisti i "martiri irlandesi" della Pasqua 1916.
Alle soglie del dopoguerra, fra le illusioni del wilsonismo e il dilagare del nazionalismo, il D. levò primo la sua voce contro una sorta di romanità "littoria" avant lettre, la proposta di ricostruire la Ara pacis Augustae sul Campidoglio, "a celebrare la vittoria e la nuova missione dell'Italia redenta", articolando la sua protesta e dal punto di vista politico-umano e, più, dal punto di vista storico-storiografico, in quanto la Pax augusta si affigurava al D. (un presupposto che avrebbe governato tutta la sua ulteriore attività) come "pace imperiale per l'un lato" e "pace di rinunzia per l'altro ... Cioè i Romani avevano pagato la soppressione delle libertà altrui con la perdita della libertà propria" (Scritti minori, III, pp. 567-8). Conforme a queste premesse il D. vergò allora, affidandoli alla rinnovata Atene e Roma, diretta dal suo discepolo L. Pareti, i due suoi scritti più memorabili, Dopoguerra antico e Rivoluzione e reazione nell'età dei Gracchi (Scritti minori, IV, pp. 9 ss., 39 ss.).
Li anima una grande speranza: che il dopoguerra italiano ed europeo sarebbe riuscito altro e migliore del "dopoguerra antico", evitandosi il duplice pericolo, uguale e contrario, ed ugualmente fatale, della rivoluzione e della reazione. La grande speranza nasceva nel D. dall'avvento del Partito popolare italiano, cui egli tosto aderi e in cui tosto assunse posizioni di autorità e di militanza torinese, ampiamente documentate da S. Accame, G. D. fra cultura e politica (Firenze 1975). Soprattutto i discorsi politico-elettorali (fu candidato vittorioso alle amministrative del novembre 1920, benché la nomina fosse annullata per vizio di forma; e candidato soccombente alle elezioni politiche del novembre 1919 e del maggio 1921) e i discorsi quale presidente della sezione torinese dell'Associazione cattolica di cultura non solamente rivelano la piena maturità dello storico e orchestrano i temi che informeranno poco di poi il volume IV, 1 (Torino 1923) della Storia dei Romani (anche la celebre dedica è in nuce in un discorso del '19: "Forse non tutti i governanti ma certo tutti i popoli hanno oggi orrore non meno d'essere oppressori che d'essere oppressi": p. 442), ma veggono il D. perfettamente inserito nel clima culturale, o politico-culturale, dell'Italia, come indicano gli elogi del Croce ministro e "dantista", la rievocazione (carducciana) dei "moti del Ventuno", la rivendicazione del tricolore quale "simbolo di libertà, di quella libertà ... che deve stare garante del patto che con lo statuto albertino fu stretto indissolubilmente tra il re ed il popolo" (p. 501). E giova qui aggiungere che, nonostante la condotta del re tanto a maggio del '15 quanto il 28 ott. 1922, il D. continuò per quasi tutti gli anni Venti a sperare nella monarchia, in ispecie nel principe di Piemonte, in funzione antifascista (o avrebbe, la monarchia, segnato altrimenti la propria condanna; pp. 311 ss., del 1928).
Come il partito popolare doveva tenere la "via media" fra rivoluzione e reazione, evitando le remore, le illusioni e gli errori del "bolscevismo", senza peraltro incidere in tentazioni reazionarie, condonando quindi i misfatti delle squadracce fasciste, così lo storico narrava, nel più celebre e per certo migliore de' suoi volumi, la tragedia d'un popolo, incapace di sottrarsi all'imperialismo del Drang nach Osten e parimente incapace di sottrarsi alla crisi economica, sociale e costituzionale che l'imperialismo portava seco: la distruzione del medio ceto agricolo, la sua proletarizzazione e l'avvento di avventurieri, spostati, emarginati, ricchi e poveri, operanti in un ambito di governo sempre più ristretto e chiuso fra le relativamente poche famiglie della nobilitas, sempre più alieni dall'esercizio delle armi, donde la necessità di sostituire all'esercito cittadino l'esercito mercenario-professionale, cui conseguivano il combattentismo e il "rapporto" non più fra l'individuo e lo Stato, ma fra il singolo e il capo, la dittatura militare in atto (o in potenza), cioè in ultima analisi il principato augusteo.
Eppure, quest'ultimo decennio torinese del D., che da storico vide consumarsi la fine della libertà romana e da cittadino vide consumarsi la fine della libertà italiana, seniffascistizzato prima e disciolto poi il suo partito, don Sturzo esule, vittima egli stesso (1925) d'una irrimediabile frattura del femore e afflitto (1929) dagli inizi di quella malattia d'occhi che doveva condurlo nel successivo decennio alla totale cecità, resta, nella biografia dell'uomo, dello storico e del maestro, il decennio suo più felice. La stessa militanza antifascista (donde, a maggio del '25, la sua adesione al manifesto Croce; e le nuove amicizie, da quando il ministro della Pubblica Istruzione Alessandro Casati, nell'autunno del '24, lo nominò nel Consiglio superiore) lo fece caro e vicino alla gioventù "gobettiana", i cui migliori furono suoi scolari (M. Fubini, N. Sapegno, M. A. Levi, ecc.: si veda l'articolo di N. Sapegno, Pagine disperse, Roma 1979, pp. 29 ss.). E dal '23, quasi a coronamento d'un progetto lungamente accarezzato, e per la cui attuazione fin dagli anni di guerra intendeva contar sull'appoggio di A. Ferrabino e di A. Rostagni (L. Polvermi, in Ann. della Scuola norm. superiore di Pisa, s. 3, V [1975], pp. 421 ss.), affiancò alla sua cattedra universitaria un'altra cattedra, la direzione (con A. Rostagni) della nuova serie della Rivista di filologia (E. Gabba, ibid., C [1972], pp. 442 ss.).
Questa, per merito suo e de' suoi collaboratori, tosto divenne, oltre che lo specchio della situazione culturale italiana al suo meglio, una rivista di marcata personalità e di respiro europeo. Non soltanto perché il D. vi analizzò e commentò tutte le maggiori scoperte storico-epigrafiche e storico-papirologiche (massime nell'ambito dell'epigrafia cirenaica, pur sottraendosi nel '27 col pretesto della salute alla compromissione dell'invito a un viaggio "ufficiale" nella colonia, offerto congiuntamente dal governatorato a lui, al Wilamowitz e allo Hiller von Gaertringen: vedi S. Accame, F. Halbherr e G. D., Roma 1984, pp. 193 ss.), ma, e soprattutto, perché v'iniziò allora quella "conversione" dalla critica delle fonti alla storia della storiografia, che gli permise sia d'interpretare la genesi, il divenire, il valore dei maggiori storici antichi (Ecateo, Erodoto, Tucidide, Senofonte e le Elleniche di Ossirinco, Livio, ecc.), sia d'inserirli successivamente, come interpreti e testimoni d'un epoca, nella Storia dei Greci.
Poiché l'anno accademico 1928-29 era l'ultimo dell'insegnamento del Beloch, reintegrato consule Gentile e restituito alla cattedra di storia greca, era naturale che, per obbedienza al desiderio del maestro, e tanto più dopo la sua morte a febbraio del '29, il D. aspirasse a succedergli, sollecitato altresì dal suo nuovo compito di direttore della sezione "Antichità classica" dell'Enciclopedia Italiana. Lasciò Torino senza rammarico, perché la Rivista era saldamente affermata e grazie alla direzione del Rostagni poteva ritenersi al sicuro da colpi di mano; perché alcuni de' suoi ultimi allievi l'avrebbero seguito in Roma, dove la sua chiamata a voti unanimi (assente e ormai poco influente il Pais) acquistava il valore d'una riparazione ed era caratteristico omaggio ad un antifascista intemerato.
Roma, però, tranne per il lavoro alla Enciclopedia e il contatto con altri giovani studiosi che lo riverirono tosto come un maestro (A. Pincherle, F. Gabrieli, G. Levi Della Vida, A. M. Ghisalberti, U. Bosco, ecc.) non gli poteva essere né congeniale né propizia. Non all'università, dove il boicottaggio dei suoi corsi ad opera del Pais gli fece tosto il vuoto intorno. Né presso le istituzioni culturali della città, in ispecie l'Istituto di studi romani, infestato del peggior clerico-fascismo, imbaldanzito dalla recente Conciliazione, sebbene il 1930 il D. tenesse in quella sede un mirabile ciclo di conferenze, rimaste inedite, sull'imperialismo romano dal III al I secolo a.C. (parallelo alla trattazione che nel contempo redigeva per il secondo volume della Propyläen Weltgeschichte, edita da W. Goetz, anch'essa rimasta tuttora inedita nell'originale italiano). Perdurava, frattanto, dalla ricostruzione "intesista" del '19 il lavoro presso l'Union académique internationale, che aveva consentito al D. fruttuosi contatti con i maggiori storici stranieri (in occasione altresì del congresso di Oslo, il 1928), e che quella primavera del '30 lo condusse a Cambridge, anche per il conferimento della laurea ad honorem (pochi anni prima n'era stato insignito ad Oxford), mentre si era, dopo l'ardua opera costruttiva, più e più affrancato, per dissidi insanabili con padre A. Gemelli, dall'università Cattolica del Sacro Cuore, che pur l'aveva nominato fra i suoi primi docenti (si veda S. Accame, G. D. e l'Università Cattolica, in Aevum, LII [1978], pp. 471 ss.). In questa temperie non stupisce che, sebbene proposto dall'ingenuità ed amicizia di Alessandro Luzio e acclamato dalla classe unanime dell'Accademia d'Italia l'autunno del '30, la proposta medesima fosse immediatamente bocciata da Mussolini, anche successivamente sospettoso e preoccupato dell'antifascismo desanctisiano (cfr. L. Bortone, in Palatino, XI [1967], p. 408).
Se il 1930 finiva assai tristemente, suicida per antifascismo nel carcere di Regina Coeli Umberto Ceva, marito della sua fedelissima scolara Elena Valla, il 1931 finì ancor più tristemente col rifiuto del giuramento fascista e la destituzione dalla cattedra. Il D. medesimo raccordò i due episodi, quando, scrivendo appunto alla discepola perseguitata, la confortava, e quasi ringraziava, con queste alte parole: "L'esempio di fermezza e dirittura che mi hanno dato rebus in arduis taluni miei scolari è stato di grande momento nella deliberazione" (la citazione presso A. Galante Garrone, Imiei maggiori, Milano 1984, pp. 40-41; le lettere del D. ad Elena Valla Ceva, come il breve carteggio De Sanctis-Croce, usciranno sulla Nuova Antologia). Memore, ma non solo perché memore, del giuramento rifiutato da suo padre, non esitò un attimo nella decisione, quand'anche s'illudessero di poter intervenire a dissuaderlo il Gentile (che pur valse a mantenergli l'incarico presso l'Enciclopedia) e padre Gemelli, missus dominicus, com'egli stesso poi raccontò (in Vita e pensiero, XXXIV [195], pp. 24 ss.) di papa Pio XI (probabilmente per obbedienza disciplinare, il D. ne tace in Ricordi, pp. 143 ss., pur polemizzando, a p. 147, contro la nota ufficiosa dell'Osservatore romano). Al rifiuto del giuramento universitario seguì coerentemente nel '34 il rifiuto del giuramento accademico (vedi, oltre Ricordi, pp. 154 ss., H. Goetz, , in Quellen und Forschungen aus ital. Archiven u. Bibliotheken, LIX [1979], pp. 428 ss. e LXII [1982], pp. 303 ss.) e l'esclusione da ogni organismo culturale, anche in concomitanza con la promulgazione delle leggi "razziali".
Fu di conforto al D. la solidarietà internazionale (attestatagli personalmente dagli autori delle varie lettere pubblicate in Ricordi, pp. 236 ss.), in ispecie la "lettera nobilissima" dell'esule Guglielmo Ferrero (ibid., pp. 246-7). Questa solidarietà, peraltro, non si espresse nell'offerta concreta d'una cattedra all'estero nonostante qualche tentativo o sondaggio egiziano: che, per le sue stesse condizioni di salute il D. avrebbe, comunque, potuto accettare difficilmente. Restò quindi sempre più solo, e progressivamente sempre più isolato, nella sua casa romana, a lavorare per l'Enciclopedia e per la Storia dei Greci.
Ha qualche merito nella sua genesi il Rostovcev, che suggerì ad Ernesto Codignola di commissionare al D. quasi un nostrale pendant alla monografia pubblicata nella Propyläen Weltgeschichte (travolta ben presto nella persecuzione della casa Ullstein): un libro, cioè, maneggevole, più leggibile (anche perché senza note, le quali sembra siano state redatte, ma non furono mai pubblicate) e che, per la natura stessa del tema e i suoi limiti cronologici, permetteva al D. di scrivere la storia del popolo da lui più amato, in quanto artefice di libertà, senza la remora che gl'imponeva la sempre asserita, e in verità sempre meno osservata, fedeltà al principio dell'unitarismo macedonico. Se all'indomani del non giuramento, quasi per una sfida e un'attestazione di vita, raccolse in volume presso il Laterza un manipolo di saggi e discorsi, editi e inediti, Problemi di storia antica (Bari 1932: rist. in Scritti minori, IV e V), dov'è ancor assillante il problema, o l'antitesi, massime nel saggio su Perdicca (1931), fra unità e libertà, altro, e migliore, perché più "storico", è l'impianto metodico su cui la Storia dei Greci è costruita, la storia affigurandosi oramai al D., nella scia delle Deux sources del Bergson, come alternanza perpetua fra le due polarità del bene e del male, ed affermandosi pertanto gl'individui e i popoli come creatori di "valori".
Dei due volumi, usciti a Firenze nel '39 e destinati in seguito a divenire un best seller, di cui il D. non scrisse materialmente nemmeno una riga, e la cui prosa conserva pertanto il segno di cosa dettata, di pagine dal taglio non visto, se parve più "scolastico" il primo, anche per certe rivendicazioni "belochiane", destinate a scomparire in perpetuo con la scoperta della civiltà "micenea" e la decifrazione della lineare B, per certe prese di posizione antiquate o immetodiche, ad esempio in fatto di critica omerica, ecc., resta certo mirabile, per compattezza, fusione, pathos, unità nella molteplicità delle testimonianze e delle voci, il secondo, la prima storia unitaria e integrale che a tutt'oggi si abbia del V secolo, fino alla correlazione od antitesi dialettica fra la restaurazione della democrazia ateniese e il processo di Socrate.
Nel processo di Socrate, intentatogli da un moderato assai benemerito della restaurata democrazia quale Anito, nella relativa giustizia della condanna, il D. vide l'acine e la crisi della storia greca, in quanto storia della polis. Questa, infatti, per un verso, non basta più a soddisfare l'essere e il dover essere della singola personalità umana e, per altro verso, deve difendersi dal tentativo di sostituirle un "altro" assoluto, cui l'uomo si affidi come a chiesa, o civitas Dei, relegando la polis a un rango puramente statuale, tecnico, umano. Ma interpretare in questi termini la storia successiva alla condanna di Socrate significa trascendere in radice ogni "unitarismo", che nella realtà delle cose non poteva essere, comunque, se non meramente costrittivo, militare, "politico", né poteva quindi costituire una struttura vitale, una scelta di civiltà.
La Storia dei Greci non ebbe quindi un seguito. E resta il segno più drammatico e convincente della problematicità dello storiografo, la testimonianza vittoriosa del nuovo Adamo ch'era sorto in D. - e troppo doveva, tuttavia, contendere ancora col vecchio Adamo della sua antecedente attività.
Altrettanto è a dire del travaglio dell'uomo. Il suo "colonialismo" l'indusse a parteggiare, non senza scandalo e dolore di amici e discepoli, per l'avventura etiopica del fascismo, come l'indusse ad auspicar la vittoria di Franco nella guerra civile spagnola, quand'anche naturalmente disapprovasse l'intervento armato dei nazifascisti. Donde una separazione nettissima e da don Sturzo e dall'intelligencija cattolica del Maritain, del Mauriac e dei Bernanos. Dispiacque anche a molti, imperando ed imperversando tragicamente il "razzismo" hitleriano, che il D. persistesse in quel suo moderato "razzismo" tipicamente ottocentesco (al quale avevano conceduto uomini come il Trezza e il Littré, ma che nelle circostanze degli anni Trenta poteva dar luogo ad equivoci pericolosi), onde gli parve desiderabile e storicamente positiva la vittoria dei Romani sui Cartaginesi, cioè degli Arii sui Semiti, fino all'estremo di parlar di Cartagine come d'un "peso morto" dal quale conveniva affrancarsi (anche con i metodi di Scipione Emiliano), perché "l'Africa romanizzata" potesse "entrare anch'essa nello sviluppo civile dell'antichità" (così Storiadei Romani, IV, 3, Firenze 1964, p. 75; vedi anche Scritti minori, V, pp. 214 ss.) - laddove precedentemente (Storia dei Romani, IV, 1, 1 ediz., p. 261; IV, I, 2 ediz., p. 254) il semita Annibale si era, con più verità, affigurato allo storico siccome il negativo precursore di "un altro grandissimo Semita, Paolo di Tarso" (cfr. A propositodel giudizio di G. D. suAnnibale, a cura di M. Pavan, in Riv. stor. dell'antichità, XIII-XIV [1983-1984], pp. 143-159).
Queste incertezze od antinomie del D. storico naturalmente non governarono od impedirono il D. uomo nell'opera inesausta di protezione dei perseguitati, massime se ebrei, li soccorresse quand'erano in pericolo (e riuscisse pur vano, ad esempio, il tentativo di sottrarre alla deportazione, e alla morte in un campo di concentramento, l'epigrafista M. Segre e la sua famiglia), li accogliesse come suoi amanuensi, lettori e collaboratori. Non si nega, però, che la seconda guerra mondiale, quanto più si affermava come guerra di "superpotenze", e di superpotenze extraeuropee, e la vittoria delle Nazioni unite avrebbe, nella decadenza dell'Europa, affrettato il prevalere di ideologie od anticattoliche o (latosensu) anglico-protestanti, suscitò nel D. atteggiamenti che si riverberarono nella sua condotta politico-pratica dopo la Liberazione. Prontamente restituito alla cattedra romana di storia greca (1944), che gli fu poi confermata a vita come a professore non giurato, se non esitò a votare il 2 giugno 1946 per la Repubblica e per De Gasperi, non volle rientrare nei ranghi della Democrazia cristiana ed anzi diede opera a invalidare ogni procedura di epurazione (né solo nell'interesse di suoi discepoli, come L. Pareti), e ruppe con i colleghi per i metodi che presiedettero alla ricostruzione dell'Accademia dei Lincei.
Riflette, storiograficamente, l'atteggiamento "pratico" del D. negli anni di guerra la monografia su Pericle (Milano 1944; vedi L. Polverini, in Ann. d. Scuola norm. sup. di Pisa, s. 3, III [1973], pp. 1092-1094). Dove non tanto dispiacciono le scoperte analogie "contemporanee" (troppo aspramente rimproverategli dall'Omodeo), quanto, nella sostanziale identità interpretativa della monografia e dei capitoli correlativi nel secondo volume della Storia dei Greci, commuovono alcuni tratti caratteristici del D.: per esempio, la cavalleresca rivendicazione di Aspasia e l'omaggio alla patria cara e infelice che il Pericle tucidideo esalta e in cui il D. doppiamente si ritrova (cfr. M. Pavan, in Clio, XIX [1983], pp. 17-28).
Nonostante la grave età, gli acciacchi, l'insanabile dolore per la perdita della moglie, la solitudine nella casa vedovata (che gli governò, tuttavia, la sorella della sua compagna, la professoressa Olga Rosmini), fu instancabile nell'assolvere i nuovi doveri e i compiti che gli affidarono i vari governi della Repubblica. Mentre attendeva alla continuazione, intrapresa durante la guerra, della Storia dei Romani (e a rifare quasi di pianta il volume, il cui manoscritto era stato rubato all'editore in un'aggressione banditesca), si trovò, da commissario per la Giunta degli Istituti storici, e da presidente dell'Istituto della Enciclopedia Italiana, a dover rimettere in piedi, e a far speditamente funzionare, enti che la situazione postbellica e le difficoltà finanziarie del paese ponevano a grave repentaglio. Ci riuscì con la sua tenacia e la sua fede, con l'energia che possedeva e seppe infondere ne' suoi collaboratori: come attesta, per l'Istituto per la storia del Risorgimento, Alberto M. Ghisalberti (Maestri e compagni di strada, Città di Castello 1972, pp. 41 ss.).
Le sue allocuzioni ebbero il singolare carattere di richiami alla storia, in quanto rivendicava la nobiltà della "nostra" storia, soprattutto per quella parte e nella misura in cui più si affermavano il segno e la predicazione di Giuseppe Mazzini, e in quanto rivendicava la romanità come humanitas di contro alle faziose contraffazioni cesariane del regime fascista (e alle ugualmente faziose contraffazioni od esaltazioni del pugnale di Bruto). Ebbe perciò fede nell'Europa, nei progressivi avviamenti all'organizzazione e all'unità dell'Europa, sebbene questo superstite "risorgimentista", questo convertito al Risorgimento italiano vanamente s'ingegnasse di applicare una misura ottocentescamente nazional-unitaria ai moti del Terzo Mondo, per esempio la guerra di Corea.
A riconoscimento de' suoi meriti e ad attestargli la gratitudine della nazione, il 1950, suo ottantesimo genetliaco e semisecolare anniversario dell'inizio del suo insegnamento universitario, il presidente della Repubblica, Luigi Einaudi, nominò il D. senatore a vita. Grato dell'onore ma a precisare il carattere non politico, o non partitico, della nomina, il D. volle sedere in Senato da indipendente e si iscrisse, perciò, al gruppo misto. Proseguiva frattanto la redazione degli ultimi volumi della Storia dei Romani (benché non fosse mai chiaro, probabilmente nemmeno a lui, quello che doveva esserne ex hypothesi il termine, se non lato sensu la fine della res publica senatoria, perché il principato segna, nell'esegesi desanctisiana, la fine della libertas: e, usava dire, dove non c'è libertà, non c'è storia - che è poi la ragione vera del sostanzialmente scarso interesse e lavoro del D. nel campo della storia "imperiale": cfr. L. Polverini, in Studi romani, XXX [1982], pp. 449 ss.). Vi ribadisce i principi e presupposti dei volumi anteriori, accentuando però l'avversione all'imperialismo, l'elogio d'ogni principe ellenistico che mostrasse velleità di resistenza a Roma, e le riserve, soprattutto di carattere "etico", su Polibio, un graeculus al servizio degli Scipioni (F. W. Walbank, in Rivista di filologia, CXI[1983], pp. 465 ss.).
Si spogliò progressivamente delle varie cariche, anche della presidenza dell'Enciclopedia Italiana, quando si sentì più impedito nel fisico e avvertì prossima l'ora del trapasso. Morì quasi repentinamente, a Roma, nella sua casa di via S.Chiara, il 9 apr. 1957. L'assisteva la speranza fugacemente confidata un giorno a un'allieva (IlPonte, XIII [1957], p. 1886): "se in un remoto avvenire taluno ... provera un po' di simpatia per il vecchio storico, se ne rievocherà con fraterna compiacenza il cuore e la mente, se se ne sentirà ispirato ad amare con più austera dedizione la verità, la libertà, la giustizia, tunc exultabunt ossa mea".
Fonti e Bibl.: La raccolta degli Scritti minori (Roma 1970-1983), in sei volumi (il I, una scelta curata dal D. medesimo; i voll. II-V, in ordine cronologico di pubblicazione dei singoli scritti; i due tomi del VI, il primo per le recensioni, il secondo per le "Cronache e commenti" della Riv. di filologia, 1923 ss.), tanto più per esservi ristampati i vari saggi e capitoli delle tre sillogi Per la scienza dell'antichità (Torino 1909), Problemi di storia antica (Bari 1932) e Studi di storia della storiografia greca (Firenze 1951), esime oramai dal ricorso alla, incompleta ed infelice, Bibliografia (E. Gabba, in Riv. di filologia, C[1972], p. 443 n. 1) curata da P. Künzle e pubbl. in appendice (pp. 173 ss.) ai citati Studi di storia della storiografia greca. Disgraziatamente, però, mancano alla raccolta (a prescindere dalle omissioni mentovate nel testo) sostanzialmente tutti gli articoli del D. sulla Enciclopedia Italiana e le relazioni sulle memorie da lui presentate all'Accademia delle scienze di Torino (raccolte, però, da I. Lana, in appendice alla Commem. di G. D. nel primo centenario della nascita, Torino 1970, pp. 68 ss.). Pubblicazioni postume di storia antica: Ricerche sulla storiografia siceliota (Palermo 1958), appunti da lezioni accademiche, dopo la restituzione del D. alla cattedra di Roma; La guerra sociale, a cura di L. Polverini (Firenze 1976). Di interesse biografico, autobiografico e politico sono i Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze 1970 (da integrare, ed eventualmente da correggere, con l'articolo capitalissimo di N. Vian, La giovinezza romana di G. D., in Studium, LXXX [1984], pp. 305 ss.); ma non si conosce, disgraziatamente, la cronologia compositiva dei singoli saggi o capitoli: le pp. 1545 sono anteriori al 1930; nemmeno e poi facile distinguere se i frequenti errori siano imputabili a lapsus memoriae dell'autore, a refusi tipografici, a difficoltà di lettura o di trascrizione, ecc. Vi si affianchino: S. Accame, G. D. fra cultura e politica, Firenze 1975, essenziale per la storia del D. nella Torino degli anni Venti; Id., F. Halbherr e G. D. pionieri delle missioni archeol. italiane a Creta e in Cirenaica, Roma 1984; Id., F. Halbherr e G. D. Roma 1986; nonché le varie lettere del D. e al D. pubblicate in ispecie da S. Accame e da L. Polverini negli scritti citati nel testo. Cfr., altresì, la lettera di V. Ehrenberg, in Riv. stor. ital., LXXXII [1970], pp. 471-472; aL. Polverini si deve anche la pubblicazione del carteggio De Sanctis - Fraccaroli in Athenaeum, n., s., LXIII [1985], pp. 81 ss. La Storia dei Romani, I-IV, 1, uscì in editio princeps presso Bocca a Torino, 1907-1923; fu quindi e continuata e ristampata per i tipi fiorentini della Nuova Italia: IV, 2, 1, (1953); IV 2, 2 (1957); IV, 3 (1964); I, 2, (1956); I, 3, (1979, con correzioni autografe del D.); II (1960); III, 1 (1967); III, 2 (1968); IV, 1 (1969). Inoltre: Atthis, Storia della repubblica ateniese (1ediz., Roma 1898; 2 ediz., Torino 1912; 3 ediz., con le aggiunte inedite del D., Firenze 1975); Storia dei Greci, I-II, Firenze 1940 (molteplici riediz. e ristampe con aggiornamenti bibliogr. di A. Momigliano, poi raccolti nell'autonomo volumetto di A. Momigliano, Introduzione bibliogr. alla storia greca fino a Socrate, Firenze 1975, pp. 15 ss.).
Una copiosa bibl. sul D. presso P. Treves, Lo studio dell'antichità classica nell'Ottocento, Milano-Napoli 1962, pp. 1226-9 (e nel Veltro, XIV [1970], pp. 253 s.); e si vedano ibid., le pp. XXXVIII-XL, 1215 ss.: benché, a prescindere dagli scritti polemico-stroncatori, gli unici veramente rilevanti, usciti vivo il D., siano B. Croce, in Critica, VI (1908), pp. 390 s., e Storia della storiografia italiana nel sec. XIX, Bari 1947, II, pp. 139, 245 ss.; A. Momigliano, Contributo alla storia degli studi classici, Roma 1955, pp. 284 ss., 300 ss. Tra gli scritti in e dopo la morte del D., vedi A. Ferrabino, Scritti di filosofia della storia, Firenze 1962, pp. 753 ss. (vedi anche ibid., pp. 385 ss.); A. Momigliano, Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 299 ss. (e i successivi Contributi dello stesso Momigliano, ad nomen); P. Treves, Nel centenario di G. D., in IlVeltro, XIV (1970), pp. 217 ss.; S. Accame, in Praelectiones Patavinae, a cura di F. Sartori, Roma 1972, pp. 9 ss., e nella citata Commemorazione, pp. 7 ss. (oltre ai numerosi articoli, tutti lavorati sul materiale dell'archivio De Sanctis, il cui solo epistolario conta 14.000 pezzi, citati per la più parte nel testo); E. Gabba, in Riv. di filologia, XCIX (1971), pp. 5 ss., e C (1972), pp. 442 ss.; F. Sartori, I "Ricordi della mia vita" di G. D., in Critica storica, XI (1974), pp. 125 ss.; G. Bandelli, in Quad. di storia, XII (1980), pp. 83 ss., e XIV (1981), pp. 231 ss.; F. Gabrieli, Ricordo di G. D., in Enciclopedia '72, pp. 11 ss. ora in G. Devoto, La parentesi, Firenze 1974, pp. 47 ss.; M. Pani, G. D. e l'imperialismo antico, in Studi in mem. di F. Grosso, Roma 1981, pp. 475-492 (con le osservazioni di S. Accame, in Critica storica, XXI [1984], p. 101, n. 3); M. A. Levi, in Athena, VII (1982), pp. 161 ss.; M. Pavan, G. D. e la democrazia periclea, in Clio, XIX (1983), pp. 17-28; Id., A proposito del giudizio di G. D. su Annibale, in Riv. st. dell'antichità, XIII-XIV (1983-84), pp. 143-59.