FOSCHINI, Gaetano
Nacque a Napoli il 12 ag. 1908 da Donato Dante e Maria Vischi. Entrò in magistratura nel luglio 1933; fu dapprima pretore a Torino, poi giudice al tribunale di Ravenna e a quello di Avellino e, dopo vari incarichi al ministero di Grazia e Giustizia, fu procuratore militare del re; successivamente assegnato alla procura generale presso la Corte di cassazione, fu infine nominato nel giugno 1950 consigliere di corte d'appello.
Dall'inizio degli anni Quaranta (nel febbraio del 1940 si era sposato a Brema con Christa Meusser) si era dedicato anche all'attività scientifica, svolgendo dal 1941 attività universitaria a Camerino come assistente volontario di procedura penale.
Nel 1942 il F. pubblicò a Milano La pregiudizialità nel processo penale, un lavoro di risistemazione di quanto la dottrina aveva espresso sul tema: venivano rifiutate le definizioni di pregiudizialità come relazione di dipendenza tra rapporti giuridici sostanziali e anche l'opposta tesi che la collocava tra i fenomeni puramente processuali; così come la sua ascrivibilità al fenomeno di interferenza tra due giurisdizioni diverse.
Seguendo l'impostazione di F. Menestrina, che aveva definito la pregiudizialità giuridica come pregiudizialità meramente logica, a cui si legherebbe necessariamente l'elemento in più dell'applicazione di una norma astratta - rendendo così qualitativamente identica la natura del giudizio pregiudiziale e del giudizio pregiudicato -, il F. individuò gli ulteriori caratteri della pregiudizialità giuridica nell'antecedenza logico-giuridica, nell'autonomia e nella necessità.
Il problema che il F. si pone sotto il primo profilo è la specificazione in senso giuridico del rapporto di antecedenza, che non può essere affidato a criteri puramente logici se non si vuol considerare pregiudiziale qualunque elemento che semplicemente sia a fondamento della domanda o della decisione del giudice. Questa focalizzazione del significato propriamente giuridico di antecedenza viene svolta sull'influenza che la pregiudiziale esercita sulla pregiudicata, sia sotto l'aspetto della sua giuridicità e immediatezza - nel senso che il "giudizio pregiudiziale deve entrare direttamente a far parte della catena sillogistica che si conclude con il giudizio finale" (p. 44) - sia sotto l'aspetto quantitativo, anche se in questo senso uno studio sulla graduazione può condursi non sul quantum di antecedenza, questione evidentemente priva di senso, ma solo sul quantum della decisione finale che è condizionata dalla pregiudiziale.
Il F. ricava da questa impostazione la distinzione tra la nozione di pregiudizialità e quella di sospensione del procedimento: la rimessione della questione pregiudiziale al giudice civile, con la conseguente sospensione del processo, non atterrebbe alla natura giuridica di pregiudizialità, ma solamente alla sua disciplina dettata dal legislatore. Il problema allora sarà solamente di determinare in che modo la questione pregiudiziale deve essere trattata, ma non la discussione sull'esistenza della sua natura di pregiudizialità, una volta che questa sia stata definitivamente accertata dal suo costituire un componente essenziale nel sillogismo del giudizio principale. Si tratta di una questione rilevante giacché la letteratura faceva coincidere il concetto di pregiudizialità con quello di sospensione sulla base delle norme che imponevano al giudice la sospensione per accertare alcuni degli elementi costitutivi del reato e lasciavano invece al suo apprezzamento l'opportunità di sospenderlo per accertarne le circostanze.
Del resto, conseguenze rilevanti sono fatte scaturire anche dagli altri due requisiti che per il F. sono necessari perché vi sia pregiudizialità. Innanzitutto l'indipendenza, ovverosia l'idoneità della questione pregiudiziale di essere oggetto di un autonomo processo: essa deve possedere tutti i requisiti della lite in senso tecnico. Diventano pertanto inaccettabili tanto la concezione tedesca della pregiudiziale come prova nel giudizio principale, tanto quella del Menestrina. Poi la necessarietà: l'essere la questione indispensabile al sillogismo del giudizio principale, terzo e ultimo elemento, dal quale deriverebbe l'inaccettabilità della distinzione tra vincolo di dipendenza assoluto e vincolo di dipendenza relativo, con la conseguenza che, laddove il giudice non fosse sottoposto all'obbligo di sospendere il giudizio, ma ne avesse la facoltà, ciò non può dipendere dall'intensità del nesso di dipendenza.
Nello stesso anno il F. ottenne la libera docenza e pubblicò Le impugnazioni del latitante (Napoli) e, poco dopo, La latitanza (Milano 1943). Rimasto a Camerino fino al 1949, passò successivamente all'università di Macerata, dove, a partire dal 1948, oltre che insegnare procedura penale, tenne per supplenza il corso di diritto penale e i corsi di esercitazioni in entrambe le materie.
Nel 1951 lasciò la magistratura e divenne professore straordinario, iniziando anche l'attività legale professionale. Risalgono a quel periodo lo studio La connessione (Milano 1952), frutto di scritti e di note cui diedero occasione i casi affrontati nella pratica giudiziaria, nobilitati però dal supporto della speculazione scientifica; gli Studi sulle impugnazioni penali (ibid. 1955), coincidenti con la promozione del F. a professore ordinario, nel novembre di quell'anno; Il dibattimento e L'imputato, entrambi pubblicati a Milano nel 1956.
Sempre nel 1956 pubblicò Il sistema del diritto processuale penale, una sintesi teorica delle ricerche portate avanti fino a quel momento. Il fenomeno processuale è affrontato sia sotto l'aspetto della "complessità" e della "connessione" - il F. parla del processo come di una realtà multiforme, in contatto con la restante realtà che può essere processuale o non processuale -, sia soprattutto sotto l'aspetto della "prospetticità", metodologia di studio del processo sulla base di prospettive diverse: quella del rapporto giuridico, della situazione giuridica e dell'atto giuridico.
Le varie entità processuali sono raggruppate in tre categorie, le quali rappresentano altrettante prospettive di osservazione della medesima realtà. Tra di esse passerebbe la differenza tra l'essere, o punto di vista statico (situazione giuridica); il dover essere, o punto di osservazione dinamico (rapporto giuridico) e il divenire (l'atto o il fatto), ovverosia lo studio della medesima realtà dal punto di vista del suo movimento, e quindi della cinematica processuale. Tutte e tre parteciperebbero della medesima realtà processuale. La statica poi, riguardando il processo nel suo essere, si risolve nello studio dei suoi elementi, ma non in un artificioso stato di quiete, bensì semplicemente a prescindere dal movimento, come conoscenza di ciò che nel movimento rimane sempre uguale a se stesso.
Nella prospettiva dinamica invece il rapporto giuridico è una relazione di forze giuridiche, proprio come nella fisica la dinamica è una relazione di forze della natura. In definitiva allora, essendo esso un rapporto di valenza giuridica di interessi, rappresenterebbe un elemento di ordine giuridico e si porrebbe, perciò, in una realtà complessa, come un ordinamento giuridico. Nella cinematica processuale infine - le espressioni "dinamico" e "cinematico" sono prese nelle accezioni proprie della fisica, come studio dell'interazione di forze la prima e del movimento la seconda - il fenomeno è studiato dal punto di vista degli atti e risulterebbe essere un atto-procedimento: in particolare si tratterebbe di un procedimento complesso, costituito da altri procedimenti i quali sono a loro volta scomponibili e così via.
Il 5 ag. 1958 il F. fu eletto rettore dell'università di Macerata e, due anni dopo, fu trasferito alla cattedra di diritto processuale penale dell'università di Genova, dove tenne per incarico anche l'insegnamento della sociologia e delle istituzioni di diritto e procedura penale. Di lui vanno ricordate in particolare le opere pubblicate nel 1960. Lo scritto Reati e pene (Milano) è una raccolta di articoli apparsi prevalentemente negli anni Cinquanta su varie riviste giuridiche, tra cui la Rivista di diritto e procedura penale, di cui il F. fu condirettore.
In Giudicare ed essere giudicati (ibid. 1960) propose una via d'uscita dalla crisi del processo penale che si dibatteva tra una soluzione accusatoria e una inquisitoria, delineando una nozione di processo e di giurisdizionalità, la cui essenza si sarebbe dovuta ricercare nella funzione di superamento del dubbio e di raggiungimento di una verità mediante un pensamento collettivo di tipo contraddittorio, che ben lungi dall'essere lotta è invece scambio reciproco. In esso le parti processuali sono tutte soggetti giudicanti e nello stesso tempo giudicano se stesse. Tutte svolgono una funzione analoga a quella del giudice: anche l'imputato difendendosi giudica l'accusa, così come l'accusa giudicando l'imputato giudica se stessa. La risultante nozione di giurisdizione non è più basata sulla terzietà del giudice rispetto ai litiganti. In particolar modo la partecipazione dell'accusato al giudizio contro se stesso costituisce l'essenzialità giuridica e la sua eticità.
Il F. morì a Roma il 18 apr. 1969.
Una raccolta di suoi scritti fu pubblicata a Milano nel 1971 a cura di A. Candian, con il titolo Tornare alla giurisdizione, lo stesso dell'articolo che apre il volume (pubblicato per la prima volta in Foro italiano, V [1965]), un manifesto di lotta contro la tendenza all'identificazione del diritto con la legge.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Professori universitari, III versamento; G. F., in Novissimo Digesto ital., VII, Torino 1957, p. 610; G.D. Pisapia, G. F., in Riv. italiana di diritto e proc. penale, n.s., XII (1969), pp. 310 s.; A. Candian, G. F., in Tornare alla giurisdizione…, Milano 1971, p. V.