Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gaetano Donizetti è, assieme a Bellini, protagonista della grande stagione dell’opera romantica italiana. Per lungo tempo l’abbondanza della sua produzione – 69 opere, oltre a musica da camera, sinfonica e sacra – ha impedito una conoscenza approfondita della sua opera, e su di lui sono stati espressi giudizi negativi, condensati nell’epiteto “Dozzinetti”. Donizetti si dimostra comunque erede della tradizione settecentesca, che concepisce il comporre come alto artigianato, ma non si limita ad applicare delle formule: le sue opere migliori recano il segno di una personalissima concezione drammatica.
L’originalità di Gaetano Donizetti tra gli operisti dell’Ottocento è stata messa in dubbio per lungo tempo. Oscurata in primo luogo dall’enorme numero delle sue opere, la personalità di Donizetti ha sofferto anche del confronto con due grandi compositori, quali Vincenzo Bellini e, in seguito, Giuseppe Verdi, del quale il compositore bergamasco anticipa alcuni tratti. La spaventosa prolificità di Donizetti, inoltre, ha fatto sì che molte delle sue opere cadessero nell’oblio e, paragonata all’oculatezza con cui Bellini sceglie le sue opere, ha finito per costituire quasi un capo d’accusa.
Non si può negare che il giovane Donizetti agisca con minore determinazione del giovane Bellini e incarni ancora, per certi aspetti, il musicista del Settecento: la sua vita, soprattutto nei primi anni di carriera, è un susseguirsi vorticoso di contratti, progetti e viaggi in un’altalena di fiaschi e di successi. Come ogni giovane operista che lo ha preceduto, si fa le ossa scrivendo a più non posso, senza discostarsi molto dall’opera rossiniana che costituisce il modello dell’epoca.
Rispetto ad altri musicisti coevi, tuttavia, e grazie alle lezioni del suo maestro Giovanni Simone Mayr, Donizetti conosce anche la tradizione strumentale classica, i quartetti di Haydn e Mozart, e ciò gli dà una sicurezza di scrittura e d’invenzione decisamente superiore a quella di ogni altro suo contemporaneo.
In ogni caso, quando nel 1818 Donizetti inizia la sua attività di compositore, i teatri d’Europa risuonano delle opere di Rossini, e sulle sue orme il giovane autore si cimenta con tutti i generi teatrali in voga (serio, buffo, semiserio); è poi a Roma che Donizetti ottiene i primi successi, rispettivamente con il melodramma eroico Zoraida di Granata (1822), e con quello giocoso L’ajo nell’imbarazzo (1824). La prima parte della sua carriera è contraddistinta dall’abbondante produzione di opere buffe e farse e si svolge tutta tra Roma e Napoli, con una puntata a Palermo, dove Donizetti ricopre l’incarico di maestro di cappella del locale teatro. Già L’ajo nell’imbarazzo, però, rivela una peculiarità del suo stile: l’unione di comicità e sentimento; al contrario di Rossini, che guarda con cinismo ai suoi personaggi, Donizetti li avvolge di uno sguardo tenero e partecipe.
In linea di massima, Donizetti si connota come un musicista rispettoso delle “convenienze”, ossia del sistema di regole che governa la vita teatrale.
Il pubblico d’inizio Ottocento, infatti, ha un’idea ben precisa di ciò che debba essere un’opera, e il compositore sa di dover soddisfare questo “orizzonte d’attesa”. Le convenzioni del tempo, per esempio quelle dell’opera rossiniana, prevedono che l’opera si apra spesso con un coro, che la protagonista femminile abbia un’importante aria di presentazione in apertura, la cosiddetta “aria di sortita” e un’altra alla fine dell’opera, che funge da conclusione; è consuetudine inoltre che il numero e la difficoltà delle arie dei personaggi siano direttamente proporzionali al rango dei cantanti che sono molto più importanti del compositore e meglio remunerati.
Donizetti scrive per gli interpreti che ha a disposizione, adattandosi ai loro pregi e difetti, secondo una prassi antichissima che solo Verdi riesce in parte a capovolgere. Egli sa bene di essere sottoposto a leggi che limitano la sua creatività, come dimostra nella farsa in un atto intitolata Le convenienze teatrali (1827), poi rielaborata in due atti col titolo Le convenienze ed inconvenienze teatrali (1831), un’acuta satira del mondo teatrale, della quale stende anche il libretto. In essa è memorabile il personaggio di Mamm’Agata, la madre della prima donna, interpretato caricaturalmente da un baritono. A poco a poco, senza i proclami e la consapevolezza di sé di un Bellini, Donizetti comincia a erodere le convenzioni dall’interno dello stesso genere.
Un segnale importante del nuovo indirizzo che Donizetti intende imprimere alla sua produzione seria è Gabriella di Vergy, che compone senza alcuna committenza nel 1826, come una specie di prova generale di ciò che vorrebbe innovare (verrà rappresentata solo nel 1869). Gabriella di Vergy è singolare perché non presenta il lieto fine ancora obbligatorio per l’opera seria, e inoltre la protagonista è il primo esempio di “innocenza offesa” che diverrà, poi, tratto comune tra le eroine donizettiane. Il passo successivo in questo affrancamento dalle convenzioni è L’esule di Roma, ossia Il proscritto (1828), un melodramma serio che non si conclude con l’aria del soprano, bensì con un terzetto, più idoneo a rappresentare il nucleo drammatico della vicenda, cioè il contrasto tra Murena e Settimio, rispettivamente padre e amante della protagonista, Argelia. In Imelda de’Lambertazzi (1830) per la prima volta Donizetti impone sulla scena il finale tragico. Ma l’opera che contiene più elementi innovativi è senza dubbio Anna Bolena (1830).
Opera fondamentale per la carriera di Donizetti, Anna Bolena è il primo successo milanese, ottenuto tra l’altro nello stesso anno in cui Bellini – già beniamino di quel pubblico – trionfa con La sonnambula. In quegli anni Milano comincia ad assumere un ruolo chiave nella vita teatrale italiana: un successo a Milano, dunque, è il successo.
Anna Bolena indica la personale via di Donizetti al romanticismo: romantico in primo luogo il soggetto, tratto da un famoso episodio della storia inglese, romantica l’ambientazione tra le brume della Scozia, romantica la forma inconsueta di alcuni brani, come il duetto del secondo atto tra Anna e la sua antagonista, Seymour. Le due donne, rispettivamente moglie e amante di Enrico VIII, si affrontano; Anna è stata accusata di tradimento e rischia la morte, mentre Seymour, straziata tra l’amore verso il re e il rimorso, finisce per confessare ad Anna di essere la sua rivale, provocando in lei prima l’orrore e poi il perdono. Donizetti mira innanzitutto a tradurre in musica la drammaticità della situazione; abbandona quindi la forma tradizionale di aria e cabaletta, che prevede che ogni cantante abbia una strofa per sé e che le voci si uniscano nella strofa finale e adotta invece una forma più libera, con momenti di dialogo alternati a frasi cantabili ed espressive.
Anna Bolena è un’opera importante nella produzione donizettiana anche perché contiene il prototipo della “scena di pazzia” per cui sono famose le eroine romantiche, dalla Lucia di Lucia di Lammermoor a Elvira dei Puritani di Bellini: nella scena che culmina nel cantabile “Al dolce guidami castel natio” Anna, ripudiata da Enrico e condannata a morte, rivive nel delirio gli anni felici del fidanzamento con Percy, i rimproveri di quest’ultimo quando lei gli preferisce il re, e infine il dolce paesaggio natio. Le colorature della tradizione rossiniana sono piegate a esprimere il suo stato di alterazione psichica.
Sulla strada aperta da Anna Bolena si collocano anche le opere serie Parisina (1833) e Lucrezia Borgia (1833).
Quest’ultima è tratta da un dramma di Victor Hugo, un autore ancora poco frequentato sulle scene italiane, e si caratterizza per l’abbondanza di colpi di scena, per l’attenzione ai personaggi secondari e per l’affermarsi di un ruolo tenorile, quello di Gennaro, che anticipa i tenori verdiani; l’attenzione di Donizetti verso questa nuova vocalità, del resto, è evidente già in apertura nella romanza “Di pescatore ignobile”. Lucrezia Borgia è un caso emblematico per capire il peso delle convenzioni nel teatro d’opera dell’epoca: alla prima l’interprete di Lucrezia, Henriette Méric-Lalande, si rifiuta di apparire in scena con la maschera prevista dal libretto, per timore di non ottenere gli applausi dovuti alla primadonna, e inoltre impone una cabaletta finale, non prevista dal compositore.
L’opera più famosa, il paradigma dell’opera donizettiana arriva due anni dopo: Lucia di Lammermoor (1835), tratta da The Bride of Lammermoor di Walter Scott, uno degli autori preferiti del melodramma romantico. Nella Lucia di Lammermoor giungono alla massima perfezione alcuni temi dell’opera romantica donizettiana, in particolare quello dell’innocenza offesa, dell’amore impossibile, del conflitto tra la passione e i legami familiari. Lucia accoppia procedimenti formali consueti ad altri innovativi, toccando il suo vertice drammatico nella scena della follia della protagonista, un topos dell’opera romantica. Anche le melodie, in particolare quella del duetto “Verranno a te sull’aure” sono tipiche e debbono forse qualcosa a quelle belliniane.
Donizetti mette dunque a punto la sua idea di dramma romantico, ma non abbandona il genere comico. Di quegli stessi anni è L’elisir d’amore (1832), ritenuto un capolavoro anche dagli irriducibili nemici dell’opera italiana. In esso continua il connubio tra comicità e sentimentalismo, e quest’ultimo trova espressione nella celebre romanza “Una furtiva lagrima”, affidata al personaggio di Nemorino, un tenore: ancora una volta Donizetti nobilita la figura del tenore, caricandone l’espansione canora di pathos ed emotività.
Don Pasquale (1843) rappresenta il culmine della decennale esperienza di Donizetti nel genere buffo ed è per certi versi poco convenzionale, come dimostrano la presenza del coro nel terzo atto, il recitativo secco accompagnato dagli archi e non dal clavicembalo, la sostituzione del grande finale primo rossiniano con un quartetto.
La ricerca di Donizetti verso un melodramma che coniughi le nuove esigenze espressive del romanticismo e l’obbedienza alle forme non si ferma con Lucia. Come Rossini e Bellini prima di lui, si rivolge con curiosità alle esperienze d’oltralpe, e guarda soprattutto a Parigi come consacrazione ultima. Dimostrando un’eccezionale versatilità, Donizetti si cimenta con entrambi i generi del teatro francese: l’opéra-comique, con La fille du régiment (1840), e il recente grand-opéra, dapprima con Les martyrs (1840) rifacimento del non ancora rappresentato Poliuto (1848) – e poi con La favorite 1840), che diventa talmente popolare da essere parodiata ferocemente da Offenbach in La Périchole (1868). È un grand-opéra anche l’ultimo lavoro del compositore, Dom Sébastien, roi du Portugal (1843), che segue alcuni anni dopo. Poco rappresentato per le dimensioni mastodontiche e il carattere tetro, è un notevolissimo contributo al genere ed è ritenuto dalla critica il precursore del Don Carlos verdiano.
Le opere scritte per i teatri non italiani sono particolarmente interessanti perché mostrano la versatilità e insieme la creatività di Donizetti, una volta libero dalle pastoie delle convenzioni. Linda di Chamounix (1842) è uno dei lavori più notevoli del Donizetti maturo; appartiene al genere semiserio, si svolge quindi in un contesto borghese, e anche la pazzia della protagonista trova un lieto fine. La novità dell’opera è la maggior attenzione verso la rappresentazione dei personaggi, oltre che delle situazioni. Da qui la maggior rilevanza dei duetti rispetto agli episodi solistici e il tentativo di dare a ogni personaggio un suo “colore”: emblematico quello di Pierotto, contraddistinto dal fatto di suonare un insolito strumento, la ghironda anche se in realtà il brano è eseguito da un harmonium.
Fino a tempi recenti, l’opinione critica su Donizetti ha risentito di pregiudizi e del paragone schiacciante con Bellini, considerato il creatore dell’opera romantica, e anche con Verdi che indirizza il genere verso una maggiore drammaticità. In questo contesto Donizetti non sarebbe altro che un buon artigiano, di facile vena, tanto da meritarsi il soprannome di “Dozzinetti”. In realtà, negli ultimi 30 anni, lo studio accurato delle sue opere ha rivelato che è molto più innovatore di quanto non si sia ritenuto, e che la sua peculiarità sta proprio nel coniugare tradizione e innovazione. L’attenzione di Donizetti al dramma è pari a quella di Bellini, e la sua capacità di accelerare il ritmo dell’azione tramite colpi di scena è molto maggiore. Le sue opere, inoltre, sono interessanti anche per l’evolversi della vocalità maschile. I personaggi di Gennaro e Alfonso in Lucrezia Borgia, e quelli di Edgardo ed Enrico in Lucia di Lammermoor introducono una netta differenziazione vocale e psicologica tra tenore e baritono, spesso antagonisti, che si ritroverà nello schema preferito delle opere verdiane.