Gaetano Mosca
Gaetano Mosca, professore di diritto pubblico e studioso di scienza politica, è il caposcuola di quella che da lui è stata denominata dottrina della classe politica e che nel 20° sec. ha conosciuto ampia fortuna come dottrina elitistica. Muovendo dalla critica del parlamentarismo nella stagione del trasformismo, fu un acuto diagnostico della crisi dello Stato liberale e dell’involuzione della rappresentanza politica in rappresentanza corporativa e particolaristica e un critico, da posizioni conservatrici, della finzione della sovranità popolare. Tra i senatori del Regno fu uno dei pochi a opporsi negli anni Venti alla fascistizzazione dello Stato.
Nasce a Palermo il 1° aprile 1858, da famiglia di origine novarese per parte di padre, studia giurisprudenza, insieme a Vittorio Emanuele Orlando, nella città natale, dove si laurea nel 1881 con una tesi Sui fattori della nazionalità, e si perfeziona a Roma alla Scuola economico-amministrativa diretta da Angelo Messedaglia, acquisendo anche quelle competenze che in seguito gli consentiranno di coprire (dal 1900 al 1902) l’incarico di economia politica (in questo insegnamento gli subentrerà Achille Loria) e di dirigere il Laboratorio di economia politica della facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Torino. In questo ruolo egli avrebbe promosso quella via media italiana tra economia politica classica e scuola storica dell’economia che era stata additata a programma da Marco Minghetti in un’opera che godette di ampia circolazione tra i contemporanei, Della economia pubblica e delle sue attinenze colla morale e col diritto (1859).
Nel 1884 appare la sua prima opera, Teorica dei governi e governo parlamentare, che gli riserva un posto di primo piano nella letteratura scientifica sul parlamentarismo del secondo Ottocento e in cui trova la sua prima formulazione la dottrina della classe politica. Grazie a questo lavoro, e a una memoria sui «rapporti fra il Parlamento e il Potere giudiziario», in cui prende le distanze da una concezione formalistica della costituzione e della divisione dei poteri (che gli appare essere «una creazione metafisica anziché una verità sociologica»), ottiene nel 1885 la libera docenza. Nel 1887 esce la sua seconda opera di carattere monografico, Le costituzioni moderne, di taglio più tradizionale e manualistico, ma in cui persevera nel programma di arricchire la dottrina del diritto pubblico con le acquisizioni di una nuova scienza politica (Mosca non sarà mai un costituzionalista formalista, pago di prendere in considerazione la struttura giuridica o il sistema normativo). Nello stesso anno entra in servizio alla Camera come revisore dei resoconti parlamentari: ha così inizio anche una parallela attività di funzionario parlamentare e poi ministeriale (come segretario particolare del presidente del Consiglio Antonio Starrabba di Rudinì nel 1891-92) che gli conferirà una conoscenza dall’interno del funzionamento delle istituzioni (l’organismo politico vivente, come ebbe anche a dire) e che lo porterà alla politica attiva, come deputato due volte eletto (nel 1909 alla 23a e nel 1913 alla 24a legislatura) nel collegio di Caccamo, come sottosegretario al ministero delle Colonie nel governo di Antonio Salandra (dal 1914 al 1916), come senatore del Regno a partire dal 1919, come membro del Consiglio superiore coloniale (dal 1923 al 1927), infine nel 1925 in qualità di componente della Commissione permanente di accusa dell’Alta corte di giustizia per la 27a legislatura.
Ma il suo apporto maggiore alla vita pubblica resta legato all’attività di docente, di studioso e di pubblicista. Nell’anno in cui appare l’opera a cui sarà principalmente legata la sua fama anche all’estero, gli Elementi di scienza politica (1896), è nominato professore straordinario di diritto costituzionale presso l’Università di Torino (ordinario dal 1899), dove fino all’a.a. 1908-1909 tiene anche il corso complementare di storia della scienza politica. Nel 1902 viene chiamato a ricoprire parallelamente l’insegnamento di diritto costituzionale e amministrativo all’Università commerciale Bocconi di Milano (insegnamento che terrà fino al 1918). Nel 1924 passerà alla cattedra di diritto pubblico dell’Università di Roma, dove dal 1925 ricoprirà l’insegnamento di storia delle istituzioni e delle dottrine politiche nella nuova Scuola di scienze politiche. Nel 1923 aveva intanto visto la luce la seconda edizione degli Elementi di scienza politica accresciuta di un secondo volume in cui, a fronte delle nuove incognite politiche rappresentate dal sindacalismo, dal bolscevismo e dall’autoritarismo burocratico, l’originaria critica al parlamentarismo si attenua.
Gli esordi della sua attività pubblicistica (nel 1897 inizia la collaborazione alla «Riforma sociale», dal 1901 avvia una collaborazione continuativa con il «Corriere della sera») lo vedono schierato su posizioni di liberalismo conservatore, impegnato nella battaglia antiprotezionistica, favorevole alla conservazione del sistema rappresentativo bicamerale, ma ostile al suffragio femminile e universale, preoccupato dell’impoverimento dei ceti medi e delle sue conseguenze politiche, critico del processo di disgregazione della sovranità dello Stato a opera dei partiti e dei sindacati, cioè di quello che in un articolo giustamente famoso del 1907 avrebbe definito «feudalesimo funzionale».
A partire dalla pubblicazione del volumetto Italia e Libia (1912) sono importanti i suoi contributi sulla politica coloniale. Negli anni Venti i suoi interventi saranno poi dominati dalla preoccupazione nei confronti della crisi dello Stato liberale e delle involuzioni autoritarie del nuovo regime. Un «conservatore galantuomo» lo definirà l’alfiere della «rivoluzione liberale», Piero Gobetti. Aderisce nel 1925 al Manifesto che Benedetto Croce pubblica sul «Mondo» in risposta a quello degli intellettuali fascisti. Con l’importante discorso che tiene in Senato il 19 dicembre, intervenendo contro il progetto di legge relativo alle attribuzioni e prerogative del capo del governo, pone fine alla sua attività politica nel segno dell’opposizione liberale al fascismo, anche se la sua devozione monarchica non lo spingerà a rompere definitivamente con il regime, per cui non sarà fra i professori che nel 1931 si rifiuteranno di prestare giuramento. Lascia l’insegnamento per raggiunti limiti d’età nel 1933. Muore a Roma il 9 novembre 1941.
L’ingresso di Gaetano Mosca nella cultura politica italiana è segnato dalla pubblicazione nel 1884 della Teorica dei governi e governo parlamentare, un’opera del precoce disincanto nei confronti delle speranze che la «rivoluzione parlamentare» rappresentata dalla caduta della Destra storica e dall’avvento al potere della Sinistra di Agostino Depretis (1876) aveva alimentato. L’opera è anche il frutto maturo (sebbene dovuto alla penna di un giovane agli esordi) di una stagione di dibattiti sulla crisi del parlamentarismo, che in Italia annovera le voci autorevoli di Ruggero Bonghi, Francesco De Sanctis, Leopoldo Franchetti, Pasquale Villari, Stefano Jacini, Marco Minghetti, Sidney Sonnino. La trasformazione in atto delle istituzioni rappresentative e il loro allontanamento dalla lettera dello Statuto era per questi autori, e per Mosca in particolare, un indizio di come «spessissimo il diritto pubblico scritto sia in contraddizione con quello di fatto» (Teorica dei governi, in Id., Scritti politici, a cura di G. Sola, 1° vol., 1982, p. 492). Indagando questa divergenza, lo studioso palermitano era in sintonia con la sensibilità sociologica del tempo che anche in ambito giuridico si faceva strada nella crescente attenzione per i rapporti tra le forze politiche della costituzione materiale (non solo quindi per i rapporti tra i poteri dello Stato regolati dalla costituzione formale).
Il lavoro si colloca negli anni in cui la cultura giuridica e politica dell’unificato Regno d’Italia compie lo sforzo di uscire dal provincialismo e di porre le conoscenze scientifiche al servizio del governo e dell’amministrazione, in particolare con la Biblioteca di scienze politiche, di cui si fa promotore Attilio Brunialti, suo predecessore nell’insegnamento di diritto costituzionale a Torino dal 1881 al 1893: questa importante impresa editoriale, che appare in tre serie dal 1884 al 1915, mette a disposizione del pubblico italiano traduzioni di opere fondamentali del pensiero politico ottocentesco, da Jeremy Bentham e John Stuart Mill a Walter Bagehot, da Benjamin-Henri Constant de Rebecque e François-Pierre-Guillaume Guizot a Charles-Alexis-Henri Clerel de Tocqueville, da Rudolph Gneist e Lorenz von Stein a Paul Laband, e contribuisce all’apertura dei saperi di governo alle scienze sociali. In questo laboratorio di ricerca si manifesta il bisogno di ridislocare l’arte politica su un altro piano, che sempre più diventa quello della società civile.
Gli anni della sua permanenza a Torino sono quelli in cui la cultura politica dell’ex capitale, ormai avviata verso un futuro industriale, si apre a una nuova stagione di liberalismo sociale che, sollecitata anche dal nuovo indirizzo politico dell’età giolittiana, s’interroga sul ruolo dello Stato come arbitro dei conflitti sociali, senza per altro mai indulgere alle tentazioni del socialismo di Stato. Basti qui ricordare che il primo scritto di un altro maestro dell’Ateneo torinese, Gioele Solari, apparso nel 1897 sulla «Critica sociale», è dedicato a Lo Stato e le sue funzioni nella Nuova Zelanda (la Nuova Zelanda assurge in quegli anni a Paese pilota dell’arbitrato statale sui conflitti di lavoro), che allo stesso tema avrebbe rivolto le sue attenzioni proprio Mosca (accanito critico del sindacalismo) nella prefazione alla traduzione del libro di Henry Demarest Lloyd, Un paese dove non si sciopera (1905), e che la questione sarebbe rimasta al centro delle attenzioni pubblicistiche di Luigi Einaudi, instancabile apologeta della concorrenza e del conflitto, fino alla raccolta di scritti intitolata alle Lotte del lavoro (1924).
Contro il dilettantismo e la corruttela dei politicanti, che nella stagione del trasformismo raggiungono un livello sconosciuto alle pratiche di governo sabaude, ma anche di altre tradizioni amministrative presenti nella penisola, il progetto di rinnovamento delle scienze politiche come saperi di governo si pone come laboratorio di idee al servizio di una strategia a un tempo di razionalizzazione delle istituzioni e di allargamento in senso democratico delle basi dello Stato rappresentativo. L’intento è di educare la maggioranza governata a chiedere, e la minoranza governante a concedere, riforme ragionevoli.
Rispetto a questi indirizzi riformistici Mosca, che pur qualche illusione nutrirà sempre (in questo a differenza di Vilfredo Pareto) sui benevoli effetti che il progredire delle scienze sociali può avere sulla gestione politica delle società, è tuttavia scettico. Ritiene necessaria e ineludibile una riforma che approdi a una «nuova organizzazione politica», anche se a ben vedere tale riforma sembra guardare in larga misura al passato – alla restaurazione di un Senato e di un potere regio che si pongano come «centri di valori politici ed indipendenti» e possano controbilanciare lo strapotere della Camera elettiva, che ai suoi occhi è principalmente fonte di corruzione e incompetenza. Le sue proposte di correzione e riforma vanno tutte in direzione di una riproposta in versione razionalizzata del modello di Stato burocratico nato in Europa nell’età moderna: solo tale modello può garantire la formazione di una classe politica veramente basata sul merito personale e sulla capacità tecnica e di un assetto istituzionale capace di neutralizzare l’arbitrio e l’irresponsabilità dei demagoghi a cui il processo di democratizzazione inevitabilmente finisce per conferire il potere.
Ancora più rilevante della denuncia delle patologie del parlamentarismo italico e delle timide proposte concrete di riforma (che attengono alla dimensione dell’ingegneria istituzionale e ai rapporti tra i poteri dello Stato) è però in quest’opera la delineazione di quel nucleo teorico della dottrina della classe politica che verrà sviluppato, ma non significativamente modificato, nei successivi lavori dell’autore. La tesi centrale si riassume nell’affermazione che in ogni società i governanti, cioè in senso lato i detentori del potere, sono sempre una minoranza, che sulla maggioranza dei governati prevale in virtù di una «superiorità d’indole morale» e soprattutto grazie alla sua organizzazione. Da questi due fattori conseguono primariamente la legittimità e l’efficacia della costrizione esercitata dai pochi sui molti. Poiché però quella superiorità d’indole morale non è di per sé evidente e la coercizione da sola non può garantire stabile coesione alla società, accade che sempre i governanti giustifichino il proprio potere facendo ricorso a un insieme di principi astratti, che Mosca denomina «formula politica».
La formula politica dei regimi parlamentari contemporanei – il principio democratico – è però impietosamente smascherata da Mosca criticando l’ingenua assunzione che serve a legittimare, contro il principio di ereditarietà dominante nell’antico regime, l’adozione dello strumento delle elezioni per determinare la scelta dei governanti.
Chiunque abbia assistito ad una elezione sa benissimo che non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che sono i suoi amici che lo fanno eleggere. Ad ogni modo questo è sicuro che una candidatura è sempre l’opera di un gruppo di persone riunite per un intento comune, di una minoranza organizzata che, come sempre, fatalmente e necessariamente s’impone alle maggioranze disorganizzate (Elementi di scienza politica, in Id., Scritti politici, a cura di G. Sola, 2° vol., 1982, p. 476).
La concezione politica di Mosca matura non tanto sulla base del confronto con le teorie giuridiche e con le filosofie politiche della tradizione, ma piuttosto nell’alveo dell’emersione di quel paradigma storicista che tra 18° e 19° sec. rivoluziona la mappa dei saperi e in particolare le scienze della società e delle istituzioni. Per lui fondamentale resterà sempre, per orientare l’elaborazione politica, la «lezione della storia» (e non a caso in tarda età avrebbe intitolato una raccolta di suoi scritti Ciò che la storia potrebbe insegnare). È il costante ricorso ai «fatti storici» che consente anzi a Mosca, pur nel quadro di un generale orientamento positivistico, di prendere le distanze dai fondatori ottocenteschi della sociologia. Non solo l’opera di Auguste Comte è da lui sottoposta a una critica serrata per le sue assunzioni metafisiche sul corso storico, ma anche la rigida dicotomizzazione delle società (militari e industriali) proposta da Herbert Spencer gli appare fondata «sopra presupposti eminentemente aprioristici», in particolare postulando una netta contrapposizione tra coercizione e consenso, mentre invece va riconosciuto che ogni organizzazione politica è «contemporaneamente spontanea e coercitiva» (Elementi di scienza politica, cit., p. 731).
Non è difficile poi riconoscere nel torso sbozzato della teoria della classe politica l’impronta di quella tradizione di pensiero che risale al mondo antico e che è conosciuta con il nome di realismo politico. Per quanto Mosca abbia sempre cercato (con qualche fraintendimento) di dissociare la sua concezione della scienza politica dalla visione di Niccolò Machiavelli (di cui forse non apprezzava, oltre alla concezione spregiudicata dell’arte di governo, l’intemperanza repubblicana), è indubbio che la sua posizione si inscrive in quella tradizione, condividendone l’assunto della struttura inegualitaria e gerarchica della società e del carattere conflittuale della politica come lotta per l’acquisizione e la ripartizione (entro cerchie ristrette e controllate) del potere. Evidente è anche in ciò l’impianto conservatore della teoria della classe politica, alimentato da una visione fondamentalmente pessimistica della natura umana.
Il realismo della concezione moschiana, con la sua rigida dicotomia di minoranza organizzata e massa disorganizzata e il postulato di una perpetua lotta tra oligarchie, è stato spesso raffrontato, d’altro canto, all’idea materialistica della storia come teatro di lotte di classe. Ma mentre in Karl Marx l’opposizione delle classi viene da ultimo superata con la rivoluzione del proletariato, che ha per suo contenuto la socializzazione dei mezzi di produzione e che è destinata quindi a instaurare il comunismo, Mosca, come anche faranno Pareto e Roberto Michels, riconosce che la struttura dicotomica della società, come pure l’antagonismo tra oligarchia e democrazia, sono destinati a permanere. Ad accomunare gli elitisti nella loro concezione della storia è proprio la consapevolezza del fatto che le leggi tendenziali di sviluppo del modo di produzione capitalistico (immiserimento crescente del proletariato e concentrazione crescente del capitale), che Marx aveva preteso di dedurre dalle sue analisi storiche e dalla sua costruzione teorica, si sono rivelate erronee e devono essere corrette sulla base dei risultati delle ricerche empiriche. Mosca, in particolare, contesta sia il determinismo economico della dottrina marxiana sia la sua concezione del mutamento storico.
Più consonante può apparire invece questa dottrina elitistica con le concezioni social-darwinistiche della storia, che negli ultimi decenni dell’Ottocento acquistano credito tra gli studiosi di sociologia, come risulta evidente anche dallo spazio che a esse Mosca riserva nella sua opera maggiore, gli Elementi di scienza politica – e questo in consapevole opposizione metodologica al marxismo e al suo determinismo economico. Ma la sua tesi è che la selezione naturale attraverso la lotta per l’esistenza nelle società umane non esiste: solo la straordinaria fortuna incontrata dalla teoria dell’evoluzione nelle scienze naturali ha esercitato una comprensibile ma fuorviante suggestione sulle scienze sociali. Il torto dei social-darwinisti risiede nell’avere scambiato «la lotta per l’esistenza con quella per la preminenza, la quale è realmente un fatto costante, che avviene in tutte le società umane dalle più civili a quelle appena uscite dallo stato selvaggio» (p. 583). Da buon positivista, lo studioso palermitano crede nell’esistenza di leggi naturali della società: fra queste non annovera però quella di una connessione necessaria tra il progresso di una razza o di una nazione e la selezione degli individui appartenenti alla collettività nazionale.
Anche nel secondo volume degli Elementi Mosca ribadirà la sua critica degli assiomi fondamentali del materialismo storico, negando in particolare l’esistenza di un «perfetto sincronismo fra il sorgere della grande industria moderna e l’adozione del sistema di governo rappresentativo» (p. 1057), ma sarà più largo di riconoscimenti verso i precursori della teoria della classe politica, annoverando fra questi, con particolare apprezzamento, il capostipite di quella sociologia positivistica da lui in precedenza criticata, Claude-Henri de Saint-Simon. Evidenziando così come fossero state proprio la critica del carattere parassitario delle vecchie aristocrazie da un lato, la tesi della ormai prossima estinzione dello Stato, dall’altro, a fornire il retroterra polemico su cui si sarebbe edificata, nell’età della democratizzazione, la dottrina elitistica.
Il primo volume degli Elementi di scienza politica (1896) affina il nucleo della dottrina della classe politica come minoranza organizzata che era stato delineato nell’opera precedente, anche se permarrà fino alla fine una certa indeterminazione nell’impiego dei termini classe politica, classe dominante, classe dirigente, che solo la seconda generazione dei fautori della teoria delle élites perverrà a precisare e distinguere. Negli Elementi, esplicitando meglio la portata dell’adozione del metodo storico-comparativo per le scienze socio-politiche (pur permanendo ben individuabile la lezione metodologica di uno storico delle istituzioni quale Hippolyte-Adolphe Taine), Mosca riprende dalla Teorica una classificazione dei regimi politici – distinti nei due tipi fondamentali dello Stato feudale e dello Stato burocratico – sviluppandola sistematicamente in direzione di una generale sociologia del potere (e nella sostanza, anche se in forma più elementare, essa corrisponde alla distinzione weberiana tra due tipi di organizzazione sociopolitica in base al grado di centralizzazione del potere).
Rispetto all’opera giovanile il realismo crudo dell’analisi storica appare qui meglio coniugato con l’interesse per il pluralismo sociale (e quindi anche per le articolazioni interne alla classe politica, che possono riflettere la stratificazione di «tipi sociali» presenti in uno stesso organismo politico) e con la preoccupazione di matrice liberale per i diritti individuali. Mosca riprende intanto da Herbert Spencer il concetto di tipo sociale per designare l’unità prepolitica di un gruppo sociale, l’insieme delle caratteristiche che consentono di individuare quello che la sociologia posteriore avrebbe definito milieu: un concetto che permette di comprendere le regolarità politiche non soltanto a partire dalle contraddizioni economico-sociali ma tenendo in conto le fratture etniche, religiose, morali che connotano gli stili di vita.
Con il concetto di «difesa giuridica» Mosca si dota invece di uno strumento per analizzare le forme e i processi di istituzionalizzazione e limitazione del potere, includendovi le tecniche giuridiche per assicurare la giustizia nei rapporti tra governanti e governati (in primo luogo la classica «divisione dei poteri») ma anche la «disciplina del senso morale». Rivelandosi un valido continuatore dell’opera di Montesquieu (interpretato in chiave politologica) come anche di Tocqueville (a cui peraltro rimproverava un’eccessiva apertura di credito nei confronti della democrazia, che lo studioso francese aveva avuto modo di osservare negli Stati Uniti solo ai suoi inizi e prima che se ne dispiegassero le gravi patologie), Mosca perviene a un più maturo riconoscimento dei molteplici pregi del regime rappresentativo parlamentare, pregi che nella Teorica erano stati oscurati dall’impietosa diagnosi dell’immaturo italico parlamentarismo.
Attento a fornire non un’immagine statica ma una plastica rappresentazione del mutamento, già nel primo volume degli Elementi Mosca si sofferma ad analizzare le modalità di cambiamento nella composizione delle classi politiche, in particolare il rinnovamento pacifico per via di cooptazione e il rinnovamento violento per via rivoluzionaria. Ad attirare la sua attenzione di diagnostico della crisi delle società contemporanee è il formarsi, «in mezzo alla plebe» (cioè alle masse proletarizzate cui si rivolge la predicazione del socialismo), di una classe dirigente antagonistica, vale a dire di una «frazione della classe politica» che mira a «rovesciare il governo legale». Questo fenomeno si accompagna alla crescente perdita di energia delle classi superiori (un fenomeno diagnosticato in quegli stessi anni da altri grandi liberali disincantati, come Pareto e come Max Weber, che parlava di «volontà d’impotenza» della borghesia), che sul piano ideologico trova espressione nell’avanzamento delle «teorie sentimentali ed esageratamente umanitarie sulla bontà innata della specie umana» (Elementi di scienza politica, cit., pp. 668-71).
Nel secondo volume dell’opera, pubblicato nel 1923, perviene a una più articolata classificazione delle minoranze dirigenti, incrociando due diversi criteri riguardanti l’uno la modalità di organizzazione e trasmissione del potere (per cui distingue tra il principio autocratico, secondo cui il potere discende dai governanti ai governati, e il principio liberale, secondo cui esso risponde a un movimento ascendente, istituzionalizzato nelle procedure elettorali), l’altro i modi di ricambio della classe politica (per cui distingue tra il principio aristocratico, che poggia sull’ereditarietà e favorisce la chiusura della classe politica, e il principio democratico, che opera attraverso la cooptazione, rinnovando socialmente la classe politica e sostituendola con elementi provenienti dalle classi governate).
Anche questa tipologia conferma un tratto distintivo del programma scientifico moschiano, vale a dire la tendenza a intrecciare l’analisi istituzionale e procedurale con la considerazione sociologica dei gruppi e delle dinamiche sociali che presiedono alla loro composizione e al loro ricambio. Avverso all’ideologia politica democratica, e alle pretese di dare forma istituzionale a quella che chiama «democrazia pura», fatalmente destinata a sfociare nel socialismo, Mosca non ha difficoltà a riconoscere invece la positiva funzione del ricambio sociale dal basso per contrastare la sclerotizzazione delle classi politiche.
La tendenza democratica, cioè verso il rinnovamento delle classi dirigenti, si può affermare che agisce costantemente, con maggiore o minore intensità, in tutte le società umane. Alle volte il rinnovamento avviene in modo rapido e violento, più spesso, anzi normalmente, mercé la lenta infiltrazione di alcuni elementi provenienti dagli strati più umili nelle classi elevate (p. 1024).
Ma più che nel perfezionamento dello strumentario analitico (che differenzia anche tra un primo strato ristretto della classe politica e un secondo strato comprensivo di tutte le «capacità direttive del paese»), il secondo volume degli Elementi è rimarchevole per la revisione del giudizio complessivo sulle patologie del regime parlamentare e per la convinta difesa del sistema rappresentativo contro le minacce incombenti della dittatura del proletariato, dell’autoritarismo burocratico e del sindacalismo corporativista. La dittatura del proletariato, passata dalla teoria alla prassi con l’esperimento sovietico, non solo non ha eliminato la tradizionale e insopprimibile divisione tra governanti e governati (semplicemente sostituendo con la violenza una nuova classe politica alla vecchia) ma ha concentrato assolutisticamente nelle mani della minoranza organizzata il potere politico, quello economico e quello militare. Solo nel breve periodo l’esperimento comunista può suscitare l’illusione che si possano dissolvere tutte le gerarchie sociali – illusione pagata a caro prezzo con «la disorganizzazione completa di ogni genere di produzione e quindi la carestia e la fame»; nel lungo periodo esso non può che portare alla ricostituzione di una classe dominante detentrice di tutte le leve del potere (pp. 1106-07).
Nella minaccia dell’autoritarismo burocratico Mosca sembra ora già intravedere il rischio dell’edificazione di un potere totalitario, vale a dire di un assolutismo politico che l’umanità non aveva conosciuto (per la limitazione dei mezzi a disposizione dei detentori del potere) nemmeno nell’età delle cosiddette monarchie assolute. La dittatura burocratica e militare avrebbe infatti come conseguenza la distruzione di quell’equilibrio tra principio liberale e principio autocratico, vale a dire tra l’elemento elettivo e l’elemento burocratico, che ha dato stabilità e insieme capacità d’innovazione agli Stati moderni. Tutte le libertà e tutti i diritti individuali finirebbero per essere coartati se l’elemento elettivo venisse ridotto a un’insignificante e ritualistica presenza nella vita pubblica.
Particolarmente insidiosa gli appare poi la minaccia del sindacalismo, con il suo progetto di sostituire alla rappresentanza politica degli individui la rappresentanza corporativa dei gruppi professionali, perché questa finirebbe per attribuire potere di ricatto e di paralisi politica a categorie particolari esercitanti funzioni ritenute indispensabili: si tratterebbe della costituzionalizzazione di quello che aveva denominato «feudalesimo funzionale». Stilando le conclusioni della sua opera nei primissimi anni Venti, Mosca individua in una Camera corporativa «la minaccia più grave che incombe sulla società nell’attuale momento politico» (p. 1111).
Di fronte alla messa a repentaglio delle istituzioni rappresentative da parte del fascismo, Mosca riconosce che la democrazia continua certo a soffrire di patologie evidenti, ma che si tratta di patologie secondarie. La lotta di classe non deve necessariamente trovare sbocco in esiti rivoluzionari, né la naturale tendenza alla chiusura oligarchica delle élites è destinata a mettere fuori gioco la competizione elettorale: come fattore di ricambio e di ringiovanimento della classe politica la tendenza democratica può svolgere una funzione positiva nel quadro delle istituzioni di una società liberale e armonizzarsi con il principio di selezione burocratica del personale governante.
Incomincia ormai a farsi strada nella sua ricostruzione la consapevolezza che la democrazia è un regime di libera competizione tra le minoranze organizzate aspiranti al governo della nazione e che accanto alla frazione governante della classe politica c’è sempre (e può legittimamente operare) un’altra frazione di classe politica potenziale o di riserva. In questo modo lo studioso che aveva esordito nella sua carriera scientifica con una critica radicale non solo dell’ideologia democratica ma anche delle istituzioni parlamentari, elaborando la dottrina della classe politica in funzione antidemocratica, veniva aprendo la via a quell’indirizzo dell’elitismo democratico che nell’Italia del primo dopoguerra avrebbe trovato immediata espressione nelle posizioni di Gaetano Salvemini, Gobetti, Guido Dorso – e a cui si sarebbe orientata nei suoi sviluppi la scienza politica nella seconda metà del 20° secolo.
Teorica dei governi e governo parlamentare (1884), ora in G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, 1° vol., Torino 1982.
Elementi di scienza politica (1° vol., 1896, 2° vol. 1923), ora in G. Mosca, Scritti politici, a cura di G. Sola, 2° vol., Torino 1982.
Storia delle dottrine politiche, Bari 19393.
Partiti e sindacati nella crisi del regime parlamentare, Bari 1949.
Ciò che la storia potrebbe insegnare. Scritti di scienza politica, Milano 1958.
Il tramonto dello Stato liberale, a cura di A. Lombardo, Catania 1971.
Scritti sui sindacati, a cura di F. Perfetti, M. Ortolani, Roma 1974.
Discorsi parlamentari, con un saggio di A. Panebianco, Bologna 2003.
J.H. Meisel, The myth of the ruling class. Gaetano Mosca and the Elite, Ann Arbor 1958.
N. Bobbio, Saggi sulla scienza politica in Italia, Bari 1969.
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La teoria della classe politica da Rousseau a Mosca, a cura di S. Amato, Firenze 2001.
Classe dominante, classe politica ed élites negli scrittori politici dell’Ottocento e del Novecento, 1° vol., Dal 1850 alla prima guerra mondiale, a cura di S. Amato, Firenze 2008.