FILANGIERI, Gaetano
Nacque a Cercola (Napoli) il 18 ag. 1752, terzogenito di Cesare, principe di Arianiello, e di Marianna Montalto, figlia del duca di Fragnito. Un'ipotesi fondata su un documento che riporta probabilmente l'errore di un copista posticipa di un anno la data di nascita (cfr. Venturi, Illuministi...) ma numerose testimonianze coeve e dello stesso F. fanno ritenere che la data esatta sia il 1752.
L'origine della famiglia risaliva all'epoca della conquista normanna, ma al lustro del casato non corrispondeva, nel Settecento, una pari dignità economica. I genitori avevano imposto ai figli una rigida educazione, un genere di vita che, secondo lo stesso F., era a stento sostenibile nell'età matura. Egli e i fratelli erano costretti a studiare più di dieci ore al giorno, cominciando all'alba con un'ora di latino. Nei suoi stessi tratti somatici il F. portava i segni dell'ascendente normanno. "Grande e modesto" appariva ai giovani amici poco più che adolescenti, che si riunivano nella villa dei fratelli Grimaldi sulla collina di Posillipo e Goethe, che lo incontrò alla Cava (l'odierna Cava de' Tirreni) nel 1787, riconosceva in lui il soldato, il cavaliere e l'uomo di mondo, ma aggiungeva che la dignità e la forza che trasparivano dal suo carattere erano mitigate dall'espressione di intensità morale che risplendeva nella finezza e nel garbo dei gesti e nel modo di parlare.
Fin dai primi studi infantili il F. dimostrò una particolare inclinazione per le scienze esatte, studi del resto non alieni alla tradizione familiare. Lo zio Serafino, fratello del padre, benedettino, uomo di grande levatura intellettuale, che esercitò sul nipote una forte influenza, reggeva sin dal 1752 la cattedra di fisica sperimentale dell'università di Napoli.
L'ambiente in cui il F. cresceva era impregnato di venature di giansenismo, da una forte carica morale e dalla fedeltà alle linee politiche di Carlo di Borbone, proseguite, dopo il 1759, quando il re assunse il trono di Spagna, dal fedele ministro B. Tanucci. Erano quegli gli anni in cui A. Genovesi insegnava ai giovani napoletani i principi basilari delle scienze economiche, richiamandoli ad un più attento esame della concreta situazione del Regno, della sua dipendenza commerciale dalle grandi potenze europee, delle vie da seguire per mettersi al passo con i paesi più progrediti. Dall'insieme di queste considerazioni discendeva tra l'altro un giudizio decisamente negativo della funzione dell'aristocrazia meridionale, critica che il F., benché nobile, espresse più volte. I nobili apparivano ai suoi occhi oziosi e annoiati perdigiorno, inorgogliti da titoli altisonanti e prolissi, litigiosi e sostanzialmente contrari ad ogni riforma volta al progresso del Regno.
Pur con queste riserve il F. percorse le tappe classiche del cursus honoris dell'aristocrazia. A soli sette anni, ottenuta la dispensa per la minore età, fu nominato sottotenente del reggimento di fanteria "Abruzzo Ultra", l'anno successivo, nel 1760, divenne alfiere del reggimento "Principato Ultra", nel 1768 tenente di fanteria, infine nel 1777 maggiordomo di settimana presso la regia corte.
Frattanto la sua educazione era affidata alle cure dell'ecclesiastico L. N. De Luca, personaggio vivace e versatile che non disdegnava di discutere i temi del momento con ampia cultura e vaste letture, e definiva il Genovesi "maestro dei napoletani ingegni" e vero "amico dell'uomo".
Gli ideali del F. negli anni giovanili, le sue letture, i suoi autori preferiti ci sono in parte noti proprio grazie al De Luca, che approfondì il compito pedagogico a lui affidato in alcune pagine di un volume dedicato al commento dell'Ecclesiaste. Il giovane allievo descritto nel testo era colmo di tensione morale, il bene di tutta l'umanità costituiva il suo ideale supremo e ogni altro sentimento - l'amore di una donna, l'egoistica soddisfazione delle passioni, l'acquiescenza ai pregiudizi di casta e di nazione - era per lui di minore importanza. Il giovane Filandro, dietro cui l'autore adombrava il F., considerava le leggi "le dilette figlie del cielo" e i suoi autori preferiti erano G. Bonnot de Mably, A. Ashley Cooper, terzo conte di Shaftesbury, ed i suoi seguaci inglesi e francesi e sullo sfondo, come una divinità suprema, si ergeva sugli altri il sommo Platone.
Il F. fu un genio estremamente precoce: già nel 1771 aveva progettato un'opera sull'educazione e l'aveva esposta al letterato svedese G. J. Björnstal, in visita a Napoli; l'anno successivo inviò a Palermo al camaldolese Isidoro Bianchi un breve ed incisivo testo, anticipo sorprendente dei temi che poi sarebbero stati svolti nella Scienza della legislazione, intitolato la Morale de' legislatori. Il Bianchi trovò nello scritto molti punti di contatto con le proprie idee politiche e filosofiche e decise di fornirne un sunto nelle Notizie de' letterati, il principale periodico degli illuministi siciliani (n. 19, 12 maggio 1772, coll. 294-298).
La dissertazione era divisa in capitoli; il primo era dedicato al fondamento della "morale dei sovrani, cioè la conservazione, e la tranquillità dei popoli". Sulle solide mura della pace sociale, convenuta tra popolo e sovrano e da questo garantita, nascevano le leggi. Premi e pene, come anche il Bianchi affermava nelle sue Meditazioni sui vari punti di felicità pubblica e privata (Palermo 1774), dovevano fornire le motivazioni per incoraggiare le virtù dei cittadini e reprimerne i vizi. Le pene dovevano essere proporzionate ai delitti, ai costumi e alla situazione del paese. Il F. polemizzava quindi con le idee di C. Beccaria sull'abolizione della pena capitale, da lui ritenuta un necessario deterrente per determinati crimini. La fede in Dio restava la base morale dell'edificio sociale, il punto di riferimento che, accrescendo "la speranza di un premio eterno, fa argine alle interne reità". La religione, come anche il camaldolese sosteneva, doveva essere una sola "che che ne dicano i fautori del Tollerantismo". La strada per un generale miglioramento delle condizioni di vita passava, per il F., il cui testo era riassunto dal Bianchi, attraverso un programma massiccio di educazione per sanare il "cuore" dei cittadini e formarli alla virtù. Come si avrà modo di constatare, le analogie tra la Morale de' legislatori e il piano ragionato, premesso al primo libro della Scienza otto anni dopo, dimostrano l'eccezionale coerenza delle riflessioni filangieriane anche se, nei suoi anni più maturi, egli esalterà la distinzione tra sicurezza e felicità e modificherà la successione della parte finale dell'opera.
Nell'estate 1773 il F. si recò a Palermo (fu l'unico viaggio di un certo rilievo nella sua vita), mosso dal desiderio di venire a contatto con nuove realtà, ma soprattutto di rivedere lo zio Serafino, arcivescovo della città e di incontrare per la prima volta l'abate Bianchi, con il quale nacque un'intensa amicizia di cui è testimonianza il nutrito carteggio. L'anno successivo il F. dava alla luce la sua prima opera a stampa, le Riflessioni politiche su l'ultima legge del sovrano che riguarda la riforma dell'amministrazione della Giustizia (Napoli 1774), che illumina sui suoi studi giuridici e sulle sue valutazioni circa l'azione riformista del Tanucci. Nelle Riflessioni il F. prende spunto dalla prammatica scritta di proprio pugno dal ministro il 12 sett. 1774 e fatta promulgare a nome del segretario d'Azienda, J. A. Goyzueta, il 23 di quel mese e l'8 ottobre successivo.
Il progetto tanucciano - che con quella norma imponeva l'esposizione scritta delle sentenze dei tribunali del Regno - si inquadrava in una operazione di più vasto respiro politico già iniziata in Francia nel 1771, quando il Parlamento di Parigi fu sciolto e i suoi membri furono esiliati. Ma nel 1774, quando il Tanucci decideva di agire contro lo strapotere dei togati, dalla Francia sembrava provenire un pesante ammonimento. Egli proseguì, comunque, nella sua azione per frenare l'arbitrio dei giudici e sminuire l'orgoglio della "toga sovrana".
Il F. fu entusiasta dell'iniziativa del Tanucci e, nella dedica a lui indirizzata, scriveva che "un ministro filosofo" aveva finalmente proposto "al Principe il rimedio più opportuno" (p. 4); la sua pronta adesione all'iniziativa regia era soprattutto dettata dal presagio di un percorso virtuoso che avrebbe infine ristabilito "il sovrano impero delle Leggi" (p. 5).
Già allora quindi, a poco più di ventidue anni, egli poneva a base delle sue Riflessioni una massima che era ormai divenuta un punto fermo del pensiero politico dell'Illuminismo europeo: "nei governi dispotici gli uomini commandano, nei governi moderati commandano le leggi" (p. 10). Ne discendeva che nessun cittadino, tanto più se ricopriva un'alta carica dello Stato e della magistratura, doveva considerarsi superiore alle leggi. Questo a suo dire era lo spirito, l'interpretazione corretta della prammatica tanucciana. "Il re vuole", egli aggiungeva, "che il linguaggio del Magistrato sia quello delle leggi; che Egli parli allorché esse parlano, e si taccia allorché esse non parlano o almeno non parlano chiaro" (p. 12). Ogni interpretazione, ogni ricorso "all'autorità dei Dottori" doveva essere bandita dal foro. L'arbitrio giudiziario era per lui incompatibile con la libertà civile e, pertanto, la consueta argomentazione dei giuristi - della differenza colmabile solo con un soggettivo giudizio tra equità e giustizia - andava decisamente contrastata. L'equità era per il F. inseparabile dalla giustizia perché "quello che non è giusto non può mai divenire equo" (p. 19).
Questo assunto di base era poi argomentato secondo uno schema che il F. avrebbe seguito anche nella redazione della sua opera più matura. In primo luogo egli, in una sapiente ricostruzione storico-giuridica, mostrava di padroneggiare l'evoluzione delle procedure nel mondo greco-romano. Il periodo del dispotismo senatorio, quando i patrizi tenevano nascoste al popolo le "Leggi reggie", era da lui stigmatizzato come uno dei periodi più oscuri per la vita politica della giovane repubblica romana: "Datemi dunque un Governo, nel quale i Magistrati" - egli affermava - "possono arbitrare e voi mi darete nel tempo istesso un corpo di despoti" (pp. 25 s.). Dall'oppressione politica nascevano la corruzione dei costumi e la decadenza della nazione, che per il suo sviluppo sociale ed economico richiedeva invece uniformità ed eguaglianza delle leggi.
L'interpretazione arbitraria delle norme doveva essere vietata per la "costituzione istessa dei Governi moderati", dove i diversi poteri - legislativo, esecutivo e giudiziario - dovevano, come aveva insegnato Montesquieu, essere assolutamente separati. Ma distaccandosi dall'autore dell'Espritdes lois e mostrando la sua scarsa simpatia per lo spirito "libertino e britanno" di questo, il F., pur accettando il principio della separazione dei poteri, di fatto però assecondava il progetto e gli intendimenti tanucciani, che miravano ad un rafforzamento della monarchia illuminata. Coerentemente egli assegnava al sovrano l'esclusiva competenza legislativa, che nelle monarchie costituzionali descritte da Montesquieu, come quella inglese, era di potestà parlamentare e conferiva al re, nelle sue vesti di legislatore, il potere interpretativo delle leggi, da lui stesso emanate. I giudici poi, alla luce della dottrina della separazione dei poteri, non potevano interferire nelle funzioni di competenza del monarca. Argomenti storici, moderne dottrine dello Stato e del diritto, esempi tratti dalle recenti esperienze legislative - come quelle attuate da Federico II di Prussia in Pomerania - erano mescolate con sapiente dosaggio nel libretto del Filangieri.
Il suo opuscolo ebbe buona accoglienza nel mondo colto partenopeo, anche se andava a colpire il ceto forense, uno dei più potenti e privilegiati della capitale borbonica. Pochi anni dopo però lo stesso F. confessava, in una nota riferita dall'amico D. Tommasi, di essersi amaramente pentito della sua opera giovanile. I motivi del rifiuto, che lo portarono persino a ricomprare le copie stampate per poterle personalmente bruciare, sono di particolare interesse e svelano il profondo distacco che il F. andò maturando nei confronti della corte e del governo di Ferdinando IV, e il suo abbandono di ogni speranza di riforma da attuarsi in un regime di assolutismo illuminato.
Si sa poco degli anni della vita del F. che intercorrono tra la pubblicazione delle Riflessioni e il 1780, quando videro la luce i primi due libri della Scienza della legislazione. Unica testimonianza di quel periodo sono le lettere indirizzate al Bianchi tra il settembre e l'ottobre del 1773, al rientro a Napoli da Palermo. Sarà un'altra lettera al Bianchi di sette anni successiva ad interrompere il silenzio sulle sue vicende.
Il successo avuto dalla sua prima opera a stampa e il desiderio del padre di fargli continuare gli studi giuridici avrebbero configurato come naturale sbocco delle sue inclinazioni la carriera forense. Il F. decise però diversamente e preferì restare militare al servizio del re, attorniato da un mondo per cui provava un profondo fastidio, pur di proseguire, nelle ore libere ed in quelle di servizio, i suoi appassionati studi. Fu quello il periodo in cui maturò la sua adesione alla massoneria di osservanza inglese, la cui egemonia veniva a Napoli sempre più erosa dal diffondersi delle logge templari.
Quali furono i suoi amici, i suoi confidenti più stretti ed affezionati non è difficile intuire. Tra questi la figura di maggior rilievo fu senza dubbio F. M. Pagano, già conosciuto nel 1770, quando questi insegnava etica all'università di Napoli. La loro fu una relazione intellettuale che nella diversità di vedute su molti aspetti della filosofia, della storia e della politica, durò fino alla prematura morte del Filangieri. Li univa, oltre ad un non comune impegno etico e filantropico e all'adesione alla massoneria, una riscoperta di G. B. Vico mediata attraverso la lettura di G. De Angelis. Anche F. A. Grimaldi, che faceva parte di questo circolo di amici che si riunivano attorno ai fratelli Di Gennaro e ai Grimaldi stessi, andava in quello scorcio di tempo riesaminando i testi del grande filosofo idealista ed avrebbe poi fuso le sue analisi nelle Riflessioni sopra la disuguaglianza tra gli uomini, pubblicate tra il 1779 e il 1780. Ma, mentre la relazione di amicizia tra il F. e il Grimaldi ad un certo punto si interruppe, come testimonia una lettera del F. a B. Franklin del 21 marzo 1784, la consuetudine con il Pagano non venne mai meno.
Questi dedicò nel 1782 all'amico massone una delle sue tragedie, Gli esuli italiani, e ambedue trovavano nella Scienza nova, come scriveva Goethe nel suo Viaggio in Italia, sia pure con divergenti conclusioni, un punto di riferimento incontrastato nella tradizione culturale partenopea. Il Pagano avrebbe compiuto il suo riesame dell'opera del Vico alla luce delle teorie avanzate da G. L. Buffon, P. H. d'Holbach e soprattutto da N. Boulanger e avrebbe accentuato gli aspetti materialisti e catastrofici della lezione vichiana. Si rafforzò in tal modo in lui la convinzione che la storia procedesse non secondo una linea continua ma con fratture e ricomposizioni e che questo avrebbe un giorno permesso l'affermazione di un ceto medio virtuoso ed illuminato.
Ma in quegli stessi anni un avvenimento di portata epocale, la Rivoluzione americana, si inserì prepotentemente nei temi di riflessione di questa giovane generazione di illuministi partenopei. Essa riaccese il dibattito sulla forma di governo, sulle repubbliche, sulle monarchie illuminate e sul dispotismo. Per il F. l'Inghilterra da "santuario delle libertà" si era ormai tramutata in un paese oppressore e colonialista. Proprio nel vivo di quella crisi che stava nuovamente sconvolgendo l'Europa e il mondo con una guerra senza quartiere per il dominio dell'economia da un lato, e per la libertà di commercio, di navigazione e di autogoverno dall'altro, il F. pubblicò i primi due libri della Scienza della legislazione (Napoli 1780).
Nell'Introduzione esordiva con una vivacissima apologia del pacifismo. "Quali sono gli oggetti che hanno fino a questi ultimi tempi occupati i Sovrani d'Europa?" si domandava nelle prime righe del suo grande affresco giuridico-costituzionale, e la risposta durissima recitava: "trovar la maniera di uccidere più uomini nel minor tempo possibile". La scienza e le tecniche erano asservite a questa macchina infernale, lì abbondavano gli investimenti degli Stati, lesinati invece per il progresso dell'agricoltura e delle arti. La filosofia, che tanto si era affannata nel secolo dei lumi a indicare la retta via ai sovrani, ancora una volta doveva constatare la sua sconfitta. Qualcosa però a suo dire stava cambiando nella sensibilità delle case regnanti. Montesquieu aveva aperto la strada, mostrando la fondamentale importanza di un razionale assetto legislativo per il progresso delle nazioni e il F. ricordava che "le buone leggi" erano "l'unico sostegno della felicità nazionale".
Le monarchie avevano svolto una fondamentale funzione storica riunendo i popoli, precedentemente avviliti e dispersi dal feudalesimo, in un solo dominio. Ora, indebolito il potere dei nobili, la filosofia avrebbe potuto svolgere il suo compito primario "in soccorso dei governi". Essa aveva fugato le ombre della superstizione e permesso alla vera religione, separata dalla gestione del potere e riscattata dall'antico oscurantismo, di venire finalmente alla luce. Non c'era più spazio, in un tempo in cui le idee di Locke e di Montesquieu erano diffuse e corrisposte, per quelli che il F. considerava i nocivi consigli di Machiavelli. La virtù doveva essere il valore fondante delle società civili e non solo un orpello da mostrare alle masse quando il bisogno lo richiedesse. Grazie alla lunga e positiva opera dei lumi era quindi possibile metter mano alla riforma della legislazione e il F. si proponeva come un privilegiato consigliere dei sovrani nella difficile opera di trasformazione.
Già in queste prime pagine egli prendeva le distanze sia da Machiavelli sia da Montesquieu che, a suo parere, aveva ragionato più sull'esistente che sul possibile, più sul reale che sulle utopie realizzabili. Ma il F. non chiariva quale fosse il suo modello politico di riferimento, anche se da molti elementi si poteva dedurre che la sua propensione andasse al sistema americano. Egli scriveva infatti al Bianchi in una lettera del 1780, di non aver potuto esprimere con libertà i suoi sentimenti, di aver nascosto perfino al suo antico istitutore De Luca i contenuti dei primi due libri.
Nell'Introduzione il F. annunciava di voler dividere la Scienza della legislazione insette libri. Nel primo avrebbe esposto le regole generali, nel secondo le leggi politiche ed economiche, nel terzo le norme in materia penale, nel quarto la riforma dell'educazione, nel quinto quella della religione, nel sesto le leggi riguardanti la proprietà, nel settimo infine il diritto di famiglia. Egli però portò a termine solo i primi quattro libri, mentre il quinto venne edito postumo.
L'accoglienza dei primi due libri della Scienza della legislazione nei circoli filosofici europei fu calda ed immediata: il F. affrontava infatti i temi più dibattuti in quello scorcio di secolo. Non trattava solo di scienza del diritto e di tecnica legale, bensì offriva ai suoi dotti lettori un affresco affascinante della situazione internazionale accennando alcune previsioni sui destini degli imperi coloniali spagnoli e portoghesi (che si sarebbero in seguito avverate) e notando profeticamente che i coloni inglesi in rivolta presto sarebbero divenuti "arbitri del destino dell'America e della sorte dell'Europa", e avrebbero strappato all'antico continente le sorgenti delle sue ricchezze.
Tutti i principali paesi venivano presi in esame con acutezza e spirito critico ma oltre al giudizio sulle singole potenze europee - Francia, Spagna, Russia, Portogallo, sorvolando significativamente sulla Prussia di Federico II e sull'Impero di Giuseppe II - il F. mostrava interesse per lo statico modello di dispotismo legale cinese. Lo attraevano la certezza delle leggi, il complesso e funzionante apparato burocratico, l'assenza di un'aristocrazia ereditaria e il modello etico-confuciano che poneva al centro della struttura sociale una religione civile.
In Europa viceversa, e soprattutto nelle Sicilie, emergeva dall'analisi del F., orientata in economia in senso fisiocratico, che i maggiori ostacoli allo sviluppo erano costituiti dalla presenza schiacciante ed oppressiva del baronaggio e della grande proprietà ecclesiastica. Erano i baroni inetti, il maggiorascato, le giurisdizioni feudali cosi come i privilegi delle corporazioni ecclesiastiche i principali ostacoli a quella riforma agraria che avrebbe avviato il ciclo virtuoso della crescita economica. Era un discorso che la cultura europea aveva dibattuto negli stessi anni e che era stato affrontato in Francia particolarmente da P.-F. Boncerf nel suo Les inconvénients des droits féodaux.
Ma se l'accoglienza dei radicali e dei circoli massonici fu calorosa altrettanto non può dirsi delle reazioni ufficiali della corte e del governo napoletano. Il genio del F. e la sua profondissima cultura erano però innegabili e nel 1780 Ferdinando IV gli conferì la commenda del R. Ordine costantiniano. Questo tiepido riconoscimento della corte non salvò il F. dagli attacchi e dalle censure, che trovarono la loro espressione compiuta nella Lettera diretta al cavaliere F. (Salerno 1782) scritta dal professore di matematica G. Grippa. Nell'operetta (poi ripresa nel 1784 con il titolo di Scienza della legislazione sindacata, ovvero Riflessioni critiche sulla Scienza della legislazione...), ilGrippa sosteneva che l'abolizione del maggiorascato e dei fedecommessi e del divieto fiscale di alienazione dei feudi, proposta dal F. nel secondo libro, era un grave errore politico, poiché avrebbe portato alla distruzione del sistema feudale e alla totale rovina del baronaggio e ciò si sarebbe ripercosso sulla stessa istituzione monarchica. Il F. si rifiutò di rispondere alle critiche, ma mosse alle sue difese G. Costanzo, che dette alle stampe una Dissertazione politica in risposta della Lettera di d. Giuseppe Grippa (Catania 1785).
Anche alcuni esponenti del clero cominciarono ad agitarsi e i loro attacchi portarono nel 1784 alla condanna emessa dalla congregazione dell'Indice della Scienza, motivata soprattutto dalle proposte contenute nel libro II di un drastico ridimensionamento dei diritti del foro ecclesiastico e delle ricchezze del clero. In tutta l'opera, fin dalle prime pagine, spirava un sentimento di radicale riforma delle istituzioni della Chiesa che certo non poteva essere bene accetto a Roma. Critiche e censure erano però ampiamente ricompensate per il F. dalla stima testimoniatagli da grandi personaggi come P. Verri, G. R. Carli, I. Bianchi, e in particolar modo da B. Franklin. Con lui il F. tentò di instaurare un rapporto che andasse al di là del formale ma sincero apprezzamento delle reciproche doti intellettuali. Egli comunicò al Franklin i sentimenti amorosi per la promessa sposa Caroline Frendel, il desiderio di emigrare in America con la speranza di divenire ambasciatore delle Sicilie negli Stati Uniti, i suoi tormenti di scrittore.
La prima lettera al Franklin risale all'agosto del 1782 e il F., non avendo ottenuto risposta, riscrisse alcuni mesi dopo un'epistola di alto valore storiografico ed umano. "Io sono un cadetto della mia famiglia, il lustro della quale è molto maggiore delle sue ricchezze. Il barbaro sistema dei maggiorati, e dei Feudi fa, che io sia anche più povero di quel che è la mia famiglia. 2000 lire tornesi formano il mio annuale livello. La mia situazione nella corte è molto onorevole, ma poco analoga al mio carattere. La presenza di un Re, ed il contatto de' cortigiani m'imbarazza, e mi tormenta". Per contro gli Stati Uniti apparivano ai suoi occhi "l'asilo delle virtù, la patria degli eroi, la città dei fratelli". Egli avrebbe voluto partecipare alla stesura del "gran Codice che si prepara nelle Province Unite d'America, le leggi delle quali debbon decidere della loro sorte non solo, ma della sorte anche di tutto questo Nuovo Emisfero". Franklin rispose invitandolo alla prudenza e a valutare con attenzione i rischi che l'emigrazione all'altro lato dell'Atlantico avrebbe potuto comportare. Gli rinnovava comunque la sua profonda stima e si augurava di poter utilizzare gli studi del F. di diritto penale, che sarebbero usciti nel corso del 1783, per redigere il codice criminale della Pennsylvania. Gli inviava inoltre tramite L. Pio, segretario dell'ambasciata del Regno a Parigi, dove Franklin risiedette fino alla conclusione della guerra d'indipendenza, la traduzione francese delle Costituzioni dei tredici Stati dell'America settentrionale, perché il F. li commentasse.
Nel 1783 il F. riuscì finalmente ad abbandonare la carriera militare. Alla morte dello zio Serafino (1782) gli era stata infatti devoluta la commenda costantiniana del priorato di S. Antonio di Sarno con le relative rendite ed egli si era determinato a prendere in moglie la dama ungherese Caroline Frendel (che gli dette due figli, Carlo e Roberto), giunta a Napoli al seguito di Maria Carolina e divenuta istitutrice della secondogenita della coppia reale. Egli decise inoltre di lasciare Napoli (estate 1783), per trasferirsi in una villa alla Cava, in modo da poter studiare e scrivere nel "dilettevole silenzio della campagna". Nello stesso anno vedevano la luce altri due libri della Scienza della legislazione.
Si trattava di un vastissimo affresco della storia del diritto, in cui i principi fondamentali della scienza giuridica venivano esposti in una concatenazione estremamente stringata e logica. Per giudicare la corretta proporzione tra pena e delitto bisognava, secondo il F., valutare attentamente il sistema politico in cui un crimine era stato commesso. Così ad esempio l'esilio dalla patria poteva costituire la pena capitale in un governo democratico ed essere la pena minima in una monarchia, e nello stesso Stato avrebbe rappresentato "una gran pena" per l'aristocrazia e "una pena molto piccola per la plebe". Ma nel confronto con il rigore egualitario del Beccaria il progetto filangieriano appare più condizionato dalla realtà giuridica degli Stati di ancien régime, anche perché fondato su una maggiore attenzione al contesto sia politico sia culturale su cui avrebbe inciso la legge penale. La pena di morte nei paesi "dove la dottrina della trasmigrazione delle anime fosse universalmente ricevuta" avrebbe pertanto provocato, a suo dire, "meno impressione". Nell'analisi delle dottrine giuridiche si inserivano quindi considerazioni di altra natura che preavvertivano quel sensibile mutamento da alcuni definito come passaggio dal neoclassicismo al preromanticismo, o ancora dal meecanicismo newtoniano all'organicismo e vitalismo di G. L. Buffon e D. Diderot e, a Napoli, di D. Cirillo. Era una nuova sensibilità che si stava affermando e richiedeva una più spiccata attenzione antropologica, scientifica e religiosa.
Questo diverso sentire, soprattutto in materia etica ed epistemologica, è espresso nella Scienza della legislazione con grande intelligenza nel libro IV dell'opera, edito nel 1785, dedicato alla pubblica educazione.
Il F. partiva dalla esigenza di formare il cittadino alla virtù ed all'amor di patria, di forgiarne l'animo Per farlo divenire un membro partecipe ed attivo del corpo sociale. I vari gradi di istruzione dovevano seguire l'evoluzione psicologica e la maturazione dell'allievo con un solido programma di impronta scientifica alla cui base era posto l'insegnamento della geometria. Le diverse classi sociali avrebbero dovuto percorrere due distinti sistemi di istruzione, uno per i lavoratori manuali, l'altro per quelli intellettuali. Questa distinzione ha fatto ritenere il progetto pedagogico del F. sostanzialmente classista, ma bisogna considerare che egli proponeva un'istruzione libera e gratuita per tutti e l'istituzione di scuole normali per quelli che, particolarmente dotati e segnalati dai magistrati locali, avessero dimostrato speciali attitudini. I denari per finanziare questa grande iniziativa, che avrebbe in prospettiva sanato il distacco tra masse popolari e illuminati, dovevano essere sottratti agli enormi stanziamenti destinati all'esercito.
Oltre a illustrare le convinzioni pedagogiche del F. - ispirate alla ripartizione suggerita da C.-A. Helvétius delle quattro facoltà fondamentali, percezione, memoria, immaginazione e raziocinio - il libro IV della Scienza dellalegislazione offre spunti di riflessione anche sulle sue elaborazioni più squisitamente epistemologiche. La sua personale ricerca lo faceva oscillare dalla profonda revisione del concetto vichiano da un lato alla polemica con gli enciclopedisti ed in particolare con D. Diderot e J.-B. d'Alembert dall'altro. Il F. aspirava, come scriveva a G. Tomitano nel 1785, e ciò in aperto contrasto con quanto affermato da d'Alembert nel Prospectus dell'Encyclopédie, a fondare una scienza delle scienze dove "tutte le verità hanno un nesso tra di loro; e questa catena di continuo interrotta agli occhi degli uomini è così continuata nella suprema intelligenza della Divinità, che tutto il sapere di essa si riduce ad un principio unico ed indivisibile".
Gli anni che seguirono l'uscita dei primi quattro libri della Scienza della legislazione e il suo grande successo editoriale, di cui sono prova le numerose edizioni (Firenze 1782, Venezia 1782 e Milano 1784) e le traduzioni in francese (1786) e tedesco (1784), registrarono anche una mutata attenzione del F. e dei suoi amici ai destini politici dell'Europa. Andò infatti scemando quel mito americano che aveva acceso gli animi dei radicali del vecchio continente. A questo raffreddamento contribuì lo stesso Franklin con la pubblicazione di alcuni opuscoli, editi anche in Italia, in cui il genio americano avvertiva che la nuova democrazia non era il paese della cuccagna, la Lubberland che molti immaginavano. Anche il F. si era comunque reso conto che il modello americano non era applicabile all'Europa. Il suo progetto politico, di impronta fortemente massonica. che andava in quei frangenti elaborando, come si evince dal libro V, edito postumo, sarebbe passato invece attraverso due distinte fasi: una esoterica, consistente nella selezione di un corpo di eletti nel chiuso delle logge, e un'altra essoterica, attraverso la riforma dell'istruzione pubblica.
Questo programma di sotterranea e graduale rivoluzione da un lato e il crescente fastidio per la corte napoletana, da cui egli non riceveva quei riconoscimenti che gli erano tributati dal mondo dotto e cosmopolita dall'altro, lo spinsero a considerare con favore l'amicizia di un giovane esponente della massoneria tedesca, il danese F. Münter, filologo, teologo ed insigne linguista. Questi giunse a Napoli nel 1785 e l'anno successivo rese visita al F. nella sua dimora di campagna. Lo stesso fecero in quei tempi personaggi della levatura di C. Dupaty e di Goethe, ambedue esponenti di spicco della massoneria, e a loro il F. riferì senza remore la sua disincantata analisi del governo e dell'economia del Regno. Al Goethe e al Münter confidò il suo disprezzo per il dispotismo dei regnanti e il Dupaty poté disegnare sulla scorta dei suoi suggerimenti un affresco veritiero e drammatico dell'amministrazione borbonica, pubblicato poi nelle Lettres sur l'Italie en 1785 (Paris 1788).
Il Münter, affiliato agli illuminati di Baviera, svolse un ruolo centrale nell'intima cerchia degli amici del Filangieri. A Napoli egli aveva stretto amicizia in particolare con D. Tommasi. Fu costui a tenere i contatti tra il circolo filangieriano e l'inviato della massoneria tedesca (spedendo tra il maggio e il dicembre 1786 ben quindici lettere al Münter), il quale lo aveva posto al corrente sulle nuove dottrine che A. Weishaupt propagandava in Germania. Egli riferì probabilmente che, al di là degli ideali comuni dell'uguaglianza e della fratellanza, i tedeschi si stavano orientando verso una concreta azione politica cospirativa, che era giunto il tempo di prendere una decisa posizione contro il dispotismo illuminato e di agire per aprire la strada ad una forma repubblicana.
Anche il F., che pure non compare tra i membri della loggia eclettica fondata dal Münter, fu coinvolto dagli amici nei sotterranei rapporti tra massoni radicali tedeschi ed italiani. Gli fu chiesto, ad esempio, di giustificare un viaggio a Roma del Tommasi agli occhi dei genitori di questo. Gli affari comunque che si dovevano trattare lo interessavano meno dell'importante scoperta che il Münter annunciava a proposito dell'interpretazione dei geroglifici egiziani. Il F. stava infatti preparando il libro V della Scienza, relativo alla religione, in cui dedicò grande attenzione alla ricostruzione degli antichi misteri ed ai culti isiaci.
Nel 1786 sembrarono aprirsi per il F. nuove prospettive in campo politico e amministrativo, visto che nel gennaio il viceré D. Caracciolo era stato chiamato a Napoli per prendere il posto fino allora ricoperto da G. Beccadelli marchese della Sambuca. Fu un momento di grande soddisfazione per gli illuministi meridionali, ma era un'operazione di pura facciata: le garanzie giuridiche dei sudditi, il funzionamento della giustizia, il governo dell'economia erano infatti tutti orientati, secondo recenti ricostruzioni, alla personale soddisfazione dei bisogni della corte.
Il Caracciolo giungeva ormai stanco, affievolito negli anni, e reso più morbido dai duri colpi subiti durante i suoi anni a Palermo. Il suo ruolo istituzionale era stato drasticamente ridotto e la regina Maria Carolina comunicava a Vienna che egli era stato nominato primo ministro solo per l'impossibilità di attribuire subito anche quell'incarico a J.F.E. Acton.
Le mire della regina erano a tutti note, ma il F. in quello scorcio di mesi cominciò a manifestare un rinnovato desiderio di presenza nella vita politica. Aveva deciso, secondo Tommasi, di prendere una casa a Napoli e di abbandonare la campagna. Forse si sentiva vicino alla fine della grande opera giuridico-filosofica a cui aveva dedicato i suoi anni giovanili, ma anche quel leggero cambiamento di clima, determinato dall'arrivo del Caracciolo, lo faceva sperare in una maggiore possibilità di azione.
Quando nel 1787 fu chiamato nel Supremo Consiglio di finanza retto da G. Albertini, principe di Cimitile, il F. non nutriva dubbi sulla situazione che avrebbe dovuto affrontare. Il nuovo impegno non gli prendeva che due giorni alla settimana, poteva così continuare ad occuparsi della Scienza. Malgrado ciò restava forte il suo desiderio di espatriare: "Il nostro Paese" scriveva all'amico Münter "o per meglio dire questa immensa città non è fatta per me. Io vi sarò sempre infelice. La mia vita molto ritirata non mi garantisce dal contatto degli ipocriti e dei malvagi di professione". Che cosa pensasse poi del governo è così esplicito che non lascia dubbi sui sentimenti che lo animavano. La frase suona quasi ad epilogo di questo lungo excursus biografico: "Lo spettacolo dell'impostura e dell'ignoranza costantemente trionfante", egli scriveva "è troppo vicino per poter essere con indifferenza osservato. La Colonia straniera che ci domina e ci disprezza, e che s'ingrandisce e si consolida sempre più, si è assolutamente resa insopportabile più pe' suoi individui, che pel suo Capo...".
Egli ebbe comunque modo di affrontare nel Supremo Consiglio di finanza alcuni temi di rilevante interesse per l'amministrazione del Regno e in particolare scrisse per il suo incarico un interessante opuscoletto, intitolato Parere presentato al re ... sulla proposizione di un affitto sessennale del cosidetto Tavoliere di Puglia. In quei mesi egli stava lavorando anche al libro V della Scienza della legislazione dedicato, come si è visto, alla religione, in cui proponeva una via di uscita al contrasto insanabile tra il libertinismo materialista e l'oscurantismo religioso, tra l'ateismo e la superstizione.
La sua soluzione si basava su una riscoperta delle religioni misteriche dell'antichità, su quei culti isiaci che affascinavano i massoni europei di fine secolo. Il nuovo credo doveva essere fondato su due dogmi: l'idea della Divinità "come complesso di tutte le perfezioni ... [e] di tutti i doveri", e il dogma "dell'altra vita". La religione di cui egli parlava a conclusione della sua opera, quasi manifesto etico-politico per le future generazioni, aveva bisogno, anche per lui, di nobili ed antichi ascendenti e di riconoscersi in una tradizione consolidata. La sapienza arcana dei veteres ribaltava in tal modo, nel circolo partenopeo, il primato dei moderni, caposaldo della prima stagione dei lumi. Le pagine in cui egli espone, in una rapida e dottissima ricostruzione, il passaggio dal politeismo al monoteismo sono colme di citazioni di autori classici: Plutarco, Platone, Cicerone, Luciano, Diodoro, Giamblico, Apuleio. La verità che emerge, con l'autorità degli antichi, è che accanto alla religione popolare, sempre politeista, e esistita una religione per iniziati di diversi spiritualità e spessore. Ma le fitte note che egli dedica al tema sono intessute di continui rinvii e rimandi tra storia e cronaca, secondo un uso diffuso a quei tempi, ed egli sembra nascondere dietro il velo dell'antichità precisi riferinienti al presente: il termine politeismo si può alternativamente leggere nel suo significato corrente o come cattolicesimo, religione dei misteri come latomismo. Tra passato e presente le letture si intersecano, si sovrappongono, come in una stanza degli specchi, dove gli angoli bui prevalgono su quelli illuminati, ma dove il senso finale e l'uscita verso la luce sono evidenti anche per i non iniziati.
La religione verso cui egli intende riportare l'umanità smarrita, altro non è che la versione settecentesca di quella "Prisca teologia", espressione sincretica di ermetismo, di religione egizia e zoroastriana che era stata uno dei fondamenti della sensibilità umanistica e rinascimentale. M. Ficino, G. Pico, Lorenzo de' Medici e un secolo dopo G. Bruno avevano, anche politicamente, mirato all'instaurazione di una nuova religione da alcuni ribattezzata neopagana, che aveva però, in epoche di fortissime tensioni dogmatiche, ben presenti gli sviluppi e gli apporti delle religioni rivelate monoteiste. La tensione religiosa e civile e la ritualità e la simbologia massonica si coniugavano e si riflettevano nella prassi politica, l'iniziazione degli antichi sacerdoti si sarebbe dovuta applicare anche agli adepti del nuovo credo sociale. Il primo compito degli iniziati sarebbe consistito nello screditare la "volgare religione", quella professata dal popolo. Con grande cautela essi avrebbero dovuto rivelare attraverso riti e prove iniziatiche le verità del nuovo culto. Il loro dovere era di "diffondere la luce, cogli esempi", sempre seguendo le istruzioni "regolate dalla occulta mano del legislatore", e spingere quindi il popolo al rispetto dei misteri e a rendere l'iniziazione "voto comune dello Stato e l'iniziato modello di probità e di virtù".
Il momento centrale, in questo progetto di sovversione dei valori dominanti, era la conquista del sistema di pubblica istruzione, che per il F. andava affidato ai soli iniziati per "diminuire per gradi e sotto varii pretesti..., l'influenza ed il potere dei ministri del profano culto".
Si sarebbe trattato di una rivoluzione pacifica, giocata nel segreto delle logge e con metodo settario, ma aborrente la coazione e ogni forma di violenza. Finalmente, quando la parte più autorevole della società avesse adottato il nuovo culto, "allora il misterioso velo sarebbe stato squarciato e il legislatore avrebbe potuto rendere pubblica la nuova religione e dichiararla religione dello Stato e del governo. Il vacillante mostro della superstizione sarebbe a tal punto crollato su se stesso".
La morte del F., avvenuta l'11 luglio 1788 a Vico Equense (od. provincia di Napoli), in una villa appartenente alla sorella, colse tutti di sorpresa.
Ancora si sperava che, dimesso F. Pignatelli dall'incarico di visitatore delle Calabrie, dove si era comportato come un flagello per quelle popolazioni, il F. avrebbe potuto prenderne il posto. La ricostruzione dopo il terremoto del 1783 poteva divenire un'occasione propizia per i radicali e i massoni del Regno. I. Stile, P. Baffi, E. e T. Serrao erano del resto già all'opera ognuno nel suo specifico settore e ci si augurava che in Calabria fosse possibile sperimentare quelle massime e quegli istituti che il F. aveva con tanta cura elaborato nella Scienza.
Il F. restò invece privo di questo riconoscimento e la tensione politica divenne così alta in quegli anni che a distanza di tempo F. S. Salfi, fuggito a Parigi dopo il 1799, suggerendo all'amico P.-L. Ginguené le note biografiche per la Biographie universelle di J.-F. Michaud, gli fece riportare, pur smentendola, la voce diffusa a Napoli secondo cui il F. sarebbe stato avvelenato per ordine di Acton. Il più sentito riconoscimento il F. lo ebbe ancora dai fratelli massoni. "Le logge della dipendenza inglese", scriveva Tommasi a Münter il 14 ottobre 1788, "nel di 20 settembre celebrarono in una gran casa di campagna i funerali di Filangieri". Il Cirillo descrisse con tenerissime parole la struggente malinconia provata durante il viaggio in compagnia di Pagano e di Albanese alla Cava, al capezzale dell'amico; Pagano recitò un epicedio e Tommasi, "tremando", un piccolo poemetto.
Fonti e Bibl.: Il nucleo più consistente delle carte del F. (in parte distrutte nel 1799 e nel 1943) è conservato nella Biblioteca del Museo civico Filangieri a Napoli. Particolarmente preziosi sono i fascicoli riguardanti la Corrispondenza di uomini illustri con il N. H. cav. G. F. seniore, contenuta nel mazzo 28, diviso in due volumi che raccolgono anche documentazione di carattere biografico, e il Catalogo della libreria del cav. d. G. F.,compilato il 29 sett. 1788,dopo la sua morte; le lettere coprono l'arco temporale 1780-1788.
Le epistole del F., inviate a diversi corrispondenti (I. Bianchi, G. Vitto, B. Franklin, M. Delfico, L. Cremani, D. Tommasi, C. Mazzacane, N. Fava, F. Münter, ecc.), vanno ricercate nella Biblioteca nazionale di Parigi (Fonds Italien, 1551, ff. 246-256),nella Biblioteca Ambrosiana di Milano (Mss. Isidoro Bianchi, T.130 sup e 136 sup),nella Biblioteca Moreniana di Firenze (Frullani 40), nell'Archivio di Stato di Firenze (Acquisti e doni, filza 231, ins. 5), nella Library of the Historical Society of Pennsylvania di Filadelfia (Franklin papers), nella Biblioteca nazionale di Vienna (Briefe, XLI, 42), nella Biblioteca nazionale di Napoli (XII C. 85, 7),nell'Archivio di Stato di Teramo (Carte Delfico, III, 24), nella Biblioteca reale danese (Ny. Kgl. Sml., 1698),nella Biblioteca dell'American Philosophical Society di Filadelfia (Franklin papers). Una lettera a C. Mazzacane, datata Napoli 17 sett. 1787, sitrova in U. Valente, Confessioni di due letterati, in Fanfulla della domenica, 17 nov. 1918.Una lettera a G. Tomitano è edita in I verifonti dello scrivere epistolare e le prerogative del perfetto segretario, con eccellenti lettere italiane per la maggior parte inedite, Faenza 1792, I, pp. 260 ss. Un panorama più completo del carteggio si ha con la pubblicazione (Napoli 1997) da parte dell'Università "Federico II" di Napoli dell'Epistolario del F., a cura di E. Lo Sardo (a cui si rinvia per un aggiornato elenco delle opere.
Il panorama bibliografico di questo dopoguerra sull'opera e sulla vita del F. non è molto ricco e non offre opere monografiche; sono stati però pubblicati gli Atti del Convegno G. F. e l'Illuminismo europeo (Vico Equense 1982), Napoli 1991, che contiene scritti di R. Aiello, L. Firpo, R. Feola, G. Galasso, G. Giarrizzo ed altri, dedicati a singoli aspetti e momenti dell'opera e della vita del Filangieri. Un fondamentale lavoro biografico ed esegetico è stato compiuto da F. Venturi, che ha curato nel tomo V degli Illuministi italiani. Riformatorinapoletani, Milano-Napoli 1962, l'edizione di una scelta di passi e di lettere. Nell'Introduzione, oltre ad offrire un lucido e penetrante quadro della vita e opere del F., Venturi dà delle utilissime indicazioni sulle fonti consultate. Di sicuro interesse è anche l'opera di P. Becchi, Vico e Filangieri in Germania, Napoli 1986.
Sull'ambiente politico delle Sicilie alla fine del secolo XVIII e sulla corte di Ferdinando IV e Maria Carolina si rinvia agli scritti di R. Ajello: L'estasi della ragione. Dall'Illuminismo all'idealismo. Introduzione alla Scienza di F. (nel citato volume di Atti del Convegno); I saggi politicidi Mario Pagano ed il loro tempo, in Il Pensiero politico, XXVIII (1995), 1, pp. 17-58, e I filosofi e la regina. Il governo delle due Sicilie da Tanucci a Caracciolo, in Rivista storica italiana, CIII (1991), pp. 398-454, 657-738.
Sui rapporti con la massoneria è di grande rilievo l'opera di G. Giarrizzo, Massoneria e Illuminismo nel Settecento europeo, Venezia 1994.