Gaetano Mosca
Fondatore della moderna dottrina della scienza politica italiana e classico esponente del pensiero elitista, Gaetano Mosca elabora un’originale e fortunata teoria della classe politica come oggetto determinante di qualsiasi analisi che si prefigga di capire le effettive dinamiche del potere politico. Il suo realismo lo induce a indagare in profondità i meccanismi che presiedono alla formazione e conservazione del potere, con un occhio sempre attento al dato storico di ciascuna esperienza statale e con la costante preoccupazione di fondare la descrizione dei fenomeni su elementi concreti e sostanziali, alla ricerca di ciò che si nasconde dietro le forme e le apparenze.
Gaetano Mosca nasce a Palermo il 1° aprile 1858 da una famiglia benestante appartenente alla media borghesia. Fin da ragazzo i suoi interessi si indirizzano verso gli studi storici e giuridici. Frequenta con grande profitto la facoltà di Giurisprudenza della sua città natale e si laurea con il massimo dei voti nel 1881. Immediatamente dopo la laurea inizia la carriera accademica, che lo porta, nel volgere di pochi anni, a pubblicare il libro Sulla teorica dei governi e sul governo parlamentare: studii storici e sociali (1884) e a ottenere incarichi di insegnamento in diritto costituzionale prima all’Università di Palermo (1886-87) e, successivamente, all’Università di Roma (1888-96), città nella quale si era trasferito nel 1887 dopo aver ottenuto un posto di revisore dei resoconti parlamentari presso la Camera dei deputati.
Nel 1896, prima dà alle stampe gli Elementi di scienza politica e poi supera il concorso come professore straordinario di diritto costituzionale a Torino, dove, dal mese di dicembre, viene chiamato presso la facoltà di Giurisprudenza. Negli anni successivi, oltre a vincere il concorso per professore ordinario, si radica con sempre maggiore autorevolezza nel mondo culturale e accademico italiano: stringe rapporti con i più significativi intellettuali dell’epoca, da Luigi Einaudi (1874-1961) a Guglielmo Ferrero, da Vittorio Emanuele Orlando (1860-1952) a Roberto Michels, tiene diverse conferenze che suscitano una vasta eco e, dal 1901, avvia un’assidua collaborazione con il «Corriere della sera», grazie alla quale incrementerà ulteriormente la sua influenza sul dibattito pubblico italiano. Nel 1902 è chiamato dall’Università commerciale Luigi Bocconi di Milano a ricoprire l’insegnamento di diritto costituzionale e amministrativo, che manterrà fino al 1918, anno in cui lo sostituirà con quello di scienza politica.
Nel 1909 è eletto deputato in un collegio siciliano. Dallo scranno della Camera, dove si colloca sulle posizioni di una destra liberal-conservatrice, nonché dalle colonne del «Corriere della sera», conduce appassionate battaglie politiche contro l’estensione del suffragio e l’introduzione della legge elettorale proporzionale, spesso in aperta polemica con la politica del governo Giolitti. Nel 1914 entra a far parte del governo Salandra come sottosegretario alle Colonie e nel dicembre del 1919 viene nominato senatore del Regno. In Senato si occuperà soprattutto dei problemi dell’agricoltura e dell’alimentazione, oltre che dell’emigrazione e delle Colonie.
Dal 1924 la facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo romano gli assegna la cattedra di diritto pubblico interno in sostituzione di Orlando, passato a quella di diritto costituzionale.
Nel 1925 Mosca aderisce al manifesto antifascista di Benedetto Croce e al Partito liberale voluto dallo stesso Croce con, tra gli altri, Orlando, Giovanni Giolitti (1842-1928), Francesco Ruffini e Giustino Fortunato (1848-1932). Il 19 dicembre 1925 pronuncia il più rilevante discorso parlamentare della sua vita, contro il progetto di legge, imposto da Benito Mussolini, relativo alle attribuzioni e alle prerogative del capo del governo. Negli anni successivi completa la sua parabola intellettuale e di vita con altre importanti pubblicazioni e con prestigiosi riconoscimenti, come la nomina a socio nazionale dell’Accademia dei Lincei. Muore a Roma l’8 novembre 1941.
Non è possibile cogliere appieno i contenuti del pensiero di Mosca senza una preliminare indagine sulle sue concezioni circa l’ambito di analisi della scienza politica e sulla metodologia da applicare affinché la ricerca politologica ottenga risultati apprezzabili sia dal punto di vista descrittivo sia da quello prescrittivo (Fisichella 2012).
Mosca si interroga a lungo su cosa si debba intendere per scienza allorché applicata allo studio dei fenomeni sociali. Egli asserisce con convinzione che anche i rapporti umani e sociali possono essere indagati con rigore metodologico alla ricerca di descrizioni e spiegazioni tendenzialmente coerenti con la realtà dei fatti, riconoscendo alle branche del sapere che li assumono come oggetto di studio la capacità di enucleare concetti descrittivi di portata generale.
Tuttavia, la scienza politica si trova ancora in uno stato di minorità sul piano dell’analisi della realtà, essenzialmente a causa dell’insufficiente attitudine a perseguire i propri obiettivi attraverso l’applicazione di canoni ermeneutici fondati sulla puntuale osservazione dei fenomeni. Nell’alveo delle scienze sociali, compito specifico della scienza politica è individuare e spiegare le «leggi» (da leggersi come tendenze alla regolarità) cui rispondono gli ordinamenti politici delle società umane. Lo studio della politica può avere aspirazioni di sapere scientifico solo se si relaziona ai fattori che determinano i caratteri di un popolo e di una nazione. In particolare, l’attenzione di questa disciplina deve rivolgersi agli elementi di ordine storico-culturale, psicosociale e istituzionale che fanno di un agglomerato umano una comunità politica. L’analisi di questi fattori porterà lo scienziato politico a riscontrare l’esistenza sia di costanti universali, valide in ogni tempo e luogo, sia di regolarità specifiche di ciascuna realtà, determinate dai loro caratteri peculiari.
Ma quale metodo specifico dovrà adottare la scienza politica per sondare il proprio terreno di ricerca e per conseguire validi risultati scientifici in grado di far progredire la conoscenza umana in ordine al modo in cui le società si disciplinano sul piano politico? Qui Mosca mostra tutta la sua avversione verso il trasferimento dei metodi delle scienze naturali. La mentalità positivistica dei decenni a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento postulava la combinazione di parametri meramente oggettivi dalla cui osservazione far derivare meccanismi esplicativi e conseguenze definitive: clima, razza, comportamenti delle tribù primitive e così via. Ebbene, in Mosca si riscontra un netto rifiuto di ogni determinismo, meccanicismo e riduzionismo positivista come metodo applicabile alle scienze sociali, ma anche, al tempo stesso, un forte ancoraggio a una dottrina che non sia pura elucubrazione astratta bensì analisi dei fenomeni da cui trarre opinioni consequenziali.
Per Mosca, l’unica strada percorribile per perseguire questi obiettivi epistemologici è quella del metodo storico, cioè la lettura e l’interpretazione dei fenomeni politici attraverso lo studio attento e dettagliato dei processi storici che li hanno determinati. Non ha senso, infatti, limitarsi a verificare i caratteri istituzionali, socioeconomici, psicologici e comportamentali di un certo sistema politico se non si mettono a fuoco le vicende, le dinamiche e le origini storiche, magari anche risalenti, che ne sono alla base. Infatti, le leggi della politica non sono né fatti materiali studiabili con le stesse modalità epistemologiche delle scienze naturali, né elaborazione di concetti astratti sganciati dalla realtà delle cose, ma fenomeni che si determinano per ragioni profonde, spesso radicate nella storia, su cui è necessario ritornare in modo approfondito.
Tale è la sua fiducia nelle potenzialità di questo metodo che egli arriva a teorizzare la possibilità anche per le scienze sociali, in parziale contraddizione con il suo ribadito antipositivismo, di addivenire a verità definitive e indiscutibili, quando invece il Novecento si incaricherà di smentire questo assunto perfino rispetto alle scienze naturali, come hanno mostrato Karl Popper (1902-1994) e il fallibilismo.
Comunque, per Mosca è certo che le speranze di progresso della scienza politica poggiano sullo studio dei fatti sociali
e che questi fatti non si possono cavare che dalla storia delle diverse nazioni. In altre parole, se la scienza politica deve essere fondata sullo studio e l’osservazione dei fatti politici, è all’antico metodo storico che bisogna tornare (Elementi di scienza politica, 19393, rist. in Scritti politici, a cura di G. Sola, 2° vol., 1982, p. 597).
È proprio grazie alla ricerca storica che Mosca formula, nel 1884, con la sua prima grande opera, la citata Sulla teorica dei governi, la fondamentale legge delle minoranze organizzate come costante di tutte le società politiche:
I governanti, ossia quelli che hanno nelle mani ed esercitano i pubblici poteri, sono sempre una minoranza, e […], al di sotto di questi, vi è una classe numerosa di persone, le quali non partecipando mai realmente in alcun modo al governo, non fanno che subirlo; esse si possono chiamare i governati (Sulla teorica, cit., rist. con il tit. Teorica dei governi e governo parlamentare, in Scritti politici, a cura di G. Sola, 1° vol., 1982, p. 203).
Cogliere questo assunto è essenziale per capire l’intera costruzione della dottrina di Mosca: ne costituisce la base su cui egli erige tutte le altre sue deduzioni, proprio in virtù del carattere di invarianza universale che a questa legge viene da lui attribuito. Se in tutte le società politiche, quindi non mere ordalie, ma entità collettive rispondenti ad alcuni canoni regolativi, è riscontrabile questo elemento di fondo comune e costante, significa che la sua validità non dipende da situazioni contingenti di tempo e di luogo, ma da una necessità comune a tutti gli uomini. Ecco la ragione per cui si presta a costituire il principale parametro attraverso cui interpretare realisticamente i fenomeni politici. Mosca non inventa il concetto, ma è il primo a esplicitarlo in termini così universali e a utilizzarlo in modo stringente, tanto da farlo assurgere al ruolo di paradigma della teoria delle élites. Il pensiero elitista classico, i cui maggiori esponenti oltre a Mosca sono Vilfredo Pareto e Michels, trova in questa funzione di gestione del potere da parte delle élites organizzate il suo fondamento concettuale, da cui far scaturire ogni analisi e su cui costruire ogni teoria (Sola 2000, pp. 65-66).
L’organizzazione del potere da parte delle élites, le sue modalità di acquisizione, di conservazione, di esercizio, sono i temi centrali delle riflessioni di Mosca. Se si vogliono ricercare le vere dinamiche del potere non è sufficiente procedere a un’analisi formale delle istituzioni giuridiche, ma è necessario comprendere queste ultime all’interno di un perimetro di indagine più ampio. Per questo egli concentra l’attenzione innanzitutto sui soggetti che detengono quote di potere all’interno di una società politicamente organizzata, cercando di distinguerli in relazione a determinate categorie che provvede a elaborare. Va premesso che sul piano terminologico egli utilizza una vasta gamma di locuzioni, senza peraltro la preoccupazione di definirne sempre gli esatti significati, esponendosi così alla critica di scarso rigore nell’esposizione e nell’analisi (Sola 2000, pp. 17-18).
Mosca individua una cerchia più ampia di soggetti, che definirà principalmente come classe dirigente, e una più ristretta, comprendente solo i componenti degli organi in grado di prendere (o di contribuire a prendere) decisioni politiche: la classe politica. Pertanto, se della prima cerchia fanno parte individui dotati di potere effettivo sul piano economico, nelle professioni liberali e intellettuali, o in ambito religioso (o, aggiungeremmo noi oggi, nel mondo dei mass media), la seconda cerchia, normalmente più ridotta, è composta da persone che ricoprono cariche politiche e istituzionali in virtù delle norme vigenti in un determinato ordinamento. Le effettive modalità organizzative del potere dipendono essenzialmente dai comportamenti di questa composita rete di élites sociali e politiche e non solo dagli assetti istituzionali di cui uno Stato si è dotato, sebbene il dato giuridico conservi la sua centralità in quanto contribuisce a comporre il quadro di riferimento per le dinamiche delle élites.
Mosca cerca di indagare le ragioni di legittimazione, in un determinato contesto politico, di una certa élite piuttosto che di un’altra, e in particolare di una classe politica. Qui entrano in gioco due fattori decisivi nella sua costruzione concettuale: la formula politica e la difesa giuridica. Per entrambe Mosca non riesce a coniare una definizione stringente e univoca, lasciando quindi spazio ad ampie valutazioni interpretative. Tuttavia è plausibile che con l’espressione formula politica egli intenda un insieme di principi di ordine ideale e morale attraverso la cui elaborazione e affermazione una classe politica si legittima agli occhi dei governati: il principio monarchico, la sovranità popolare, il patto federale e così via.
Mosca ribalta il rapporto mezzo-fine che usualmente accompagna questi elementi; nella sua concezione del potere «non è la formula politica che determina il modo di formazione della classe politica, ma al contrario è questa che sempre adotta quella formula che più le conviene» (Sulla teorica, cit., p. 227), nel senso che la legittimazione di una classe politica presso i governati non dipenderà tanto da un’astratta e assoluta fondatezza della formula quanto dalla capacità dell’élite dominante di costruire su di essa, in un determinato momento storico, un complesso di valori che, in quanto condivisi dai governati, siano in grado di consolidare la sua leadership politica.
Correlativamente, la difesa giuridica, cioè l’insieme dei «meccanismi sociali che regolano questa disciplina del senso morale» (Elementi di scienza politica, cit., p. 679), avrà il compito di proteggere la formula politica dalle diverse minacce che la possano mettere in pericolo: spinte disgregatrici, pulsioni individuali o collettive, ventate rivoluzionarie e così via. Insomma, questi due elementi di un sistema politico costituiscono al tempo stesso strumenti di legittimazione delle élites, cemento sociale e barriere a difesa degli equilibri esistenti.
Fin qui, la costruzione intellettuale di Mosca si pone come essenzialmente descrittiva di alcune regolarità riscontrabili nelle società politiche, fortemente caratterizzata da uno sguardo realistico, disincantato e avalutativo rispetto ai fenomeni che studia. Un’impostazione che ritroviamo anche nella sua classificazione dei regimi politici, tutta protesa a superare le tradizionali classificazioni basate sul numero dei detentori del potere (monarchia, aristocrazia, oligarchia, repubblica, democrazia), ritenute troppo formalistiche per cogliere gli effettivi caratteri di una forma di governo.
Mosca propone un radicale cambio di prospettiva: una classificazione che guardi ai reali meccanismi di formazione (intesa dall’autore come genesi) e organizzazione della classe politica.
In quest’ottica, egli elabora quattro fondamentali concetti. La formazione può essere aristocratica o democratica a seconda del grado minore o maggiore di apertura al rinnovamento da parte di fattori esterni a essa (molto ridotto nel primo contesto, massimo nel secondo); l’organizzazione può essere autocratica o liberale in funzione dei diversi meccanismi di trasmissione dell’effettività del potere (meramente dall’alto verso il basso, oppure con una delega dal basso verso l’alto). Dalla combinazione di questi quattro elementi scaturiscono le categorie in grado di suddividere i diversi regimi politici con una classificazione finalmente rispondente alle reali dinamiche con cui il potere viene conquistato, esercitato, conservato e trasmesso.
Le nuove forme di governo di cui l’osservatore politico dovrà servirsi per penetrare i caratteri dei regimi politici e quindi costruire una propria dottrina dello Stato sono sintetizzabili attraverso le seguenti categorie: 1) aristocratico-autocratica; 2) aristocratico-liberale; 3) democratico-autocratica; 4) democratico-liberale, alla cui descrizione dedica il capitolo IV della parte seconda (pubblicata nell’edizione del 1928) degli Elementi di scienza politica.
Secondo Mosca, ciascuna coppia presenta elementi di forza e di debolezza. In questo contesto egli propone una valutazione di queste forme di governo in relazione non a un giudizio morale o astrattamente ideologico, bensì alla capacità di ciascuna di produrre equilibri in grado, da un lato, di evitare il dominio violento di parti della società su altre escluse dalla gestione del potere e, dall’altro, di assicurare un ordinato sviluppo della vita collettiva. Eventuali squilibri finirebbero alla lunga per minare il regime politico alle fondamenta, causandone il crollo.
A suo parere, i sistemi maggiormente in grado di perseguire questi complessi obiettivi sono quelli in cui albergano e convivono elementi misti, cioè quelli in cui non prevale in modo netto nessuno dei parametri presi in considerazione, ma si crea una dinamica, tesa però ordinata, capace di bilanciare interessi, aspirazioni e pulsioni dei diversi gruppi sociali.
È a questo punto possibile affrontare il tema forse più spinoso della dottrina di Mosca, ossia la critica al sistema democratico. La sua avversione nei confronti della democrazia dev’essere inquadrata all’interno delle coordinate che abbiamo esaminato, cioè quelle proprie di uno studioso che ha fatto del realismo e della volontà di scavare nei meccanismi concreti delle dinamiche del potere la propria cifra concettuale e stilistica.
Al fondo della sua critica alla democrazia vi è proprio la supposta pretesa di questo sistema di superare il paradigma elitista. Secondo i suoi teorici, e qui Mosca ha in mente soprattutto l’elaborazione rousseauiana della democrazia, questo regime politico realizzerebbe la piena identità, o per lo meno concordanza di vedute, tra governanti e governati, per cui per la prima volta nella storia non solo non sarebbero più le élites organizzate a detenere il potere, ma addirittura scomparirebbe la stessa dicotomia tra di esse e le maggioranze disorganizzate. Mosca non può aderire a questa analisi, e anzi s’impegna in un’incisiva critica attraverso la descrizione dei reali meccanismi che presiedono alla dialettica democratica, compresa quella rappresentativa.
A suo parere, l’essenza della democrazia nasconde un inganno: l’autogoverno del popolo, ovvero la sovranità popolare. In realtà, egli mostra come gli elementi fondamentali della rappresentanza parlamentare non rispecchino affatto l’utopia antielitista. I necessari meccanismi di aggregazione del consenso, specialmente quelli legati al momento elettorale, e la necessaria imputazione di responsabilità delle decisioni politiche in capo ai rappresentanti, ripropongono con forza il tema dell’organizzazione della classe politica e del relativo potere in capo a questa minoranza.
Certo, lo stesso Mosca rileva come i canali di legittimazione e di trasmissione del potere a favore di un’élite democratica rispondano a principi ed esigenze peculiari rispetto a quelle proprie di altri regimi, ma queste modalità specifiche rientrano pienamente nella filosofia della classificazione delle forme di governo che egli propone, e quindi non costituiscono una valida ragione per negare il paradigma elitista. Pertanto quest’ultimo si ripropone inesorabilmente, sia pure in forme nuove e talvolta anche paradossali o, appunto, ingannatrici, come rileva lo stesso Mosca quando tratta del delicato tema del suffragio:
Chiunque abbia assistito ad un’elezione sa benissimo che non sono gli elettori che eleggono il deputato, ma ordinariamente è il deputato che si fa eleggere dagli elettori: se questa dizione non piacesse, potremmo surrogarla con l’altra che sono i suoi amici che lo fanno eleggere (Sulla teorica, cit., p. 476).
Di qui la sua contrarietà all’estensione del diritto di voto alle fasce di popolazione escluse (i meno abbienti, gli incolti, le donne): il tasso di inganno crescerebbe a dismisura, perché a persone ancora prive degli indispensabili strumenti intellettuali si farebbe credere di entrare con il voto a fare parte del gioco democratico, quando, in realtà, si renderebbe ancora più vasta la platea dei manipolabili, a tutto vantaggio, ancora una volta, di quelle frazioni di classe politica meglio organizzate per farsi scegliere dal corpo elettorale.
Una considerazione valida anche per argomentare la propria avversione all’introduzione, in luogo del sistema maggioritario a doppio turno in vigore nell’Italia statutaria, del voto di lista con assegnazione proporzionale dei seggi (Griffo 1990, p. 673), come poi effettivamente avverrà a partire dal 1919. Questo metodo, secondo Mosca,
distrugge in buona parte quell’influenza personale che un candidato può facilmente esercitare in un collegio ristretto […] e lo abbandona così più che mai in potere dei grandi elettori, i quali entrerebbero nei comitati che manipolano le varie liste (Sulla teorica, cit., p. 503).
In sostanza, verrebbe ulteriormente accentuato il tasso di finzione che affligge il sistema democratico nel suo insieme.
Se questa è la fotografia delle radici concettuali che fondano la giovanile critica di Mosca alla democrazia, va però riconosciuto che negli anni della maturità scientifica, pur non venendo mai meno quei rilievi di fondo, i toni aspri e le punte polemiche lasciano progressivamente spazio a una rivisitazione generale del sistema democratico. In particolare, nelle varie edizioni degli Elementi di scienza politica (1896, 1923, 1939) appare evidente un’attenuazione della vis polemica che aveva caratterizzato l’opera giovanile Sulla teorica dei governi.
Alla ripulsa per gli inganni comunque insiti nel sistema democratico si affianca una rivalutazione delle opportunità, sul piano della circolazione delle élites e di una diffusa accettazione della formula politica che una democrazia parlamentare può offrire, purché dotata di un impianto istituzionale equilibrato e a patto che la dialettica sociale si sviluppi senza radicalismi conflittuali. In questi termini Mosca riproporrà i canoni classici, giuridici e storico-politici del governo moderato, misto, bilanciato, alla luce della riflessione imposta dal Novecento con l’impetuosa irruzione delle masse sullo scenario politico.
La migliore dimostrazione di questa evoluzione nel pensiero di Mosca è proprio costituita dal citato discorso che egli tenne in Senato il 19 dicembre 1925, in morte dello Stato liberale italiano e della sua democrazia parlamentare, per opporsi al disegno di legge voluto da Mussolini sul rafforzamento dei poteri del capo del governo: «Le forme di governo immediatamente precedenti al regime parlamentare erano tali, che francamente si può dire che questo sistema era migliore di esse»; quanto ai cambiamenti proposti «se li approvassi voterei contro la mia coscienza, contro le mie intime convinzioni, e perciò sono costretto a dare il voto contrario alle proposte che ci sono ora davanti» (cit. in Discorsi parlamentari, 2003, pp. 362-63).
Per lungo tempo nella dottrina, soprattutto italiana, è prevalsa nettamente una lettura fortemente negativa della costruzione teorica di Mosca, giudicato un pensatore inattuale, nostalgico di un tempo irrimediabilmente perduto e incapace di cogliere i profili più dinamici della modernità. Questi giudizi sono stati ampiamente ribaditi e arrivano fino ai giorni nostri; tuttavia, da una certa fase in poi, soprattutto sulla spinta delle opinioni espresse da Norberto Bobbio (1969, 20052), che pure è un illustre esponente del pensiero neoilluminista, si sono imposte nel dibattito valutazioni più equilibrate e non superficialmente liquidatorie.
Intanto è stato riconosciuto come il pensiero di Mosca non possa essere ascritto al filone reazionario e antimoderno. Egli era certamente un conservatore, nel senso che il suo orizzonte politico era quello di un liberalismo avverso a qualsiasi forma di radicalismo e attento alla difesa di determinati valori reputati irrinunciabili per una corretta organizzazione sociale, e pertanto sempre proteso alla ricerca degli equilibri politici più solidi. Ma il merito maggiore di questa rivisitazione del pensiero di Mosca è stato quello di avere messo in luce come l’elitismo non sia affatto una dottrina dai contenuti regressivi, ma un tentativo, realistico, disincantato, anche se talvolta giudicato urticante, di mettere a nudo la concreta essenza del potere politico, al di là dei proclami di facciata, spesso ingannatori, di chi lo esercita. Ne è prova l’ascendente esercitato dalla teoria della classe politica su parecchi intellettuali che nel Novecento hanno contribuito a spiegare i meccanismi politici, economici e sociali delle società contemporanee, da Raymond Aron (1905-1983) a Joseph A. Schumpeter (1883-1950; sul tema cfr. Stoppino 1973).
Inoltre, il pensiero di Mosca, depurato di taluni aspetti superati dal trascorrere del tempo, può essere anche visto come un prezioso antidoto verso alcuni pericoli strutturali che i regimi politici contemporanei sembrano presentare sempre più acutamente. In particolare, egli ha ancora molto da dirci sulle cause e sugli effetti del populismo, della demagogia e della carenza di senso dello Stato che troppo spesso sembrano connotare le attuali classi politiche.
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