FANTUZZI (Elefantucci, Elephantutius), Gaetano
Nato nell'avita villa di Gualdo presso Savignano sul Rubicone, in territorio riminese, il 1° ag. 1708, da Antonio conte di Primaro, patrizio ravennate, e da Olimpia Laura Gottifredi, dama romana, fu battezzato il 6 apr. 1709 nella contigua pieve di S. Giovanni in Compito.
La famiglia era un ramo della illustre casata senatoria bolognese trasferitosi verso la metà del sec. XV a Ravenna, dove fu illustrato da un Pandolfo ambasciatore presso le armate francesi nel 1512, e da un Giacomo vescovo di Cesena dal 1677, del quale il F. apprezzava e conservava un manoscritto, Istruzioni e avvertimenti morali, canonici e politici, molto utili a chi vuol servire la corte romana (cfr. Ginanni, I, p. 198). I Fantuzzi godettero di numerose altre nobiltà civiche, tra cui (oltre naturalmente a quella di Bologna) quelle di Adria, di Ferrara e di Viterbo, nonché della romana, risultando compresi nella bolla Urbem Romam di Benedetto XIV.
Il F. rimase orfano di padre in tenera età e fu educato dalla madre fino ai dodici anni. Nel 1720 entrò nel collegio dei nobili di S. Carlo in Modena, dove rimase per quasi sette anni, assai stimato, applicandosi alle belle arti, alle lingue e alla poesia, ma soprattutto alla storia e alla filosofia. Completato quel ciclo di studi, nel novembre 1727 passò a Pisa (e per un breve periodo a Firenze), dove seguì i corsi di G. Averani, allora professore di istituzioni di diritto civile in quell'università, anche se fu in quella di Ravenna che conseguì la laurea in utroque iure il 14 nov. 1730. Pochi mesi prima, il 18 giugno, sempre a Ravenna, aveva ricevuto gli ordini minori. Nel novembre di quell'anno stesso era già a Roma, dove, presa stanza nel palazzo Gottifredi all'Orso (oggi Primoli), partecipò con vivacità alla vita culturale romana, "tra pubbliche e private biblioteche, rinomati studi, celebri avvocati, accreditati teologi e famose accademie" (C. Brancadoro, p. 3). Ben presto venne accolto nello studio di mons. A. Peralta, uditore di rota per la Spagna e giurista di fama, divenendone il segretario, e pare che "astrusissime cause sotto il di lui mentito nome difese, e le più difficili" (Id., p. 4). In ogni caso fece un apprendistato molto valido, creandosi una certa reputazione.
In relazione a questo periodo alcune fonti accennano all'attività di elegante poeta del F., ma non si è potuto rinvenire nulla a stampa: le sole informazioni sicure concernono due sonetti inseriti nella raccolta (Rime di alcuni eccellenti autori per le applaudite nozze della nobil donna Teresa Belluzzi col nobil uomo Annibale degli Abati Olivieri, Ravenna 1733) per le nozze del suo amato cugino A. degli Abbati Olivieri (il fondatore della Biblioteca Oliveriana di Pesaro) ed una risposta in versi ad alcuni capitoli del cassinense R. Calbi a lui dedicati, nonché una dissertazione pronunciata a Ravenna nel seno dell'accademia che si riuniva in casa del marchese C. Rasponi, sul Deliquio del Sole seguito alla morte di Gesù (non risulta pubblicata, ma solo pronunciata e assai applaudita). All'Arcadia non risulta essere mai appartenuto.
Nel 1738 era stato nominato da Clemente XII prelato domestico; nel 1740, subito dopo l'elezione di Benedetto XIV, bolognese e legato in vari modi alla sua famiglia, il F., superate tutte le prove senza deroghe, ricevette la mantelletta prelatizia come referendario dell'una e dell'altra Segnatura, unitamente a F. S. de Zelada, e pare che tale nomina suscitasse meraviglia, e gelosie. Era già stato destinato ad uditore del card. A. Albani camerlengo, quando il 14 ott. 1743, dopo le prove di prammatica, fu nominato uditore di rota per la città di Ferrara, vista la sua appartenenza alla nobiltà ferrarese ed il possesso di beni in quel territorio per oltre 200 ducati di rendita. In quella carica si distinse per i suoi costumi austeri, alieni dalle camarille, e per la passione che dedicava al lavoro e agli studi. Comunque già da allora aveva dato inizio a quella che diverrà l'accademia di diritto e teologia che per moltissimi anni si riunì in casa sua: ne facevano parte, oltre ad ospiti eruditi, venti giovani "savi e studiosi" che a turno recitavano all'assemblea dissertazioni sopra i sacri canoni (note quelle di G. C. Amaduzzi, il 17 ag. 1767, il 19 dic. 1768 e l'8 apr. 1771).
Si pone qui il problema di decifrare le posizioni dottrinarie e politiche del F., che sono quanto mai sfuggenti, tanto da creare perplessità perfino nella diplomazia del tempo, durante i conclavi cui partecipò. Certo la maggior parte delle fonti lo dà (sia pure con qualche dubbio) per deciso antigesuita in odor di giansenismo; nelle sue memorie il nipote Marco afferma (p. 98): "Era opinione, e lo fu sempre, che egli fosse nemico de' Gesuiti. Sono vissuto 16 anni circa presso di lui, e posso in verità asserire che non conobbi mai in lui questa inimicizia". Occorre però notare che questo nipote scriveva nel 1800, dopo una crisi di coscienza che lo aveva portato a considerare la soppressione della Compagnia di Gesù, da lui un tempo auspicata, come una delle cause principali "delle sventure successive della chiesa", onde le sue affermazioni vanno prese con cautela. In realtà fu ritenuto che il F., già cardinale influente, contribuisse a persuadere papa Ganganelli alla soppressione, e che addirittura partecipasse alla stesura del breve Dominus et Redemptor, e d'altra parte è accertato che egli "bazzicava nel circolo dell'Archetto" a palazzo Corsini (Dammig, p. 236), era apprezzato dall'inviato di Spagna E. de Roda, e senza dubbio riceveva nella sua accademia personaggi coinvolti in modo notorio nel giansenismo romano, come i padri filippini C. Massimi di Cesena e A. Micheli (già suo valente segretario in rota), il benedettino A. Bortoletti (già abate a Ravenna), il camaldolese M. Sarti, gli abati F. Zanotti e G. C. Amaduzzi, l'agostiniano A. A. Giorgi, P. F. Foggini e forse pure G. B. Bottari, anche se per la maggior parte di costoro l'origine della frequentazione potrebbe essere attribuita alla conterraneità emiliano-romagnola. È pur vero che vi figurano anche alcuni gesuiti, come G. C. Cordara e C. Noceti, ma il primo fu uno dei pochi della Compagnia ad accettare di buon grado la soppressione, ed il secondo fu apprezzato collaboratore del F. come teologo della penitenzieria; infine il gesuita F. Arena, che egli ospitava nella sua casa di villeggiatura ad Albano, era uno stimato botanico che lo assisteva per le sue collezioni di erbari.
In ogni caso esiste un documento più probante circa il filogiansenismo del F., ed è il processo della visita apostolica voluta da Pio VI alla chiesa Nuova nel 1776, in seguito alla denuncia di riunioni giansenistiche all'oratorio dei filippini, processo dal quale risulta, se non una sua assidua frequentazione, certo una costante protezione da lui accordata agli inquisiti (insieme con i cardinali F. Conti, A. Corsini, M. Marefoschi e G. Spinelli), come per esempio quando si interessò presso gli ambasciatori delle Corone per far annullare l'espulsione dei padri A. Micheli, A. Belloni e G. Andosilla (Acta visitationis: testimonianze F. Rustici e S. De Magistris). Sembrerebbe di poter dunque concludere che un certo antigesuitismo e la benevolenza per il movimento giansenista furono realmente componenti degli atteggiamenti del F., anche se temperati da una grande prudenza, da un sincero odio per gli intrighi e da un certo distacco di studioso. Ma certo, a prescindere dalla partecipazione diretta o meno, il senso di sicurezza che derivò a quei circoli da simili protezioni rese possibile uno sviluppo che altrimenti sarebbe stato impensabile.
Nel suo secondo anno di uditorato il F. fu ordinato sacerdote. In quel tribunale si era subito procurato grande prestigio, fino a venir reputato il più esperto legale della Sacra Rota (presso l'Arch. segr. Vaticano è conservato il suo Diarium rotale dal 1744 al 1759, in tre volumi per quasi 600 fogli; mentre presso la Bibl. ap. Vaticana esiste la raccolta delle sentenze Coram R.P.D. Elephantutio, eloquenti prove dell'importanza e della mole dei lavoro da lui svolto, spesso in cause di grande risonanza). Oltre a quello ordinario, egli si assunse anche il compito di archivista di quel tribunale, e "faticò molto per ordinare le carte innumerevoli, e fece di suo carattere un repertorio di tutto" (Brancadoro).
Benedetto XIV, che, come già accennato, lo aveva in familiarità, amava farsi riferire da lui particolari e pareri sui principali giudizi in corso; quando si trattò di elevare uno degli uditori a reggente della penitenzieria apostolica, accordò a lui quell'importante carica, creandolo anche consultore della congregazione dei Riti. Si sa che aveva deciso di concedergli la porpora, ma nel maggio 1758 morì, prima di poterlo fare. A ciò provvide Clemente XIII il 24 sett. 1759 creandolo cardinale prete, e conferendogli il 19 novembre successivo il titolo di S. Agostino, che il F. muterà il 6 apr. 1767 con quello di S. Pietro in Vincoli che conservò fino alla morte. Anche da cardinale continuò, sia pur mutatis mutandis, ilsuo austero stile di vita, "spartano fra il fasto della Persia" (Brancadoro, p. 26).
Fu subito annoverato tra i membri di numerose congregazioni permanenti, ossia quelle del Concilio, delle Immunità ecclesiastiche (di cui diverrà prefetto), del Buon Governo, dell'Indice, dei Vescovi e Regolari, e della Concistoriale; in seguito anche di quella per la correzione dei libri della Chiesa orientale, e della deputazione per l'esame dei vescovi. Esercitò le protettorie di Savignano, dì Gatteo, di Mellara e di Castel Bolognese; dal 1771 quella di Ravenna; dal 1763 divenne protettore di tutto l'Ordine camaldolese; e inoltre dei filippini di Montefalco, della Confraternita di S. Girolamo di Amelia e del nobile Collegio dei droghieri della città di Roma, del quale fu il primo protettore e per il quale ottenne da Clemente XIII l'approvazione degli statuti con breve 22 dic. 1760. Fece anche parte di molte congregazioni particolari.
Va segnalata poi l'attività diplomatica svolta dal F. nel quadro della cosiddetta "questione di Parma", quando il ministro del duca Ferdinando, G. du Tillot, con le finanze oberate da un colossale debito pubblico, era ricorso al papa per ottenere di poter effettuare imposizioni straordinarie sui beni ecclesiastici. A questo proposito il rappresentante spagnolo E. de Roda ebbe uno scontro col card. L. M. Torrigiani, segretario di Stato e acceso filogesuita, che nego assolutamente il suo consenso. Allora il Roda ricorse direttamente a Clemente XIII, il quale affidò la spinosa questione ai cardinali F. e G. M. Feroni; dopo una lunga trattativa essi pervennero ad approntare un piano che consentiva le imposizioni, ma a certe determinate e complesse condizioni. L'affare sembrava felicemente risolto, la corte di Parma aveva addirittura concesso premi al personale subalterno che se ne era occupato, ed il papa aveva promesso il breve relativo. Ma il Torrigiani, piccato che tutto si fosse svolto senza di lui, riuscì a far abortire l'accordo; da allora i rapporti del F. con quel segretario di Stato divennero pessimi, e ciò fu forse causa di una certa sua emarginazione dagli affari che il nipote Marco lamenta (Memorie di vario argomento, s.l. 1804, p. 172): "... allora fu trascurato dal governo, al quale forse pesavano li stretti principii di giustizia nelle materie politiche, ed economiche. Ed il pubblico ... quasi lo dimenticò, senza impieghi, senza relazioni, senza brighe". In ogni caso il suo operato nella crisi di Parma fu più volte ricordato dalla diplomazia a sua lode, allorquando egli fu papabile nei conclavi.
In occasione della soppressione dei gesuiti, il F. si mostrò assai critico verso i metodi usati dalla congregazione incaricata dell'esecuzione del breve (cardinali F. S. de Zelada, M. Marefoschi, A. Corsini, F. Carafa di Traietto e A. Casali): "Diceva chiaramente e spesso a tutti ... che anche se vi erano ragioni di giustizia, o anche di prudenza, per venire all'abolizione, questa doveva farsi con dignità, e carità, senza alcuna forma e modo secolare, disponendo de' beni dei Gesuiti con principii e formalità canoniche ..." (Memorie di vario argomento, p. 157). Insomma, anche da altre fonti sembrerebbe proprio che il F. abbia approvato la soppressione non tanto per convinzioni dottrinarie o per antigesuitismo professo, quanto per ragioni di opportunità politica, visto l'atteggiamento oltranzista delle corti borboniche, onde evitare affronti alla dignità della S. Sede (di cui era gelosissimo), ed al mondo cattolico pericolosi disordini.
Verso la fine del pontificato di Clemente XIV, quando quel papa sembrò dare qualche segno di alienazione mentale, "molti cardinali ... si adunarono insieme, e commisero al card. Fantuzzi l'incarico di stendere una scrittura e proporre ciò che si dovesse fare nel caso ... : e quegli la fece e presentolla al cardinale Decano" (Pastor, XVI, 2, p. 401 n. 1); questo episodio dà la misura della stima di cui godeva come giurista e canonista presso il S. Collegio.
Assai rilevante fu il ruolo del F. nei due conclavi cui partecipò. In quello del 1769, delineatisi subito due partiti principali, quello degli zelanti capeggiato dal Torrigiani, filogesuita, e quello dei moderati, facente capo agli Albani, il secondo (saltata la candidatura Stoppani per l'opposizione della corte austriaca) si indirizzò al F., portato dal partito Rezzonico con l'appoggio discreto degli Albani. Ne risultò un gruppo assai robusto, anche perché il F. aveva fautori in altri schieramenti, come i due Corsini, suoi antichi amici. Ma molto contava in quel momento l'influenza delle potenze borboniche: nell'elenco che il duca G. Grimaldi, ministro degli Esteri spagnolo, aveva fatto pervenire il 27 febbraio ai rappresentanti delle Corone figuravano undici cardinali "buoni", quindici "cattivi" (fra i quali il F.) e sei "pessimi", per i quali ultimi furono inviate già il 28 sei formule di "esclusiva", alle quali inspiegabilmente il 4 aprile ne furono aggiunte ancora tre, di cui una per il F., tutte segrete da usarsi soltanto in caso di necessità.
Però la maggior parte dei diplomatici accreditati a Roma non si mostrò d'accordo con quel giudizio su di lui: il Piano per il conclave, approntato dal 1765 (Arch. di Stato di Napoli, Carte Farnesiane, 1554), ne traccia un profilo positivo, ed il Roda lo stima "buon papa, per non essere impigliato nei pregiudizi correnti intorno all'autorità ecclesiastica" (lettera 23 febbr. 1769 a Grimaldi, in Arch. gen. de Simancas, Estado 5012, cit. in Pastor, XVI, 2, p. 39 n. 5), e lo pone fra i "buoni", con la sola riserva di "essersi acquistato cattiva fama per la sua condotta in alcune faccende private [quest'accusa, isolata, è in contrasto con tutte le altre fonti] e di essere fanatico assertore delle immunità".In ogni caso, la candidatura del F. fu bloccata dalla tenace opposizione del card. D. Orsini rappresentante di Napoli, il quale lo considerava "amico dei Gesuiti", e minacciò una inaudita "esclusiva" di Napoli, anche se il diario del card. Pirelli (p. 208) afferma che fu il Tanucci a volere la manovra. Così il F., a suo dire per risparmiare un nuovo affronto alla dignità del conclave (ma anche per evitare di essere escluso pubblicamente), ritirò la sua candidatura con un dignitoso biglietto al camerlengo.
Del ruolo del F. nel conclave del 1774-75 è documento la celebre pasquinata apparsa in quell'occasione, Il Conclave del 1774. Dramma per musica da recitarsi al teatro delle Dame..., che fu diffuso in tutta Europa (e anche rappresentato), attribuito dal S. Uffizio al fiorentino abate G. Sertor.
Si tratta di un libello ferocissimo contro i cardinali antigesuiti, che culmina con l'elezione a pontefice proprio del Fantuzzi. In realtà in quell'occasione J. de Moñino (il conte di Floridabianca) e gli altri rappresentanti delle corti borboniche a Roma avevano fin dall'inizio pubblicamente e minacciosamente dichiarato che l'elezione di un filogesuita sarebbe stata esiziale per i rapporti degli Stati da loro rappresentati con la S. Sede.
Ciò provocò una così viva reazione del S. Collegio a quelle interferenze che i tradizionali schieramenti ne uscirono modificati. Interprete principale di tale indignazione fu proprio il F. che, spinto a scriverne da A. Albani, redasse due lunghe Dissertazioni sull'argomento; pare però che fosse strumentalizzato dall'Albani, che abusò del suo zelo per prender tempo, consentendo l'arrivo di alcuni cardinali stranieri, e del corriere di Portogallo che doveva recare l'assenso di quella corte alla candidatura dei card. G.A. Braschi. Le vicende del conclave, nel quale il F. raccolse in alcune votazioni un numero di suffragi assai ragguardevole, sono troppo complesse per essere qui esaminate a fondo. Basti dire che alla vigilia della conclusione, quando la candidatura Braschi apparve prevalere, gli oppositori riuniti di notte convocarono il conclavista del F., G. Canestri, perché inducesse il suo cardinale a porsi a capo del movimento, convinti che lui solo potesse sbarrare la strada al Braschi. Ma il F. rispose che "se si trattava solo di gettare a terra Braschi egli non se ne mischiava" (Memorie di vario argomento, p. 170). Il 14 febbr. 1775 il Braschi (Pio VI) fu dunque eletto, ma senza il suo voto; subito dopo il F. partì per Albano col nipote, che narra come per alcuni giorni non sapesse darsi pace: "sembrò che impazzisse", e profetava lutti e sventure per Roma e la S. Sede.
Negli anni successivi il F. non figurò quasi più, se non nelle congregazioni, cui dedicava tutto il suo tempo. Morì a Roma il 1° ott. 1778 e fu sepolto nella sua chiesa di S. Pietro in Vincoli.
Sotto la guida del canonico G. A. Lazzarini di Pesaro, per molti anni suo ospite e commensale, e grande esperto di pittura, il F., appassionatissimo di oggetti d'arte, raccolse una cospicua collezione di dipinti di tutte le epoche, fra cui una S. Elisabetta del Barocci e "una camera di quadri fiamminghi" (possedeva anche un Crocifisso in metallo dorato dell'Algardi). Collezionò poi strumenti musicali, libri, monete (fu esperto numismatico, e scrisse di numismatica; cfr. bibl.) ed erbari esotici sotto vetro, che conservava nella sua casa di villeggiatura ad Albano. Dopo la sua morte le collezioni furono trasportate nella nativa villa di Gualdo (ora di proprietà dei conti Ginanni Fantuzzi), che egli aveva abbellito: purtroppo quasi tutto è andato distrutto durante l'ultima guerra, unitamente agli archivi e a gran parte della biblioteca. Del F. resta solo un ritratto a olio, tutt'ora nella villa dei conti Ginanni Fantuzzi, ricostruita dopo l'ultima guerra.
Fonti e Bibl.: Arch. segr. Vaticano, S. Romana Rota, Diaria, indice 1073, n. 27, Diarium rotale R. P. D. Cajetani Elephantutii, I, 1744 usque 1748; n. 28, Id., II, 1749 usque 1754; n. 29, Id., III, 1754 usque 1759; Ibid., S. Romana Rota. Serie minori, Vota, Indice 1109, n. 18, Fantuzzi (1744-59), busta contenente due pacchi sigillati; Ibid., Indice 1109, n. 117, busta III, Processus in admissione auditorum, Cajetanus Elephantutius, 14-X-1743 (volumetto ms. rilegato in pergamena, con stemma Fantuzzi in copertina); Ibid., Acta visitationis, Misc. Armadio VII, 82 (atti completi della visita apostolica all'oratorio dei filippini decretata da Pio VI il 3 ag. 1776, e interrotta nel febbraio 1778 per intervento della corte di Spagna); Ibid., Lettere di cardinali, 162, parte II, ff. 65, 96 (due lettere da Ravenna al card. Torrigiani, 29 luglio e 10 ag. 1766); Roma, Bibl. Casanatense, ms. 3177: M. Fantuzzi, Memorie di Clemente XIV (sul frontespizio Cronache di Marco Fantuzzi), ff. 182 (copia di un originale in possesso, ai tempi del Pastor, della contessa M. Torricelli; altra copia presso l'Archivio generale dei gesuiti), passim e specialmente pp. 3, 13, 29, 34, 51, 98 ss., 103, 105, 117 s., 124 ss., 131 s., 135, 155, 157 s., 166, 168 ss.; Pesaro, Bibl. Oliveriana, ms. 138, n. 129 (sonetto di anon. in onore del F.); Ibid., cod. n. 245, cc. 299-303; Ibid., cod. n. 315 (autografi di numismatica del F., donati dal nipote Ferdinando ad Abbati Olivieri, testo e atlante); Forlì, Bibl. comunale "Aurelio Saffi", cod. 574/144: Memorie del card. G. Fantuzzi; cod. 574/135-42: otto lettere del F. a vari, dal 1756 al 1776; cod. 574/143: lettera dell'imperatrice Maria Teresa al F. del 1764 d. 574/148-49: 3 sonetti in suo onore.
E. Sanclemente, De vita et rebus gestis Ferdinandi Romualdi Guiccioli, Venetiis 1764, pp. 39 s.; G. B. Mittarelli, Annales camaldulenses, VIII, Venetiis 1764, p. 712 n. LXXIV; P. P. Ginanni, Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati, I, Faenza 1769, pp. 194-98; L. Fusconi, Componimenti per l'elezione del card. G. F. in protettore di Ravenna, Roma 1771; G. Orioli, Per le solenni esequie dell'e.mo e r.mo cardinale G. F., Orazione, Ravenna 1778; Elogio funebre del cardinale G. F. esteso dall'arciprete C. Brancadoro, Fermo 1781; M. Fantuzzi, Memorie di vario argomento..., s. l. 1804, pp. V, 160, 164, 168, 172, 179, 181, 183 (è opera del tutto diversa dal ms. della Casanatense cit.); J. de Novaes, Elementi di storia de' sommi pontefici, XV, Roma 1822, p. 28; A. Theiner, Histoire du pontificat de Clément XIV, I, Paris 1852, pp. 167, 169, 182, 194, 214 s., 225, 232, 234 s., 237; L. Cappelletti, Ilconclave del 1774 e la satira a Roma, in Bilychnis, XI (1918), pp. 159-66; L. von Pastor, Storia dei papi, XVI, 1, Roma 1933, p. 1025; XVI, 2, ibid. 1933, pp. 9, 27 s., 39 s., 57, 401; XVI, 3, ibid. 1934, pp. 7, 15; G. Gasperoni, Settecento italiano, I, L'abate G.C. Amaduzzi, Padova 1941, pp. 22, 36 ss., 40, 51, 121, n. 1, 223, 235; E. Dammig, Ilmovimento giansenista a Roma nella seconda metà del sec. XVIII, Città del Vaticano 1945, pp. XII, 119, 197, 209 s., 222, 236; Ildiario del conclave di Clemente XIV del card. F.M. Pirelli, a cura di L. Berra, in Arch. d. Soc. rom. di st. patria, LXXXV-VI (1962-63), pp. 25-319 passim (ma spec. pp. 54 n. 87, 208); D. Silvagni, La corte pontificia e la società romana nei secc. XVIII e XIX, I, s. l. 1971, pp. 70, 109, 111, 129, 158, 161 s., 164; G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica, XXIII, pp. 178 ss. e ad Ind.; R. Ritzler-P. Sefrin, Hierarchia catholica, VI, Patavii 1958, p. 22 (come Elephantutius, ma per qualche errore non figura affatto negli indici); Dict. D'hist. et de géogr. ecclés., XVI, coll. 487 s.