DONIZETTI, Gaetano
Nacque a Bergamo il 29 nov. 1797 da Andrea, portiere del Monte dei pegni, e da Domenica Nava e fu battezzato coi nomi Domenico Gaetano Maria nella chiesa di S. Grata inter Vites. Penultimo di sei figli, visse i primi anni in un ambiente meno che modesto, sito in borgo Canale nella Bergamo alta, ricordato dal D. come triste tugurio "ov'ombra di luce non mai penetrò" (Caversazzi).
Le prime notizie sicure sulle attività musicali del D. iniziano, a partire dal 1806, anno in cui a Bergamo venne fondata e diretta da Simone Mayr, e favorita dall'amministrazione della congregazione di Carità, una scuola di musica che sotto forma di "lezioni caritatevoli" offriva ai giovani indigenti la possibilità di accedere all'educazione musicale.
La città, che vantava tra l'altro una gloriosa tradizione musicale risalente al Trecento e irradiata dalla chiesa di S. Maria Maggiore, trovò nel bavarese Simone Mayr, divenuto direttore della cappella musicale, il più entusiasta e accanito assertore della creazione di una scuola musicale gratuita il cui intento era quello di formare coristi e strumentisti per le funzioni della cappella. In realtà le previsioni del Mayr superarono ogni aspettativa e i giovani allievi ai quali venivano impartite, oltre a quelle di musica, lezioni di latino, italiano, francese, storia e belle arti entrarono a far parte di una scuola che consentì loro di "divenir artisti di grido nei teatri d'Italia, anzi d'Europa" (Donati Petteni, 1930).Nell'aprile 1806 il D. fu tra i dodici ammessi alla scuola, nonostante la commissione avesse espresso alcune riserve nei confronti della voce del ragazzo "difettosa e rauca". Ammesso in prova per un periodo di tre mesi, a soli otto anni iniziò lo studio del canto e del clavicembalo in casa Mayr.
Nel compositore bavarese il D. trovò un maestro e un amico che per tutta la vita gli sarà prodigo di aiuti e consigli. Il Mayr ne favorì la formazione culturale, introducendolo nel salotto musicale di A. Bertoli, ove abitualmente si eseguivano composizioni di Haydn, Mozart, Beethoven e altri compositori della scuola viennese che furono determinanti per la sua preparazione tecnica e culturale.
Iniziate le lezioni presso la scuola nel maggio 1806, fu allievo per il canto di F. Salari, per il pianoforte di A. Gonzales e per la teoria musicale dello stesso Mayr. Rivelate non comuni doti musicali, in pochi mesi superò tutti gli altri allievi; tuttavia le scarse doti vocali misero in forse la sua permanenza nella scuola e soltanto l'intervento del Mayr riuscì ad evitare il suo allontanamento dalle lezioni; tra l'altro nel 1809 poté esibirsi come contraltista nell'opera del Mayr Alcide al bivio, un pasticcio con dialoghi parlati. Ciò nonostante nuove difficoltà si presentarono per il D. che, temendo nuovamente di non poter portare a compimento gli studi musicali, nel 1810 chiese di essere ammesso all'Accademia Carrara per frequentarvi i corsi di figura e disegno ornato; si ignora comunque se e con quale assiduità abbia frequentato quei corsi che, tutto sommato, costituivano una impossibile alternativa alla carriera di compositore cui stava gradualmente avviandosi. Il 13 sett. 1811 fu protagonista della farsa-pasticcio Il piccolo compositore di musica che lo stesso Mayr aveva approntato su un suo libretto in occasione del concerto conclusivo dell'anno scolastico. A questo lavoro il D. partecipò componendo alcune arie e producendosi come esecutore al cembalo. Nominato assistente del maestro al cembalo e ammesso alle classi speciali di armonia, il sopraggiunto mutamento della voce gli consentLanche di ricoprire il ruolo di secondo buffo al teatro della Società. Frattanto Mayr, ormai sicuro delle possibilità dell'allievo, raccolse i fondi necessari per consentire al D. di completare la sua formazione e acquisire "l'istruzione la più solida e perfetta che vanta al giorno d'oggi l'Italia" (Zavadini, 1948, pp. 910 s.); volle infatti inviarlo al liceo musicale di Bologna alla scuola di padre S. Mattei, ove il D. rimase tra il 1815 e il 1817.
A Bologna il D. perfezionò gli studi di contrappunto e composizione e, a testimonianza dei progressi compiuti, presentò quale saggio finale una Sinfonia concertante in re maggiore, che è considerata forse il suo lavoro più significativo di questi anni, un Concertino per corno inglese, e, ormai sicuro della sua vocazione operistica, il suo primo lavoro teatrale, la scena lirica in un atto Pigmalione, composta tra il 15 settembre e il 1º ott. 1816 (rappresentata per la prima volta soltanto il 13 ott. 1960 al teatro Donizetti di Bergamo), che, pur lavoro giovanile nato sotto l'influsso di Mozart e Gluck, rivela già caratteri stilistici assai personali, soprattutto nel tratteggiare personaggi e situazioni psicologiche. Nello stesso periodo lavorò ad altre due opere, entrambe su libretto di P. Metastasio, Olimpiade, di cui compose solo un duetto, e L'ira di Achille, di cui restano soltanto alcuni frammenti, e che secondo l'Ashbrook il D. lasciò incompleta. Sempre nel periodo bolognese si dedicò a lavori orchestrali, vocali e da camera, tra cui alcuni quartetti per archi, e compose tra l'altro una sinfonia intitolata La partenza, che segnò il definitivo commiato dalla città felsinea. Qui aveva conosciuto Piero Maroncelli, suo compagno di studi nel liceo musicale e al quale resterà legato sino alla morte di questo avvenuta nel 1846.
Tornato a Bergamo nel 1818, riprese l'attività quartettistica suonando in una formazione di cui facevano parte il Mayr alla viola e il violinista Marco Bonesi; poté così affinare la sua educazione musicale, grazie alla diretta conoscenza del repertorio sonatistico viennese, che si rivelerà fondamentale per la padronanza della scrittura a più parti e si tradurrà poi nella composizione dei Sedici quartetti per archi scritti entro il 1821.
Nello stesso periodo conobbe la cantante Giuseppina Ronzi De Begnis che si era esibita al teatro della Società insieme con il marito G. De Begnis e li seguì a Verona con la speranza che gli venisse commissionata un'opera. Entrato in contatto con l'impresario siciliano P. Zancla, gli venne commissionata un'opera per il teatro S. Luca di Venezia. Il 14 nov. 1818 esordì sulle scene veneziane con l'Enrico di Borgogna, tratto da un dramma di A. Kotzebue, ed ebbe il privilegio di inaugurare il teatro appena restaurato; l'esito fu abbastanza felice soprattutto alle successive rappresentazioni, tanto che il librettista dell'opera B. Merelli gli apprestò un nuovo libretto per la farsa Una follia, che andò in scena il mese successivo nello stesso teatro con buon successo; tuttavia il trionfo della rossiniana Italiana in Algeri ilgiorno successivo al suo esordio contribuì a far dimenticare presto il giovane compositore.
Frattanto, tornato a Bergamo, riuscì a liberarsi degli obblighi militari grazie all'interessamento di una benefattrice, Marianna Pezzoli Grattaroli che, per intercessione del Mayr, pagò per far esonerare dal servizio militare il D. e Antonio Dolci, suo compagno di studi; in segno di riconoscenza il D. dedicherà alla Pezzoli Grattaroli varie composizioni per pianoforte. A Bergamo il D. rimase inattivo per buona parte del 1819 e si dedicò prevalentemente alla composizione di musica sacra e strumentale; tuttavia, troppo forte si faceva sentire il richiamo del teatro perché il D. rinunciasse a comporre anche per le scene; infatti, per la fine dell'estate del 1819 aveva composto una parte de Le nozze in villa, che furono inserite nella farsapasticcio I piccoli virtuosi ambulanti (libretto di B. Merelli), che il Mayr aveva allestito per l'accademia finale della scuola. L'opera, poi completata, fu rappresentata al teatro Vecchio di Mantova nella stagione 1820-21, avendo quale protagonista Fanny Eckerlin, che procurò al D. numerosi problemi con i suoi capricci di prima donna.
Frattanto il D. andavaallontanandosi dai soggetti mitologici e, sensibile al messaggio rossiniano, andòcimentandosi verso una produzione di genere farsesco, rivelando quella vena comica che avrebbe caratterizzato i capolavori del genere nati nella fase più matura della sua attività artistica; né trascurò il genere semiserio, probabilmente sotto l'influsso della Cenerentola rossinianarappresentata a Bergamo nel 1818 e poi dell'Aureliano in Palmira edel Tancredi, cui aveva assistito durante il breve soggiorno veronese.Contemporaneamente attese ad una nuova opera, Pietro il grande, czar delle Russie (poipresentata con il titolo Il falegname di Livonia; libretto di G. Bevilacqua Aldrovandini), andata in scena al teatro S. Samuele di Venezia il 26 dic. 1819 e replicata con successo in varie città italiane, nonché prescelta per inaugurare la stagione di carnevale a Bologna, prima opera del D. ad essere rappresentata in quella città. Successivamente, sempre deciso ad affrontare la carriera teatrale, nonostante l'astro rossiniano in continua ascesa avesse condizionato inequivocabilmente il gusto del pubblico, compose l'opera Zoraide di Granata, in cui l'influsso del pesarese si rivelò ancor più evidente soprattutto nella vocalità, salda restando la padronanza del D. nei pezzi concertati, ove l'insegnamento del Mayr si rivelò quanto mai determinante nell'acquisizione d'un linguaggio espressivo personale. Grazie al Mayr ottenne un contratto di 500 scudi dal teatro Argentina di Roma. Qui il 22 genn. 1822, dopo aver incontrato non poche difficoltà nell'allestimento, poté mettere in scena la sua ultima opera, Zoraide di Granata, interpreti d'eccezione Maria Ester Mombelli e Domenico Donzelli, il quale soprattutto, allora nel pieno dei suoi mezzi vocali, contribuì al trionfale successo dell'opera. Il successo romano, andato oltre ogni aspettativa, decretò la consacrazione del giovane operista. La critica fu unanime nel riconoscere al D. una mano sicura nel tratteggiare le grandi scene d'insieme e i grandiosi concertati e ammirò senza riserve la bella vocalità dalle linee ampie e ricche di fioriture virtuosistiche di grande respiro.
A Roma conobbe Virginia Vasselli, sorella di Antonio, appassionato melomane, che diverrà in seguito sua moglie. Contemporaneamente si legò d'amicizia con un'altra illustre famiglia di dilettanti, i Carnevali, cui dedicherà numerose composizioni, e con J. Ferretti.
Dopo il trionfo romano il suo nome cominciò a circolare per la penisola e prima fra tutte Napoli gli aprì le porte dei suoi teatri; la città partenopea (che vantava una splendida tradizione teatrale e gareggiava con i maggiori centri musicali europei, avendo tra l'altro il maggior numero di teatri attivi praticamente tutto l'anno, era allora dominata dall'onnipotente impresario D. Barbaia e da Isabella Colbran) si presentò al giovane D. come la sede ideale per consacrare definitivamente la sua fama e consolidare la sua posizione.
Il contratto firmato con il Barbaia lo obbligava tra l'altro a curare la preparazione di opere di altri compositori e appena arrivato si dedicò alle messa in scena de La capricciosa e il soldato di E. Carafa su libretto del Ferretti al quale, in data 26 marzo 1822, scriveva: "lo scrivo precipitevolissimevolmente per accelerare la mia andata in scena, che sarà dopo la novena del S. Gennaro, verso la metà di maggio" (Zavadini, 1948, p. 233). L'opera, La zingara, nonostante la mediocrità del libretto di L. A. Tottola, fu rappresentata al teatro Nuovo il 12 maggio 1822 con enorme successo ed ebbe unanimi consensi anche da parte dei colleghi, tra cui Carlo Conti, che esortò gli allievi del conservatorio, tra cui F. Florimo e V. Bellini, ad assistere alla rappresentazione "se non altro per il settimino che solo un allievo di Mayr avrebbe potuto scrivere" (Ashbrook, p. 22). In questi primi lavori teatrali si manifestava già, accanto alla facilità di scrittura e al fervore creativo, una caratteristica tipica del processo compositivo donizettiano: la fretta, una "virtù" di cui stranamente il D. si sentirà orgoglioso e che nel 1843 gli farà scrivere al librettista Giacomo Sacchero: "Sai la mia divisa? Presto! Può essere biasimevole, ma ciò che feci di buono è sempre stato fatto presto" (Barblan).
In realtà la fretta nasceva dalla capacità di predisporre con straordinaria immediatezza la stesura musicale e individuare di ogni personaggio non solo la caratterizzazione psicologica, ma la tessitura vocale, l'andamento ritmico, il sostegno armonico e strumentale. A questa dote innata si aggiungeva la singolare capacità di assimilare ogni genere e tendenza stilistica si da intuire le esigenze del pubblico che, avvezzo al teatro rossiniano, richiedeva naturalezza espressiva, vivacità, ritmo incalzante dell'azione e varietà sonora realizzata con una timbrica non più statica ma in continuo divenire espressivo: Tuttavia la fretta, se pur poteva considerarsi manifestazione d'una straordinaria facilità creativa, fu talora motivo di faciloneria e pur nella genialità delle idee e nella felicità delle invenzioni sceniche e drammatiche, divenne motivo di critica, talora anche aspra, per taluni momenti meno felici della produzione del Donizetti.Dopo La zingara, ad appena un mese di distanza (29 giugno) il successo si rinnovò al teatro del Fondo con La lettera anonima, una farsa di G. Genoino.
Un giudizio più che favorevole fu riportato dal Giornale del Regno delle Due Sicilie del 1º luglio 1822, in cui veniva sottolineata la tendenza del compositore ad allontanarsi da formule musicali consacrate dalla routine, in favore di una concezione drammatica intesa nelle sue linee essenziali, dimostrando in tale occasione di sapersi muovere a suo agio nel ripercorrere con originalità e intuito teatrale l'ormai esausto cammino dell'opera comica napoletana. Frattanto, con la partenza di Rossini per Parigi, il mondo musicale italiano era alla ricerca di un successore; il D., che in ognuna delle opere fino ad allora composte aveva dimostrato di saper rinnovare il linguaggio teatrale, parve l'uomo giusto e non tardò ad essere richiesto dal teatro alla Scala di Milano, città in cui giunse il 3 ag. 1822 per firmare un contratto che lo impegnava a comporre la terza opera per la stagione autunnale; ebbe inizio in tale occasione la collaborazione con Felice Romani che, considerato il più celebre, autorevole e richiesto librettista italiano, poté consegnare il libretto della nuova opera, intitolata Chiara e Serafina, ossia I pirati soltanto il 3 ottobre; l'opera, già pronta per le prove il 15 ottobre e quindi composta in meno di quindici giorni, andò in scena il 26 dello stesso mese con esito assai mediocre imputabile non tanto al D. quanto alla diffidenza del pubblico e allo scarso impegno degli interpreti; deluso ma non scoraggiato, il D. continuò a comporre con la solita alacrità e nel 1823, tornato a Napoli, mise in scena al teatro S. Carlo l'opera Alfredo il Grande, preceduta dalla cantata scenica Aristea, cui fece seguito al teatro Nuovo la farsa Il fortunato inganno che ebbero tuttavia un tiepido successo. Frattanto fu invitato a riproporre il rifacimento della Zoraide di Granata su libretto riveduto dal Ferretti; l'opera, andata in scena al teatro Argentina nel 1824 - interpreti d'eccezione Benedetta Pisaroni, acclamata interprete rossiniana, e Domenico Donzelli che diverrà protagonista di molte opere donizettiane - non ebbe il successo sperato e fu anzi severamente criticata da Stendhal, che nutrì sempre per il D. una profonda avversione. A bilanciare la cattiva sorte sopraggiunse, sempre da Roma, un invito del Ferretti, che gli propose il libretto de L'aio nell'imbarazzo, una farsa tratta dalla fortunata commedia di G. Giraud che, rappresentata al teatro Valle nel 1824, fu accolta trionfalmente e rimase uno dei suoi successi più duraturi.
In questa partitura il D., ormai emancipato dagli stilemi dell'opera buffa napoletana che Rossini aveva portato a livelli non più superabili, rivelò di aver acquisito una scrittura scintillante e una personalità comica del tutto inedita in cui si manifestava la tendenza del D. a rivestire di sfumature patetico-sentimentali i personaggi dell'opera buffa, anticipando così quei caratteri che si sarebbero rivelati con i capolavori della maturità e che si presentavano come frutto d'una concezione teatrale nuova anche sotto il profilo sociale.
L'opera, poi richiesta dall'impresario napoletano F. Tortoli e modificata per il teatro Nuovo sostituendo i recitativi con i dialoghi parlati e con la parte del buffo in dialetto napoletano, fu rappresentata nel 1826 con il titolo di Don Gregorio, mentre una nuova opera, Emilia di Liverpool (libretto di G. Ceccherini da A. Kotzebue) fu data nel 1824 sempre al teatro Nuovo.
Il lavoro, appartenente al genere semiserio e concepito sotto l'influsso d'un incipiente romanticismo, ebbe buon esito, nonostante presentasse vari punti deboli evidenziati anche dalla trama complicata in cui per la prima volta appariva una di quelle scene di pazzia che avrebbero costituito uno dei punti forti della futura drammaturgia donizettiana.
Frattanto la fama acquisita fruttò al D. la nomina a maestro di cappella del teatro Carolino di Palermo, con cui firmò un contratto che lo tenne impegnato dal marzo 1825 al marzo 1826 con uno stipendio di 45 ducati mensili e che prevedeva tra l'altro l'incombenza di allestire opere di altri compositori. Curò infatti l'allestimento di opere di Rossini, G. Paisiello, D. Cimarosa e G. Spontini, incontrando numerose difficoltà soprattutto per la disparità del trattamento economico tra gli interpreti, spesso non all'altezza della situazione, e per la disorganizzazione del teatro. Comunque, nonostante l'insoddisfazione e le difficili condizioni di lavoro, poté portare a termine la sua nuova opera, Alahor di Granata, andata in scena con buon esito nel 1826, cui fece seguito la farsa Ilcastello degli invalidi, un lavoro oggi perduto, di cui si ha notizia da una lettera dello stesso D., inviata al cognato A. Vasselli il 24 ott. 1841, ma del quale sino ad oggi non è stato possibile avere altre notizie.
Lasciata Palermo, ove tra l'altro nel 1825 aveva potuto riproporre con grande successo L'aio nell'imbarazzo, tornò a Napoli in tempo per assistere alla prima rappresentazione di Bianca e Gernando di V. Bellini, per il quale nutrì sempre una sconfinata ammirazione. Frattanto, dopo la felice ripresa dell'Aionell'imbarazzo sulle scene napoletane, si dedicò alla composizione dell'opera Elvida, un dramma a fosche tinte ambientato in Spagna, non lontano dal clima moresco già trattato in Zoraide e Alahor; l'opera, rappresentata al teatro S. Carlo nel luglio del 1826, fu concepita sotto il segno del virtuosismo vocale di facile effetto e fu destinata alle agili voci di H.-C. Méric Lalande e G. B. Rubini; tuttavia le belle pagine ricche di fioriture non furono sufficienti a salvarla da una rapida eclissi, consapevole lo stesso D. che, puntando soltanto sull'abilità degli interpreti, aveva scritto al Mayr: "Non è gran cosa e se li colgo colla cavatina ed il quartetto mi basta" (Zavadini, 1948, pp. 245 s.).
Quasi a farsi perdonare di questo sbandamento, dovuto in parte a pressanti scadenze contrattuali, il D. affrontò un soggetto di suo piacimento senza che l'urgenza della commissione venisse a condizionare la sua ispirazione. L'occasione fu offerta da un libretto del Tottola, Gabriella di Vergy, la cui trama presentava quei caratteri drammatici in cui si ravvisavano i temi cari alla drammaturgia donizettiana; l'opera, tuttavia, non essendo stata commissionata, fu rappresentata al S. Carlo soltanto nel 1869 in un rifacimento di G. Puzone e P. Serrao. che utilizzarono oltre a quella del 1826, una versione rielaborata dal D. nel 1838.
Nell'agosto 1827 il D. lasciò Napoli per Roma, chiamatovi dall'impresario A. Pistoni, che lo impegnava a comporre per il teatro Valle l'opera buffa Olivo e Pasquale su libretto del Ferretti; a questo periodo risale il fidanzamento con Virginia Vasselli e sicuramente per acquisire una sicurezza economica il D. stipulò con il Barbaia un contratto che lo impegnava a comporre dodici opere in tre anni con uno stipendio mensile di 200 ducati, oltre a 50 scudi mensili per l'attività di direttore d'orchestra al teatro Nuovo. Partito da Roma dopo aver ottenuto un successo di stima con la sua ultima opera che in seguito conobbe un buon successo anche all'estero, nel gennaio 1827 si accinse a soddisfare gli impegni assunti con il Barbaia che cercò nel D., di cui gli era nota l'indole mite e remissiva, un sostituto di Rossini. Il compositore era oppresso dalle scadenze, dall'affannosa ricerca dei libretti e dalla scelta delle compagnie di canto: incombenze che finivano col reprimere ogni aspirazione artistica e davano origine a pagine costruite soltanto sull'abilità di mestiere e in ossequio alle esigenze di un pubblico inerte e conformista.
Tuttavia la frenesia del comporre e la capacità di sapersi adattare ad un siffatto sovraccarico di lavoro consentirono al D. di soddisfare gli impegni con una alacrità e una padronanza che hanno del prodigioso.
A Napoli iniziò tra l'altro la collaborazione con il librettista Domenico Gilardoni, che gli fornì i libretti di tre opere rappresentate nel 1827 al teatro Nuovo. Della prima, Otto mesi in due ore, presentata anche con il titolo Gli esiliati in Siberia e indicata come "opera romantica", il D. curò anche l'elaborato allestimento scenico. L'opera ebbe grande successo e conobbe un momento di popolarità nella ripresa a Modena durante i moti rivoluzionari del 1831 allorché la marcia del terzo atto fu adottata come inno dagli insorti modenesi. Ad essa fece seguito Ilborgomastro di Saardam, un'opera buffa scritta con grande mestiere ma scarsamente ispirata, che ebbe tuttavia buon esito anche grazie alla partecipazione quale protagonista di Carolina Ungher. Più consistente sul piano della satira di costume la farsa Le convenienze e inconvenienze teatrali di cui lo stesso D. aveva scritto il libretto tratto da due commedie di A. Sografi. L'opera, che rivelò anche il talento poetico del D., gli valse in seguito il riconoscimento di H. Berlioz, che assistette ad una fortunata rappresentazione napoletana nel 1831. Il 1º genn. 1828 il D. ottenne grande successo al teatro S. Carlo con L'esule di Roma, la terza opera, dopo Ilborgomastro di Saardam, su libretto del Gilardoni e che segnò un ulteriore passo in avanti nell'affrancamento dagli stilemi tradizionali, procurandogli anche l'ammirazione di Rossini.
Il successo riscosso dall'opera indusse il Barbaia a portare lo stipendio a 500 ducati mensili, il che diede al D. anche psicologicamente la consapevolezza di essere entrato con piena autorità nel difficile ambiente del teatro d'opera. L'esito dell'opera successiva, Alina, regina di Golconda, rappresentata nel 1828 per l'inaugurazione del teatro Carlo Felice di Genova, lo consacrò definitivamente autore di sicuro successo. Frattanto il 1º giugno sposò a Roma, nella chiesa di S. Maria in Via, Virginia Vasselli. A questo periodo risale l'inimicizia di Bellini nei confronti del D., in cui il compositore catanese vide sempre un pericoloso rivale, in realtà assai poco temibile sul piano umano per la sua indole generosa e sempre solidale nei confronti dei colleghi. Recatosi a Napoli per gli impegni assunti con il Barbaia, in poco più di due anni mise in scena sette opere: Gianni di Calais, Il paria, Il giovedì grasso, Il castello di Kenilworth, I pazzi per progetto, Il diluvio universale e Imelda de' Lambertazzi.
Per tali opere fu ancora una volta costretto ad un frenetico lavoro ove la routine, dettata oltre che dalla fretta, da non buone condizioni fisiche, lo fece ricadere in stilemi tradizionali e di stampo rossiniano di maniera che gli procurarono l'appellativo di "Dozzinetti".
Intanto nel 1829 un luttuoso evento veniva a funestare la sua vita matrimoniale: la morte del primogenito Filippo. L'anno successivo compose il suo primo capolavoro, Anna Bolena che, rappresentata nel 1830 al teatro Carcano di Milano, ottenne un caloroso successo, vincendo definitivamente la diffidenza del pubblico milanese.
L'opera, su libretto del Romani, ed eseguita da una compagnia di canto di cui facevano parte Giuditta Pasta, G. B. Rubini e il celebre basso Filippo Galli, esprimeva al meglio i caratteri tipici dell'opera romantica, vista nella sua accezione più appassionata ed espressa mediante una coralità in cui i personaggi emergono grazie alla forza della penetrazione psicologica e drammatica; la Bolena, ovunque ammirata per la salda struttura drammatica e il ritmo incalzante della passionale vicenda che, come ebbe ad osservare G. Mazzini, si avvicinava "all'epopea musicale" (G. Mazzini, Filosofia della musica, p. 174), trionfò poi sulle scene dei maggiori teatri europei.
Nel 1831 il D. volle dedicare al Rubini l'opera Gianni di Parigi con la speranza di conquistare le scene parigine allora dominate dal celebre tenore che invece si mostrò scarsamente interessato al lavoro, andato poi in scena solo nel 1839 al teatro alla Scala con esito disastroso. Sempre nel 1831 scrisse per Napoli due operine su libretto del Gilardoni, Francesca di Foix e La romanziera e l'uomo nero, lavori di scarso impegno che ebbero un successo di stima e con i quali il D. pensava di poter concludere l'impegno contrattuale con il Barbaia. Successivamente si dedicò ad una nuova opera seria, Fausta, libretto scritto dal D. in collaborazione con C. Cardoni, trionfalmente accolta al teatro S. Carlo nel 1832, protagonisti la Ronzi De Begnis e A. Tamburini. Il 26 dic. 1831 era andata in scena alla Scala Norma di Bellini, interpretata da G. Pasta, G. Grisi e D. Donzelli, che furono chiamati dal D. a interpretare la sua nuova opera, Ugo, conte di Parigi, che si risolse in un insuccesso.
Dalla collaborazione con il Romani, che indubbiamente contribuì alla maturazione artistica del D. e favorì la definizione dei caratteri dell'opera romantica italiana, nacque il primo dei grandi capolavori donizettiani, L'elisir d'amore, che, secondo una tradizione non più ritenuta attendibile, sarebbe stata composta in soli quindici giorni. L'opera andò in scena il 12, maggio 1832 con esito trionfale e segnò un ulteriore progresso compiuto nel genere comico dal D., che allontanandosi ormai definitivamente dal rossinismo e dalla tradizione settecentesca poteva esprimersi con un suo linguaggio ove i caratteri venivano a colorarsi di sottili sfumature sentimentali venate di delicata malinconia. Dopo il successo dell'Elisir d'amore ilD. lasciava Milano per Roma e già il 25 maggio 1832 firmava con A. Lanari un contratto per Parisina d'Este, da rappresentarsi al teatro della Pergola di Firenze; nel frattempo si recava a Napoli per Sancia di Castiglia, seguita nel 1833 da altre quattro opere: Ilfurioso dell'isola di San Domingo per il teatro Valle di Roma, Parisina per Firenze, Torquato Tasso ancora per il Valle e Lucrezia Borgia per il teatro alla Scala: quattro opere in cui la drammaturgia di orientamento romantico veniva ad essere chiaramente evidenziata.
A testimonianza del successo raggiunto, cui corrispose immediatamente una ben più solida posizione economica, il D. vide notevolmente accresciuta la sua autorità in campo teatrale; a questo periodo risale tra l'altro la riforma da lui attuata nella disposizione dell'orchestra: per ottenere gli effetti sonori richiesti dall'azione scenica, durante le rappresentazioni scaligere dispose le famiglie di strumenti a emiciclo attorno al maestro iniziando dagli archi e creando cosi una disposizione rimasta nell'uso e sanzionata definitivamente dalla pratica moderna.
Con il successo della Lucrezia Borgia, ottenuto nonostante i contrasti avuti con il Romani e i capricci della protagonista, la Méric Lalande, il D. divenne il maggiore rappresentante del teatro d'opera in Italia, essendosi ormai Rossini definitivamente trasferito a Parigi, dove si stabilirà anche Bellini.
Concluso più che felicemente il 1833, il D. riprese a comporre con il consueto febbrile impegno e, nonostante le noie della censura, poté portare avanti numerosi progetti: nel 1834, durante il viaggio di ritorno verso Napoli, si fermò a Firenze per rappresentarvi la Rosmunda d'Inghilterra con Fanny Tacchinardi Persiani, la futura Lucia di Lammermoor, e G. Duprez. Tornato a Napoli per rappresentarvi la Maria Stuarda, andata in scena per motivi censori con il titolo di Buondelmonte e accolta con grande favore, il D. tornò poi a Milano per inaugurare la stagione scaligera con Gemma di Vergy. Frattanto il re di Napoli lo nominava maestro di contrappunto e composizione al Real Collegio di musica "col soldo di ducati 400 al mese" (Zavadini, p. 52). Nello stesso periodo Rossini lo invitava a scrivere un'opera per il Théâtre-Italien di Parigi, dove il D. giungeva in tempo per assistere al trionfo de IPuritani di Bellini: ancora una volta si riproponeva il duello tra i due compositori, ma il donizettiano Marin Faliero, su mediocre libretto di E. Bidera da Byron, andato in scena il 12 marzo 1835, non ebbe esito felice, nonostante l'eccezionale compagnia di canto formata da Giulia Grisi, il Rubini, il Tamburini e il celebre basso L. Lablache, la stessa che aveva portato al successo I puritani; anche in questa occasione il D. manifestò la sua ammirazione per l'opera del catanese, alla cui memoria dedicherà nel 1835 la Messa di Requiem. Il Marin Faliero fu poi riproposto a Londra dalla stessa compagnia di canto con buon successo nella stessa stagione e quindi a Firenze, ove ebbe un esito trionfale. A Parigi il D. aveva avuto la possibilità di stabilire rapporti di amicizia con personaggi che avranno poi un peso nella sua vita come Michele Accursi e Auguste de Coissy ed era rimasto particolarmente impressionato dal grand-opéra francese di cui aveva ammirato l'audace realismo e la grandiosità della messinscena.
Tornato a Napoli per riprendere l'attività nei teatri reali e nel collegio di musica, pensò subito ad una nuova opera per il S. Carlo; gli venne proposto come librettista Salvatore Cammarano con cui iniziò subito le trattative per il nuovo soggetto; tuttavia, il 25 maggio 1835 il libretto non era ancora stato scritto e al D. era noto solo il soggetto tratto da La sposa di Lammermoor di W. Scott. Il D. si adoperò perché il soggetto venisse approvato dalla commissione di censura: ottenuto il nulla osta, poté finalmente dedicarsi alla composizione di Lucia di Lammermoor, portata a termine in meno di quaranta giorni il 6 luglio 1835.
L'opera, cui più di ogni altra è legata la fama del D., poté andare in scena il 26 sett. 1835 nonostante difficoltà di ogni genere, compreso il rischio di un rinvio sine die per il minacciato fallimento della commissione reale. Accolta con esito trionfale, diverrà il prototipo stesso dell'opera italiana dell'Ottocento; in essa il D. portava alle estreme conseguenze il tragico dissidio amore-morte, creando un capolavoro in cui la tensione lirica assurge a simbolo stesso dell'idealizzazione della drammaturgia musicale romantica.
Pochi giorni prima dell'andata in scena della Lucia giungeva a Napoli la notizia della morte di Bellini per il quale, su invito dell'editore Ricordi, il D. componeva un Lamento per la morte di Bellini per canto e pianoforte dedicato a Maria Malibran; recatosi poi a Milano per mettere in scena la Maria Stuarda con la Malibran, lo raggiunse la notizia della morte del padre, seguita nel febbraio 1836 da quella della madre e subito dopo del secondo figlio avuto da Virginia. Le dolorose circostanze non lo distolsero tuttavia dai suoi impegni e dopo Milano si recò a Venezia per il Belisario, accolto favorevolmente alla Fenice. Ancora a Napoli nel 1836 allestì la farsa con recitativi Il Campanello, cui fece seguito la commedia Betly, in un atto, ambedue su libretto dello stesso D., in cui la felicità dell'invenzione si rivela eloquente testimonianza della freschezza della sua vena creativa. Sempre nella stessa stagione volle cimentarsi nel grand opéra e nacque così L'assedio di Calais, in cui ebbe quale collaboratore il Cammarano, che diverrà il suo librettista preferito.
L'opera, con cui sperava di poter conquistare Parigi, fu rappresentata con ottimo esito ma non uscì mai da Napoli pur essendo ricca di belle pagine e costituendo un progresso non insignificante nell'ambito dell'intera produzione donizettiana.
Compose per Venezia (teatro Apollo, 18 febbr. 1837) Pia de' Tolomei, ancora su libretto del Cammarano; tornò quindi a Napoli ove frattanto era scoppiata un'epidemia di colera e dove aveva lasciato la moglie Virginia in attesa del terzo figlio, che morì appena nato seguito dalla giovane moglie, appena ventottenne, morta il 30 luglio del 1837 per cause non chiarite.
Annientato da quest'ultima perdita che lo lasciava disperatamente solo, cadde in uno stato di totale prostrazione. Trovò conforto nel lavoro e, tra il 1837 e il '38, dimostrò come la sua vena non fosse esaurita componendo due opere: Roberto Devereux per il S. Carlo e Maria di Rudenz per la Fenice di Venezia, in cui rivelò peraltro di aver ampliato gli orizzonti della sua concezione drammatica.
Nel 1837 cercò invano di ottenere il posto di direttore del regio conservatorio di Napoli, ma gli venne preferito Saverio Mercadante, suddito borbonico.
A Venezia il D. aveva conosciuto il tenore Adolphe Nourrit, col quale stabilì una forte intesa artistica che si esplicherà nella collaborazione alla composizione del Poliuto, tratto dal Polyeucte di Corneille, di cui però la censura proibì la rappresentazione. Il D. decise quindi di abbandonare Napoli per Parigi con la speranza di potervi rappresentare la sua ultima opera. Nella capitale francese fu accolto dall'amico romano Michele Accursi, un esule mazziniano, in realtà spia papalina, che gli farà da segretario; qui il direttore dell'Opéra Charles Duponchel gli stipulò un contratto per due nuove opere. Preso alloggio a pochi passi dal Théâtre-Italien, al numero i di rue Grammont, entrò in contatto con i maggiori esponenti del mondo artistico francese e con E. Scribe, che gli fornirà il libretto francese del Poliuto, divenuto poi Les martyrs, e del Duca d'Alba. Messosi subito al lavoro, scrisse un quarto atto da aggiungere ai tre già scritti della versione italiana: contemporaneamente mise in scena al Théátre-Italien Roberto Devereux (dicembre 1838) e L'elisir d'amore (febbraio 1839), quindi Lucia nella versione francese di A. Royer e G. Vaez al. théâtre de la Renaissance, un teatro privato che agiva alla salle Ventadour; l'opera, in lingua originale, fu riproposta con enorme successo al Théâtre-Italien il 1º ott. 1840. Intanto l'estenuante rifacimento del Poliuto, prolungatosi per oltre un anno e mezzo, non gli impedì di attendere ad un nuovo lavoro, La fille du régiment, data all'Opéra-Comique nel 1840 e accolta con grande freddezza probabilmente per una bagarre organizzata da rivali francesi, avvalorata dalla critica ostile di Berlioz apparsa sul Journal des dèbats del 16 febbr. 1840, e dettata dall'eccessivo numero di opere donizettiane apparse contemporaneamente nei teatri francesi, circostanza che assumeva agli occhi dei suoi concorrenti l'aspetto d'una provocatoria forma di colonizzazione artistica; alle critiche il D. replicò su Le Moniteur universel il 18 febbr. 1840. Intanto il rifacimento de Les martyrs procedeva e finalmente il 10 aprile poté andare in scena con esito felice riportato dai giornali parigini e in particolare da Théophile Gautier, che ne apprezzò la strumentazione; sfavorevole come sempre Berlioz (Zavadini, 1948, p.84). L'opera, poi ripristinata con il titolo e nella versione originale, conobbe un successo duraturo nei teatri italiani dall'Ottocento sino ai nostri giorni.
Nell'autunno del 1840 lavorò all'Ange de Nisida, un'opera semiseria che non fu rappresentata per il fallimento del Théâtre de la Renaissance, ma la cui partitura, modificata e ampliata, fu utilizzata per La favorita, andata in scena all'Opéra il 2 dic. 1840 con Teresina Stolz nel ruolo di Leonora e G. Duprez in quello di Fernando. L'opera, nonostante l'accoglienza fredda della critica, ebbe un grande successo di pubblico. Contemporaneamente il D. lavorava al Duca d'Alba, un grand-opéra su libretto dello Scribe, più volte interrotto e rimasto incompiuto per dare la precedenza a lavori più urgenti; nel frattempo si preparava a tornare in Italia per rappresentare l'Adelia al teatro Apollo di Roma.
Ormai giunto al vertice della fama e raggiunta una invidiabile posizione economica, pensò di ritirarsi: si concesse soltanto una vacanza in Svizzera assai breve per le numerose richieste di lavoro, sebbene la salute cominciasse a mostrarsi malferma e allannanti emicranie denunciassero l'incombere del male che lo avrebbe tra breve aggredito; partì quindi per l'Italia e dopo essere passato a Bergamo fu a Milano per l'edizione italiana della Figliadel reggimento; proseguì poi per Roma, ove diede l'Adelia con esito mediocre, nonostante la presenza di Giuseppina Strepponi. Lasciata Roma per Civitavecchia, ove assistette ad una rappresentazione de L'esule di Roma, prosegui per Parigi richiamato da L. Pillet, direttore dell'Opéra, che, soddisfatto del successo de La favorita, gli chiese una nuova opera comica: sarà Rita, rappresentata postuma nel 1860. Aveva composto nel frattempo la cantata Ilgenio per il 78º anniversario del Mayr e accettò poi l'invito di B. Merelli di inaugurare la stagione della Scala; a Milano, dove si era stabilito in casa Appiani, compose la Maria Padilla, che andò in scena nel dicembre 1841, e attese poi ad una nuova partitura, Linda di Chamounix, destinata al teatro viennese di porta Carinzia (Kärntnerthortheater). Nello stesso periodo Gregorio XVI lo nominò cavaliere dell'Ordine di S. Silvestro e fu nuovamente a Milano in tempo per assistere al trìonfo del Nabucco verdiano; intanto Rossini l'aveva invitato a Bologna a dirigere il suo Stabat Mater, anche nella speranza di convincerlo ad accettare la direzione del liceo musicale e della cappella di S. Petronio: l'esecuzione ebbe luogo il 18 marzo 1842 e fu replicata nei due giorni successivi con enorme soddisfazione di Rossini, che cercò di facilitare il suo ingresso nel difficile ambiente musicale viennese. Giunto nella'capitale austriaca il 27 marzo, dìresse lo Stabat rossiniano nella cappella imperiale e compose a sua volta l'Ave Maria a cinque voci e archi dedicato all'imperatrice Maria Anna; il 19 maggio diresse con esito trionfale la Linda, interpreti Eugenia Tadolini e Marietta Brambilla. Il successo ottenuto presso il pubblico viennese gli valse la nomina a maestro di cappella e di camera e compositore di corte (carica che era stata già di Mozart) con uno stipendio di 12.000 lire austriache l'anno e molti mesi di congedo. L'incarico a corte gli fece rifiutare la nomina a direttore del liceo musicale di Bologna ma non gli impedì di affrontare un lungo e faticoso viaggio per rivedere l'Italia; benché la sua salute fosse sempre più precaria si recò dapprima a Milano, visitò quindi Bergamo e Napoli, impegnandosi a comporre la Caterina Cornaro per il S. Carlo. Proseguì poi per Parigi, ove gli venne conferita la nomina a socio corrispondente dell'Institut de France e riprese a lavorare con un ritmo vertìginoso, forse dettato - nella consapevolezza dei progressivo aggravarsi del suo stato di salute - dall'ansia di non poter portare a termine i lavori che aveva programmato: in un momento di particolare fervore creativo compose in brevissimo tempo gli ultimi capolavori. Dopo che il Don Pasquale, composto in dieci giorni, fu portato a trionfale successo dalla Grisi e da Tamburini, Labiache e Mario (G.B. De Candia) al Théâtre-Italien nel gennaio 1843, in soli otto giorni portò a termine la Maria di Rohan e, nonostante la salute declinasse sempre di più e fosse colpito spesso da forti emicranie e febbri violente, tornò a Vienna per assolvere gli impegni con la corte. Dopo aver fatto rappresentare al teatro di porta Carinzia la sua ultima opera e aver trovato il tempo di comporre molta musica religìosa per la cappella imperiale, tra cui un Miserere eseguito alla presenza della corte il 14 apr. 1843, fece ritorno a Parigi. Qui nel novembre mise in scena all'Opéra il DomSébastien de Portugal, un grand-opéra, con la Stolz e Duprez, che riscosse consensi di pubblico lasciando fredda la critica. Nel gennaio 1844 cadeva clamorosamente a Napoli la Caterina Cornaro che, modificata, sarà riproposta con successo a Parma nel 1845 mentre la versione tedesca del Dom Sébastien veniva allestita con esito trionfale a Vienna, dove il D. si era appositamente recato.
Nel luglio del 1845 giunse a Parigi in condizioni di salute assai precarie e il progressivo aggravarsi del suo stato indusse il nipote Andrea, figlio del fratello Giuseppe, a raggiungerlo a Parigi a dicembre, quando i medici convocati per un consulto dichiararono il D. incapace di intendere e di volere. Il 1º febbr. 1846 veniva ricoverato con l'inganno nell'ospedale psichiatrico di Ivry ove rimase internato per diciassette mesi, passando da uno stato di totale delirio a momentì di lucidità e di disperazione. L'intervento di amici e personalità pofitiche riuscirono a far annullare dal prefetto di polizia Gabriel Delessert l'assurdo decreto di segregazione, sicuramente sollecitato dal suo banchiere e amministratore A. de Coussy. Finalmente il D. poté essere trasferito in un appartamento in avenue Chateaubriand e m seguito, grazie all'intervento dell'ambasciata austriaca a Parigi, gli fu consentito di tornare a Bergamo, ove giunse il 7 ott. 1847, accolto nel palazzo della contessa Rosa Rota Basoni, che si prese amorevolmente cura di lui fino alla morte avvenuta l'8 apr. 1848. L'autopsia effettuata l'11 aprile confermò che la morte era stata causata da sifilide meningovascolare che aveva provocato profonde lesioni cerebrali (Ashbrook). Sepolto nel cimitero di Valtesse nella Bergamo bassa e tumulato nella cripta della famiglia Pezzoli, nel 1875 la salma del compositore fu esumata e i resti trasportati in S. Maria Maggiore e deposti nel monumento scolpito da Vincenzo Vela accanto a quello di Simone Mayr.
Le opere teatrali, oltre a quelle di cui già specificato, sono: Le nozze in villa, opera buffa in due atti (libretto di B. Merelli, Mantova, teatro Vecchio, carnevale 1820); Zoraide di Granata, opera seria in due atti (libr. di B. Merelli, Roma, teatro Argentina, 28 genn. 1822; poi con nuovo libretto di I. Ferretti da Gonzalve de Cordoue di J.-P. de Florian, ibid., 7 genn. 1824); Chiara e Serafina, o I pirati, opera semiseria in due atti (libr. di F. Romani, da La citerne di R. C. G. de Pixérécourt, Milano, teatro alla Scala, 26 ott. 1822); Alfredo il Grande, opera seria in due atti (libr. di L.A. Tottola, Napoli, teatro S. Carlo, 2 luglio 1823); Il fortunato inganno, opera buffa in due atti (libr. di L. A. Tottola, Napoli, teatro Nuovo, 3 sett. 1823); Alahor di Granata, opera seria in due atti (libr. di ignoto di cui si conoscono solo le iniziali M. A., Palermo, teatro Carolino, 7 genn. 1826); Elvida, opera seria in un atto (libr. di G. F. Schmidt, Napoli, S. Carlo, 6 luglio 1826); La bella prigioniera, farsa in un atto (incompiuta); Olivo e Pasquale, opera buffa in due atti (libr. di I. Ferretti da A. S. Sografi, Roma, teatro Valle, 7 genn. 1827); Otto mesi in due ore, ossia Gli esiliati in Siberia, opera romantica in tre parti (libr. di D. Gilardoni, da Pixérécourt, Napoli, teatro Nuovo, 13 maggio 1827; poi rimaneggiata con aggiunte di musica di altri autori e presentata con il titolo Elisabetta o La figlia del proscritto, libr. di De Leuven e Brunswick, Parigi, Théâtre Lyrique, 31 dic. 1853); Il borgomastro di Saardam, opera buffa in due atti (libr. di D. Gilardoni, da A. H-J. Mélesville, J. T. Merle e E. Cantiran de Boirie, Napoli, teatro Nuovo, 19 ag. 1827); Le convenienze ed inconvenienze teatrali, farsa in un atto (libr. del D. da A. S. Sografi, Napoli, teatro Nuovo, 21 nov. 1827), Alina, regina di Golconda o La regina di Golconda, opera semiseria in due atti (libr. di F. Romani, da M. J. Sedaine, Genova, teatro Carlo Felice, 12 maggio 1828); Gianni di Calais, opera semiseria in tre atti (libr. di D. Gilardoni, da L. Ch. Caigniez, Napoli, teatro del Fondo, 2 ag. 1828); Ilgiovedì grasso o Il nuovo Pourceaugnac, farsa in un atto (libr. di D. Gilardoni, da E. Scribe, Napoli, teatro del Fondo, autunno 1828); Ilparia, opera seria in tre atti (libr. di D. Gilardoni, da C. Delavigne, Napoli, teatro S Carlo, 12 genn. 1829); Elisabetta al castello di Kenilworth o Il castello di Kenilworth, opera seria in tre atti (libr. di L. A. Tottola, da W. Scott, Napoli, teatro S. Carlo, 6 luglio 1829); Ipazzi per progetto, farsa in un atto (libr. di D. Gilardoni, da G. C. Cosenza, Napoli, teatro del Fondo, 7 febbr. 1830); Ildiluvio universale, azione sacra (libr. di D. Gilardoni, da G. Byron e F. Ringhini, Napoli, teatro S. Carlo, 28 febbr. 1830); Imelda de' Lambertazzi, opera seria in due atti (libr. di L.A. Tottola, Napoli, teatro S. Carlo, 23 ag. 1830); Anna Bolena, opera seria in due atti (libr. di F. Romani, Milano, teatro Carcano, 26 dic. 1830); Gianni di Parigi, opera comica in due atti (libr. di F. Romani, da Saint-Just, Milano, teatro alla Scala, 10 sett. 1839, composta nel 1831); Francesca di Foix, opera semiseria in un atto (libr. di D. Gilardoni, da J. N. Bouilly e E. M. Dupaty, Napoli, teatro S. Carlo, 30 maggio 1831); Ugo conte di Parigi, opera seria in due atti (libr. di F. Romani, Milano, teatro alla Scala, 13 marzo 1832); L'elisir d'amore (libr. di F. Romani da Le phyltre di E. Scribe, Milano, teatro della Canobbiana, 12 maggio 1832); Sancia di Castiglia, opera seria in due atti (libr. di P. Salatino, Napoli, teatro S. Carlo, 2 nov. 1832), Il furioso all'isola di San Domingo, opera seria in tre atti (libr. di I. Ferretti, Roma, teatro Valle, 2 genn. 1833); Parisina o Parisina d'Este, opera seria in tre atti (libr. di F. Romani, da G. Byron, Firenze, teatro della Pergola, 17 marzo 1833); Torquato Tasso o Sordello, opera seria in tre atti (libr. di I. Ferretti, da G. Rosini, Roma, teatro Valle, 9 sett. 1833); Lucrezia Borgia, opera seria in un prologo e due atti (libr. di F. Romani, da V. Hugo, Milano, teatro alla Scala, 26 dic. 1833; presentata con modifiche nel testo con i titoli: Alfonso di Ferrara, Eustorgia da Romano, Giovanna IdiNapoli, La rinnegata, Elisa da Fosco, Nizza di Granata, Dalinda); Rosmunda d'Inghilterra, opera seria in due atti (libr. di F. Romani, Firenze, teatro della Pergola, 27 febbr. 1834; rappresentata con modifiche per Napoli con il titolo Eleonora di Gujenna); Adelaide, opera comica (incompiuta, 1834); Maria Stuarda, opera seria in tre atti (libr. di G. Bardari, da F. Schiller, Napoli, teatro S. Carlo, 18 ott. 1834, anche come Buondelmonte con modifiche di P. Salatino); Gemma di Vergy, opera seria in due atti (libr. di E. Bidera, da Charles VII di A. Dumas, Milano, teatro alla Scala, 26 dic. 1834); Belisario, opera seria in tre atti (libr. di S. Cammarano, da J. F. Marmontel, Venezia, teatro La Fenice, 4 febbr. 1836); Il campanello, farsa in un atto (libr. proprio da La sonnette de nuit di L. Lhérie, Napoli, teatro Nuovo, 6 giugno 1836); Betly, ossia La capanna svizzera, opera giocosa in un atto (libr. del D. da E. Scribe, Napoli, teatro Nuovo, 24 ag. 1836); L'assedio di Calais, opera seria in tre atti (libr. di S. Cammarano, da P.L. B. de Belloy, Napoli, teatro S. Carlo, 19 nov. 1836); Roberto Devereux, o Il conte di Essex, opera seria in tre atti (libr. di S. Canimarano, da Elisabeth d'Angleterre di J. Ancelot, Napoli, teatro S. Carlo, 29 ott. 1837); Maria di Rudenz, opera seria in tre atti (libr. di S. Cammarano, da La nonne sanglante di A. Anicet-Bourgeois, Venezia, teatro La Fenice, 30 genn. 1838); Poliuto, opera seria in tre atti (libr. di S. Cammarano, da P. Corneille, 1838, Napoli, teatro S. Carlo, 30 nov. 1848); Le due d'Albe, grand-opéra in cinque atti (1839, incompiuta, completata da M. Salvi: libr. di E. Scribe e Ch. Duveyrier, da Les vêpres siciliennes di C. Delavigne; versione italiana di A. Zanardini, Roma, teatro Apollo, 22 marzo 1882); La fille du règiment, opéra-comique in due atti (libr. di J.-H.-V. de Saint-Georges e J.-F.-A. Bayard, Parigi, Opéra-Comique, 11 febbr. 1840); Les martyrs, opera seria in cinque atti, versione francese del Poliuto (libr. di E. Scribe, da Polyeucte martyr di P. Corneille, Parigi, Opéra, 10 apr. 1840), La favorite, grand-opéra in quattro atti (libr. di A. Royer e G. Vaëz, da Les amours malheureux di Th. M. Baculard d'Arnaud, ibid., 2 dic. 1840; La favorita e anche Leonara di Gusman, Daila, Elda, traduzione italiana di C. Bassi); Adelia o La figlia dell'arciere, opera seria in tre atti (libr. di F. Romani e G. Marini, Roma, teatro Apollo, 11 febbr. 1841); Rita ou Le mari battu, opéra-comique in un atto (libr. di G. Vaëz, 1841, Parigi, Opéra-Comique, 2 maggio 1860); Maria Padilla, opera seria in tre atti (libr. di G. Rossi, Milano, teatro alla Scala, 26 dic. 1841); Ne m'oubliez pas, opéra-comique in tre atti (libr. di Saint-Georges, incompiuta, 1842); Linda di Chamounix, opera semiseria in tre atti (libr. di G. Rossi, da La gräce de Diew di A. F. D'Ennery e Lemoine, Vienna, teatro di porta Carinzia, 19 maggio 1842); Caterina Cornaro, opera seria in un prologo e due atti (libr. di G. Saccheri, da La reine de Chypre di Saint-Georges, Napoli, teatro S. Carlo, 12 gen. 1844); Don Pasquale, opera buffa in tre atti (libr. del D. e di G. Ruffini, da Ilvecchio Marcantonio di A. Anelli, Parigi, Théâtre-Italien, 3 genn. 1843); Maria di Rohan o Il conte di Chalais, opera seria in tre atti (libr. di S. Cammarano, da Un duel sous le cardinal Richelieu di Lockroy e Badon, Vienna, teatro di porta Carinzia, 5 giugno 1843); Dom Sébastien de Portugal, grand-opéra in cinque atti (libr. di E. Scribe, Parigi, Opéra, 13 nov. 1843).
La produzione sacra del D. è vastissima e per il catalogo completo si rimanda alla voce in Diz. della musica e dei musicisti, II, Le biografie, pp. 529 s.; si ricordano in particolare: Messa a tre voci a cappella (1º maggio 1819); Messa di requiem in re minore per soli, coro e orchestra per i funerali di V. Bellini (1835), Milano, Ricordi, 1870 (spartito) e 1976 (partitura, a cura di V. Lesko); Messa di requiem per voci e orch., per i funerali di N. Zingarelli (maggio 1837); Messa di requiem per voci e orchestra, per le esequie dell'abate Fazzini (7 nov. 1837); Messa di Gloria e Credo in do minore per soli, coro e orchestra (prima esec., 28 nov. 1837). Cantate sacre e oratori: L'assunzione di Maria Vergine, ossia Gli apostoli al sepolcro della Medesima, cantata per soli, coro e orchestra (testo di G. B. Busi, 1822); Ildiluvio universale, azione tragico-sacra in tre atti (testo di D. Gilardoni, Napoli, teatro S. Carlo, 1830); Oratorio sacro (Acireale, luglio 1841), Le sette chiese, azione sacra (libr. di C. Sernicoli, Roma, oratorio di S. Filippo Neri, 1842); Gloria al Dio de' nostri padri, cantata religiosa per basso solo, coro e orchestra; inoltre: Ave Maria, offertorio in fa maggiore per soprano, coro e orchestra d'archi "fatto per la Cappella I. R. dedicata a S. M. Ferdinando I imperatore d'Austria" (maggio 1842); Miserere in re minore per soli, coro, archi e organo, 1843 (Milano, Ricordi, 1844, spartito; Budapest, Editio Musica, 1974, partitura a cura di G. Darvas).
Musica vocale profana: Il ritorno di primavera, cantata a tre voci e orchestra (testo di G. Morando, aprile 1818). Teresa e Gianfaldoni cantata a due voci, dedicata a Maria Luisa infanta di Spagna e duchessa di Lucca, 1821 (Roma 1821); Questo è il suolo, l'aura è questa, cantata per due soprani e pianoforte, per la nascita di Maria Carolina Augusta, figlia di Leopoldo principe di Salerno (aprile 1822), La fuga di Tisbe, cantata per soprano e pianoforte, dedicata alla marchesa Sofia de' Medici di Marignano (15 ott. 1824); Saffo, cantata per voce, coro e orchestra, dedicata a Virginia Vasselli (1828 circa); Inno reale per voce e orchestra, composto per l'inaugurazione del teatro Carlo Felice di Genova (testo di F. Romani, 7 apr. 1828, perduto); Dalla Francia un saluto t'invia, cantata per soli, coro maschile e orchestra in onore del maestro G. S. Mayr in occasione del suo 780 compleanno (maggio 1841; ediz. Londra 1975, a cura di J. S. Allitt e U. Schaffer) e numerosissime altre composizioni vocali con orchestra (per il catalogo completo cfr. Diz. della musica e dei musicisti, II, Le biografie, p. 531).
Copiosissima è la produzione vocale da camera, comprendente oltre 270 brani tra arie, ariette, melodie, romanze, canzoni, canzonette in lingua e dialetto napoletano, mélodies in lingua francese, duetti, terzetti, barcarole con accompagnamento di pianoforte (per il catalogo pressoché completo cfr. ibid., pp. 531-535). Si ricordano in particolare le raccolte: Tre canzonette per soprano (Roma 1823 o 1824); Collezione di canzonette, 9 brani (Napoli s.a.); Donizetti per camera. Raccolta di ariette e duettini, 12 brani (Napoli s.a.); Nuits d'été à Pausillipe. Six ariettes et six nocturnes (Napoli s.a. e Parigi s.a., ma 1836); Soirées d'automne à l'Infrascata. Album lyrique mis en musique pour faire suite aux Nuits d'été à Pausillipe, 6 brani (Napoli s.a., ma 1837); Un hiver à Paris, ou Réveries napolitaines. Nouvel album lyrique.., 7 brani (Napoli s.a. e Parigi s.a., ma 1839); Matinée musicale, dédiée à S. M. la reine Victoire d'Angleterre, 10 brani (Napoli s.a. e Milano s.a., ma 1841 o 1842); Inspirations viennoises. Nouvel album..., 7 brani su testi di C. Guatta (Napoli s.a. e Vienna s.a.); Dernières glânes musicales, 10 brani (Napoli s.a.); Raccolta di canzonette e duettini, 8brani (Milano s.a.); Fiori di sepolcro. Melodie postume, 9 brani (Napoli s.a.).
Non meno copiosa la produzione strumentale del D. comprendente composizioni per orchestra, tra cui sinfonie, marce, concerti per strumento solista; si ricordano in particolare: Sinfonia concertata in re maggiore (17 sett. 1816; ediz. moderna a cura di G. Piccioli, Milano 1937), Concerto in sol maggiore per corno inglese, dedicato a G. Catolfi (1816; ediz. moderna a cura di E. Leloir, Parigi 1876); sinfonia per la cantata In morte di Maria F. Malibran (1837); Concerto con tema variato in mi bem. maggiore per clarinetto (ediz. moderna a cura di B. Päuler, Zurigo 1972); Concerto per violino e violoncello (ediz. moderna a cura di A. Pocaterra, Padova 1974), inoltre, pubblicati a cura dell'Istituto italiano per la storia della musica, Diciotto quartetti (Roma e Buenos Aires 1948) e numerose composizioni da camera in gran parte inedite nonché musica per pianoforte a due e quattro mani (cfr. catalogo in Diz. cit., II, Le biografie, pp. 535 s.). Infine opere didattiche, tra cui: Sessantadue studi di contrappunto e fuga (1815-16); Cinque fughe a 4 voci; Solfeggi per mezzosoprano e pianoforte. Edizioni: la Donizetti Society di Londra, che ha intrapreso l'edizione delle opere complete, ha pubblicato nei Collected Works, s. I, Operas: Maria Stuarda (1973), Caterina Cornaro (1974), Lucrezia Borgia (1974), Les martyrs (1975), Roberto Devereux (1975) e s. II, Sacred Works: Messa di requiem, 1835 (1974). Dal 1981 sono in corso di pubblicazione a Roma in due serie di venti fascicoli ciascuna Tutte le opere per pianoforte e Opere complete per pianoforte a quattro mani, a cura di P. Spada.
Artista dotato d'una capacità creativa e di una versatilità portentose, il D. emerge nel panorama musicale italiano dell'Ottocento per una produzione smisurata con cui, pur attraverso l'alternarsi di capolavori accanto a cadute qualitative, contribuì a definire i caratteri del teatro romantico italiano. Tuttavia, considerazioni generiche e condizionate da una critica frettolosa che lo tacciò di faciloneria e superficialità limitarono a lungo la comprensione della sua opera e ostacolarono la piena valutazione della sua poetica; gli studi più recenti, con il nascere della "Donizetti Renaissance" sorta intorno agli anni Sessanta, hanno riproposto la sua produzione all'attenzione della critica. Fin da Zoraide di Granata si intuiscono chiaramente i segni d'un orientamento drammatico che culminerà poi in Anna Bolena, oggi considerata non più l'inizio d'una nuova dimensione drammatica bensì la conclusione d'un processo creativo già iniziato. La critica donizettiana, per lungo tempo condizionata da riserve provenienti soprattutto da critici tedeschi che ostacolarono la diffusione di lavori soltanto da alcuni decenni riportati alla luce, si è riproposta una più serena rivalutazione storica; è stato così possibile avere una più ampia visione del fenomeno creativo del D., la cui fortuna per troppo tempo era affidata a una sola opera seria, Lucia di Lammermoor, e a due opere comiche, Elisir d'amore e Don Pasquale, con sporadiche apparizioni di Lucrezia Borgia e Favorita. Allo stesso modo la negazione di buona parte della prima produzione del D., erroneamente considerata quale propaggine del linguaggio rossiniano, viene ad essere ridimensionata da una più consapevole e coerente conoscenza dell'opera complessiva. La negazione d'una vera evoluzione creativa dovuta agli alterni esiti della sua produzione teatrale è stata oggi completamente superata da una più approfondita conoscenza dell'opera del D., grazie alla generale riscoperta del melodramma preverdiano. Di pari passo con la riproposta di opere dimenticate è stato aperto un dibattito critico su tutta la parabola creativa del D. e sul suo eclettismo, sollecitata da un fervore creativo instancabile che lo spingeva ad operare con un ritmo lavorativo pari se non superiore a quello di musicisti della generazione a lui precedente. L'esuberanza creativa e la rapidità d'esecuzione non escludono un accurato lavoro di lima effettuato talora su opere già rappresentate e sottoposte a modifiche che comunque non alteravano la fisionomia primitiva, è peraltro dimostrato come spesso i ripensamenti meditativi si risolvessero per il D. in peggioramenti sul piano creativo. Nei suoi lavori sarebbe vano cercare atteggiamenti rivoluzionari o innovativi sul piano formale: il naturale istinto teatrale lo indirizzò verso tutte le forme trasmesse dalla tradizione che furono rivissute in una dimensione non cristallizzata in formule di maniera; e se aver accolto l'aria e il recitativo in tutte le accezioni dell'epoca non gli impedì di differenziarsi da Rossini e da Bellini e gli consentì di assumere quei caratteri di composta ed equilibrata fluidità in cui si manifestarono le sfumature più intime e raccolte del sentimento, allo stesso modo la maestria raggiunta nella scrittura a più parti gli permise di ottenere effetti in cui si rivelò l'artista di genio; è infatti nei maestosi concertati che il D. manifesta i doni d'una intuizione pienamente consapevole sia del suo messaggio poetico sia della padronanza del suo linguaggio espressivo. La stessa tematica amorosa delineata con accenti originali che si risolvono nella capacità di individuare la psicologia dei personaggi - che si traduce a sua volta in un procedimento musicale e scenico perfettamento adeguato al variare delle situazioni e degli stati d'animo - trova la sua compiuta realizzazione nel fluido scorrere delle melodie, qua e là interrotte dall'improvviso trapasso ad episodi di pura declamazione che acquista una connotazione drammatica di rara efficacia; cosi il tema dell'amore e della morte quanto quello dell'intreccio sentimentale ove la sensibilità dell'artista si apre in un clima psicologico di totale partecipazione, si realizzano in un procedimento libero e vario, pur nell'adozione delle forme chiuse, che si piega docilmente alla mutevole psicologia dei personaggi.
Anche nell'opera comica la sensibilità del D., aperta verso una dimensione rasserenata, fa si che i caratteri farseschi e l'intreccio comico si rivestano d'una patina di pacato e misurato sentimento elegiaco. Lo stesso impianto dei drammi seri a partire da Anna Bolena viene delineato in chiave tipicamente romantica attraverso l'approfondimento psicologico dei personaggi che vivono la loro vicenda d'amore e di morte fino al sacrificio supremo che diventa rinunzia e purificazione. A questi risultati il D. giunge utilizzando le forme tradizionali che appaiono tuttavia rinnovate non soltanto grazie alle intuizioni improvvise che si manifestano nella scrittura armonica ma nel consapevole rinnovamento che si determina nella orchestrazione ben allineata in rapporto alle contemporanee esperienze europee. Non diversamente viene ad essere rinnovato l'uso della voce che è utilizzata in tutte le sfumature espressive, passando dall'intonazione elegiaca a virtuosismi arditi che, mediante un uso rinnovato del recitativo e del declamato, sfocia in un canto spianato attorno al quale si dispongono in perfetta sintesi drammatica. Così la passione amorosa delle sue eroine, da Fausta, a Lucrezia Borgia, a Maria Stuarda, a Gemma di Vergy fino a Lucia, sirealizza in perfetto equilibrio tra effusione lirica e tensione drammatica e diviene simbolo stesso di una poetica intesa quale missione catartica raggiunta in un clima di castità purificatrice.
Musicista non ancora esaurientemente studiato e non sufficientemente valutato nella sua posizione tra Rossini e Verdi, la figura del D. si pone paradigmaticamente quale protagonista di una fioritura teatrale ove serio e comico furono ugualmente rappresentati. Il D. può essere oggi considerato, accanto a Bellini, il primo interprete dell'estetica romantica in Italia, in quanto egli perviene ad una sintesi tra passato, rappresentato da una vocalità tipicamente italiana, e presente, realizzato attraverso l'interiorizzazione degli elementi drammatici, stile che già con Rossini si era definito nell'ambito della tradizione.
In tale prospettiva l'approfondimento psicologico dei personaggi viene affidato non soltanto alla voce ma anche all'orchestra, mediante una scrittura talora cameristica che, dialogando con il canto, ne diviene sostegno e arricchimento drammatico. Allo stesso modo il rapporto parola-musica diviene più stretto, come dimostra il particolare uso del recitativo che nella sua varietà formale acquista una nuova dimensione drammatica. A tale riguardo il D. maturò una sua precisa teoria che lo portò a sottolineare sempre il valore dell'espressione verbale come indissolubile passaggio all'intonazione musicale. Scriverà infatti a Marcello Pepe: "La musica non è che una declamazione accentata da suoni, e perciò ogni compositore deve intuire e far sorgere un canto dall'accento della declamazione delle parole. Chiunque in questo non riesca o non sia felice, non comporrà che musica muta di sentimento" (cfr. Enc. dello spett.).
La consapevolezza di non poter prescindere nello svolgimento del discorso musicale dal rapporto tra musica e parola si manifesterà anche nella produzione francese, che lo metterà di fronte a problemi che investivano non soltanto modifiche esteriori ma l'intera struttura dell'opera. A questo proposito scriverà al Mayr in una lettera da Parigi dell'8 apr. 1839: "La musica e la poesia teatrale francese hanno un cachet tutto proprio al quale ogni compositore deve uniformarsi; sia nei recitativi sia nei pezzi di canto; per esempio, bando ai crescendi etc. etc., bando alle solite cadenze felicità, felicità; poi in tra l'una e l'altra cabaletta avvi sempre una poesia che innalza l'azione senza la solita ripetizione de' versi di cui i nostri poeti fanno uso..." (F. Alborghetti-M. Galli, G. D. e G. S. Mayr. Notizie e documenti, Bergamo 1875, p. 52). Non diversamente la struttura dell'aria, o per meglio dire il passaggio dal recitativo all'aria, alla cavatina, alla cabaletta in cui si riassumono gli elementi costitutivi della vocalità donizettiana acquista una dimensione estremamente varia e mossa, e il canto legato, prerogativa della vocalità del D., viene ad essere qua e là interrotto dalla declamazione secondo un procedimento che ha la sua logica giustificazione in sede drammatica; tale infatti si manifesta in Anna Bolena, nel Roberto Devereux, attraverso Lucrezia Borgia, Maria Stuarda, fino a Lucia di Lammermoor, ove l'uso del recitativo parlato assume un ruolo determinante ai fini espressivi quanto la vocalità che, da stile declamatorio mutuato da Gluck, si fa sempre più fluida e variegata per espandersi in un tessuto ricco di coloriture che, nella scena della pazzia, serve ad esprimere l'atmosfera delirante dell'eroina destinata a morire per amore.
Non diversamente nel teatro comico, assunto in una dimensione apparentemente tradizionale, il recupero della satira di costume si riveste di elementi patetici e sentimentali che troveranno la loro realizzazione suprema in Elisir d'amore e in Don Pasquale ma che già avevano offerto un eloquente messaggio ne L'aio nell'imbarazzo, ulteriormente sottolineato poi nella sottile vena satirica delle Convenienze e inconvenienze teatrali. Tutta l'opera del D. appare sollecitata da stimoli che passano attraverso le ragioni espressive dettate dalla sensibilità dell'artista, che non esiterà ad accogliere gli influssi dell'opéra-comique cosi come aveva accolto il grand-opéra quando aveva ritenuto servirsene per le sue esigenze drammatiche; c'è nel D. una costante apertura a utilizzare al meglio tutte quelle forme che in qualche modo potessero servire all'economia dell'intreccio drammatico.
Apprezzato come insegnante, nonché concertatore e direttore d'orchestra, il D. legò il suo nome anche ad una cospicua produzione strumentale lasciando soprattutto nei diciotto quartetti per archi l'impronta della sua cultura e della sua vena originale. In questa sua adesione al repertorio strumentale il D. rivelò di sapersi allineare con il gusto corrente europeo e di aver intuito la necessità di sprovincializzare la cultura italiana ancora legata ad una tradizione operistica tardosettecentesca. Va peraltro ricordato come il D., dopo Rossini, fu il primo dei nostri compositori ottocenteschi a dedicarsi alla musica strumentale con vero interesse e assiduo impegno, come del resto è dimostrato dalla vastità della sua produzione; in essa, oltre alla sicurezza di mestiere e agli inevitabili influssi dei classici viennesi mutuati dal Mayr che si riscontrano soprattutto nelle sinfonie, emerge una scrittura melodica sempre ben definita che costituisce l'elemento preponderante rispetto a quello sonatistico meno sviluppato e al quale viene preferita una scrittura basata sulle sfumature chiaroscurali. Ugualmente nei concerti per strumento solista e orchestra, pur influenzati da Rossini, si individua quale tratto originale una tendenza cantabile che si arricchisce di virtuosismi brillanti e arditi ove si distinguono caratteri di originale e personalissima concezione espressiva che, allontanandosi spesso dallo stile vocale, si accostano a quello del virtuosismo strumentale mutuato da Mercadante, Rolla e dagli esponenti del più recente strumentalismo italiano.
Modesta è la produzione pianistica a due e a quattro mani che non si discosta dai moduli correnti del genere cameristico occasionale e salottiero, ben lontano dallo stile più profondo e ispirato dei bellissimi quartetti ove, pur nell'inevitabile riecheggiamento di spunti beethoveniani, si ammira la particolare scrittura polifonica non accademica e il tentativo di esaltare le risorse timbriche degli strumenti in un discorso in cui prevalgono gli accenti chiaroscurali disposti secondo un criterio stilistico misurato, senza concessione alcuna alle inflessioni del gusto galante o salottiero. In essi domina piuttosto un sentimento drammatico, lontano dallo stile operistico, di cui l'ampio respiro melodico, la leggerezza della scrittura a più parti e la ricchezza espressiva costituiscono gli elementi più appariscenti ove l'adesione ai modelli classici appare già chiaramente inserita in una consapevole dimensione romantica.
L'eclettismo del D. si manifestò anche nella copiosa produzione sacra ove le reminiscenze del genere, sia settecentesche (Mozart e Haydn in particolare) sia contemporanee (Rossini e Cherubini), non potevano non essere accolte in una produzione che si manifestò come esperienza necessaria; grazie all'esperienza maturata nella cantoria della cappella di S. Maria Maggiore di Bergamo il D. ebbe sempre chiari i limiti cui doveva soggiacere il genere sacro e, pur se il suo linguaggio non poteva prescindere da certi influssi melodici di matrice teatrale, ben si armonizzava con il serio rigore espressivo della composizione di carattere sacro.
Trascurando le composizioni occasionali ove la disorganicità stilistica rivela la mancanza d'una vera ispirazione e non potendo formulare un giudizio sulle centinaia di composizioni inedite che sono tuttora in attesa di un'approfondita indagine, l'interesse degli studiosi si è finora soffermato sulle opere di maggiore respiro: emerge in particolare la Messa da requiem scritta in memoria di Bellini nel 1835 che, pur nella sua particolare redazione - mancano infatti il Sanctus, il Benedictus e l'Agnus Dei -, si distingue per la ricchezza degli episodi solistici e corali di grande suggestione lirica. La tensione drammatica crea un tono unitario e ispirato aderendo ad un sincero impulso sentimentale vissuto in chiave tipicamente romantica e inteso quale espressione istintiva d'una religiosità sincera e spontanea. Religiosità che si ritrova anche nelle varie versioni del Miserere, in particolare quello scritto per papa Gregorio XVI, destinato dapprima alla cappella Sistina e poi riveduto per quella di Vienna in cui l'originaria versione senza violini e quasi cameristica, secondo l'uso della scuola napoletana, venne modificata con un organico più imponente in ossequio alla consuetudine liturgica della corte austriaca. Tensione lirica e partecipazione commossa si ritrovano anche nella Messa di Gloria, opera riscoperta recentemente negli archivi napoletani, frutto di una esperienza giovanile poi rielaborata e rivissuta in una prospettiva in cui si rispecchiano le esperienze più varie assunte in una dimensione in cui la profondità dell'ispirazione riscatta l'eterogeneità delle parti concepite come una summa delle possibilità formali ed espressive del Donizetti.
Un capitolo a parte merita la produzione vocale a una e più voci e pianoforte: produzione multiforme e vastissima, circa trecento composizioni, alla quale il D., pur nella discontinuità del livello qualitativo, si abbandonò in piena libertà contribuendo alla rinascita di un genere che avrebbe potuto contrastare l'incontestabile supremazia del Lied tedesco. Tuttavia un tale patrimonio, peraltro ancora in parte inesplorato, non fu esente da severe riserve da certa parte della critica che stigmatizzò soprattutto le scelte poetiche del D. il quale, utilizzando testi di Tasso, Metastasio, Romani, Schiller, Hugo, Byron accanto ad altri di poeti minori, avrebbe dato una ulteriore dimostrazione di facilità di scrittura e di scarso impegno, mos'so da interessi di natura più economica che artistica, come sarebbe dimostrato da una lettera del settembre 1837 inviata al cognato Toto cui scriveva: "Dovrei fare dodici canzonette, al solito, per pigliarmi venti ducati l'una, che in altri tempi le facevo mentre il riso cuoceva ..." (cit. in Barblan, L'opera di Donizetti, p. 232).
In realtà va riconosciuto al D. il merito di essersi avvicinato alla tradizione popolare, fino ad allora quasi del tutto ignorata dalla cultura italiana, cosi come la mancata adesione ai testi dei nostri poeti maggiori fu motivata dalla difficoltà di poter disporre di una tradizione lè'tteraria adatta all'intonazione musicale, come invece accadeva nei paesi d'Oltralpe. Peraltro la cultura italiana del tempo non favoriva né incoraggiava un genere cameristico destinato. per lo più ad una cerchia ristretta di amatori. Comunque la varietà stilistica offerta dal D. in una produzione che per vastità non conobbe rivali in tutto l'Ottocento consente di formulare un giudizio globale sereno ed esauriente nei confronti di un genere che dall'aria al notturno, alla canzone, alla mélodie si estenderà sino alla romanza che con il D. conobbe la sua stagione più fortunata, iniziando un cammino che sarà percorso dai maggiori compositori del genere sino a F. P. Tosti e oltre. Cosi, accanto alla scena d'opera scandita in sezioni che dal recitativo confluiscono nella cavatina e nella cabaletta (Ne ornerà la bruna chioma) si ritrovano le varie forme della romanza da salotto in cui gli ingredienti tipici del genere vengono presentati in tutte le possibili sfumature espressive, non escluse quelle di natura esotica, e si colorano di raffinate inflessioni ispirate alla romance francese (La corrispondenza amorosa, Le crépuscule).
A questi caratteri per cui il D. sembra allinearsi agli stilemi della tradizione cameristica europea si contrappone il filone della canzone popolaresca, napoletana in particolare, in cui non solo recuperando un patrimonio, ma reinventando una tradizione che si era andata perdendo nei meandri d'una pseudocultura d'occasione, il D. restituì al genere il suo sapore di schietta ed esuberante vena mediterranea che espresse con vivace intuizione ad esempio ne La conocchia e nelle più famose Me voglio fa 'na casa e Amezzanotte per poi ricostruire lo spento filone della canzone napoletana con Te voglio bene assaie (al D. attribuita da G. Donati Petteni) che, scritta nel 1835 su versi di Raffaele Sacco, fece affermare a G. Verdi come il bergamasco D. potesse giustamente definirsi il reinventore della canzone dialettale partenopea: "Prendiamo l'ultimo vostro rappresentante, Mercadante, e mettiamogli in faccia un lombardo: Donizetti ... chi di questi due è in musica il più napoletano? "Donizetti" (lettera del 15 luglio 1871; cfr. Barblan, p. 236). Anche con questo particolare aspetto della sua creatività viene a ricostituirsi la figura del D., la cui opera appare, grazie soprattutto ai contributi critici di questi ultimi anni, come espressione d'un artista che contribuì attivamente e consapevolmente all'affermazione in Italia del romanticismo musicale.
Musicista dotato fu anche il fratello Giuseppe, nato a Bergamo il 6 nov. 1788, il quale rivelò precocemente ottime attitudini musicali. Fu allievo dello zio paterno Giacomo Corini e successivamente di Simone Mayr che, ben impressionato dalle sue doti musicali, lo fece entrare nel coro della chiesa di S. Maria Maggiore e apparire in spettacoli musicali nei teatri di Bergamo.
Nel 1808 si arruolò nell'esercito napoleonico e partecipò alla campagna contro l'Austria; nel 1809 si trasferì con il suo reggimento in Spagna, dove fu all'assedio di Saragozza. Seguì Napoleone nell'isola d'Elba e poi fu nel suo esercito durante i Cento giorni prendendo parte, forse, alla battaglia di Waterloo.
Tornato in Italia si arruolò nell'esercito piemontese, diventando direttore della banda musicale del reggimento di Casale.
Nel 1825 si trasferì a Genova con la famiglia e attese all'attività direttoriale sino al 1827, allorché fu nominato, il 7 novembre, "Istruttore e generale delle musiche imperiali ottomane" su richiesta del sultano turco Mahmud II. Partito per Istambul, vi giunse il 17 nov. 1828 e nello stesso giorno assunse la direzione della Mizikay-i Hümayun, la banda imperiale, e da allora iniziò anche una intensa attività compositiva scrivendo numerosi pezzi per banda.
Dopo aver concluso la sua attività direttoriale, si stabilì a Pera, ove diede vita ad una serie di stagioni d'opera italiana, facendo rappresentare anche numerose opere del fratello.
Morì a Istambul il 12 febbr. 1856.
Primo direttore occidentale dell'Impero ottomano, fu un buon compositore e seppe conciliare le esigenze della tradizione turca con gli apporti del linguaggio musicale europeo, operando un radicale cambiamento nella millenaria esperienza culturale ottomana che adottò la notazione occidentale e i ritmi appartenenti ad una diversa tradizione musicale.
Autore di marce, inni, contraddanze per piccola orchestra, melodie per voce e pianoforte pubblicate a Milano dall'editore Ricordi, scrisse anche composizioni da camera e pezzi d'occasione. Pubblicò Ricordi di G. D. (Bergamo 1897), che contiene in appendice una sua autobiografia.
Fonti e Bibl.: Un contributo particolarmente significativo per la conoscenza della vita e dell'opera del D. è fornito dalle numerose lettere (circa ottocento) pubblicate da G. Zavadini, in G. D.: vita, musiche, epistolario, Bergamo 1948, che vanno ad aggiungersi ad altri epistolari pubblicati a partire dal 1892, tra cui si ricordano in particolare: G. Donizetti: lettere inedite, a cura di F. Marchetti-A. Parisotti, Roma 1892; G. Donizetti: lettere inedite, a cura di A. de Eisner Eisenhof, Roma 1897; G. Morazzoni, Lettere inedite di G. D., seguite da un saggio di iconografia donizettiana, Milano 1930; F. Schlitzer, Curiosità epistolari inedite nella vita teatrale di G. D., in Riv. music. ital., L (1948), pp. 273-283; G. Barblan-F. Walker, Contributo all'epistolario di G. D., in Studi donizettiani, Bergamo 1962, pp. 3-142; F. Lippmann, Autographe Briefe Rossinis und D.s in der Biblioteca Massimo, in Analecta musicologica, XIX (1979), che si aggiungono alle notizie fornite anche dai cataloghi delle opere, tra cui: G. Albinati, Prospetto cronologico delle opere donizettiane, in Riv. musie. ital., IV (1897), pp. 730-743; inoltre in Atti del I Convegno internazionale di studi donizettiani, cit., si veda in particolare P. Cattaneo, Catalogo tematico delle composizioni sacre e religiose di G. D.; B. Cagli, La musica vocale da camera; F. Cella, Il donizettismo nei libretti donizettiani (con il catalogo delle opere teatrali). Vedi anche: L. Stierlin, Biographie von G. D., Zürich 1852; F. Cicconetti, Vita di G. D., Roma 1864; F. Alborghetti-M . Galli, G. D. e S. Mayr, Bergamo 1875; E. Verzino, Contributo a una biografia di G. D., Bergamo 1896; G. D.: numero unico nel primo centenario della sua nascita, a cura di E. Bettoli, Bergamo 1897; A. Calzado, D. e l'opera italiana in Spagna, Parigi 1897; G. Donizetti, Ricordi di G. D., Bergamo 1897; E. Verzino, Le opere di G. D.: contributo alla loro storia, Bergamo 1897; G. Kleefeld, "Don Pasquale" von G. D., Leipzig 1901; A. Gabrielli, G. D., Torino 1904; A. Cametti, D. a Roma, Torino 1907; C. Caversazzi, G. D.: la casa dove nacque, la famiglia, l'inizio della malattia, Bergamo 1924; G. Bonetti, G. D., Napoli 1926; G. Donati Petteni, Studi e documenti donizettiani, Bergamo 1929; Id., D., Milano 1930; G. Zavadini, Museo donizettiano di Bergamo: catalogo generale, Bergamo 1936; G. Gavazzeni, G. D.: vita e opere, Milano 1937; G. Monaldi, G. D., Torino 1938; G. Zavadini, G. D., vicende della sua vita artistica e catalogo delle sue musiche su documenti inediti, Bergamo 1941; G. B. Pinetti, Le opere di D. nei teatri di Bergamo, Bergamo 1942; G. Mazzini, Filosofia della musica, Milano 1943, pp. 168-181; A. Fraccaroli, D., Milano 1944; S. Di Giacomo, Te voglio bene assaie!, in Il teatro e le cronache, a cura di F. Flora-M. 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Gossett, "Anna Bolena" and the artistic maturity ofG. D., Oxford 1984; inoltre saggi e contributi in Atti del I Convegno internazionale di studi donizettiani, Bergamo, 22-28 sett. 1975, Bergamo 1983; Studi donizettiani, 1962, 1972, 1978; Donizetti Society Journal, I (1974), II (1975), III (1977), IV (1980), V (1984); G. Barblan, G. D., in Diz. encicl. univ. della musica e dei musicisti, II, Le biografie, pp. 522-537; Enc. d. spett., IV, ad vocem. Su Giuseppe si vedano: F. Alborghetti-M. Galli, Dinizetti-Moyr. Notizie e documenti, Bergamo 1875, pp. 16 s.; A. Fraccaroli, Donizetti, Milano 1945, pp. 305 s.; H. Weinstock, Donizetti and theworld of opera in Italy, Paris and Vienna, London 1964, ad Indicem; A. Masala, La banda militare ottomana (Mether), Roma 1978, pp. 12, 23; E. Saracino, Invito all'ascolto di Donizetti, Milano 1984, pp. 28 s., 37, 66, 101; W. Ashbrook, Donizetti. La vita, Torino 1986, pp. 2, 8, 17, 38, 44, 47, 98, 176, 178, 181-184, 188; F.-J. 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