POSTIGLIONE, Gaetano
POSTIGLIONE, Gaetano. – Nacque a Foggia il 20 ottobre 1892 da Michele, direttore della sede di Avellino del Banco di Napoli, e da Maria Rosa Stella, terzo figlio dopo Luisa e Ada.
A Milano, dove la famiglia si era trasferita dopo la morte prematura del padre, conseguì il diploma tecnico e poi, dopo la guerra, la laurea in ingegneria al Politecnico. Nel capoluogo lombardo la sua formazione giovanile, nutrita di idealità mazziniane e repubblicane, come buona parte della gioventù borghese italiana del primo Novecento, a contatto con i diffusi fermenti futuristi e nazionalisti, avversi al Partito socialista e fortemente critici della politica giolittiana, accusata di trasformismo e tradimento delle tradizioni risorgimentali, maturò rapidamente verso scelte interventiste. Nel dicembre del 1914 aderì ai Fasci di azione rivoluzionaria di Filippo Corridoni e Michele Bianchi; prese parte quindi al conflitto in qualità di ufficiale di complemento meritando una medaglia di bronzo.
Il 23 marzo 1919 partecipò alla fondazione dei Fasci di combattimento nella riunione milanese di piazza San Sepolcro, promossa da Benito Mussolini, e iniziò a distinguersi come comandante di squadre di azione e componente del direttorio del Fascio milanese. La formazione tecnica influì certamente nell’orientare Postiglione, all’interno del variegato universo fascista delle origini, verso posizioni tese a coniugare il controllo autoritario delle masse con strategie di modernizzazione tecnocratica. In questa prospettiva la rivendicazione di logiche liberiste si accompagnò alla ricerca preliminare di consenso in primo luogo dei settori della tecnica e delle professioni. Il 13 aprile 1921 fondò a Milano il Sindacato italiano cooperative di produzione e di consumo, divenendo presidente del Consiglio di amministrazione; in questa veste entrò a far parte del direttorio delle Corporazioni fasciste e, nel 1923, del Gran consiglio del fascismo.
Testimonia le opzioni di Postiglione, all’interno del fascismo degli anni Venti, la polemica con Giuseppe Bottai che – assunta la segreteria della Federazione nazionale delle cooperative di lavoro, per far fronte a serie difficoltà economiche delle strutture associate – aveva rivendicato alla mano pubblica una quota maggiore di appalti per lavori con opportune agevolazioni finanziarie.
Postiglione accusò Bottai di «succhionismo» ai danni dello Stato, alla stregua delle cooperative rosse, e contrappose alla sua posizione statal-assistenziale la necessità che anche le «cooperative di lavoro [dovessero] essere tecnicamente capaci di poter vincere con la loro organizzazione la concorrenza delle imprese private e non devono trovare in privilegi statali la ragione unica del loro successo» (Cordova, 1974, p. 218).
Nel 1923 Postiglione tornò a Foggia e qui il suo fascismo ‘urbano’, fatto di controllo autoritario delle masse, privatismo e modernizzazione tecnocratica, incentrata sulla direzione burocratica della città sulla provincia, trovò il terreno di pratica sperimentazione. Questa linea politica, tuttavia, si scontrò con quella di Giuseppe Caradonna, ras della Capitanata, deputato della circoscrizione Bari-Foggia, ed espressione del privatismo squadrista agrario, riuscito in breve tempo ad assorbire la base elettorale dello stesso Antonio Salandra e a candidarsi quale ‘campione’ della ‘campagna’ contro la ‘città’. Lo scontro, che produsse inizialmente lo scioglimento della Federazione provinciale del Partito nazionale fascista (PNF), vide il progressivo isolamento di Caradonna e contemporaneamente il coagularsi attorno a Postiglione anche della componente foggiana di tradizione liberal-conservatrice.
Nel marzo del 1923 venne nominato commissario straordinario e quindi, presidente, dell’Ente autonomo acquedotto pugliese (EAAP) che – istituito nel dicembre del 1919 – era rimasto sin lì paralizzato da difficoltà finanziarie e amministrative. Alla nomina non fu probabilmente estraneo il tentativo di allontanarlo dagli scontri all’interno alla Federazione foggiana; ma quella carica divenne ben presto il volano per avviare – attraverso un istituto statutariamente destinato, oltre che all’approvvigionamento idrico dei centri abitati, a svolgere una funzione di irrigazione e trasformazione agraria della campagna – un progetto di trasformazione fondiaria delle campagne foggiane e, in prospettiva, della Puglia. Preoccupazione preliminare di Postiglione fu innanzitutto quella di superare il disordine organizzativo dell’Ente e la stessa condizione di incertezza in cui versava la posizione giuridica degli impiegati.
L’Acquedotto cominciò a essere modellato come un ente pubblico, in quanto istituito per perseguire fini pubblici (l’approvvigionamento idrico), che rientravano fra le attività dello Stato. Secondo questa impostazione la presidenza avrebbe avuto, attraverso proprie emanazioni, una presenza diretta nel Consiglio di amministrazione e l’apparato tecnico amministrativo dell’Ente sarebbe stato riorganizzato secondo i principi della riforma della pubblica amministrazione del 1923. L’opzione gerarchica e autoritaria nella riorganizzazione interna fu tuttavia affiancata da una persistente vocazione interventistica e modernizzatrice, che giungeva a individuare nel coinvolgimento delle stesse amministrazioni comunali un altro motore dell’espansione della stessa rete idrica. Il punto di incontro delle due tendenze fu trovato da Postiglione nell’attenzione privilegiata alle fasce alte del personale tecnico e amministrativo. La presenza all’interno del Consiglio di amministrazione dell’Acquedotto di personalità come Carlo Petrocchi e l’inserimento, già nei primi anni Venti, di figure come Eliseo Jandolo testimoniano del tentativo di mantener vivi nella conduzione dell’Ente motivi e aspirazioni di natura tecnocratico-riformistica. Venivano in tal modo poste solide basi per accelerare la costruzione della rete idrica in Puglia, sostanzialmente completata alla metà degli anni Trenta, e per avviare la costruzione delle reti fognanti non solo nelle principali città della regione.
Negli stessi anni Postiglione si sforzò di dare attuazione al più vasto disegno tecnocratico che, in virtù delle stesse finalità statutarie dell’Ente, affidava all’Acquedotto pugliese un ruolo propulsore nell’irrigazione e modernizzazione della campagna. Il 23 marzo 1924 Postiglione – eletto nello stesso anno deputato e confermato nelle due legislature successive – diede così vita all’Ufficio speciale irrigazioni.
Esso avrebbe dovuto promuovere «la raccolta di dati circa la disponibilità e la convenienza dell’impiego dell’energia elettrica per gli scopi irrigui, la compilazione del piano regolatore delle imprese irrigue, nonché delle opere di bonifica agraria e, se del caso, idrauliche, le quali siano da considerare connesse, nei riguardi tecnici ed economici, alla irrigazione; la redazione dei progetti tecnici e finanziari delle opere, la esecuzione e gestione di quelle opere per le quali l’Ente Autonomo faccia domanda di concessione» (EAAP, Relazione al Parlamento sull’andamento dell’azienda durante l’anno 1924, Bari 1925, p. 23).
Due anni più tardi, al successivo II Congresso nazionale per le irrigazioni, Postiglione avrebbe dato una formulazione più completa al suo progetto, secondo il quale la trasformazione del Mezzogiorno sarebbe stata possibile solo studiando «le possibilità che consentono di modificare qua e là quei fattori dell’ambiente fisico-economico che ostacolano o quanto meno non favoriscono una così importante trasformazione agraria» (Federazione nazionale delle irrigazioni, Atti del II Congresso nazionale, Bari 14-16 aprile 1926, Milano 1926, p. 69).
Concreta attuazione di queste premesse era stato, nel 1924, l’acquisto di un fondo (ca. 80 ettari) nelle vicinanze di Foggia – per sperimentare i programmi di irrigazione, onde coinvolgere successivamente gli agricoltori foggiani e promuovere soprattutto i piccoli e medi proprietari a protagonisti dell’avvio del processo di modernizzazione nelle campagne –, seguito dalla costituzione di un Consorzio di bonifica del Tavoliere nel 1927, e da quella del Consorzio generale di bonifica e trasformazione agraria di Capitanata nel 1929. Tuttavia, l’operazione ebbe bisogno di un intervento pressante dall’alto sui proprietari, «addormentati» li definì polemicamente Postiglione, e dovette fare i conti, in particolar modo dopo il 1927, con la conclusione del ciclo espansivo di formazione della piccola e media proprietà coltivatrice.
La sua ipotesi di una modernizzazione sulla base di un compromesso sociale tra grande e piccola proprietà, cominciava così a rivelare le sue debolezze. D’altra parte lo stesso progetto di bonifica e trasformazione agraria delle campagne foggiane non poteva non poggiare sull’individuazione della città come centro di direzione e governo burocratico dell’intero processo. La ‘grande Foggia’ fu infatti l’altro polo di intervento.
Conclusa l’emarginazione del rivale Caradonna, Postiglione avviò la riorganizzazione del Fascio della città assumendo di fatto l’effettivo controllo politico anche dell’amministrazione comunale attraverso la nomina a podestà di Foggia, il 1° gennaio 1927 e dopo tre anni e mezzo di gestione commissariale, di Alberto Perrone, suo amico e collaboratore. A questi fu demandato il compito di ricavare spazi all’interno della città per la costruzione di edifici che avessero una funzione rappresentativa degli organi periferici del governo nazionale e del PNF, e di favorire – attraverso la promozione di una struttura articolata di servizi – la formazione di nuovi ceti urbani, di un più dinamico terziario amministrativo e tecnico, in grado di contenere e poi di governare anche il più riottoso ceto proprietario della provincia. Strumento decisivo di questo disegno fu l’emanazione, nel novembre del 1927, del bando di concorso per la stesura del nuovo piano regolatore.
Il piano prevedeva, nella prospettiva di uno sviluppo demografico fino a 200.000 abitanti, accanto alla conservazione del centro storico, l’allontanamento dei contadini dalla città e la costruzione di borgate rurali, da collocare al di là di una circonvallazione individuata come limite massimo dell’espansione urbana, il risanamento dei quartieri igienicamente più deteriorati e l’edificazione di nuovi spazi per la vita e le attività di vecchi e nuovi ceti medi.
La relazione conclusiva, che esaminava i progetti presentati e individuava il vincitore, fu firmata oltre che dal podestà Perrone, dallo stesso Postiglione e da Cesare Albertini, ingegnere capo del Comune di Milano, al quale il 28 marzo 1930 fu affidato l’incarico della stesura definitiva del piano.
Anche l’ipotesi di trasformazione dell’assetto urbanistico della città di Foggia, tuttavia, andò ben presto incontro a un sostanziale fallimento per l’opposizione della proprietà edilizia a contribuire, con l’amministrazione comunale, a impegnare risorse nell’opera di risanamento dei vecchi quartieri e di completamento dei nuovi. L’ultimo sforzo di Postiglione di coinvolgere città e campagna in un disegno modernizzatore può considerarsi il concepimento di una cartiera nel capoluogo, grazie all’individuazione di una falda freatica ricca di acqua e alla disponibilità di consistenti quantità di paglia di frumento. La cartiera sarebbe stata poi assorbita nel 1936, come tutta l’industria della cellulosa, dal Poligrafico dello Stato. La nomina a presidente dell’Ente nazionale cellulosa e carta, nel novembre 1935, fu il riconoscimento di questo ulteriore impegno di Postiglione.
Questi, però, nel 1932 aveva lasciato la presidenza dell’Acquedotto pugliese per essere stato nominato sottosegretario del ministero delle Comunicazioni, una promozione che aveva anche il sapore di un allontanamento da luoghi in cui aveva consolidato un indubbio potere personale. Con la sua partenza anche l’Acquedotto pugliese abbandonava progetti di uso dell’acqua per irrigazione e trasformazione agraria, limitando il suo intervento all’approvvigionamento idrico dei centri abitati. Nel 1934 il suo amico Perrone lasciò la carica podestarile e con lui si avviò al tramonto il progetto della ‘grande Foggia’.
Morì improvvisamente il 25 dicembre 1935 a Roma, per un attacco di polmonite, e con lui tramontò ogni disegno di autoritarismo tecnocratico in Capitanata.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, 1925, 3.19.2944; 1926, 14.2.1397, 3.1043; 1927, 8.1.2559; 1931-1933, 8.1.6885, 8.1.7986; Segreteria particolare del duce, Carteggio riservato, b. 77; Bari, Acquedotto pugliese, Ente autonomo acquedotto pugliese, Consiglio di Amministrazione, Verbali; Relazioni annuali sull’attività dell’Ente.
Oltre al volume di M. Ariano, G. P.: biografia di un modernizzatore, Foggia 2000, sono da vedere: S. Colarizi, Dopoguerra e fascismo in Puglia (1919-1926), Bari 1970, pp. 272 s., 333, 338, 400; R. Colapietra, La Capitanata nel periodo fascista (1926-1943), Foggia 1978, pp. 12-14, 17-19, 31-34, 70-72, 77-79, 99-101, 127-133, 144-177; E. Corvaglia - M. Scionti, Il piano introvabile. Architettura e urbanistica nella Puglia fascista, Bari 1985, pp. 29, 102, 107, 114; L. Masella, Acquedotto pugliese. Intervento pubblico e modernizzazione nel Mezzogiorno, Milano 1995, pp. 16 s., 106-109, 114 s., 118 s., 126 s., 136-141, 144-146. Su Postiglione sindacalista utili indicazioni in F. Cordova, Le origini dei sindacati fascisti, Bari 1974, pp. 170, 198, 218.