Gaetano Filangieri
Nella crisi del dispotismo illuminato Gaetano Filangieri elaborò un disegno di trasformazione radicale dello Stato d’antico regime. Il suo costituzionalismo repubblicano si rivelò alternativo al repubblicanesimo di matrice rousseauiana; ma per legare la novità ‘moderna’ della felicità individuale con la ‘virtù degli antichi’, innestò nella costituzionalizzazione dei diritti naturali e della rappresentanza politica un progetto di etica pubblica, realizzabile attraverso l’educazione, i costumi e la riduzione della religione a pratica civile. Il suo pensiero, di immediata fortuna, svolse un ruolo rilevante nella cultura europea e venne riconosciuto come importante anche nella critica esercitata dall’individualismo liberale della Restaurazione.
Nacque a Cercola, vicino Napoli, il 18 agosto 1752, terzogenito degli undici figli di Cesare, principe di Arianello, e di Marianna Montalto dei duchi di Fragnito. L’istituto feudale del maggiorascato segnò il suo destino di cadetto sprovvisto di risorse. Ricevette un’educazione severa nel palazzo avito di Largo Arianello. Se ne occuparono lo zio Serafino, benedettino, professore di fisica sperimentale all’Università di Napoli, ma soprattutto l’ecclesiastico Luca Nicola De Luca. Fu precoce l’avvio al servizio militare e di corte, che lo portò nel 1768 al grado di tenente di fanteria, nel 1777 all’ufficio di maggiordomo di settimana e nel 1778 a quello di gentiluomo di camera. Strinse amicizia con Francesco Mario Pagano, con il quale avrebbe in seguito condiviso la rilettura di Giambattista Vico, l’apertura ai lumi europei e la partecipazione alla complessa vicenda liberomuratoria.
Nel maggio 1772 l’estratto della sua Morale de’ legislatori fu pubblicato nelle «Notizie de’ letterati» di Palermo per iniziativa dell’abate camaldolese Isidoro Bianchi. A questi, e allo zio Serafino, da un decennio arcivescovo di Palermo, il giovane fece breve visita nel 1773. Nel 1774 stampò a Napoli le Riflessioni politiche su l’ultima legge del sovrano, che riguarda la riforma dell’amministrazione della Giustizia. Nel 1780 pubblicò i primi due libri de La scienza della legislazione, che ottenne straordinario successo nella cultura illuministica in tutta Europa. Ferdinando IV gli conferì la commenda del Real ordine costantiniano, ma già nel 1782 lo attaccò, in nome della nobiltà feudale, Giuseppe Grippa, con la Lettera diretta al cavaliere Filangieri, e di nuovo due anni dopo in La scienza della legislazione sindacata. Nel 1782, alla morte dello zio Serafino, il re gli trasferì il beneficio del priorato di Sant’Antonio di Sarno, e nel 1783 gli permise di lasciare la corte.
Sposò la dama ungherese Charlotte Frendel, del seguito della regina Maria Carolina d’Asburgo, amica del naturalista ed esponente massonico Ignaz von Born. Ebbero a figli Carlo, Roberto e Adelaide. Ritiratosi a La Cava (oggi Cava de’ Tirreni), assicurò nel 1783 e nel 1785 la stampa di altri due libri della Scienza, il cui successo, segnato dalle riedizioni in Italia (Firenze e Venezia 1782, Milano 1784), e dalle prime traduzioni (in tedesco nel 1784, in francese nel 1786), fu invano contrastato dal divieto dell’Indice (1784). Fino all’Ottocento se ne conteranno 40 edizioni italiane, 28 in lingue straniere, fra le quali russo, olandese, danese e svedese.
Filangieri riceveva numerosi viaggiatori europei e, in particolare, in clima massonico, Friedrich Münter, Charles Dupaty e Johann Wolfgang von Goethe. In un’effimera ripresa del riformismo, di lui si parlò come possibile successore al ‘tanucciano’ Domenico Caracciolo, asceso alla Segreteria di Stato, nella carica di viceré di Sicilia. La nomina nel 1787 nel Supremo consiglio delle finanze lo distrasse dalla redazione del quinto libro della Scienza, edito incompiuto e postumo nel 1791. La morte prematura, l’11 luglio 1788 a Vico Equense, gli impedì il completamento dell’opera. Le esequie massoniche ebbero anche significato politico. L’Elogio storico del cavaliere Gaetano Filangieri, pubblicato dal discepolo Donato Tommasi nel 1788, aprì la via alla memoria.
La formazione di Filangieri fu alimentata dai filoni scientifici e filosofici rinnovati dal magistero genovesiano. Di Antonio Genovesi Filangieri assorbì la lezione, e l’istitutore De Luca gliene trasmise il culto, intrecciata con lo studio di Platone e dei platonici moderni, di Shaftesbury, di Mably, in un contesto fra il massonico e il giansenistico. Filangieri non rappresentò solo l’esperimento, ma l’occasione teorica della pedagogia del De Luca, che in un commento all’Ecclesiaste (Napoli 1777) ritrae in un ascetico allievo, devoto al pubblico bene, di nome Filandro, il figlio del principe di Arianello, prototipo di un progetto educativo filantropico. È questo il giovane di vent’anni di cui il suo amico Bianchi – irrequieto camaldolese, dalle letture poco ortodosse, e aderente alla massoneria, convinto potesse ben conciliarsi con il cattolicesimo – pubblica nelle «Notizie de’ letterati» l’estratto di una dissertazione sulla Morale de’ legislatori. Questa primizia, maturata in un preciso ambiente, conteneva in nuce e in parte il piano della futura Scienza della legislazione.
Il 26 luglio 1773 Andrea Serrao, fra i migliori allievi di Genovesi e il maggior interprete della scuola regalistica, raccomandò al Bianchi il «signor cavalierino Filangieri», in arrivo a Palermo in visita allo zio arcivescovo (Venturi 1962, p. 606). Nella città si discuteva vivacemente la letteratura illuministica e radicale e, poco dopo la partenza del giovane Filangieri, nel settembre, vi scoppiò la sollevazione popolare nella quale monsignor Serafino diede prova delle sue capacità politiche. Fra Gaetano e il Bianchi si sviluppava intanto una corrispondenza dalla quale emergeva la comune opposizione a Jean-Jacques Rousseau circa il danno del progresso civile e scientifico alla condizione umana. Bianchi aveva cominciato a pubblicare nel 1772 le proprie Meditazioni su vari punti di felicità pubblica e privata, un disegno di riforma politico-morale, e sociale e agraria, antagonistico rispetto a Rousseau, ma combinante la riflessione di Mably con istanze di giustizia a tinte platonico-cristiane. A partire dalle successive edizioni il saggio sarà integrato da un capitolo Delle sedizioni, dettato dall’insurrezione del 1773 e improntato a repentino sussulto conservatore; in quella del 1799 conterrà un riferimento alla lontana visita dell’ormai defunto Filangieri, con il quale l’abate aveva conservato profonda consonanza. Tornato a Napoli, il giovane gli aveva chiesto una relazione sulla rivolta che aveva fatto vacillare la fede nel già claudicante riformismo tanucciano.
La prima vera uscita di Filangieri costituì una conferma di credito verso un uomo al crepuscolo: le citate Riflessioni politiche. Il 23 settembre 1774 Ferdinando IV aveva obbligato con legge la magistratura a porre fine all’epoca del rito opaco e imperioso della giustizia. La nuova direttiva era di dare pubblica motivazione delle sentenze, delle quali veniva regolata la distribuzione a stampa fra le parti, e di applicare le leggi nella loro purezza letterale, astenendosi dalle interpretazioni dottrinali. L’iniziativa aveva per sfondo il conflitto, in Francia, tra la corona e il Parlamento di Parigi, roccaforte della noblesse de robe, e le polemiche anche italiane contro l’arbitrio dei forensi, ed esprimeva l’impegno di Bernardo Tanucci per il principato assoluto e la certezza del diritto. Di fronte alle reazioni polemiche del ceto giudiziario, Filangieri lesse l’episodio come la manifestazione dell’influenza della filosofia dei lumi sul governo.
Le Riflessioni sono dedicate a Tanucci come all’«Uomo destinato dalla Provvidenza ad illuminare una Nazione co’ suoi talenti» (Riflessioni politiche, rist. anast. 1982, p. IV). È ripreso un processo di rinnovamento che ha nella filosofia la luce, nella pubblica opinione il motore e il beneficiario, nella corona e nei suoi ministri gli artefici. Non era che la conseguenza del carattere «moderato» e non «dispotico» conquistato dalla monarchia napoletana. «Nei Governi dispotici gli Uomini commandano, nei governi moderati commandano le leggi»; pertanto «l’arbitrio giudiziario, è quello che si cerca d’estirpare», poiché rende i giudici «superiori alle leggi»; nel Regno vi sarebbe «un corpo di despoti», ove si permettesse ai magistrati di decidere con formule non verificabili, e sarebbe dispotismo «peggiore del dispotismo assoluto» (pp. 9-11, 26). Filangieri prende le distanze dal tradizionale costituzionalismo cetuale: i privilegi dei corpi intermedi, il ceto togato in questo caso, non sono più pensati come presidii di libertà rispetto al potere del re, espressione di sana costituzione ‘materiale’, radicata nello spirito patrio e nel consenso storico, ma come ostacoli a una giustizia dinamica, certa e davvero equa, giacché rispondente a istanze sociali controllate con pubblici strumenti.
Anche gli uomini della Provvidenza possono cadere. A Tanucci accadde nel 1776. La sua politica non rispondeva agli interessi austriaci, rappresentati dalla regina Maria Carolina, che aveva rafforzata a corte l’influenza della massoneria della Stretta osservanza, contro quella di rito inglese. Tanucci inciampò così nella questione massonica. Le logge, non sradicate dalla reazione del 1751, dimostravano, come in Europa, maggior fermento politico. Vennero proibite da Ferdinando IV il 12 settembre 1775, e Tanucci fece di tutto per scoprirne una. Fu accontentato, ma restò vittima di una provocazione che gli costò il potere. I massoni brindarono alla regina di Napoli, mentre Tanucci denunciava in una sua lettera il loro «veleno», ormai circolante anche nei caffè, nei salotti delle dame e nei conventi.
Dell’iniziazione di Filangieri non c’è prova diretta, ma si sa che egli frequentava il circolo di Antonio Di Gennaro, insieme a Pagano e ad altri ‘fratelli’, come Domenico Cirillo, Domenico Cotugno, Francesco Longano. La Rivoluzione americana (di cui erano ambasciatori massoni radicali, da Richard Price a Thomas Paine, da Benjamin Franklin a Jean-Antoine Gauvin Gallois, nella loggia parigina Les neuf sæurs di de Lalande, Mably e Voltaire, di Charles Dupaty e Claude Pastoret) faceva nascere il dubbio se si dovesse ancora e solo collaborare alle riforme, illuminando il ‘despota’, o aprire la via a un ordine nuovo. Filangieri avrà in Gauvin Gallois il traduttore in francese della Scienza; in Franklin, Dupaty e Pastoret i propagandisti del suo pensiero.
Non sono tali solo le logge, ma lo studio di Filangieri, che assicurando con forma inappuntabile l’adempimento dei doveri militari, si ritaglia una doppia vita. In quella segreta, compone una nuova opera, che esamina i problemi della società, non solo napoletana, e porge soluzioni. Il suo epistolario e l’Elogio storico di Tommasi restituiscono un uomo dedito al più alto e logorante sacrificio personale, che ripara quando può in una scrittura appartata, da cui escludeva il vecchio istitutore De Luca, per i suoi scrupoli di prete; questi, creato vescovo di Muro, e spedito in provincia, non gli fu infine di ostacolo. Dicendo della stesura dei primi libri della Scienza, Filangieri raccontava a Bianchi il 19 settembre 1780:
[Mons. De Luca] vegeta come un prelato […]. Io debbo alla sua assenza la riuscita del mio libro. […] Quest’amico mi avrebbe sicuramente denunciato all’arcivescovo mio zio, se avesse letti i miei libri scritti. Se sapeste con quanto mistero, e con quale riserbo ho dovuto stampare la mia opera, voi sareste più sorpre[so] di questo, che non lo siete dal libro istesso (cit. in Lo Sardo 1999, p. 192).
E l’8 gennaio 1785, a parziale consuntivo di un’impresa proseguita al riparo dalla corte, ma non ancora terminata, e che lo avrebbe debilitato, confidava a Giulio Tomitano:
Pochi giorni della mia vita posso contare di aver travagliato meno di undici ore. Qualche volte delle settimane intero sono passate nel più rigido silenzio ed in un lavoro non interrotto che dalle poche ore destinate al sonno e da pochi momenti destinati al cibo (cit. in Lo Sardo 1999, p. 266).
Comeché fosse in mezzo al rumor della corte, ed obbligato a seguire il re […] non tralasciava un sol giorno di progredire nel suo sublime lavoro […]. L’istesso Corpo di guardia diveniva sovente il suo gabinetto di studio (D. Tommasi, Elogio storico del cavaliere Gaetano Filangieri, 1788, in G. Filangieri, La scienza della legislazione, ediz. 1807, t. 1, pp. XXXVII e seg.).
Il catalogo della sua biblioteca, stilato il 29 settembre 1788, documenta l’ampiezza dei suoi interessi. Vi troneggia l’Encyclopédie, e vi si trovano i titoli delle opere di Vico, di Samuel Pufendorf, di Ludovico Muratori, di Genovesi e dei suoi scolari; la letteratura scientifica, con l’edizione delle opere di Galileo Galilei del 1744, che aveva vacillato nelle mani della censura; e John Locke, Montesquieu, Buffon, Condillac, Rousseau, Claude-Adrien Helvétius, Voltaire, Mably, David Hume, Jean-Baptiste d’Alembert, Denis Diderot, Mirabeau, Holbach; ma anche Roberto Bellarmino e Jacques-Bénigne Bossuet, e scritti di teologia e storia religiosa, inclusi i commenti biblici del De Luca e le parabole commentate nel 1782 dall’abate, massone e poeta Antonio Jerocades; e naturalmente Pietro Giannone, Cesare Beccaria, Pietro Verri. E ancora, Georg Ludwig Schmidt d’Avenstein, e Raynal, Linguet e Chastellux.
Filangieri era nel solco della scuola napoletana di filosofia politica, come riconoscerà Pierre-Louis Ginguené nella voce dedicatagli nella Biographie universelle (1811-1828): la reimpostazione ‘storica’ del giusnaturalismo, operata tra Vico, Gian Vincenzo Gravina, Genovesi, ma alimentata dal confronto con i lumi europei, anche negli sviluppi più radicali. Quello di Rousseau venne abbracciato nel 1778 da Francesco Paolo Di Blasi, destinato a morire sul patibolo a Palermo nel 1795 per cospirazione.
Contro Rousseau, Filangieri rinnovò la reazione di Genovesi, ma si divise da Francescantonio Grimaldi – guardato con freddezza anche nella comunanza massonica – per il rivendicato realismo storico-politico della sua teoria dell’ineguaglianza morale, che si ancorava a Niccolò Machiavelli, e che venne fuori in quel 1779 nel quale un altro allievo di Genovesi, Giuseppe Maria Galanti, di Machiavelli pubblicava l’Elogio. Nella scuola genovesiana, come nel mondo latomistico, emergevano divisioni fra chi davanti all’uguaglianza naturale faceva l’apologia della storia, e chi, come Filangieri, respingeva il ‘buon selvaggio’, ma incaricava il diritto e la politica di grandi trasformazioni.
Nella Scienza della legislazione Filangieri si contrappone a Montesquieu e al costituzionalismo cetuale tanto nel rilievo accordato al mutamento costituzionale, quanto nella revisione della teoria dei corpi intermedi quali contrappesi al potere del monarca. La Scienza si apre tuttavia non sull’astratta teoria dello Stato, ma su una vasta scena geopolitica, con una requisitoria contro le potenze europee, davanti alla grandiosa novità della Rivoluzione americana. Questa rappresenta per Filangieri il più fecondo avvenimento nella storia recente, e innerva la sua riflessione attraverso le principali note della costituzionalizzazione dei diritti naturali e della rappresentanza politica. L’esempio delle repubbliche nordamericane, che stilano codici dei diritti dei cittadini e delle leggi fondamentali, appanna il vecchio repubblicanesimo, il mito delle poleis greche, e quello delle repubbliche italiane; conforta la rottura con il tema della ragion di Stato, e con il costituzionalismo consuetudinario, nel quale ‘costituzione’ non è che la somma delle leggi ordinarie e degli usi istituzionali. Filangieri non è solitario nella percezione della frattura, la cui consapevolezza è trasmessa anche dalla massoneria, nell’inclinazione che certi suoi filoni esprimono a prolungare nel mondo profano la sua struttura di kleine Gesellschaft – come la chiamava Gotthold Ephraïm Lessing –, che si organizza su base costituzionale, per gerarchia egalitaria, di soli talenti e virtù, e per emendazione dell’uomo.
La corsa europea agli armamenti – volta a «trovar la maniera di uccidere più uomini nel minor tempo possibile» (La scienza della legislazione, 1° vol., ediz. 20042, p. 11) – è lo strumento di una politica imposta dalla rapacità dimostrata per due secoli nelle Americhe, prima che i coloni inglesi, ribelli al servaggio della madrepatria, le svegliassero. La denuncia dell’«avarizia ardita ed insaziabile» manifestata dagli Stati europei nel Nuovo Mondo (p. 71), e della loro connessione con le storture della società d’antico regime, era già stata fatta in vario modo da Paolo Mattia Doria, Rousseau, Helvétius, Beccaria, Raynal. Filangieri la rinnovò con indignazione. Se il cristianesimo avesse continuato a temperare gli europei, questi non avrebbero proscritto la schiavitù nelle loro terre per stabilirla in Africa e di là dell’Atlantico. Il genio dominante del tempo è uno «spirito di permuta e di commercio» (p. 136), che facilmente trasmoda in irrazionale cupidigia. Il mercantilismo ha rovinato Spagna e Francia, in vantaggio dell’Inghilterra, il cui modello di governo ‘misto’, celebrato da Montesquieu e presentato come monarchia ‘repubblicana’, non è però più tale quasi per nessuno. Si fonda sull’errore della suddivisione della sovranità fra re, nobiltà e popolo. La segreta influenza che il primo esercita sul Parlamento, la corruzione elettorale, l’assenza di una Costituzione e una legislazione incostante, l’indifferenza per l’educazione morale rendono quello inglese un sistema pericolante verso il dispotismo.
Se le colonie ribelli si manterranno libere, tutte le Americhe diventeranno indipendenti dall’Europa, e questa dovrebbe cedere ad altri lo «scettro» (p. 60): sarà raccolto dall’Impero russo, investito dalla politica illuminata di Caterina II? O piuttosto dalle repubbliche nordamericane? Fra queste si staglia lo Stato democratico della ‘Pensilvania’ (Pennsylvania), che si mostra al mondo come «la patria degli eroi, l’asilo della libertà, e l’ammirazione dell’universo» (p. 129). La democrazia si realizza tuttavia «perfetta», dicono Montesquieu e Rousseau, solo «in un piccolissimo stato» (p. 96). Ma quella è la democrazia ‘diretta’, l’inapplicabile autogoverno delle poleis antiche. La Rivoluzione americana dimostra invece che se
la repubblica s’ingrandisce, se dopo d’essere stata una città diventa una nazione […] ciascheduna città, ciaschedun villaggio deve nominare i suoi rappresentanti, i quali eserciteranno il potere legislativo in nome del popolo (p. 94 nota).
Inoltre, se la preminenza del bene comune, la frugalità e l’eroismo caratteristici della ‘libertà degli antichi’ cedono il passo al commercio e all’opulenza privata – la ‘libertà dei moderni’ –, è anche vero che proprio l’America, matrice di Stati liberi, ma religiosi e moralmente vigorosi, e capaci di ricchezza, potrà additare una via, e imporre la propria egemonia. «In un angolo dell’America, presso un popolo libero e commerciante» (p. 139) si leva una voce: «il vigore della gioventù, accoppiato al sentimento della prosperità, ci renderà gli arbitri del destino dell’America e della sorte dell’Europa» (p. 141). Era la base del nuovo mito: che si potesse «introdurre la virtù» degli antichi «fra la ricchezza de’ moderni».
Tutto va mutato. Deve superarsi la Costituzione solo materiale delle monarchie, trasformandole in monarchie costituzionali, almeno di fatto, attraverso la creazione di una pubblica opinione libera e capace di condizionare la legislazione. Nel libro IV la dirà simile a un «tribunale», «che è più forte de’ magistrati e delle leggi, de’ ministri e de’ re», e che
dimostra che la sovranità è costantemente e realmente nel popolo, e che non lascia in certo modo di esercitarla, malgrado qualunque deposito che ne abbia fatto tra le mani di molti o d’un solo, d’un senato o d’un re (4° vol., pp. 359 e seg.).
Il suo fondamento è il diritto inalienabile alla libertà di pensiero; il suo strumento la libertà di stampa.
In ogni Stato che non sia dispotico, la Costituzione, scritta da un potere costituente distinto dal legislativo, fondata sul patto sociale e sul riconoscimento dei diritti naturali (vita, libertà, proprietà, onore), che non solo la ragione, ma anche la Rivelazione mosaica presentano, deve essere preservata; negli Stati rappresentativi, a salvaguardia dalle mutevoli influenze parlamentari, sarà modificata solo per unanime voto. Le leggi ordinarie date dal legislativo devono essere invece aggiornate rispetto al vichiano ‘corso delle nazioni’, al progresso delle necessità, dei lumi e dei costumi di ciascun popolo, grazie all’istituto della ‘censura delle leggi’, «distinguendo l’armonia che deve avere la legge coi princìpi della natura, dal rapporto che essa deve avere collo stato della nazione alla quale si emana» (1° vol., p. 22). Altro istituto, l’eforato, destinato a sviluppo nel pensiero di Pagano, veglierà sull’equilibrio tra i poteri.
Bisogna riformare i tribunali e le loro procedure, passando dall’iniquo sistema inquisitorio a quello accusatorio, e il sistema scolastico, l’istruzione morale, la religione. Devono essere rimossi gli ostacoli che impediscono lo sviluppo del legame fra popolazione e ricchezza. Sarà abolito il sistema feudale e i feudi saranno convertiti in libera proprietà alienabile; ma verrà ridotto il divario fra proprietari e non proprietari, e fra grande e piccola proprietà: «Lo stato presente delle nazioni dell’Europa è che il tutto si ritrova fra le mani di pochi. Bisogna fare che il tutto sia fra le mani di molti» (2° vol., p. 41). Lo Stato resterà alieno da «soverchia negligenza», come da «soverchia vigilanza», capace di promuovere agricoltura, manifattura e scambi, ma non sarà protezionista, poiché «il commercio vuole che tutte le nazioni si riguardino come una società unica» (p. 162).
Filangieri confida nei «filosofi di tutte le nazioni», e li rianima (1° vol., p. 18). Le monarchie hanno dovuto bandire «nella più gran parte dell’Europa l’anarchia feudale ed i costumi hanno indebolito il dispotismo»: nessuna riforma sarebbe riuscita senza la lotta alla feudalità e una relativa libertà di critica. Con essa, ha proceduto quella alla «superstizione»: «la filosofia è venuta in soccorso de’ governi» nel combattimento contro l’oscurantismo, inducendo la religione a tornare a essere «la base delle virtù sociali» (pp. 12, 14 e seg.). Se la filosofia sarà inefficace, la «rivoluzione» potrebbe non essere «pacifica» quanto si spera. La «gran chrisi» paventata da Genovesi potrebbe affrettarsi. «Montesquieu, ha ragionato piuttosto sopra quello che si è fatto, che sopra quello che si dovrebbe fare»; Filangieri salda invece «la teoria alla pratica», e cerca «le regole di quello che si deve fare» (pp. 18 e seg., 23).
Il successo dei primi due libri fu immediato. Filangieri spedì l’opera a Pietro Verri, che così ne scrisse al fratello Alessandro, il 5 luglio 1780: «Ha testa grande, ha sentimenti grandi, ha un ammasso di cognizioni e fa un’opera che fa onore all’Italia. Leggila»; e il 26 agosto ringraziava l’autore in nome del «patriottismo italiano». La Biblioteca Ambrosiana custodisce l’esemplare recapitato a Beccaria. Il 1° luglio 1780 Pietro Rottigni scrisse a Filangieri, in merito al libro, che «il nostro arciduca, conte di Firmian, conte Verri, conte Beccheria, presidente Carli, tutti lo hanno accolto colle più graziose dimostrazioni d’aggradimento». Giovanni Bonaventura Spannocchi trasmise a Filangieri (attraverso Bianchi, che del pari lo incoraggiava, e gli riferiva dello sguardo che alla Scienza aveva gettato l’imperatore Giuseppe II, e dell’interesse degli ambienti massonici lombardi) l’espressione della sua ammirazione, per aver annunciato «una revoluzione di idee» che non aveva pari in Italia. Giuseppe Maria Colle gli raccontò il 24 luglio 1782 che a Milano si era bevuto alla sua salute davanti a un suo ritratto (cfr. Venturi 1962, pp. 620-22). Due anni dopo appariva la prima edizione milanese della Scienza, preceduta nel 1782 da quella veneziana. Le recensioni delle «Novelle letterarie» aprirono la via all’edizione fiorentina.
Ma Filangieri doveva indossare una maschera. In una nota a piè di pagina egli riconosceva di
vivere in un paese ove il più umano de’ re, unito a’ più zelanti ministri, cercano co’ loro sforzi vigorosi di liberare lo Stato dagli antichi flagelli (La scienza della legislazione, cit., 2° vol., p. 56 nota).
Il 3 febbraio 1781 confidava a Domenico Pepe di credere che i «progressi della pubblica istruzione» spingano i sovrani a combattere la «pianta barbara» dell’oppressione feudale (cit. in Lo Sardo 1999, p. 201). Ma un anno dopo ammetteva con Giuseppe Pignatelli di essere giunto a ritenere che per
conoscerli bisogna allontanarsi dalla regia incantata dove il bastone del tiranno simile alla verga del mago metamorfizza gli oggetti, che gli si presentano, e dà allo schiavo l’aspetto dell’eroe, ed all’eroe quello dello schiavo (p. 222).
E il 28 novembre 1782 scriveva invece a Luigi Cremani:
la noia che mi cagiona la vicinanza d’un re ed il contatto de’ cortigiani toglie al mio spirito la metà della sua energia ed al mio cuore due terze parti della sua sensibilità (p. 235).
La lettera con cui, il 24 agosto 1782, aveva accompagnato la spedizione di alcune copie della Scienza – inoltrate attraverso Luigi Pio, segretario dell’ambasciata napoletana in Francia – a Franklin, plenipotenziario a Parigi delle Repubbliche nordamericane, documenta l’ampiezza delle relazioni entro le quali diffondeva la sua opera, e accenna allo spirito cui era pervenuto. Egli ha un «arcano» da rivelare allo statista americano, quando avrà il «giudizio» che quegli vorrà dare circa la sua opera (p. 232). Il 2 dicembre lo svela: vorrebbe lasciare Napoli, «paese corrotto dal vizio e degradato dalla servitù», alla volta delle «Provincie Unite d’America», con il pretesto, davanti alle autorità, di andare a collaborarvi da giurista; non si tratta solo di ripugnanza per il suo ambiente, ma di scelta politica:
giunto, che sarei in America, chi potrebbe più ricondurmi in Europa! […]. La mia anima abituata alle delizie d’una libertà nascente, potrebbe essa adattarsi più allo spettacolo d’un’autorità onnipotente depositata nelle mani d’un sol uomo? Dopo aver conosciuta ed apprezzata la società de’ cittadini, potrei io desiderare il consorzio de’ cortigiani e degli schiavi? (pp. 237-38).
Il disegno, anche a causa delle perplessità di Franklin, non fu attuato. Ma il rapporto tra i due rimarrà molto intenso. Più tardi Franklin suggerirà a Filangieri di farsi nominare ambasciatore presso gli Stati Uniti e gli farà avere un esemplare della Costituzione federale, che Filangieri rispedirà con le sue osservazioni a margine, purtroppo perdute.
Dal 1783 Filangieri ottenne dal re almeno il permesso di ritirarsi a La Cava per completare la Scienza, di cui uscirono, con l’aiuto di Tommasi, i libri III (1783) e IV (1785). Consapevole delle «perseuzioni» alle quali potrebbe esporsi, la sua perorazione della comprensione del re – nel quale spera di trovare «un difensore» – suona piuttosto singolare, stante il suo relativo isolamento rispetto al governo, sempre più corrotto e militaresco, dietro la cortina di un riformismo appena esibito. Filangieri affrontava il nodo del passaggio dall’eversione della giustizia feudale alla costruzione di una monarchia «regolare», non più fondata sulla feudalità, che è un abuso della sovranità. All’aristocrazia ereditaria dovrebbe essere demandato un ruolo consultivo; la monarchia dovrebbe avere in magistrature non ereditarie, selezionate per talento, depositarie della facoltà esecutiva, l’«unico freno contro gli abusi dell’autorità del monarca», sradicandosi lo «smembramento» della «sovranità» tra i feudi (La scienza della legislazione, cit., 3° vol., pp. 160, 171-85). La confutazione della monarchia feudale conduce Filangieri, sulle tracce di Locke, diffuso a Napoli nell’interpretazione repubblicana e costituzionalistica presentata dalla massoneria olandese, verso un’idea di monarchia rappresentativa, che attribuisce al consenso popolare la vera legittimazione:
il re è egli proprietario assoluto, o semplice ammininistratore della sovranità? […]. Ancorché la forza l’abbia fatto salire sul trono, ancorché i suoi titoli sieno quei della conquista, senza il posteriore consenso del popolo egli non sarà mai il sovrano dello stato, egli ne sarà l’inimico […]. Il popolo, tra le mani del quale è inalienabilmente la sovranità, è il solo che possa legittimarne l’esercizio nella persona dell’amministratore, che noi chiamiamo re e monarca (pp. 180 e seg.).
Il tema evidenzia l’attrazione di Filangieri per la democrazia, inizialmente non presentata come in sé migliore della monarchia e dell’aristocrazia, purché queste garantiscano i diritti naturali. Democrazia il cui carattere censitario Filangieri prescriveva non solo dicendo del diritto di voto, ma anche del diritto di accusa e di giudizio nel foro, riservati a chi non vende il lavoro delle braccia e sia proprietario di qualche bene; e che si conferma nel progetto educativo a sfondo platonico esposto nel libro IV. Qui, e non solo, lo sguardo di Filangieri verso la ‘libertà degli antichi’ si avverte molto deciso.
La tutela costituzionale dei diritti naturali e l’esercizio della rappresentanza nelle grandi comunità non esime, anzi rafforza la domanda di ‘virtù’, di un’etica che sviluppi uniforme zelo per la patria e per la gloria comune. Egli concepisce un sistema di educazione pubblica, pur facoltativo, salvo che per gli orfani, per i quali sarà obbligatorio; e vi ripartisce la popolazione in due classi, «coloro che servono, e potrebbero servire la società colle loro braccia», e «coloro che la servono, o potrebbero servirla co’ loro talenti». Filangieri disegna per i primi un percorso vegliato da laici «custodi», responsabili dell’educazione dai cinque ai diciott’anni, muovendo dall’alimentazione, dall’igiene e dall’esercizio fisico per giungere all’istruzione sufficiente all’esercizio di arti e mestieri, e approdare all’istruzione morale. Pur impartita dallo Stato, questa ha anche carattere religioso, poiché deve sottrarre gli scolari alle «false massime di morale e di religione», inculcando «la più semplice e la più augusta idea della Divinità», trascendente e creatrice, spirituale ed esigente dall’uomo amore e venerazione. D’altra parte, fino a quando la non perfetta coincidenza degli «interessi del sacerdozio con quelli della società e dell’impero» non sarà stata raggiunta, risulterà «pericoloso» mettere il clero a parte «della pubblica educazione» (4° vol., pp. 26 e seg., 72, 99, 200). I fanciulli della seconda classe, cui si uniranno gratuitamente quei giovani di modeste origini che dimostreranno attitudine, non saranno educati a spese dello Stato, ma dallo Stato con onere per le famiglie. La loro formazione, anche morale e religiosa, sarà completata in collegi preparatori alle professioni intellettuali. Se nella prima classe l’educazione morale ripara all’inclinazione verso superstizione e viltà, fomentata dalla presentazione del cristianesimo come religione del sacrificio piuttosto che della misericordia, dell’indegnità dell’uomo piuttosto che della sua eccellenza naturale, nella seconda verrà centrata sul contrasto dell’orgoglio per lo sviluppo della compassione. Dal piano educativo statale non sono esclusi i sacerdoti, cittadini investiti della pubblica responsabilità della religione.
Il libro III, sulla riforma delle leggi criminali, aveva guadagnato a Filangieri ancor più ampia risonanza, ma anche attacchi vieppiù accaniti dei difensori dell’antico regime, e la proibizione dell’opera sua da parte della Chiesa (dicembre 1784). L’Indice di Spagna avrebbe vietato nel 1790 l’edizione veneta e il libro IV, oltre che la traduzione spagnola del 1787. Nel 1826 il divieto romano sarà esteso ai libri successivi. Ma la diffusione è inarrestabile: «la massoneria europea moltiplica traduzioni e edizioni della Scienza della legislazione» (Rao 2006, p. 540). Friedrich Johann Lorenz Meyer ne ritrae l’autore come eroe incorruttibile del pensiero nelle Darstellungen aus Italien del 1792: ritratto destinato nel 1798 a traduzione francese in «Le spectateur du Nord» (rivista stampata ad Amburgo) di Amable de Baudus, e russa nel «Sankt Peterburgskij žurnal» (Il giornale di San Pietroburgo) di Ivan Pnin. Nel 1791 il massone Johann Heinrich Bartels diffuse analoga immagine nei Briefe über Calabrien und Sizilien: nella letteratura del grand tour il filosofo diventava simbolo del progresso difficile dei lumi in una società arretrata.
Da Napoli, Pagano, Filangieri e altri guardavano intanto all’illuminatismo, massoneria alternativa all’Osservanza ‘templaristica’ austro-tedesca, spiritualistica e filoassolutistica, a Napoli legata a Maria Carolina. L’ordine degli Illuminati di Baviera era stato fondato nel 1776 da Adam Weishaupt, con un disegno antifeudale, antigesuitico, antitirannico, finanche a tinte comunistiche. Aveva fra gli adepti Johann Gottfried von Herder e Goethe, ma scontava divisioni interne e persecuzioni poliziesche, che nei territori tedeschi e asburgici riguardarono tutta la massoneria. Nel 1785 Giuseppe II metteva le logge sotto il controllo governativo, mentre gli Illuminati venivano perseguitati in Baviera. Il loro inviato, il danese Münter, arrivò a Napoli il 1° settembre 1785. Frequentò Filangieri, Pagano, Tommasi, Jerocades. Pagano si affiliò all’ordine, come Nicola Pacifico, Giuseppe Zurlo e Tommasi, attivi nella diffusione del nuovo verbo. Non risulta un’iscrizione di Filangieri, ma appaiono confidente il suo atteggiamento verso Münter e certa l’intesa nel giudizio sul «dispotismo che vanno applicando i regnanti» (Becchi 1986, p. 127).
Il travaglio della massoneria coincise con la stesura del libro V, sulla religione. L’interesse per la problematica si collocava all’esito di grandi tradizioni italiane, e non solo (da Thomas Hobbes a Locke): il ruolo della religione nella fondazione e nella conservazione dello Stato, da Machiavelli a Giordano Bruno, da Tommaso Campanella a Vico; e l’istanza genovesiana di una nuova teologia morale e civile, che aiutasse a superare lo scontro fra l’irreligione dilagante nei ceti superiori e l’immorale superstizione che irretisce gli inferiori. Esso risente dell’incertezza febbrile e polemica del momento massonico internazionale, segnato da contrasti di scopo politico e da crisi identitaria, tra ‘illuministi’ e ‘templari’, tra Aufklärung e Schwärmerei: se debba la massoneria essere forza antireligiosa e scientista, o se possa conciliare scienza e religione; se debba coltivare un’etica razionalistica e un disegno emancipatore, una religione dell’umanità sublimante le religioni rivelate, come voleva Lessing; o un’elitaria religione della natura, aggiornando vecchie mistiche e panteismi magici, tenendosi estranea nel segreto alla schernita religione popolare; o ancora se non possa valersi, facendo luce sul suo mitico passato, delle sue ‘origini ebraico-cristiane’, delle tradizioni gnostiche, per riscrivere il cristianesimo, sottraendolo alle Chiese, o ricucendo le diverse confessioni, e facendolo compatibile con l’ammodernamento degli Stati. Il fermento era europeo, il disagio di tutti i riti, le risposte tentate, molteplici. Nel 1786 Bianchi pubblicò sotto pseudonimo Dell’instituto dei veri liberi muratori, apologia della ‘rispettabile società’ in tempi di persecuzione, e della convergenza tra la filantropia massonica, tutta morale e ‘apolitica’, e un cristianesimo di matrice gnostica.
Nel Piano ragionato dell’opera Filangieri ha già rappresentato la religione come un ‘freno’ sociale integrativo di quello legislativo, ma soprattutto come un comando di virtù, un controllo delle azioni ‘occulte’ e dei pensieri ‘segreti’ del cittadino, che sfuggono alla vigilanza dello Stato; una possibilità di incremento delle sue doti morali, quando non degeneri in superstizione o non provochi irreligione. Nel libro IV ha annunciato che il sacerdozio deve concorrere al bene civile, e ha descritto l’educazione religiosa minima che lo Stato deve impartire; ma l’impegno ravvicinato sul tema appare superiore al previsto. Studia le Scritture, i Padri, la storia delle religioni e del cristianesimo. Il trasferimento a Napoli, per operare nel Consiglio delle finanze, e poi la morte, gli consentiranno di lasciare pubblicabili i primi otto capitoli della prima parte, neppure rifiniti. L’incompiuto libro V sarà curato da Tommasi nel 1791.
Fuor di dubbio, tra Vico e Montesquieu, che «la religione […] precede, prepara, opera, accompagna e siegue l’origine, il progresso e lo sviluppo della civile società», occorre vedere come «nelle società già perfezionate, può venire in soccorso della pubblica autorità». Consapevole delle critiche che riceverà sia dai fanatici, sia da coloro che «professano l’irreligione per moda come avrebbero promosse le crociate se fossero nati sette secoli fa», Filangieri ritiene che il «dogma d’un’altra vita, di un giudice che tutto vede e che premia e punisce», che il freethinking aveva cercato di detronizzare, si riscopre prezioso per «fondamento degl’indicati beni, può divenire inutile, può anche divenir pernicioso». Può divenire inutile quando quest’idea non abbia alcun rapporto con il bene e con il male della società; pernicioso quando sia addirittura contrario al bene pubblico, «in maniera che la religione ordini, o sembri ordinare, ciò che il legislatore dee proibire, o proibisca, o sembri proibire, ciò che il legislatore dee prescrivere» (La scienza della legislazione, cit., 6° vol., pp. 11 e seg., 13, 16).
Filangieri riprende l’idea che il politeismo combini i guasti dell’irreligione con quelli del fanatismo; e, attraverso sant’Agostino, recupera il celebre schema di Varrone. Se in una società non più barbara, come quella antico-romana, «la religione ammette la pluralità degli dèi, vi saranno allora tre religioni nello stato. Vi sarà quella della moltitudine, vi sarà quella del governo, vi sarà quella dei sapienti»: teologia poetica, infantile e antropomorfizzante; teologia civile, normante il culto, le feste, gli spettacoli; teologia naturale, monoteista e davvero morale, «correzione della volgar religione», professata da pochi filosofi (p. 58).
Per Filangieri, come per Agostino, lo schema prefigura il processo di una sostituzione. Solo che quel che è avvenuto nel passaggio fra politeismo e cristianesimo deve ripetersi nell’avvento di una nuova religione. Filangieri adotta a modello la diffusione dei culti iniziatici nel mondo antico, alternativi agli ‘errori’ popolari, religione e vita più pure ed elevate, professate da ceti superiori. Il programma si basa sul presupposto che esista tuttora una religione iniziatica: ‘misteri’ moderni; la massoneria, con tutta evidenza. Una «convenzione» dovrebbe essere stretta tra il legislatore e i ministri di questa, «occulta, ignota alla moltitudine, ignota agl’inziati stessi, che dovrebbero ignorare la mano del legislatore che li conduce» (p. 86). La prima «luce» dovrebbe essere il discredito, presso i suoi adepti, della religione della moltitudine. Poi «fra gli arcani doveri che si dovrebbero inculcare agl’iniziati, dovrebbe esservi quello di diffonder la luce», «con la più avveduta prudenza» (p. 87). Ma in fondo a questo processo,
allorché il nuovo edificio innalzato tra ’l silenzio de’ misteri avrebbe acquistata una bastante estensione ed una sufficiente solidità e l’antico si sarebbe proporzionatamente indebolito e ristretto; quando la parte più autorevole della società avrebbe adottato il nuovo culto e la nuova religione e l’altra vi sarebbe stata disposta; allora il misterioso velo dovrebbe squarciarsi; allora il legislatore dovrebbe pubblicare la nuova religione e dichiararla religione dello Stato e del governo (p. 88).
La vecchia religione, screditata, cadrebbe senza bisogno di divieti e violenze. Nell’ultimo capitolo, Filangieri accenna ai tratti della nuova religione «scelta dal legislatore, invitata dal governo, destinata dalla legge a concorrere colle altre forze impiegate a produrre ed eternare la virtù e la felicità del popolo». Dovrebbe essere sempre coerente con la morale che su di essa fosse possibile fondare; le sue sanzioni, garantite sul dogma dell’altra vita, non risulteranno mai nella negazione della speranza, della riparazione e della correzione sincera. Il suo culto, degno della divinità alla quale è diretto, non ammetterà rito che possa svilirne l’idea, o offendere i costumi; né prescriverà alcun obbligo dispensante dai doveri civili. «Regolata dal legislatore», non dovrebbe mai rinnovare la teocrazia che nell’infanzia dei popoli fu necessaria alla fondazione degli Stati. In essa il «sacerdorzio dovrebbe formare una delle parti più nobili del corpo sociale, e non un corpo separato». «Ma quale è la religione nella quale, considerata nella sua nativa istituzione, tutti questi caratteri si ritrovano?» (p. 89).
Il discorso si interrompe. Soccorre, oltre che il Piano ragionato dell’opera, l’indice della seconda parte del libro V, dall’autore prefissato, dal quale si deduce sia che nello Stato debba esservi una religione, sia che il cristianesimo ‘nativo’ offre «vantaggi inestimabili», sia che Filangieri pensava alla normazione di ogni aspetto della vita religiosa, ma anche alla distinzione dei «confini del sacerdozio e dell’impero», e al problema della tolleranza. Mostrando privatamente, oltre che in altre parti della Scienza, accettazione del sentimento religioso, e della Rivelazione, giudicata nei principi conforme alla ragione naturale, egli sembrava confidare nella capacità della massoneria di ripromulgare, a partire dal suo patrimonio (sul cui carattere essa non era peraltro concorde), il cristianesimo (ora più vicino alla ‘purezza’ delle origini?) che, liberato dalla superstizione, e proclamato ope legis, fosse propizio alla vita civile. Resta problematica la composizione di questa Chiesa di Stato tanto con la libertà di coscienza, quanto con la distinzione fra delitti contro lo Stato e delitti contro la religione, ivi compreso quello del proselitismo ateo, che Filangieri definiva perseguibile, al pari del fanatismo.
Nel marzo 1787 Filangieri ricevette la più celebre delle visite del più celebre dei ‘fratelli’, sebbene la fama di queste pagine non sia pari al suo interesse circa i temi conclusivi della Scienza. Goethe lascia nel suo Italienische Reise (1817) il profilo d’un gentiluomo di «delicato senso morale», che gli fa per primo il nome di Vico, ed è «profondamente rispettoso del suo re e del reame, benché non approvi tutto quel che vi accade». Egli teme le mire sull’Italia di Giuseppe II, e «l’immagine di un despota, pur se aleggi soltanto nell’aria, impaurisce gli uomini dabbene» (trad. it. Viaggio in Italia, 20113, p. 212).
Nel settembre, una lettera di Filangieri a Münter, tornato a Copenaghen lasciando i napoletani nell’attesa di una nuova Costituzione massonica, documenta sia l’avvenuta nomina al Consiglio delle finanze, nel contesto della chiamata alla Segreteria di Stato di Domenico Caracciolo, ultima precaria stagione del riformismo, sia l’avversione per il partito austriaco di Maria Carolina:
La colonia straniera, che ci domina, e ci disprezza, e che s’ingrandisce e si consolida sempre di più, si è assolutamente resa insopportabile […]. Io combatto contro la passione dell’odio, che si affaccia sovente al mio cuore da qualche tempo a questa parte. Lacerate questo foglio subito, che l’avrete letto (cit. in Lo Sardo 1999, p. 293).
In quella estate del 1787 Pagano inviò a Filangieri le sue Considerazioni sul processo criminale, con una lettera che allude alla riforma della massoneria napoletana: «Il Tempio cadeva, l’edifizio minacciava ruine. Una mano pietosa e crudele insieme gli diè l’ultimo crollo per rifarlo. Non posso più dire colla carta» (p. 291). La nuova Gran loggia nazionale delle Due Sicilie si costituì il 7 gennaio 1788, ma non era ‘illuminata’. Il 30 marzo Filangieri sottopose al re il suo Parere sulla proposizione di un affitto sessennale del così detto Tavoliere di Puglia, intriso tuttavia del pessimismo che nelle ultime lettere si avvolge al desiderio di concentrarsi nella prosecuzione del libro V, all’insofferenza per la corte e per la metropoli. La morte prematura e la fama, le convinzioni e il carattere di colui che essa aveva colpito dettarono l’organizzazione di un funerale massonico:
Le logge della dipendenza inglese nel dì 20 settembre [1788] celebrarono in una gran casa di campagna i funerali di Filangieri. La funzione fu tenerissima, il concorso fu grande, il pianto ed il dolore si vedea sparso in ogni volto. Il ritratto del defunto era situato dirimpetto all’oriente […] sopra un tomolo, sul quale giacevano disordinatamente le squadre, il livello, il compasso e gli altri strumenti massonici.
Così Tommasi a Münter, il 14 ottobre 1788 (Aus dem Briefwechsel Friedrich Münters, hrsg. Ǿ. Andreasen, 5° vol., t. 2, 1954, p. 256).
Il 3 novembre 1789 Ferdinando IV rinnovò i provvedimenti contro le logge, ma queste, nel Regno e in Europa, diventavano società rivoluzionarie, e in capo a dieci anni egli avrebbe dovuto abbandonare la sua capitale, elettasi a repubblica, per riconquistarla sei mesi dopo a prezzo di un bagno di sangue. Durante i processi contro i giacobini del 1796 fu iniziato finanche un procedimento contro la Scienza della legislazione, sospettata di aver seminato le idee repubblicane. Nel 1790, Luigi Pio, che quel libro aveva fornito a Franklin, fu tra i primi italiani a chiedere la cittadinanza francese: disse che i principi adottati dall’Assemblée nationale erano quelli di Filangieri.
Una genitura che sarà sempre riconosciuta, nel bene o nel male. Nel decennio rivoluzionario, come nell’età napoleonica, sarebbe stata rivendicata dai cultori del pensiero di Filangieri, non solo fra gli artefici, in primo luogo Pagano, della Repubblica napoletana del 1799, e nella linea democratico-repubblicana del pensiero italiano, ma in tutta Europa, con culmine in Napoleone Bonaparte, che come primo console accolse a Parigi gli esuli figli del filosofo, riconoscendo in lui «il maestro di tutti noi» (E. Ricca, Discorso genealogico della famiglia Filangieri, 1863, pp. 375 e seg.). Durante l’età della Restaurazione sarà invece denunciata da chi, come Benjamin Constant, anche nel suo meticoloso commento alla Scienza (Commentaire sur l’ouvrage de Filangieri, Paris 1822-24) avrebbe fatto i conti del liberalismo con il pensiero della Rivoluzione.
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