Gaetano De Sanctis
Gaetano De Sanctis è stato indubbiamente il più grande storico italiano dell’antichità della prima metà del Novecento. Con profondo senso storico e insieme con grande perizia filologica ha indagato la storia di Grecia e di Roma, producendo opere di grande originalità e vigore. Su capolavori come la monumentale Storia dei Romani (I-IV, 1-3, 1907-1964) o la più agile Storia dei Greci (2 voll., 1939) hanno studiato e meditato non solo gli storici di professione, ma tutti i cultori della grecità e della romanità, tutti gli appassionati della storia del mondo antico. De Sanctis non è stato però soltanto l’autore di grandi opere o di dotte e brillanti monografie: è stato anche uno straordinario interprete di testi epigrafici e papiracei. Per queste doti, e per il suo fermo e insieme generoso carattere, egli seppe fare scuola: studiosi come Aldo Ferrabino, Arnaldo Momigliano, Mario Attilio Levi, Piero Treves, Silvio Accame, pur nelle loro diversissime personalità, si sono sentiti uniti a lui in un vincolo che non era tanto, o soltanto, un rapporto di discepolanza quanto un ideale continuo colloquio sulla storia e sulla politica – sull’etica della storia e della politica. Ciò che appunto seppe luminosamente mostrare, con nobile e ferma decisione, in un momento cruciale della sua vita.
Gaetano De Sanctis nacque a Roma, il 15 ottobre 1870, da Ignazio e Maria Orlandini, in una famiglia di rigida osservanza papalina, che si rifiutò sempre di riconoscere lo Stato italiano. Sia il padre, capitano della gendarmeria pontificia, sia il nonno materno, funzionario presso l’«Amministrazione dei sali e tabacchi», non prestarono il richiesto giuramento, affrontando ristrettezze economiche e l’isolamento sociale. Così, in una famiglia chiusa e misoneista, De Sanctis visse, per sua stessa ammissione, una fanciullezza triste e solitaria, ravvivata solo da un fervido sentimento religioso e da inesauste letture che lo portarono alla scoperta della storia della Grecia e di Roma. Superato da privatista l’esame di licenza liceale, De Sanctis si iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma. Decisione di grande momento, che significava il superamento del chiuso mondo familiare e insieme il riconoscimento e l’accettazione dello Stato italiano.
All’Università incontrò lo storico dell’antichità che egli eleggerà come maestro e che, pur nella diversità delle idee e nelle divergenze metodiche, sempre seguirà e sempre rispetterà: il tedesco «‘positivista’ e sostanzialmente anticattolico» (Treves 1991, p. 298) Karl Julius Beloch, alla cui scuola il giovane De Sanctis spiegò tutta la sua grande capacità di lavoro e la precoce maturità intellettuale: vari sostanziosi articoli, la dissertazione di laurea (Contributi alla storia ateniese dalla guerra lamiaca alla guerra cremonidea, 1892, ma pubblicato nel 1893), l’acuto saggio su Agatocle (1895), l’originale – anche se non condivisibile – lavoro sulla Historia Augusta, i lavori epigrafici frutto della borsa annuale di perfezionamento (1895) in Grecia e dell’esplorazione archeologica in Creta (1899) con Federico Halbherr (1857-1930), la monografia, infine, del 1898, Atthís. Storia della repubblica ateniese dalle origini alle riforme di Clistene.
Con questo imponente bagaglio scientifico, e sotto l’egida del maestro Beloch, il giovane De Sanctis scalò i gradini di una rapida, anche se non tranquillissima, carriera accademica che lo vide infine vincitore – a maggioranza, contrari l’eterno avversario Ettore Pais e Achille Coen – del concorso alla cattedra di storia antica dell’Università di Torino. Qui De Sanctis rimase fino al 1929. Periodo di grande significato, per l’ancora giovane studioso: per la vita privata – matrimonio con l’allieva Emilia Rosmini – e per la vita intellettuale. A Torino egli si trovò a suo agio e strinse salde amicizie: soprattutto con lo storico Carlo Cipolla (1854-1916) e con Giuseppe Fraccaroli (1849-1918), l’acuto grecista traduttore e commentatore dei tragici greci. Né mancò l’impegno nella vita culturale e politica della città. Seppe crearsi una scuola, con allievi soprattutto avviati allo studio dell’età ellenistica: Pietro Ghione, Giuseppe Corradi, Emilio Pozzi. Il suo insegnamento attirava i giovani: lo seguirono, pur volgendosi poi ad altri campi, personalità come Luigi Foscolo Benedetto, Giulio Augusto Levi, Giovanni Alfero, Ferruccio Parri, Adele Rossi, Giorgio Falco, Augusto Rostagni, che divenne nel 1923 il suo fidato collaboratore nella condirezione della «Rivista di filologia ed istruzione classica», un impegno che De Sanctis considerava civile e non solo scientifico. E scelsero il cammino della storia antica allievi che divennero insigni rappresentanti della disciplina quali Aldo Ferrabino, Mario Attilio Levi, Arnaldo Momigliano, Piero Treves, Silvio Accame.
A Torino si impegnò anche nella vita pubblica. Aderì, assumendovi posizioni di militanza, al Partito popolare italiano ed espresse, con l’adesione nel maggio del 1925 al Manifesto degli intellettuali antifascisti di Benedetto Croce, la sua militanza antifascista.
Nel 1929 De Sanctis venne chiamato a Roma, alla cattedra di storia greca del maestro Beloch. Ebbe anche l’incarico di direttore della sezione Antichità classica della Enciclopedia Italiana. Nella nuova sede trovò studiosi più giovani che lo accolsero come un maestro: Alberto Pincherle, Francesco Gabrieli, Giorgio Levi Della Vida, Alberto Maria Ghisalberti, Umberto Bosco. Ma, come è stato osservato da un sensibile e acuto allievo, Roma «non gli poteva essere né congeniale né propizia» (Treves 1991, p. 305). Né l’Università, né la città lo attrassero particolarmente e cominciava, inoltre, a manifestarsi quell’inguaribile glaucoma che, dopo pochi anni, lo avrebbe portato alla completa cecità. Non mancarono, tuttavia, i riconoscimenti: socio nazionale dell’Accademia dei Lincei nel 1932 (corrispondente già dal 1920), laurea honoris causa a Cambridge nel 1930 (ma già a Oxford nel 1925, all’Università cattolica di Lovanio nel 1927), alla Sorbona nel 1936.
Il 1931 fu l’anno della prova. Nonostante i tentativi amicali di dissuasione, De Sanctis rifiutò, insieme ai pochissimi altri, di prestare il giuramento imposto dal regime fascista ai funzionari dello Stato – cui coerentemente seguì, nel 1934, il rifiuto del giuramento imposto anche agli accademici lincei. Conseguenza fu la destituzione dalla cattedra, l’esclusione dall’Accademia e da ogni altra istituzione culturale. Così, per quasi tutti gli anni Trenta e nei duri anni della guerra, De Sanctis visse isolato nella sua casa romana, con il solo sostegno finanziario del suo lavoro all’Enciclopedia e con un sussidio vaticano come presidente della Pontificia Accademia romana di archeologia.
La vita civile riprese con la fine della guerra. Già nel 1944 De Sanctis fu restituito alla cattedra di storia greca dell’Università di Roma e in essa confermato a vita come professore che non aveva giurato; fu nella commissione per la ricostruzione dell’Accademia dei Lincei, commissario per la Giunta centrale degli Istituti storici e presidente dell’Istituto della Enciclopedia Italiana. Nel 1950, nel suo ottantesimo anno di età, fu nominato senatore a vita. A ribadire il carattere non partitico, non politico, della nomina, si iscrisse come indipendente al gruppo misto. A ottantasette anni concluse la sua lunga, operosa, travagliata vita nella sua casa romana di via S. Chiara, il 9 aprile 1957.
Secondo una tradizione che negli studi italiani di storia antica viene ormai perdendosi, De Sanctis si occupò, con uguale impegno, sia di storia greca sia di storia romana. I sei volumi degli Scritti minori mostrano la vastità dei suoi interessi. Una prima fase, sotto l’influenza del maestro Beloch, fu dedicata soprattutto alla storia greca: sono il suo primo lavoro Studi sull’Athenaion politeia attribuita ad Aristotele, l’articolo sulla battaglia dell’Eurimedonte in Diodoro, la tesi di laurea sulla storia ateniese dalla guerra lamiaca alla guerra cremonidea. Lo studio della storia greca continuò con temi diversi (Omero, Solone, Eschine, Agatocle, le riforme sociali del 3° sec. a.C.), salvo un’incursione, per la verità non molto felice, sulla storiografia tardoimperiale con il saggio Gli Scriptores Historiae Augustae. Questa prima fase si concluse – mentre, a riprova delle sue capacità di epigrafista, uscivano le Iscrizioni tessaliche nei Monumenti antichi dei Lincei (1898) – con la pubblicazione, nello stesso anno 1898, della Atthís, «una vera opera di storia» (Momigliano 1957, 1960, p. 307).
Vera e grande opera di storia è soprattutto la Storia dei Romani, cui De Sanctis, pur non tralasciando gli studi di storia greca, dedicò la gran parte del suo periodo torinese. Dal 1900 al 1923 egli si fece storico di Roma monarchica e repubblicana, in cinque tomi, indagando, dalla preistoria dei popoli indoeuropei, la prima storia italiana (I-II, 1907; III, 1-2, 1916, 1917; IV, 1, 1923). Egli così esaminò criticamente tutto il materiale archeologico, epigrafico e letterario della Roma monarchica e repubblicana, ricostruendo la vicenda istituzionale, socioeconomica e politica della città sul Tevere fino alla conclusione della seconda guerra punica e, con la battaglia di Pidna, della terza macedonica. Un’opera grandiosa, la cui originalità e novità stavano nella «combinazione di un’informazione completa con la indipendenza e le vaste prospettive del vero storico» (Momigliano 1957, poi 1960, p. 309). Essa costituì il Lebenswerk dello storico italiano. Dopo un’interruzione di trent’anni, la pubblicazione riprese con i due tomi del IV vol. parte 2 (1953 e 1957) e con il postumo terzo tomo del IV vol. (1964; un inedito capitolo su La guerra sociale è stato pubblicato nel 1976 a cura di Leandro Polverini).
Nel 1923, come detto, De Sanctis assunse, coadiuvato da Rostagni, la direzione della «Rivista di filologia classica». Negli anni di isolamento civile e politico, e di disagi fisici per l’ormai definitiva cecità, si ravvivò il suo antico interesse per la storiografia classica, si rafforzò il suo amore per la Grecia, per l’Ellade madre della libertà politica e del pensiero libero. Preferì pertanto all’Atene ‘imperialista’ la Mileto di Aristagora e di Ecateo. Con indomita volontà, dettò da cieco i due volumi della Storia dei Greci (1939): fino a Socrate e senza note, ma ricca del pathos interiore di un uomo che, ormai settantenne, ripensava la vicenda della grecità arcaica e classica alla luce dei propri convincimenti – i convincimenti di un uomo che non si era piegato alla dittatura fascista e che possedeva la forza della libertà interiore. La Storia dei Greci fu perciò un’opera viva, originale e apprezzata dal pubblico colto.
A monte di questa vastissima produzione scientifica c’era chiaramente una convinta e salda posizione metodologica. In parte ereditata dal maestro Beloch, in parte alimentata dalle nuove correnti di pensiero, specie dalle concezioni crociane sulla storia e sulla storiografia e dalla filosofia bergsoniana – in parte anche dal particolare animus pugnandi di De Sanctis. Documento principe di questa posizione metodologica, oltre ovviamente le recensioni, la raccolta di saggi polemici, dal titolo tedeschizzante, Per la scienza dell’antichità. Saggi e polemiche (1909). «Strano ed infelicissimo volume» ha definito quest’opera Treves (1991, p. 302), l’allievo di De Sanctis. Si tratta di combattivi interventi, alcuni volti a illustrare la metodologia critica che il giovane studioso veniva in quegli anni elaborando; altri invece, sempre per difendere questa metodologia, fortemente e ingiustamente polemici contro studiosi come Guglielmo Ferrero, Pietro Bonfante, Ettore Ciccotti. Dei primi stroncava il «dilettantismo borioso», nel Ciccotti attaccava il «materialismo storico». Soprattutto ostile era alla critica radicale della tradizione storiografica condotta dal Pais. Nel saggio sul lapis niger, redatto prima di lasciare Roma per Torino e datato 7 giugno 1900, De Sanctis formulava la sua posizione di metodo:
[…] la iscrizione arcaica del foro [romano], né più né meno che tutti i documenti a noi pervenuti, ci ammonisce ad usare quella critica temperata che nulla ciecamente afferma per servile ossequio alla tradizione, nulla ciecamente nega per sola smania di negare. Dal modo onde si darà ascolto a questi ammonimenti dipende l’avvenire della scienza storica in Italia (Il lapis niger e la iscrizione arcaica del foro romano, «Rivista di filologia e di istruzione classica», 1900, 28, pp. 406-46, poi in Id., Scritti minori, 2° vol., 1970, pp. 175-211; la citazione a p. 211, corsivo nostro).
Parole assai dure e pesanti, specie se proferite da un giovane appena trentenne. Ma questo era il De Sanctis, orgoglioso e sicuro di sé stesso. Appunto questa metodica della «critica temperata» costituisce uno dei cardini sui quali De Sanctis, nei primi due volumi della Storia dei Romani (La conquista del primato in Italia), fonda la sua ricostruzione della storia di Roma arcaica e della prima età repubblicana. La lettera dedicatoria al maestro Beloch nel primo volume – lettera ingiustificatamente soppressa nella ristampa – parla assai chiaramente: De Sanctis stigmatizza da un canto il «cieco tradizionalismo» e la «[…] non meno cieca smania di negar fede ad ogni costo alla tradizione […]»; dall’altro giudica «[…] anche più esiziale alla serietà scientifica il diffondersi di un dilettantismo borioso ed ignorante, che trova una degna alleata in quella impudente ciarlataneria pseudoscientifica che è tanto diffusa purtroppo in Italia con grave iattura della vita intellettuale e politica della nazione […]». Egli aveva preferito battere altre vie e seguire altri auctores.
Alla ricostruzione della storia arcaica e protorepubblicana del popolo romano lo aveva portato, con il saldo usbergo della metodologia ‘positiva’ belochiana, il ripensamento critico della storiografia tardosettecentesca e ottocentesca. Da Louis-Jean Lévèsque de Pouilly a Louis de Beaufort, a Barthold Georg Niebuhr, Albert Schwegler, Theodor Mommsen fino a Pais, il nutrito apparato delle note dichiara il sofferto confronto con le posizioni metodiche e storiografiche degli studiosi che lo hanno preceduto. Ma i due volumi mostrano anche la novità dell’approccio metodico di De Sanctis, in ordine soprattutto alla correlazione da lui posta tra documentazione scritta e non scritta, alla ingegnosa combinazione della tradizione letteraria e delle sopravvivenze archeologiche (Polverini 2011, p. 397). Rispondendo alle critiche di Ferrero e di Pais, così De Sanctis argomentava:
credo d’aver dimostrato che senza lo studio del materiale archeologico la ricerca etnografica è un vano giuoco d’ingegno; senza una profonda conoscenza della filologia l’analisi della tradizione non può riuscire che ad una sequela d’errori; quando per sofisticare sui dati tradizionali o per dissertare sui monumenti si perde di vista la realtà della vita non s’intende nulla della storia; quando si cerca di scrivere storia senza studiare a fondo monumenti e documenti, non si scrivono che romanzi (Per la scienza dell’antichità, cit., pp. 530-31, poi in Scritti minori, cit., 3° vol., 1972, p. 409).
Non tutto è oro, in queste dichiarazioni di principio. In nome di una visione ‘severa’ della filologia, della Altertumswissenschaft tradizionale, De Sanctis appare respingere le nuove possibilità offerte dal folklore, dall’antropologia, dalla papirologia; precludendosi in qualche modo una più profonda intelligenza del mondo preromano, della struttura sociale di Roma repubblicana, della storia agraria delle provincie, della storia religiosa del mondo ellenistico-romano. Saranno i nuovi percorsi della ricerca antichistica, specie fuori d’Italia.
Questa critica ‘temperata’ delle fonti resta la fondamentale caratteristica, sul piano metodologico, della storiografia desanctisiana. Ma se la metodologia resta in fondo quella ‘positiva’ ereditata da Beloch, la concezione storica generale si volge in ben altra direzione. Con il consueto acume, nella recensione su «La critica» del 1908 ai primi due volumi della Storia dei Romani, Croce coglieva il punto: «Il De Sanctis è finalista nella conclusione e determinista nel corso del libro». I due volumi de La conquista del primato in Italia così infatti si chiudevano:
La graduale evoluzione che aveva trasformato a questo modo la coscienza dei barbari eneolitici, la loro civiltà esterna e le loro associazioni rudimentali s’era compiuta, tra lotte d’ogni maniera, senza ch’essi ne fossero consapevoli. E però tanto più vi appare manifesta la efficacia di quella forza che sospinge costantemente l’umanità da una forma di vita ad un’altra in cui più penetra e risplende l’idea del bene, senza che l’una forma sia pienamente deteminata dalla precedente, non potendo il più perfetto avere nel meno perfetto un’adeguata spiegazione; di quella forza che lo scienziato cristiano designa col nome di Provvidenza (Storia dei Romani, II, 1907, p. 537, 19602, pp. 515-16).
La Provvidenza dunque come motore della storia: dobbiamo concordare con Treves quando osserva che il finalismo cristiano «era il vero De Sanctis, il suo ‘storicismo’, lo strumento, fideistico e scientifico a un tempo, della sua ulteriore attività» (1991, p. 302).
Entro questa visione storica generale si inscrivono le idee fondamentali dell’interpretazione desanctisiana della storia greca e romana. Possiamo indicarne in questa sede solo le principali. Il principio dell’unità, in primo luogo. Per la storia greca, criterio interpretativo fu sempre posto da De Sanctis il concetto che l’unità politica costituisse sempre la comune aspirazione e la ragion di vita degli Stati greci (cfr. Gabba 1971, p. 6, e le fondamentali precisazioni di Momigliano 1939, 1992, pp. 459 e segg.). Unità alla cui base stava il senso di solidarietà e di unione concretantesi nella libertà della polis – ma resa sempre problematica dalla irrinunciabilità alla loro libertà da parte delle città-Stato greche. Problematicità acutamente avvertita ed esposta nella prolusione romana del 1929 su Essenza e caratteri della storia greca, ma solo tentativamente superata nella presentazione di una storia greca come storia di successive egemonie – e valorizzando il formarsi sempre più frequente, dal 4° sec. in poi, di leghe e federazioni volte a costituire più ampie organizzazioni statali.
Più lineare, e tutto sommato più facile, il discorso sulla storia romana. Sul principio dell’unità sono appunto costruiti i due volumi de La conquista del primato in Italia. Gli esempi non mancano: il sacco di Veio è visto da De Sanctis come «il primo e più arduo passo della riduzione d’Italia ad unità nazionale» (Storia dei Romani, II, 19602, p. 138); la battaglia di Sentino (la «battaglia delle nazioni») è paragonata a quella di Solferino: come questa fece l’unità d’Italia, Sentino fece romana l’Italia (Storia dei Romani, II, 19602, p. 340). Correlativamente, De Sanctis sottovaluta il ruolo dei popoli italici, riduce l’importanza degli etruschi, ridimensiona la «grande Roma dei Tarquini» della fortunata formula di Giorgio Pasquali, trascura le posizioni di studiosi ottocenteschi come Giuseppe Micali che rivendicavano, in funzione antiromana, il contributo degli altri popoli italici alla costituzione di un’unità italiana (Treves 1991, p. 302).
Altro tema di fondo della storiografia desanctisiana, l’imperialismo – con il connesso problema del colonialismo. De Sanctis, per es., approvava l’impresa crispina in Libia e si mostrò perfino favorevole, con grande disagio e dispiacere di discepoli e amici, alla campagna etiopica di Benito Mussolini. Permanevano nel suo pensiero residui razzistici, di ascendenza ottocentesca. Egli era assolutamente convinto della superiorità intellettuale e morale degli Indeuropei e, salvando Annibale, riteneva pienamente giustificata la fine del dominio cartaginese, data l’evidente inferiorità dei Semiti. Nei fatti, in De Sanctis il rapporto tra colonialismo e imperialismo è piuttosto complesso, soprattutto per le variazioni che lo stesso concetto di imperialismo ha attraversato nel corso della sua lunga attività storiografica. In linea di principio si può porre la «distinzione tra colonialismo, inteso come ‘missione di civiltà’, e imperialismo inteso come lotta di una nazione ‘civile’ contro altre nazioni ‘civili’ per una ‘ingiusta’ supremazia» (Bandelli 1980, p. 97). Colonialismo dunque come opera di colonizzazione, quasi processo ora diremmo di acculturazione, realizzato da civiltà più avanzate nei confronti di civiltà meno progredite; imperialismo invece di opera di sfruttamento. Per cui, brutale e avido imperialismo è stata la conquista violenta del civilissimo Oriente ellenistico, meritoria opera di colonialismo la conquista dell’Occidente semibarbaro.
Negativo dunque il giudizio desanctisiano sull’imperialismo – ma positiva l’unificazione del mondo mediterraneo. Il durissimo prezzo è stato però lo sfruttamento, «diretto ed indiretto» – da parte dei vincitori e la sottomissione e l’avvilimento dei vinti. Nei fatti Roma pagherà con la perdita della libertà l’espansione imperialistica: la pax Augusta è una «pace imperiale», è «il principio di un’èra di decadenza». In uno dei suoi più impegnativi e appassionati saggi De Sanctis, stigmatizzando la cieca reazione dell’oligarchia dominante alle iniziative riformiste dei Gracchi, così scrive:
La Nemesi storica si manifesta tragicamente nella impotenza del vincitore di Cartagine e di Numanzia, appunto per essere stato egli la incarnazione più compita dello imperialismo romano, a salvare la propria città […] il popolo padrone del mondo si apprestava
a pagare il proprio imperialismo piegando esso il capo al giogo della monarchia militare […] (Rivoluzione e reazione nell’età dei Gracchi, 1921, in Scritti minori, cit., 4° vol., 1976, p. 69).
Varie sono le facce dell’imperialismo. Se c’è un imperialismo espressione di un’ambizione civilizzatrice, c’è invece un imperialismo che vien meno a questa sua missione civilizzatrice alleandosi alla classe egemone sopraffatrice dei ceti umili. Il nesso imperialismo-capitalismo risulta cruciale: nel conflitto fondamentale della tarda Repubblica tra «proletariato» e «capitalismo» – De Sanctis non ha esitazioni a usare questa terminologia – «l’imperialismo trovava la sua alleata naturale nella tendenza sopraffatrice della classe più abbiente […]». Conflitto conclusosi con la vittoria del capitalismo, vittoria «che fu causa ed effetto insieme del formarsi dell’impero, condizione del suo consolidarsi sotto Augusto, suo tarlo roditore e germe della sua dissoluzione» (Essenza e caratteri della storia antica, 1929, in Scritti minori, cit., 4° vol., p. 446). In Dopoguerra antico (1920), un altro dei suoi più significativi saggi, De Sanctis delinea un’evoluzione dell’imperialismo romano: da un’espansione dettata dalla «necessità della difesa» che «l’aveva condotta a poco a poco alla conquista dell’Italia», Roma si lanciò nell’impresa imperialistica. La seconda guerra macedonica sarebbe stata la prima grande guerra da essa iniziata
senza che nessuna necessità di difesa […] la giustificasse […] Ora il militarismo trascinava il popolo romano verso una via nuova, verso la conquista del mondo […] Ricchezza, gloria, dominio, questi erano dunque gli allettamenti che l’Oriente offriva ai Romani nell’immediato dopoguerra della seconda punica. E non vi resistettero (in Scritti minori, cit., 4° vol., pp. 28-29).
Evidente il fondamento economico dello spirito imperialistico di Roma. In una fase avanzata del suo pensiero storiografico, De Sanctis pone il punto di svolta nella terza guerra macedonica (Storia dei Romani, IV, 3, 1964). Dopo la battaglia di Pidna, la politica imperialista di Roma obbedisce sostanzialmente agli interessi dei suoi ceti capitalisti – sostanzialmente agli interessi degli equites (La guerra sociale, 1976, pp. 5 e 7). L’imperialismo dunque non è più legato a problemi di espansione di civiltà superiori a spese delle meno evolute, quanto piuttosto, e soprattutto, al contrasto di strati – o classi – all’interno di organismi sociali.
Imperialismo, colonialismo, militarismo: De Sanctis non ha timore, nei suoi scritti, a usare questi termini. È questo un altro motivo di fondo della storiografia desanctisiana. A un dotto antichista italiano, che gli muoveva appunto la, scontata, critica di impiegare «espressioni moderne riferite a condizioni antiche» (Fraccaro 1924, p. 23), De Sanctis rispondeva che «i problemi della storia antica vanno sempre ripensati alla luce della problematica che suscitano in noi le nuove esperienze della vita che viviamo» («Rivista di filologia e di istruzione classica», 1936, p. 199 nota 2, poi in Scritti minori, cit., 6° vol., 1972, p. 519 nota 2). La formula antica historia magistra vitae è da lui più volte mutata e riformulata in quella opposta della vita magistra historiae. Già nel necrologio di Mommsen («Rivista di filologia e di istruzione classica», 1904, p. 209, poi in Scritti minori, cit., 2° vol., p. 549) egli scriveva: «La storia è stata detta maestra della vita; è più modesto, ma più esatto dire che ne è la discepola». Ancor più decisa la formulazione in Storia dei Romani: «Maestra della vita può dirsi, certo, la storia; ma non nel senso grettamente utilitario che si dà per solito a questa sentenza. È vero d’altra parte, interamente e senza eccezioni vero, che la vita è maestra della storia» (III, 1, 1916, pp. VIII-IX). Influiva chiaramente la concezione crociana della storia – e anche Bergson. Nella prefazione al quarto volume (1923) della Storia dei Romani, De Sanctis dichiara la novità della sua opera: «La novità che io ho cercato di portare nell’opera mia […] è il ripensamento delle vicende anteriori alla luce delle moltissime esperienze di vita di cui si è arricchita, nella sua vita travagliosa verso un avvenire migliore, l’umanità».
La bibliografia essenziale degli scritti di Gaetano De Sanctis in Fondo Gaetano De Sanctis (1890-1956). Inventario, a cura di M.R. Precone, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 2007, pp. 229-61 (pp. 229-33: voci redatte da De Sanctis per l’Enciclopedia Italiana; pp. 243-61: bibliografia essenziale degli scritti di De Sanctis).
Un quadro quasi completo della produzione storiografica desanctisiana è anche offerto dalla raccolta degli Scritti minori, a cura di A. Ferrabino, S. Accame, 6 voll., Roma 1970-1983 (il 1° vol. raccoglie scritti scelti personalmente da De Sanctis; i voll. 2°-5° seguono l’ordine di pubblicazione dei singoli scritti; il t. 1 del 6° vol. contiene le recensioni, il t. 2 le «Cronache e commenti» apparse, a partire dal 1923, nella «Rivista di filologia»); mancano però le voci pubblicate nella Enciclopedia Italiana (ora in Fondo Gaetano De Sanctis (1890-1956). Inventario, cit.) e le relazioni sulle Memorie presentate all’Accademia delle scienze di Torino (poste però da Italo Lana in appendice alla Commemorazione di Gaetano De Sanctis nel primo centenario della nascita, Torino 1970, pp. 68 e segg.) mentre vi sono ristampati gli interventi e i saggi delle tre raccolte Per la scienza dell’antichità. Saggi e polemiche, Torino 1909, Problemi di storia antica, Bari 1932, e i già citati Studi di storia della storiografia greca, Firenze 1951.
Tra le opere principali si vedano:
Atthís. Storia della repubblica ateniese dalle origini alle riforme di Clistene, Roma 1898 (Torino 19122; con aggiunte inedite dell’Autore, Firenze 19753).
Storia dei Romani, I-IV, 1, Torino 1907-1923; IV, 2,1, Firenze 1953; IV, 2,2, Firenze 1957; IV, 3, Firenze 1964 (rist. Firenze: I, 2, 1956; I, 3, 1979, con correz. autografe dell’Autore; II, 1960, III, 1, 1967; III, 2, 1968; IV, 1, 1969).
Storia dei Greci, 2 voll., Firenze 1939.
Pericle, Milano-Messina 1944, poi a cura di D. Erdas, Tivoli 2011.
Ricerche sulla storiografia siceliota. Appunti da lezioni accademiche, Palermo 1958.
Ricordi della mia vita, a cura di S. Accame, Firenze 1970.
Il diario segreto (1917-1933), a cura di S. Accame, Milano 1997.
Andromaca (Inedito del 1938), Tivoli 2007.
La politica di Aristotele, a cura di A. Amico, Tivoli 2010.
P. Fraccaro, Un nuovo volume della “Storia dei Romani” di Gaetano De Sanctis, «Rivista storica italiana», 1924, 41, pp. 12-26.
A. Ferrabino, Per la Storia dei Greci, «Rivista storica italiana», s. IV, 1940, 24, pp. 231-47.
A. Momigliano, La unità della storia politica greca. A proposito della “Storia dei Greci” di G. De Sanctis (1939), in Id., Nono contributo alla storia degli studi classici e del mondo antico, a cura di R.D. Donato, Roma 1992, pp. 459-82.
A. Omodeo, Il “Pericle” di Gaetano De Sanctis, «Quaderni della Critica», 1945, 3, pp. 84-89, ora in Id., Il senso della storia, Torino 19552, pp. 511-18.
B. Croce, Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., Bari 1947, pp. 139 e segg., 245 e segg.
A. Omodeo, La “Storia dei Greci” di Gaetano De Sanctis, in Id., Il senso della storia, Torino 1948, pp. 40-50.
A. Momigliano, In memoria di Gaetano De Sanctis, «Rivista storica italiana», 1957, pp. 177-95, ora in Id., Secondo contributo alla storia degli studi classici, Roma 1960, pp. 299-318.
A. Ferrabino, Gaetano De Sanctis, 1870-1957, Roma 1958.
A. Garzetti, Gaetano De Sanctis, «Vita e Pensiero», 1958, 41, pp. 389-402.
E. Gabba, L’ultimo volume della “Storia dei Romani” di Gaetano De Sanctis, «Rivista storica italiana», 1964, 76, pp. 1050-57, ora in Id., Cultura classica e storiografia moderna, Bologna 1995, pp. 289-97.
P. De Francisci, Commemorazione del socio Gaetano De Sanctis, «Atti della Pontificia Accademia romana di archeologia. Rendiconti», 1957-1959, 30-31, pp. 23-33.
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