SALVEMINI, Gaetano
– Nacque a Molfetta l’8 settembre 1873 da Ilarione e da Emanuela Turtur.
Secondogenito, crebbe all’interno di una famiglia numerosa, composta da dodici figli, dei quali nove sopravvissuti. Del padre, piccolo proprietario con un passato garibaldino e un’attività da istitutore, egli parlò senza trasporto, addebitandogli responsabilità nella cattiva gestione degli affari familiari; molto diverso l’atteggiamento, di ammirazione, mantenuto nei confronti della madre. Pendenze giudiziarie, speculazioni avventate e, sullo sfondo, le difficoltà provocate ad alcuni settori dell’agricoltura pugliese dalla linea protezionistica adottata dal governo italiano, determinarono una situazione di disagio economico. Ruolo non trascurabile ebbe negli anni formativi uno zio prete, don Mauro Giuseppe Salvemini, che lo avviò al latino. Gaetano entrò in seminario a Molfetta, e vi frequentò il ginnasio e il liceo.
Qualche buon insegnante – di greco, matematica e storia – e varie, poco sistematiche letture avevano prodotto un profilo intellettuale che il vecchio Salvemini avrebbe presentato come disordinato, anche se segnato da una certa consistenza etica, accompagnata da una precoce crisi delle convinzioni religiose. Nel suo testamento avrebbe chiarito i termini della sua persistente distanza dalla Chiesa; ripensando agli anni della sua formazione avrebbe narrato alcuni episodi rivelatori, come quello relativo all’incontro con le teorie evoluzioniste pacatamente esposte dal docente di geografia a Firenze, Bartolomeo Malfatti. Una forte tensione etica avrebbe contraddistinto l’intero itinerario intellettuale e politico – oltre che strettamente biografico, con la tragedia del terremoto del 1908 che colpì la sua famiglia – di Salvemini. In appunti editi dopo la sua morte si sarebbe richiamato alla vecchierella di Blaise Pascal e al codice morale cristiano come a punti di riferimento; atteggiamento, questo, tutt’altro che contraddittorio rispetto al suo radicato anticlericalismo e alle critiche rivolte alla politica vaticana tra fascismo e postfascismo. In margine alle pagine del 1949 sui ricordi universitari del 1890, occorre osservare che Salvemini ha lasciato non pochi contributi alla critica di sé stesso, affidati a saggi, prolusioni, prefazioni, memoriali (il più celebre, forse, è quello noto con il titolo di Memorie di un fuoruscito, edito parzialmente nel 1954 e poi ripreso, postumo, nel 1960) e lettere; recenti edizioni di carteggi attestano ulteriormente l’importanza di questo tipo di fonte e del Salvemini epistolografo. Tuttavia, rispetto ai documenti più propriamente diaristici – fondamentali, da questo punto di vista, gli appunti del 1922-23 ora disponibili in edizione critica come Memorie e soliloqui – le altre testimonianze sono più segnate dal momento, dal contesto, dalle finalità della stesura: Salvemini che narra di sé è spesso affascinante, ma va usato con le dovute cautele.
Di indubbia importanza furono nella sua formazione il periodo di studi universitari a Firenze, reso possibile da una modesta borsa di studio conseguita nel 1890, e la figura di Pasquale Villari che presto, nel 1894, aveva individuato in lui l’allievo «forse il migliore del nostro Istituto» (Moretti, 1996, p. 19). Benché spesso assente da Firenze a causa dei suoi impegni politici, Villari ebbe in quegli anni la duplice funzione di sollecitatore di larghi interessi storiografici e intellettuali, e di tramite verso ambienti sociali ben diversi da quelli di provenienza dell’allievo – Carlo Placci, Bernard e Mary Berenson –, che avrebbero contato molto in successivi momenti della biografia salveminiana. Maestri in senso più tecnico, guide nel lavoro e nel rapido inserimento nella sfera della scienza accademica furono Cesare Paoli e Alberto Del Vecchio.
La prima fase della produzione storiografica di Salvemini, ben ricostruita da Enrico Artifoni, va ricondotta ai percorsi e agli obblighi istituzionali della sezione di filologia e filosofia dell’Istituto di studi superiori, con intrecci evidenti fin dagli esordi: l’opera maggiore, Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, edita nel 1899, è il frutto di un’esercitazione del 1892, poi ampliata nella tesi di perfezionamento, nel 1895; il volume su La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, apparso nel 1896, riprendeva la tesi di laurea, presentata nel 1894. Il visibile rinnovamento del quadro interpretativo – con un forte impatto sugli studi, anche se presto ridimensionato e messo in discussione dallo stesso Salvemini – avveniva dunque all’interno di una transizione controllata, pur se non priva di tensioni; al giovane Salvemini non mancarono le occasioni per prendere le distanze da Villari, il quale a sua volta si mostrava preoccupato per le scelte politiche dell’allievo.
Quella stagione di apprendistato, infatti, fu sostenuta da forti motivazioni etiche e politiche, e dalla scoperta del socialismo, condivisa con un gruppo di compagni di studio fra i quali spiccava la figura di Ernesta Bittanti. La dimensione dottrinale, forse, non era fondamentale. Più Achille Loria che Karl Marx, come è evidente nell’impianto esplicativo di Magnati e popolani... – la spinta demografica e le sue conseguenze nel conflitto fra proprietari e titolari di rendite, e lavoratori-consumatori –, e giornali, riviste di filosofia positiva, romanzi russi, conversazioni, impegno minuto di propaganda: esperienza vissuta più che trama ideologica. Dopo la laurea, Salvemini intraprese la carriera di insegnante. Nell’ottobre del 1895 era al ginnasio di Palermo, dove prese contatto con gli ambienti legati ai Fasci siciliani; nell’anno scolastico successivo, e per due anni, insegnò al liceo di Faenza, per poi passare a Lodi e rientrare, nel 1900, al liceo Galilei di Firenze. Nel 1899 partecipò senza successo al suo primo concorso universitario, ottenendo un giudizio in cui si rilevava l’unilateralità del suo punto di vista; a un anno e mezzo di distanza, nel maggio del 1901, si sarebbe però classificato secondo nel concorso bandito per l’Università di Catania. In questo caso, il taglio interpretativo che caratterizzava i suoi studi medievistici fu ben accolto, e la vacanza della cattedra di storia moderna all’Università di Messina gli aprì in tempi ragionevoli la via dell’insegnamento universitario. Nel frattempo aveva sposato, il 21 ottobre 1897, Maria Minervini, figlia di un ingegnere pugliese, conosciuta a Firenze, e con la quale ebbe cinque figli (Filippo, Leonida, Corrado, Ugo ed Elena).
All’inizio del secolo, Salvemini non era più solo il brillante, irrequieto allievo dell’Istituto fiorentino; corrispondente di Filippo Turati, Ettore Ciccotti, Arcangelo Ghisleri, era ormai, con le cautele imposte dalla sua condizione di insegnante, un apprezzato pubblicista del campo democratico e socialista, collaboratore dell’Avanti! e, dal 1897, della Critica sociale.
Mentre preparava il testo finale di Magnati e popolani..., Salvemini avviò le sue indagini sull’Italia meridionale scrivendo di Molfetta, del suo controverso rapporto con la dimensione partitica intervenendo su socialisti e cattolici, e, soprattutto, avviò la sua ricerca contemporaneistica, alimentata dalla dura esperienza della crisi di fine secolo letta alla luce di Carlo Cattaneo critico e storico del 1848. Il volumetto sui Partiti politici milanesi nel secolo XIX (Milano 1899) era centrato sulla contrapposizione fra blocco monarchico-moderato e schieramento democratico, con evidenti implicazioni politiche – la necessità di alleanze per i socialisti –, e con la formulazione di un negativo giudizio di fondo sui caratteri dello Stato unitario, oggetto di una più tarda revisione, che segnava anche la rottura con il disegno operativo del meridionalismo liberale e si collegava a forti istanze autonomiste e federaliste. Precoce, dunque, l’accostamento alla storia contemporanea, e frutto di un intreccio fra nuove suggestioni intellettuali – la scoperta, nel breve periodo lodigiano, di Cattaneo che sarebbe rimasto uno dei suoi autori di riferimento –, motivazioni politiche, pratiche disciplinari. In più di uno studio recente si è insistito sul parallelismo dei percorsi, nel passaggio dalla storia medievale a quella contemporanea, di studiosi come Salvemini e Gioacchino Volpe. La constatazione è fondata su un piano estrinseco, ma appare non del tutto soddisfacente se si guarda all’effettivo svolgimento storiografico: nel Salvemini medievista, ad esempio, non appare l’interesse del giovane Volpe per la storia del lento organarsi di una nazione italiana, e la Firenze medievale è lo scenario di altri processi. Documento di questa fase dell’opera di Salvemini è la prolusione del 1901, La storia considerata come scienza, in cui ribadiva, in un articolato confronto con il coevo Methodenstreit europeo, la propria concezione unitaria del metodo scientifico e il nesso fra storia e scienza sociale, incrinato, però, da riserve molto significative: «quel contrasto fra storia individuale e storia sociale – la prima così detta storia, la seconda vera storia – noi non riusciamo in nessun modo a vederlo, perché non vediamo nessun contrasto fra l’individuo e la società [...] non esiste nella realtà un atto sociale per sé stante, come non esiste una società (convivenza) staccata dagli individui conviventi» (Scritti vari (1900-1957), a cura di G. Agosti - A. Galante Garrone, Milano 1978, p. 115). È qui la matrice del radicalismo politico e intellettuale salveminiano, con il rapido distacco da un appena accennato impianto classista, la larga apertura ad altre sollecitazioni – già allora, oltre a Cattaneo, Gaetano Mosca – e l’orientamento democratico che, con la dovuta attenzione a importanti passaggi periodizzanti, può essere considerato il principale tratto di fondo della sua vicenda umana e politica. Nella prolusione Salvemini aveva anche denunciato gli eccessi dell’erudizione accademica e il disprezzo per i lavori di sintesi; su incarico di Villari mise allora mano a uno studio sulla Rivoluzione francese, che nelle sue intenzioni si sarebbe dovuto concludere con la proclamazione dell’Impero e che invece si arrestò al 1792. Nella ricostruzione salveminiana – La Rivoluzione francese (1788-1792), edita a Milano nel 1905 – era centrale, sulla base del confronto con la tradizione storiografica francese, da Alexis de Tocqueville a Jean Jaurès, il problema della crisi dell’antico regime (Salvemini avrebbe continuato a considerare un capolavoro L’Ancien régime et la Révolution); ampio rilievo veniva assegnato al peso dell’iniziativa popolare, mentre scarsa simpatia emergeva per il dispotismo del Terrore. L’importanza dell’opera venne subito registrata; Salvemini, che ne curò sette edizioni, affermò di ritenerla la sua meglio riuscita, e il giudizio appare condivisibile, magari con l’accostamento delle più tarde Lezioni di Harvard sulle origini del fascismo. A consolidare il nuovo indirizzo della ricerca salveminiana interveniva poi una prolusione del dicembre 1904, trasformata nel volumetto Il pensiero e l’azione di Mazzini (Messina 1905), singolare dissezione analitica del pensiero politico di Mazzini, più che ricostruzione del suo svolgimento. L’interesse per Mazzini, appena accennato in precedenza, sarebbe rimasto assai vivo in Salvemini, per motivi etici oltre che politici, e legati alle sue posizioni in politica estera, ed è stato in tempi a noi prossimi al centro di un teso dibattito storiografico.
Nei primi anni del Novecento, Salvemini aggiunse al suo campo di azione la questione scolastica, nella Federazione nazionale insegnanti scuole medie, in stretta collaborazione con Giuseppe Kirner, dal 1902. Non si trattò solo di lavoro sindacale: Salvemini avrebbe preso parte ad alcune rilevanti discussioni, come quella del 1907 con Giovanni Gentile sulla laicità della scuola, opponendosi, da un lato, all’insegnamento catechistico, dall’altro, all’adozione di provvedimenti come l’esclusione dei sacerdoti dall’insegnamento pubblico.
Su questo terreno l’attenzione di Salvemini rimase sempre viva; nei suoi interventi sulla situazione italiana dopo il 1945 va messa in evidenza la preoccupazione per il governo democristiano della scuola.
Nel 1905 venne insediata una Commissione reale per il riordinamento degli studi secondari, e Salvemini fu chiamato a farne parte. A causa dei dissensi interni, lui e Alfredo Galletti, entrambi esponenti della Federazione, si dimisero producendo un loro testo, pubblicato a Milano nel 1908, La riforma della scuola media.
Su uno dei punti qualificanti della relazione, la presa di distanza dall’idea della scuola media unica, la storiografia ha spesso addebitato a Salvemini un’impostazione socialmente conservatrice del problema scolastico. In realtà, quelle pagine – legate anche al timore di un eccessivo e strumentale affollamento della scuola classica – andrebbero lette accostandole alle coeve analisi della società meridionale, e della funzione corruttrice e di freno esercitata dai ceti dotti e parassitari, e inserite nella più generale prospettiva politica allora elaborata da Salvemini, sempre più distante dal Partito socialista: riforme democratiche di carattere generale, sul terreno fiscale e delle autonomie, antiprotezionismo, suffragio universale. Ed è indubbio che per più di un aspetto – l’idea di una formazione critica, affidata allo sforzo individuale e orientata all’acquisizione di strumenti di autonomia intellettuale, la polemica contro l’atteggiamento utilitaristico di famiglie e studenti – quel volume sia da considerare fra i migliori prodotti della letteratura scolastica italiana.
La sconfitta politica nel concorso del 1905 per la cattedra di storia moderna a Milano, andata a Volpe, fu in sé un incidente di percorso, che pure ebbe qualche conseguenza negli assetti della storiografia italiana. Ma la vita di Salvemini, rimasto a Messina, fu travolta dal terremoto di fine 1908 in cui perse la moglie, i cinque figli e una sorella. Difficile sopravvalutare l’impatto di un simile evento, attorno al quale esistono toccanti documenti umani. Ne derivarono senso di sradicamento e ulteriore attivismo intellettuale e politico. Grazie anche a Villari, Salvemini ottenne fra il 1910 e il 1911 la cattedra pisana di storia moderna; la sua carriera accademica in Italia si sarebbe conclusa con l’approdo a Firenze nel dicembre del 1916. Nello stesso anno sposò Fernande Dauriac, donna di raffinata cultura e moglie divorziata di Julien Luchaire – italianista, fondatore dell’Institut français a Firenze, animatore dal 1916 al 1919 della Revue des nations latines, alla quale avrebbe collaborato anche Salvemini.
Sebbene nel 1910 il Partito socialista avesse fatta propria la rivendicazione del suffragio universale, Salvemini venne accentuando il proprio distacco, soprattutto sulla base dell’antigiolittismo – e fu sorpreso dall’apertura di Giolitti proprio sul terreno elettorale, che egli sperava potesse essere luogo di un movimento dal basso di rivendicazione educatrice. L’avvicinamento al gruppo della Voce, alla fine del 1908, illustrava un mutamento di strategia: denuncia aspra (sarebbero state le edizioni della Voce a pubblicare, nel 1910, Il ministro della mala vita), pieno e duraturo distacco dai partiti – che avrebbe pesato poi molto, fra dopoguerra, antifascismo, Italia liberata –, collegamento a gruppi intellettuali (compagni di strada non sempre consoni) in una prospettiva di pedagogia politica e di elaborazione di una nuova cultura politica.
In una famosa e sconcertante nota diaristica, il 27 novembre 1922, pur delineando il necessario passaggio del fascismo appena giunto al potere «dalla fase antiparlamentare alla fase antidemocratica» (Memorie, a cura di R. Vivarelli, 2001, p. 50), egli avrebbe proposto una risposta in termini di educazione della classe dirigente: «Unica via di uscita sarebbe trovare un gruppo di una ventina di uomini – non è punto difficile trovarli – che per venti anni si dedicassero a un lavoro di coltura politica, specialmente per mezzo di un settimanale assai ben fatto» (p. 51). Nostalgia, dichiarata, per l’Unità, fra tutte la sua impresa più caratteristica, che era apparsa fra il dicembre 1911 e il maggio 1915, con una breve sospensione nell’autunno del 1914, e fra dicembre 1916 e dicembre 1920.
La rottura con la Voce avvenne nel 1911, a causa dell’opposizione di Salvemini alla guerra di Libia, in cui si intrecciavano l’antigiolittismo, l’avversione al blocco di interessi già denunciati nelle sue campagne liberiste e democratiche, e una crescente attenzione per i problemi di politica internazionale. In quegli anni, inoltre, si misurò con l’impegno elettorale diretto, tentato nel 1913 in Puglia, quando poté sperimentare i metodi elettorali governativi che lo sconfissero, e anche una forte solidarietà popolare, che gli procurò una buona affermazione alle elezioni provinciali del 1914. Salvemini non era più iscritto al Partito socialista; Mussolini nel 1914 lo invitò a rientrare nel Partito, in margine all’ipotesi di una candidatura torinese. Di fronte alla guerra europea egli mostrò subito la sua inclinazione favorevole all’Intesa, da tempo timoroso di un possibile squilibrio di potere in Europa a favore della Germania protezionistica. Già nell’agosto prendeva in considerazione l’ipotesi di arruolarsi volontario contro l’Austria; il 18 ottobre 1914 si complimentò con Mussolini per l’abbandono della linea della neutralità assoluta.
Dallo studio delle posizioni salveminiane è emerso il fallimento politico del suo interventismo democratico, sempre più subalterno, nel corso del conflitto, ai disegni nazionalistici. Condizionato, come poi di fronte al fascismo, da una sorta di ossessione antigiolittiana, Salvemini «non colse come in tali condizioni la possibilità di affermazione di una linea politica maggiormente ispirata ai suoi principi passasse paradossalmente per la realizzazione di un ralliement con le forze neutraliste» (Frangioni, 2011, p. 230); e già nel primo dopoguerra Giustino Fortunato aveva rilevato l’errata valutazione di Salvemini: «tu dovevi prevedere che la nostra partecipazione alla guerra si sarebbe risolta a favore, non della democrazia, ma del nazionalismo» (Bütler, 1978, p. 473).
Indubbia la pienezza dell’impegno di Salvemini – arruolatosi volontario e congedato per malattia nel dicembre del 1915 –, e la serietà della sua opera pubblicistica e di studio. Centro ne fu la questione adriatica, nell’aspettativa della dissoluzione dell’Impero; la lunga gestazione del volume La questione dell’Adriatico, bloccato in una sua prima versione dalla censura nel 1916, poi edito a Firenze nel 1918, e scritto con il geografo Carlo Maranelli, produsse, accanto a un fondamentale contributo analitico, la proposta di un compromesso: rinuncia alla Dalmazia, con Zara e Fiume città autonome. Tuttavia quel compromesso, nel contesto determinato dalle rivendicazioni slave, dal patto di Roma dell’aprile del 1918, dalla circolazione delle proposte wilsoniane, fu sgradito; Salvemini, presidente, nell’ottobre del 1918, della Lega per l’indipendenza dei popoli oppressi, divenne, per i nazionalisti italiani, ‘Slavemini’. L’associazionismo di matrice wilsoniana in Italia ebbe vita stentata, non potendo trovare sponda in campo socialista – alla fine del conflitto Salvemini «sottovalutò il peso degli eventi russi nell’orientare in una prospettiva rivoluzionaria il movimento socialista italiano» (Frangioni, 2011, p. 230), salvo poi denunciare l’illusione rivoluzionaria e i suoi effetti nella crisi italiana, donde una coerente posizione anticomunista –, e a causa dell’andamento delle trattative di pace e del famoso messaggio del presidente degli Stati Uniti del 23 aprile 1919, freddo verso le rivendicazioni italiane. Anche Salvemini, che aveva fondato nel 1919 la Lega per il rinnovamento della politica nazionale, riunendo gruppi e riviste legate all’Unità, insistette allora sulla necessità di adeguate garanzie per l’Italia nella prospettiva dell’adesione alla Società delle Nazioni. Nelle elezioni politiche del novembre 1919 fu eletto alla Camera in una lista combattentistica, rimanendo però isolato; la sua battaglia intellettuale, allora poco incisiva, dette frutti di lì a poco in campo antifascista. Durissimi i suoi interventi di politica estera e sulla questione fiumana.
Molto intensi furono gli anni che precedettero l’allontanamento di Salvemini dall’Italia, nell’estate del 1925. L’antigiolittismo pesò sulla sua iniziale comprensione del fenomeno fascista, almeno in parte assimilato a una estensione dei metodi di governo, di violenza legalizzata, adottati da Giolitti nel Mezzogiorno; l’avvento al potere di Mussolini gli apparve come un passaggio che avrebbe reso impraticabile una restaurazione degli equilibri d’anteguerra e che si sarebbe probabilmente esaurito in breve tempo. Indubbio, del resto, l’antifascismo di Salvemini, che proprio in quei mesi cominciò a prendere in seria considerazione l’eventualità di un espatrio. Conclusa nella primavera del 1921 la propria esperienza parlamentare con la decisione di non ricandidarsi e l’invito a votare, dopo la scissione comunista, per il Partito socialista, che avrebbe dovuto adottare una linea di collaborazione, Salvemini si riaccostò agli studi ottocenteschi, curando nel 1922 una raccolta di scritti di Cattaneo e rielaborando, nel 1925, un precedente ciclo di lezioni su L’Italia politica del secolo XIX, primo, parziale superamento dell’originario impianto antimoderato. Fra l’autunno del 1922 e l’inizio del 1923 viaggiò in Gran Bretagna e Francia, apprendendo a Parigi della marcia su Roma. Ancora a Londra, al King’s College, tenne delle lezioni sulla politica estera italiana nell’autunno del 1923, pubblicate dal quotidiano Il Lavoro, e riprese in volume nel 1944 a cura di Carlo Morandi, La politica estera dell’Italia dal 1871 al 1915, avvio di un più ampio progetto scientifico rimasto sospeso e affiancato in quel frangente dalla raccolta Dal Patto di Londra alla Pace di Roma, edita da Piero Gobetti nel 1925. L’incertezza e le illusioni sulla tenuta e sui concreti indirizzi del governo fascista caddero presto, anche di fronte alla prosecuzione delle violenze. Salvemini prese posizioni sempre più esposte in senso antifascista, in contatto, a Firenze, con ambienti come il Circolo di cultura, fondato all’inizio del 1923 con suoi allievi e amici, fra i quali i fratelli Carlo e Nello Rosselli. Il delitto Matteotti segnò un punto di svolta. Salvemini aderì al Partito socialista unitario di Turati; ma la scelta vera fu quella dell’azione clandestina, tradottasi, dopo le violenze fasciste di fine 1924, nella pubblicazione del Non mollare, nel 1925. Dopo la divulgazione di documenti che chiamavano in causa Mussolini per la morte di Matteotti, Salvemini fu arrestato l’8 luglio 1925; gravi violenze fasciste ebbero luogo dopo la prima udienza del processo. Lasciò allora Firenze, per Napoli e Roma. In seguito all’amnistia per i reati politici concessa il 25 luglio 1925, decise di lasciare l’Italia rifugiandosi in Francia nell’agosto, accompagnato nella fuga dal giovane allievo Federico Chabod. Il distacco non fu subito concepito come permanente, e Carlo Rosselli sollecitava il suo rientro. Furono gli assassinii fascisti dell’ottobre a Firenze a definire il quadro. Il 5 novembre Salvemini inviò la sua lettera di dimissioni dall’Università di Firenze, accolte il 25 novembre e seguite dalla destituzione; fu privato della cittadinanza, sulla base della coeva legislazione per la difesa dello Stato, e colpito dal sequestro dei beni.
La nomina ad Harvard, nel 1934, sulla cattedra finanziata dall’attrice Ruth Draper in memoria di Lauro De Bosis, costituisce la principale periodizzazione interna al lungo periodo dell’esilio. Il segno distintivo di quegli anni fu l’impegno antifascista, sul piano organizzativo, pubblicistico e storiografico. Prima di recuperare una stabile, anche se modesta, collocazione accademica, Salvemini, fra Gran Bretagna e Francia, visse della sua penna, di un densissimo impegno di conferenziere – con passaggi negli USA nel 1927, 1928, 1930, e poi stabilmente dall’autunno del 1932, dando lezioni a New York, Harvard, Yale – e di insegnante.
Nuove ricerche consentono ora una valutazione più articolata di questa fase, e correggono alcuni luoghi comuni legati a testimonianze salveminiane, come la presunta vita monacale nella Widener Library, sottolineando il suo inserimento nel contesto intellettuale statunitense.
Nonostante il ruolo avuto nella nascita di Giustizia e Libertà e l’opera di sostegno dell’azione antifascista all’estero, la parte più consistente della sua attività fu quella di polemista e storico, fondata su un’ampia base documentaria che mirava a contrastare la propaganda del regime e a metterne in discussione gli assunti – l’Italia salvata dal comunismo, il risanamento economico – evidenziando l’uso sistematico della violenza, la cancellazione dello Stato di diritto, le complicità della monarchia e del Vaticano. Nel 1927 apparve negli USA la prima edizione di The fascist dictatorship in Italy, poi rimaneggiata, opera in sostanza ancora di denuncia, che conobbe una certa fortuna; nel 1932 veniva pubblicato il suo studio su un decennio di politica estera fascista, il Mussolini diplomate; nel 1936 fu dato alle stampe Under the axe of fascism, centrato soprattutto su uno scrupoloso esame della realtà del corporativismo, mostrando l’oppressione e l’impoverimento dei lavoratori italiani, ma mettendo in evidenza anche l’irriducibilità della struttura e della gestione del potere fascista a un semplice schema classistico. Le tre opere storico-politiche rispondevano a motivi di fondo dell’atteggiamento di Salvemini nei confronti del fascismo, ovvero la convinzione che la sua crisi potesse essere esogena, legata alla sfera internazionale, e che occorresse perciò illustrarne l’effettiva natura all’opinione pubblica e ai decisori politici. Più distesa la trattazione affidata alle Lezioni di Harvard, edite postume, che riprendevano su nuove basi l’analisi del rapporto tra fascismo e storia d’Italia, poi tradottasi anche nella riconsiderazione dell’età giolittiana. Salvemini fu controllato e contrastato dal regime nella sua opera di conferenziere; il governo cercò di impedire il suo approdo ad Harvard e di addebitargli la partecipazione a disegni terroristici, come nel caso dell’attentato a San Pietro del 1933. Della cronaca di quegli anni – anche dopo il 1932 Salvemini intraprese viaggi estivi verso l’Europa – vanno soprattutto richiamate alcune prese di posizione politiche. Il 9 agosto 1944 scriveva a Enzo Tagliacozzo: «Giustizia e Libertà era un uomo, Carlo Rosselli. Morto Carlo Rosselli sono rimasti i vermi che sono sul suo cadavere. La facciano finita» (Lettere americane, a cura di R. Camurri, 2015, p. 420). Parole dure, che erano testimonianza di un affetto disperato, ma anche di presenti dissensi. GL era nata dal dialogo fra i due, ma dall’originaria impostazione di movimento aclassista e rivoluzionario si era staccata, con Rosselli alla ricerca di accordi politici con le forze della Concentrazione antifascista, e più tardi orientato verso l’apertura ai comunisti, e Salvemini risolutamente contrario. Divergenze di diagnosi sull’attualità politica determinate anche dall’esperienza della società statunitense, che incideva in modo crescente sul pensiero di Salvemini, offrendo uno sfondo diverso – e distante da un impianto classista – a quelle riflessioni sulla democrazia già ben presenti nelle pagine del diario. Con la stessa franchezza con la quale aveva polemizzato con George Bernard Shaw nel 1927 a proposito del giudizio sul fascismo, Salvemini non avrebbe taciuto sull’impossibile identificazione tra società borghese e fascismo, e sul comunismo staliniano, nel 1935 a Parigi, al Congresso internazionale degli scrittori per la difesa della cultura.
Questa stagione del pensiero salveminiano è documentata anche dalle lezioni del 1938, Historian and scientist, che sarebbe riduttivo vedere come una semplice ripresa delle tematiche del 1901, data la presenza sullo sfondo del dibattito della storiografia americana sul grande sogno della objectivity.
Nel 1939, di fronte alla guerra, Salvemini contribuì a dar vita alla Mazzini Society, con la quale ebbe rapporti controversi. Alla fine del 1940 chiese la cittadinanza statunitense, alla quale avrebbe rinunciato, anche per motivi politici, nel 1954. Nel corso del conflitto si accrebbe in lui la preoccupazione per una possibile transizione non traumatica al postfascismo, che tutelasse le istituzioni, le forze, gli interessi a lungo condivisi con il fascismo; il tema di una possibile alleanza reazionaria e clericale sostenuta dagli Alleati nell’Italia liberata costituì la trama di fondo del volume composto con Giorgio La Piana, What to do with Italy, del luglio 1943, dove si sosteneva una prospettiva repubblicana e di profonde riforme sociali. Quegli ideali di rinnovamento Salvemini li vide mortificati dalle vicende politiche successive al 1943, dal riemergere dei vecchi partiti, e dal loro ralliement attorno alla monarchia. Non era in discussione la Resistenza in quanto lotta antifascista – «la più bella pagina della storia d’Italia» (Ottimismo, 1947, in Scritti vari..., cit., p. 750) –, ma l’indirizzo politico dato alla lotta. Discutendo con interlocutori come Ernesto Rossi, Salvemini mostrava tutta la sua inquietudine per le prospettive del dopoguerra, e da queste sue posizioni sarebbe derivato il ‘terzaforzismo’ che avrebbe segnato la sua ultima stagione pubblicistica, nell’Italia divisa fra potere democristiano e opposizione socialcomunista. Il rientro in Italia fu a lungo rinviato; un viaggio nell’estate-autunno del 1947 gli restituì l’immagine di un Paese in movimento, e una prospettiva di impegno contro la «repubblica monarchica dei preti» (p. 751). In Italia dall’estate del 1949, Salvemini riprese per due anni il suo insegnamento a Firenze, lavorando intorno alla riedizione dei suoi scritti e pubblicando, nel 1953, il Prelude to World War II, ricostruzione della politica estera fascista fino alla guerra d’Etiopia. Attivo commentatore politico, specie per la rivista Il Mondo, polemizzò contro figure della vecchia Italia, come Benedetto Croce, e scrisse a favore di una serie di riforme economiche (quali le nazionalizzazioni), sociali, scolastiche. Si trattò di articoli spesso di grande efficacia comunicativa, ma anche di modesto impatto politico.
Roberto Vivarelli, uno dei maggiori studiosi dell’opera di Salvemini, ha più volte parlato di lui come di uno sconfitto; constatazione pertinente, che chiama certo in causa natura e qualità dei destinatari del messaggio, ma che, in fondo, rinvia anche ad alcuni aspetti del messaggio.
Morì il 6 settembre 1957 a Sorrento, dove si era trasferito per ragioni di salute.
Nel giugno del 1955 l’Università di Oxford gli aveva conferito la laurea honoris causa.
Opere. L’edizione delle Opere, progettata fin dal 1957 e realizzata dall’editore Feltrinelli seguendo un ordinamento tematico e con scelte critiche non sempre soddisfacenti, resta comunque un punto di riferimento. Interessanti alcune recenti riprese, come il volume Sulla democrazia, a cura di S. Bucchi, Torino 2007. Dei Carteggi venne pubblicato nelle Opere un solo volume, relativo agli anni 1895-1911 (a cura di E. Gencarelli, Milano 1968). Sono ora disponibili i volumi del Carteggio pubblicati a cura di E. Tagliacozzo e S. Bucchi (I-VIII, Roma-Bari-Manduria 1984-2004), che coprono il periodo 1894-1926. Sono poi di fondamentale importanza alcuni epistolari, fra i quali: Salvemini e i Battisti. Carteggio 1894-1957, a cura di V. Calì, Trento 1987; G. Salvemini - A. Tasca, Il dovere di testimoniare. Carteggio, a cura e con introduzione di E. Signori, Napoli 1996; E. Rossi - G. Salvemini, Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944-1957, a cura di M. Franzinelli, Torino 2004; Fra le righe. Carteggio fra Carlo Rosselli e Gaetano Salvemini, a cura di E. Signori, Milano 2009; Luigi Sturzo - Gaetano Salvemini. Carteggio (1925-1957), a cura di G. Grasso, Soveria Mannelli 2009; Lettere americane 1927-1949, a cura di R. Camurri, Roma 2015. Infine, oltre ai testi citati, si segnala la pubblicazione di Memorie e soliloqui. Diario 1922-1923, a cura di R. Pertici, introduzione di R. Vivarelli, Bologna 2001.
Fonti e Bibl.: Le carte di Salvemini sono state ordinate presso l’Istituto storico toscano della Resistenza e dell’età contemporanea di Firenze, negli inventari: Archivio Gaetano Salvemini. I Manoscritti e materiali di lavoro, a cura di S. Vitali, Roma 1998; Archivio Gaetano Salvemini. Inventario della corrispondenza, a cura di A. Becherucci con la collaborazione di G. Bonini, Bologna 2007. La bibliografia è in: Bibliografia salveminiana 1892-1984, a cura di M. Cantarella, Roma 1986.
E. Tagliacozzo, G. S. nel cinquantennio liberale, Firenze 1959; M.L. Salvadori, G. S., Torino 1963; G. De Caro, G. S., Torino 1970; H. Bütler, G. S. und die italienische Politik vor dem Ersten Weltkrieg, Tübingen 1978; C. Killinger, G. S. a biography, Westport-London 2002. Nella vasta letteratura salveminiana si segnalano: G. S., Bari 1959 (con il saggio di E. Garin, G. S. nella società italiana del tempo suo, poi in Id., La cultura italiana tra ’800 e ’900, Roma-Bari 1976, pp. 107-158); Atti del convegno su G. S., Firenze... 1975, a cura di E. Sestan, Milano 1977; A. Galante Garrone, S. e Mazzini, Messina-Firenze 1981; R. Vivarelli, S. e Mazzini (1985), in Id., Storia e storiografia. Approssimazioni per lo studio dell’età contemporanea, Roma 2004, pp. 103-128; G. S. tra politica e storia, a cura di G. Cingari, Roma-Bari 1986; E. Artifoni, S. e il Medioevo. Storici italiani tra Otto e Novecento, Napoli 1990; M. Moretti, S. e Villari. Frammenti, in G. S. metodologo delle scienze sociali, Soveria Mannelli 1996, pp. 19-68; B. Bracco, Storici italiani e politica estera. Tra S. e Volpe, 1917-1925, Milano 1998; A. De Francesco, Mito e storiografia della «grande rivoluzione». La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ’900, Napoli 2006; G. Quagliariello, G. S., Bologna 2007; P. Cavina - L. Grilli, G. S. e Gioacchino Volpe dalla storia medievale alla storia contemporanea, Pisa 2008; Il prezzo della libertà. G. S. in esilio (1925-1949), a cura di P. Audenino, Soveria Mannelli 2009; A. Frangioni, S. e la Grande guerra. Interventismo democratico, wilsonismo, politica delle nazionalità, Soveria Mannelli 2011; G. Pecora, La scuola laica. G. S. contro i clericali, Roma 2015; E. Tortarolo, S.: an Italian historian as political refugee, in Storia della storiografia, 2016, vol. 69, pp. 83-100.