GAMBACORTA, Gaetano
, Gaetano. - Nacque a Napoli il 9 febbr. 1657, in un’illustre famiglia di origine pisana, da Francesco, principe di Macchia, e da Eufemia Spinelli.
I Gambacorta detennero dal 1369 al 1392 la signoria della città toscana. Esiliati da Pisa, dopo una congiura fomentata da Gian Galeazzo Visconti, nel 1454 si trasferirono con Gherardo, signore di Vai di Bagno, a Napoli. Aggregati al «sedile» di Montagna, acquistarono successivamente vari feudi nel Regno, tra cui il marchesato di Celenza (1598), il ducato di Limatola (1628) e il principato di Macchia (1641). Il padre Francesco ereditò il titolo nel 1681; il G. nel 1694.
Il G. rappresentò pienamente, secondo il ritratto tramandato da G. Vico, la mentalità dell’ aristocrazia partenopea della fine del XVII secolo, che univa coraggio e valore militare, temperamento orgoglioso e collerico, spensieratezza nel governo del patrimonio familiare (e conseguentemente precarietà della situazione economica), con la capacità di accattivarsi le simpatie del popolo minuto della città. Nel 1698 fu allontanato da Napoli per le sue turbolenze (il suo intervento in una rissa tra popolani e soldati spagnoli, che aveva portato alla morte di uno di questi per sua mano) e inviato a comandare un reggimento di fanteria napoletana a Barcellona, dove si legò di stretta amicizia con il governatore della Catalogna, il principe Giorgio d’Assia-Darmstadt.
A Napoli intanto, nell’attesa della morte di Carlo II di Spagna e nell’incertezza delle sorti che il problema della successione spagnola avrebbe comportato per il Regno, si ordì una congiura, promossa da alcuni esponenti dell’aristocrazia capeggiati da Tiberio Carafa, principe di Chiusano, che mal sopportava la politica di accentramento amministrativo, di fiscalismo e di riduzione dei tradizionali privilegi nobiliari posta in opera dal viceré L.F. de la Cerda duca di Medinaceli.
Il programma dei congiurati prevedeva il ritorno del Regno all’indipendenza, sia pure con un sovrano straniero, la reintegrazione negli antichi diritti della nobiltà, il trasferimento del governo della città di Napoli ai sedili nobiliari, abilitati a eleggere autonomamente il nuovo re. A questo proposito, nel maggio del 1700, il Carafa prese contatto con la corte di Vienna, ottenendo dall’imperatore Leopoldo I la promessa di inviare il proprio secondogenito, l’arciduca Carlo, per fornire un largo aiuto militare e assumere la corona.
Il 20 novembre, giunta a Napoli la notizia della mone di Carlo II e profilandosi ormai il pericolo della successione francese, il piano della sommossa si precisò, prevedendo l’uccisione del Medinaceli e l’occupazione di alcune piazzeforti nella città, in attesa degli aiuti imperiali. Per comune volere dei congiurati, il comando delle forze ribelli sarebbe stato assunto dal G., cui veniva promesso il principato di Piombino e la suprema dignità militare del nuovo Regno.
Nel giugno del 1701, il G. raggiunse Napoli, sostenendo di aver ottenuto licenza dal servizio per rimettere in ordine le dissestate fortune familiari e per seguire alcune sue cause pendenti presso il foro della città. L’arrivo del G., da sempre considerato ostile al dominio spagnolo, preoccupò il Medinaceli, che lo invitò con insistenza a ritornare in Catalogna, impegnandosi a favorirne gli interessi presso i tribunali del Regno. Il G., con vari pretesti, rifiutò però di partire e restò a stretto contatto con i capi dei congiurati. Dapprima riluttante (le sue obiezioni vertevano sull’irresolutezza della corte imperiale, sull’incapacità dei suoi ministri di ottenere l’avallo papale al progetto di una successione austriaca, ma soprattutto sulla scarsa compattezza e la dubbia fede dei patrizi partenopei e sulla disunione tra popolo e aristocrazia napoletana). Il G., infine, convinto dalle insistenze del Carafa, cui lo univa un’antica amicizia e un lontano legame familiare, accettò la guida militare della sommossa, impegnandosi con un giuramento solenne.
Il 31 agosto, pervenuto infine al Carafa un diploma imperiale che conteneva, oltre alla promessa di sgravi fiscali e di nuovi privilegi per la città di Napoli, la clausola relativa all’indipendenza del Regno dai domini austriaci, il G. fissò la data per l’azione di forza. All’alba del 22 settembre, nei pressi di Casoria, l’inviato imperiale F. de Chassignet, proveniente da Roma, si incontrò con il Carafa e il G., usciti da Napoli con numerosi seguaci, sotto pretesto di una caccia diretta dal G., che a corte esercitava l’ufficio di cacciatore maggiore. Il gruppo si avvicinò alla città, raccogliendosi dapprima presso le catacombe di S. Gennaro e quindi dirigendosi verso Castelnuovo, per occuparlo e assicurarsi in tal modo il controllo di Napoli e del porto. Ma il colpo di mano non riuscì. Il piano concordato con il comandante, che avrebbe dovuto consegnare la sua piazza senza colpo ferire, era stato sventato dal Medinaceli, che intanto aveva messo in allarme gli altri fortilizi cittadini.
Raggiunte di nuovo le catacombe di S. Gennaro, il G. represse con fermezza la diffusa tentazione di abbandonare l’impresa e, insieme con il Carafa e con l’inviato imperiale, alla testa di cento armati, penetrò nella città per la porta di S. Gennaro, mettendo in fuga le ronde cittadine e ingrossando le sue file con schiere di tessitori, precedentemente guadagnati all’insurrezione con la promessa dell’abolizione delle gabelle e del diritto di portolania. Si aggiunse, eccitata dal G., che spargeva con larghezza denaro, molta folla, decantando i benefici promessi dal nuovo governo. In breve si raccolsero circa 6000 persone, che si diressero verso Castel Capuano, dove si trovavano i tre supremi tribunali della città. Assalite e saccheggiate le sedi dei tribunali, i prigionieri delle contigue carceri furono liberati. Dopo tali eventi, i rivolto si occuparono il monastero di S. Lorenzo, sede della magistratura cittadina, sul cui campanile fu issato un ritratto dell’arciduca Carlo. Qui il G. fece leggere alla folla assiepata un editto che chiamava l’intero popolo napoletano a unirsi alla rivolta.
Questo ricorso alla sollevazione popolare per assicurare il successo del colpo di mano fu riprovato con decisione dall’opinione pubblica del tempo, alla quale del resto la congiura, più che una scelta politica a favore dell’ Austria, apparve come il tentativo di un ristretto settore della nobiltà per riacquistare l’antico potere. Dopo il fallimento dell’insurrezione il viceré, J.M. Fernàndez Pacheco marchese di Villena, successore nel 1702 del Medinaceli, per colpire fino in fondo il mito aristocratico di questa impresa, si rivolse a G. Vico perché ne scrivesse la storia. Nascerà così la Principum Napolitanorum coniurationis ... historia, destinata a rimanere inedita fino alla metà del XIX secolo, ma certamente conosciuta dai contemporanei nella versione manoscritta, in cui il Vico attaccava duramente la politica del G. e degli altri congiurati, in quanto legata a un’ormai anacronistica visione patrimoniale dello Stato, che si opponeva a quella del Medinaceli, intenzionato, invece a utilizzare i quadri migliori del «ceto civile» e della nobiltà più illuminata in un’opera di modernizzazione del Regno. All’opera del Vico farà seguito, nel 1704, la Coniuratio inita et extincta di C. Maiello, che sottolineerà l’incapacità del G. di uscire da una ristretta visione feudale dell’organizzazione politica, per assicurare la sopravvivenza della quale non aveva esitato a utilizzare la sollevazione di un popolo riottoso e violento, tradendo, a un tempo, i vincoli secolari di fedeltà e di lealtà che legavano l’aristocrazia napoletana al governo vicereale e gli stessi interessi del proprio ceto.
In ogni caso l’appello al popolo cadde nel vuoto. Tranne l’adesione degli strati più bassi della popolazione (che il G. tentò invano di inquadrare militarmente e che in breve dovettero essere richiamati all’ordine con la minaccia della pena di morte in caso di saccheggio) e di alcune corporazioni artigiane, il popolo napoletano rimase estraneo, se non addirittura ostile, alla rivolta. A essa poi mancò del tutto l’appoggio del «ceto civile» e della nobiltà, che anzi affluì in gran numero presso Castelnuovo, dove il Medinaceli stava organizzando la resistenza all’insurrezione, per dimostrare la propria lealtà e per mettersi a disposizione del viceré.
L’indulto promulgato dal Medinaceli, la sera del 22 sett. 1701, che prometteva piena grazia a tutti coloro che avessero abbandonato i ribelli nello spazio di dodici ore, poi prorogate a ventiquattro, fece il resto, allontanando dal G. gran parte dei suoi sostenitori (tra cui C.M. d’Avalos, marchese del Vasto, che aveva abbandonato precipitosamente il territorio del Regno). Il G. fu così costretto a rinserrarsi presso il convento di S. Loreto con pochi armati. La mattina successiva un piccolo contingente di fanti spagnoli e una compagnia di cavalieri, capitanata da Domenico di Sangro e ingrossata dalle principali famiglie nobili (i Caracciolo, i Pignatelli, i Ruffo di Sicilia), mosse contro gli insorti, sbaragliandone la debole resistenza e costringendo alla fuga il G. e il Carafa.
I due, dopo essere rimasti nascosti per due giorni in città, con un piccolo numero di seguaci guadagnarono la campagna di Benevento. Il 19 ottobre il G. e gli altri principali congiurati furono colpiti da una sentenza di condanna, a firma del Medinaceli, che riconosceva il loro crimine di ribellione, li definiva «pubblici nemici», la cui vita poteva essere spenta impunemente da ogni suddito del Regno e li spossessava di ogni titolo, privilegio e proprietà.
Si apriva così per il G. la via dell’esilio. Arrivato, tra mille traversie, stanco e malato, sulla costa della Puglia, riuscì a imbarcarsi insieme col Carafa dal porto di Trani, per raggiungere in un primo momento la costa dalmata e poi Venezia. Qui il 12 novembre furono calorosamente accolti dall’ambasciatore cesare o, conte F.A. Berka, e il 24 dicembre si trasferirono nel campo di Eugenio di Savoia nel Mantovano, dove il G. fu posto a capo di un piccolo contingente di esuli napoletani in attesa di intraprendere insieme con l’armata imperiale una spedizione contro Napoli.
Ai primi di febbraio del 1702 un diploma imperiale poneva però il marchese del Vasto a capo di tale impresa. La decisione, che premiava paradossalmente, secondo il G., uno dei maggiori responsabili del fallimento della congiura, e gli indugi di Eugenio di Savoia lo spinsero a partire alla volta di Vienna, nella speranza di conferire direttamente con l’imperatore Leopoldo.
In realtà, i mesi trascorsi a Vienna dal G. e dagli altri esuli napoletani si consumarono inutilmente in una lunga sequela di reciproche accuse e recriminazioni. In particolare un acrimonioso dissidio oppose il G. a B. Ceva Grimaldi, duca di Telese, e al suo protettore, il principe di Liechtenstein; quest’ultimo, adducendo le intemperanze del G., arrivò addirittura a suggerire a Leopoldo I di privarlo della pensione imperiale, concessa a tutti gli esuli napoletani, ricevendo però uno sdegnato rifiuto.
L’incauta partecipazione a una festa mascherata data dall’imperatore, il 18 genn. 1703, costò al G., ancora debilitato dalla malattia contratta nella fuga da Napoli, una violenta polmonite. Nel breve decorso della malattia, fu assistito da tutti gli esuli napoletani e dal suo antico amico, il principe di Assia-Darmstadt. Ma al suo capezzale si alternarono anche molti nobili austriaci e alti personaggi del governo viennese, tra cui lo stesso Liechtenstein, nonostante i passati dissidi.
Il G. mori a Vienna il 27 genn. 1703, dopo aver consegnato le sue ultime volontà nella mani del Carafa. Leopoldo I, per onorarne la memoria, gli fece tributare esequie solenni per tre giorni, in tutto simili a quelle riservate ai membri della casa imperiale.
Fonti e Bibl.: G. Vico, Principum Neapolitanorum coniurationis IX kalendis octobris MDCCI historia, in Opere, a cura di F. Nicolini, VI, Napoli 1941, pp. 303-362; C. Maiello, Coniuratio inita et extincta Neapoli MDCCI, Antverpiae [ma Napoli] 1704; A. Granito, Storia della congiura del principe di Macchia ..., Napoli 1861; R. D’Ambra, Della levata a tumulto nella cospirazione del principe di Macchia ..., in Ani dell’Acc. Pontaniana, XVI (1885), p. 296; B. Croce, Il Vico e la congiura di Macchia, in Nuove curiosità storiche, Napoli 1922, pp. 137-152; F. Nicolini, Uomini di spada, di chiesa, di toga, di studio ai tempi di Giambanista Vico, Milano 1942, pp. 165-177; R. Colapietra, Vita pubblica e classi politiche nel Viceregno napoletano: 1656-1774, Roma 1961, pp.132-148; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965, pp. 208-215; F. Nicolini, Vicende e codici della «Principum Neapolitanornum coniurationis» di Giambattista Vico, in Vico storico, Napoli 1967, pp. 407-451; P. Una, Le famiglie celebri italiane, s. v. Gambacorta di Pisa, tav. IlI; B. Candida Gonzaga, Mem. delle famiglie nobili delle provincie meridionali d’Italia, Napoli 1875, II, pp. 42-52.