Gaetano Salvemini
Storico e uomo politico, per tutta la vita concepì questi due ambiti di attività come strettamente correlati. Animato da un profondo senso morale, trasse dalla contemporaneità stimoli e suggestioni che trasferì nella sua opera di ricostruzione del passato: sia negli studi sulla Firenze medioevale e sulla Rivoluzione francese, che risentirono della sua passione giovanile per il pensiero marxista e della sua militanza socialista; sia in quelli dedicati all’Italia otto-novecentesca, a partire da Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo sino alla dittatura fascista, nei quali emerse la sua natura di democratico e di laico intransigente, fiero oppositore di ogni forma di autoritarismo e di dogmatismo.
Nato l’8 settembre 1873 a Molfetta, dove compì gli studi ginnasiali e liceali in un seminario, nel 1890 si trasferì a Firenze e s’iscrisse all’Istituto di studi superiori. Nel 1896 pubblicò il suo primo libro tratto dalla tesi di laurea (La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze), a cui seguì nel 1899 una delle sue opere storiche più importanti (Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295). Questi lavori gli valsero nel 1901 la cattedra di storia moderna nell’Università di Messina (dal 1910 insegnò poi a Pisa e dal 1916 a Firenze). Profondamente segnato dalla tragedia del terremoto di Messina del 1908, in cui perse la moglie, i cinque figli e una sorella, intensificò la sua attività di studio e l’impegno politico nel Partito socialista (PSI), al quale aveva aderito fin dagli anni giovanili. Criticò aspramente il governo Giolitti, che fece bersaglio di un celebre pamphlet (Il ministro della malavita, 1910), avversò la guerra di Libia, ma soprattutto si occupò della questione meridionale, analizzandone le connessioni sia con la politica estera e doganale italiana sia con lo stesso programma socialista. Nel 1911 prese le distanze dal PSI e si avvicinò a posizioni democratico-radicali permeate di un acceso anticlericalismo, alle quali sarebbe rimasto fedele per tutta la vita. Sempre nel 1911 fondò il settimanale «L’Unità» che diresse fino al 1920, facendolo diventare un periodico che ebbe larga influenza sulle giovani generazioni intellettuali. Sulle sue pagine, oltre a difendere le ragioni della Lega antiprotezionista e del movimento liberista, sostenne la causa dell’interventismo democratico contro l’Impero austro-ungarico ed egli stesso si arruolò volontario. Nel 1919, dopo che due precedenti candidature (nel 1910 e nel 1913) lo avevano visto sconfitto, fu eletto deputato nella lista dei combattenti.
Dopo qualche iniziale ondeggiamento nei confronti dell’ascesa al potere di Benito Mussolini, che per breve tempo gli parve preferibile allo sfacelo degli ultimi governi liberali, divenne un convinto oppositore del fascismo. Nella prima metà del 1925, insieme a Carlo e Nello Rosselli, Ernesto Rossi e altri, dette vita a Firenze a un giornale clandestino, il «Non mollare!», nel quale sostenne, contro le indecisioni degli «aventiniani», la necessità di un’opposizione intransigente alla dittatura. Arrestato e processato, nell’agosto 1925 approfittò della libertà provvisoria per espatriare in Francia e poi in Inghilterra, dove iniziò un’intensa attività di conferenziere e di pubblicista antifascista. Dopo essere stato tra i fondatori del movimento Giustizia e libertà, dal 1934 si stabilì definitivamente negli Stati Uniti e fino al suo rientro in Italia, avvenuto nel 1947, tenne la cattedra di storia della civiltà italiana presso l’Università di Harvard.
Nel 1948 fu reintegrato nella cattedra di Firenze e riprese la sua opera di polemista politico collaborando a giornali e riviste di orientamento democratico e progressista, fra i quali «Il Mondo», «Il Ponte» e «Critica sociale». Morì a Sorrento il 6 settembre 1957.
Formatosi al magistero di Pasquale Villari, Salvemini fu orientato inizialmente verso gli studi medievalistici da Cesare Paoli, professore di paleografia e diplomatica presso l’Istituto di studi superiori di Firenze e dal 1887 direttore dell’«Archivio storico italiano». Fu lui a suggerirgli l’argomento della tesi di laurea, ossia spiegare «come la cavalleria dei tempi feudali aveva perduto nel comune di Firenze ogni carattere originario, diventando una decorazione non più militare, ma borghese» (G. Salvemini, Una pagina di storia antica, «Il Ponte», 1950, 6, p. 128). Un tema che il giovane studioso pugliese, nel frattempo infervorato dalla lettura degli scritti di Karl Marx sulle lotte di classe in Francia e dai saggi sulla concezione materialistica della storia di Antonio Labriola, declinò in chiave socioeconomica, anticipando una definizione, quella di magnati, che di lì a poco avrebbe approfondito e sviluppato in una delle sue opere maggiori. I magnati, scriveva, erano composti non solo
della vecchia nobiltà, ma anche dei ricchi industriali e mercanti che venuti su dal popolo, specie dal 1267 in poi, si sono fatti armare cavalieri, si sono uniti alla nobiltà e cercano di imitarne la vita e i costumi. Vi sono, insomma, due specie di magnati: magnati per natura o nobili propriamente detti, e magnati per accidente, o alta borghesia: e tanto degli uni che degli altri la più parte sono “cavalieri” (La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, cit., p. 59).
Alcune delle questioni affrontate in questo volume trovarono una più organica e compiuta sistemazione in Magnati e popolani, l’opera che consacrò Salvemini come un autentico caposcuola della medievistica italiana. Egli, riprendendo alcune suggestioni di Villari sulle cause economico-sociali dei mutamenti avvenuti negli ordinamenti giuridici della Firenze medioevale, vi affrontava il tema delle contese politiche che caratterizzarono la storia della città nel 13° secolo. E ne individuò le origini non nei risentimenti personali o nelle rivalità fra i vari gruppi familiari, bensì nella lotta di classe che contrapponeva produttori e consumatori:
Magnati, costituenti la grande proprietà fondiaria, e Popolo grasso, rappresentante di tutto il resto della popolazione cittadina (Magnati e popolani, cit., p. 47).
Fortemente influenzato dalle tesi di Achille Loria, Salvemini pose al centro della sua analisi e della sua linea interpretativa due concetti base: l’ineluttabilità del contrasto tra rendita fondiaria e profitto industriale e la funzione attribuita allo sviluppo demografico come fattore scatenante delle trasformazioni economiche e sociali. La lotta fra magnati e popolani, affermò senza mezzi termini,
era una conseguenza necessaria, saremmo per dire matematica, dello sviluppo demografico ed economico della città di Firenze (p. 47).
Sebbene l’opera indulgesse al determinismo e a qualche eccesso di schematicità, la sua importanza risiede ancora, a distanza di tempo,
nell’avere interpretato con estrema chiarezza e plastica evidenza, senza sofferenza del tradizionale metodo filologico-erudito, anzi integrandolo, la storia comunale italiana in chiave di lotta di classe, anche se non proprio secondo il più rigoroso materialismo storico marxistico, del quale ignorava la dialettica (Sestan 1958, poi in 1991, p. 319).
In quello stesso 1899 Salvemini dette alle stampe, firmandolo con lo pseudonimo Rerum Scriptor, anche un acuminato pamphlet, I partiti politici milanesi nel secolo XIX, che rappresentò la prima testimonianza del suo nascente interesse per la storia del Risorgimento e dell’Italia contemporanea. In quel volumetto le passioni politiche del militante socialista, rese più ardenti dall’acutizzarsi del conflitto sociale culminato nella drammatica crisi del 1898, si mescolavano con gli stimoli ricavati dalla recente scoperta di Carlo Cattaneo e Giuseppe Ferrari. Ne venne fuori una lettura della storia dell’indipendenza italiana assai diversa da quella oleografica che stava elaborando la storiografia ufficiale, tutta tesa a enfatizzare il ruolo della monarchia e delle componenti liberali e moderate, a cui buona parte del movimento democratico si era piegata sacrificando i propri ideali. Per quanto viziato da una forte dose di partigianeria, il saggio ebbe notevole importanza, in quanto fu «un primo esempio d’una indagine sulla composizione sociale dei partiti politici italiani» (Maturi 1962, p. 453), di cui delineò le origini, i programmi, le dialettiche interne e l’evoluzione dei quadri direttivi, spingendosi fino ai suoi tempi.
L’interesse per la storia del Risorgimento si consolidò negli anni immediatamente successivi e portò nel 1905, in occasione delle celebrazioni centenarie, alla pubblicazione del volume sul Pensiero religioso, politico, sociale di Giuseppe Mazzini. Il libro era diviso in due parti, Il pensiero e L’azione, alle quali corrispondevano due diversi giudizi da parte di Salvemini dell’opera mazziniana. Egli esprimeva una valutazione molto critica del pensiero, che gli appariva irrimediabilmente datato, astratto, imbevuto di un misticismo di derivazione sansimoniana, ormai inadatto a essere preso a riferimento nella lotta politica, come invece stava facendo in Italia il Partito repubblicano. Positivo era invece il giudizio sul ruolo avuto da Mazzini come strenuo predicatore dell’unità e dell’indipendenza nazionale e come organizzatore di quel movimento democratico che aveva dato un contributo decisivo al Risorgimento. Nel volume, di cui uscirono nel 1915, nel 1920 e nel 1925 tre successive edizioni riviste e ampliate, con il titolo mutato in Mazzini, Salvemini, sempre pronto a recepire gli stimoli dell’attualità, si soffermò anche sui rapporti fra mazzinianesimo e socialismo, indicando nuove piste di ricerca sulla storia del movimento operaio e socialista. Verso di esse indirizzò uno dei suoi allievi, Nello Rosselli, che nel 1923 discusse con lui la tesi su Mazzini e il movimento operaio in Italia dal 1861 al 1872.
Le simpatie di Salvemini andavano comunque a Cattaneo, che egli non esitava a includere, con Giacomo Leopardi, Giuseppe Verdi, Camillo Benso conte di Cavour e Francesco De Sanctis, «nella rosa dei cinque massimi geni italiani dell’Ottocento» (Sestan 1958, poi in 1991, p. 330). Cattaneo, nei cui ideali di riformismo illuminato e di concreto pragmatismo egli si riconosceva pienamente, rappresentava ancora il riferimento culturale e politico della democrazia italiana. A lui dedicò un saggio nel 1922, pubblicato come introduzione all’antologia Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, nel quale analizzava lucidamente le ragioni che avevano portato al fallimento della sua ipotesi federalista e alla nascita in Italia di un sistema accentrato sul modello francese. In questo scritto e in un altro di poco successivo (L’Italia politica nel secolo XIX, 1925) Salvemini poneva l’accento sulle diverse condizioni delle regioni del Nord, dove la presenza di una numerosa e florida borghesia avrebbe consentito di sperimentare forme di autogoverno, rispetto a quelle del Sud, dove l’arretratezza economico-sociale, la minaccia del brigantaggio e del clerico-legittimismo, e persino il prevalente orientamento hegeliano dell’élite liberale e patriottica avevano spinto verso una soluzione di Stato centralista e monarchico.
Nello stesso anno in cui uscì il saggio su Mazzini Salvemini pubblicò La Rivoluzione francese (1788-1792), un libro che segnò «la data di nascita della moderna storiografia italiana sul 1789» (De Francesco 2006, p. 31) e accompagnò la sua biografia politica e intellettuale. Dopo la prima edizione del 1905 il lavoro venne infatti rivisto e ristampato più volte, senza che l’impianto analitico e lo schema interpretativo delle origini venissero modificati in profondità. Scritta
in implicita polemica con i rivoluzionari alla Enrico Ferri, a dimostrare di contro al loro astratto rivoluzionarismo irrazionalistico, che la rivoluzione non può essere un atto di volontà rivoluzionaria, ma un lungo processo di maturazione della società e dei suoi contrasti (Salvadori 1963, p. 204)
l’opera si fermava al 1792, ossia alla «distruzione dell’antico regime assolutistico e feudale […] ufficialmente affermata con la proclamazione della repubblica» (La Rivoluzione francese, cit., p. X).
Proprio questa scelta cronologica, sempre mantenuta e difesa da Salvemini in tutte le edizioni, fu all’origine delle critiche più severe che vennero mosse al libro.
Si può fare una storia della Rivoluzione francese – domandò Walter Maturi – senza Robespierre e la dittatura giacobina? Robespierre manca nella ricostruzione storica di Salvemini, che dà l’impressione di un’opera lasciata in tronco e un po’ troppo schematica, nonostante i suoi pregi di primissimo ordine (Maturi 1962, p. 452).
Ernesto Ragionieri, commentando l’edizione del 1947, evidenziava la distanza che separava quell’opera dalla tradizione interpretativa aperta da Jean Jaurès e proseguita da Albert Mathiez e Georges Lefebvre. A suo giudizio Salvemini, pur muovendo in origine dalle loro stesse sollecitazioni, non aveva prestato la dovuta attenzione alle dinamiche economico-sociali e gli sembrava ormai orientato verso una sorta di antistoricismo storiografico che molto risentiva del «contatto con l’irrazionalismo empiristico della cultura americana» (Ragionieri 1950, pp. 531-32).
In realtà Salvemini, anche nell’ultima edizione del libro, apparsa nel 1954 per i tipi di Laterza, rivendicò la scelta cronologica compiuta nel 1905 ribadendo il convincimento che la Rivoluzione, intesa come fenomeno eversivo del regime assolutistico, potesse dirsi conclusa con il crollo della monarchia nel 1792. E mettendo in guardia da una lettura mitologica della Rivoluzione, verso la quale gli sembrava tendere una parte della storiografia, recuperava la partizione suggerita da François-Alphonse Aulard nella sua Histoire politique de la Révolution française (1901) e soprattutto confermava l’ammirazione espressa nel 1905 per L’Ancien Régime et la Révolution (1856) di Charles-Alexis-Henri Clerel de Tocqueville e per «quel magnifico capolavoro sbagliato che sono le Origini della Francia contemporanea del Taine» (La Rivoluzione francese, cit., p. 130).
Uno dei pregi maggiori dell’opera risiede nel richiamo continuo di Salvemini alla concretezza e all’analisi delle dinamiche reali. Rivoluzione, scrisse, altro non è
se non un termine collettivo astratto, mediante il quale noi denominiamo con grande risparmio di tempo e di fatica i nobili spogliati dai plebei, i plebei proclamanti i diritti dell’uomo, il re destituito di ogni autorità, e tutti gli altri avvenimenti francesi del periodo rivoluzionario. È un’abitudine che presenta molti vantaggi e nessun danno a condizione che il nostro pensiero si tenga sempre pronto a sostituire al termine astratto il termine concreto (La Rivoluzione francese, cit., p. 368).
Per Benedetto Croce, che molto ammirò la polemica di Salvemini contro il mito della Rivoluzione, l’opera rappresentò una solenne protesta «contro il procedere per astrazioni e personificazioni» (Storia della storiografia italiana nel secolo decimonono, 2° vol., 1921, p. 147). Ernesto Sestan, da punto di vista letterario, la giudicò la sua
opera storica più bella, […] compatta, equilibrata, lucida nell’esposizione, scorrevole senza sciatteria, seria senza pedanterie, un piacere continuo per l’intelletto (Sestan 1958, poi in 1991, p. 326).
Fra la guerra di Libia e i primi anni Venti l’interesse di Salvemini storico fu attirato principalmente dai problemi di politica internazionale. Ciò fu diretta conseguenza della sua appassionata partecipazione al dibattito politico di quel periodo, che lo vide schierarsi fra i contrari all’impresa libica e sostenere invece le ragioni dell’intervento italiano nella Grande guerra giustificando il passaggio dalla Triplice alleanza all’Intesa. Alla questione della guerra contro la Turchia dedicò numerosi articoli sull’«Unità» che poi raccolse, insieme a quelli di altri, nel volume Come siamo andati in Libia (1914). Fra il luglio 1916 e il febbraio 1917 pubblicò quindi una serie di scritti sulle origini e gli sviluppi della Triplice alleanza, per la stesura dei quali poté avvalersi degli importanti documenti inediti fornitigli dal figlio di Carlo Felice di Robilant, ministro degli Affari esteri dal 1885 al 1887. In quegli articoli, apparsi nella «Rivista delle nazioni latine» diretta da Guglielmo Ferrero, Salvemini sostenne che l’alleanza con gli imperi centrali aveva garantito all’Italia un lungo periodo di tranquillità, e rese dunque merito agli artefici della politica estera nazionale con l’eccezione di Francesco Crispi, sul quale espresse un giudizio duramente negativo. Al tempo stesso, tuttavia, evidenziò che la Triplice si reggeva su alcuni presupposti (l’esigenza per l’Italia di conservare buone relazioni con l’Inghilterra; il permanere degli attriti tra Francia e Italia nel Mediterraneo; la rinuncia da parte di Austria e Germania a mire espansioniste nei Balcani) che nel 1914 erano venuti a mancare e avevano perciò largamente legittimato il rovesciamento di alleanze compiuto dall’Italia.
Salvemini riprese e sviluppò queste considerazioni in un ciclo di lezioni sulla politica estera italiana dal 1871 al 1915 tenuto al King’s college di Londra nell’estate-autunno del 1923. Pubblicate in una serie di articoli sul «Lavoro» di Genova fra l’ottobre 1923 e il gennaio 1924, quelle lezioni furono poi raccolte in un volume da Carlo Morandi nel 1944. Scritte all’indomani della tragedia della Grande guerra, esse erano percorse da un profondo pessimismo:
la storia della politica internazionale – osservava Salvemini – è quasi sempre una storia della umana follia e dell’umana cecità (La politica estera dell’Italia, 1944, p. 24).
Egli sottopose a revisione anche alcune delle posizioni da lui precedentemente sostenute, rivalutando, per es., l’opportunità dell’occupazione della Libia, che inquadrò adesso come inevitabile conclusione di un trentennio di tenace attività diplomatica italiana.
Dopo la fuga dall’Italia nel 1925 l’impegno storiografico di Salvemini finì per coincidere con il suo impegno nelle file dell’antifascismo. All’analisi e alla ricostruzione storica del regime mussoliniano egli dedicò, oltre a innumerevoli articoli, quattro opere principali: La dittatura fascista in Italia (apparsa a New York nel 1927, ma ripubblicata nel 1928 con molte aggiunte e modifiche); Mussolini diplomatico (pubblicato a Parigi nel 1932, e riedito nel 1945 e nel 1952); Sotto la scure del fascismo (uscito a Londra nel 1936); L’Italia dal 1919 al 1929. Lezioni di Harvard (composta nel 1943 all’Università di Harvard e pubblicata postuma nel 1961, a cura di Roberto Vivarelli, nel 1° vol. della sezione dedicata agli Scritti sul fascismo delle Opere di Salvemini).
Si trattò di un lavoro instancabile a cui dedicò quasi tutta l’ultima parte della sua vita di studioso,
mettendo insieme un’incredibile quantità di informazioni e di proposte interpretative, non limitandosi all’analisi delle origini del movimento ma investendo tutto l’arco dei problemi del regime: dall’economia alle istituzioni, dalla politica interna a quella estera, dalla struttura della classe dirigente a quella delle masse lavoratrici, ponendo in definitiva i primi, fondamentali pilastri per la nascita di una storiografia critica del fascismo italiano (Tranfaglia 1988, p. 904).
Tre furono i nodi tematici che più interessarono Salvemini: il problema del rapporto tra l’Italia liberale e le origini del fascismo; le caratteristiche di fondo del regime mussoliniano, con riferimento soprattutto alla struttura corporativa, all’apparato repressivo, ai legami tra forze economiche e oligarchia fascista; la politica estera di Mussolini fino alla conquista dell’Etiopia e l’atteggiamento assunto nei suoi confronti dalle altre potenze europee.
Con i suoi scritti, sempre sorretti da una rigorosa applicazione del metodo storico, Salvemini cercò di combattere alcuni dei miti sostenuti dalla propaganda fascista, in particolare quello del fascismo che aveva salvato l’Italia dal comunismo. Documentò che le violenze fasciste avevano preceduto quelle dei socialisti e che, anche al culmine del «biennio rosso», non vi era mai stata la concreta minaccia di una rivoluzione bolscevica. Addossò invece pesanti responsabilità sull’ascesa di Mussolini alla monarchia sabauda e mise a nudo i punti deboli del sistema corporativo e della politica economica fascista, rivelando che le condizioni di vita dei lavoratori erano peggiorate e che in prospettiva anche l’accordo con gli industriali era destinato a venir meno.
In uno scritto del 1902, che riprendeva la prolusione al suo primo corso nell’Università di Messina, Salvemini affrontò i presupposti logici della conoscenza storica. Ancora fortemente condizionato dal positivismo e dalla concezione marxistica della storia, in diretta polemica con la tesi crociana della storia come arte, sostenne che la storiografia aveva la dignità di scienza, poiché
gli scopi e i metodi della ricerca storica corrispond[evano] in tutto e per tutto agli scopi e ai metodi delle altre ricerche scientifiche (La storia considerata come scienza, «Rivista italiana di sociologia», gennaio-febbraio 1902, p. 54).
Allo storico, scriveva, spetta di «investigare e rappresentare i fatti sociali passati e i loro rapporti» (p. 21), non deve esprimere valutazioni, ma limitarsi a indagare il passato e a «spiegarlo nei suoi rapporti causali» (p. 44).
E a chi obiettava che la ricerca storiografica fosse condizionata dal sistema di credenze e di valori dello studioso e pertanto non potesse attingere all’esattezza delle scienze naturali Salvemini replicava che i preconcetti religiosi, politici o filosofici svolgevano nelle scienze storiche la stessa indispensabile funzione che avevano le ipotesi nelle altre scienze: «offrono una bussola, che guidi il pensiero nel gran mare del passato; facilitano la scoperta di nuovi rapporti anche contrari a quelli che si sperava di scoprire».
L’importante – aggiungeva – è che lo storico si ricordi sempre che i suoi preconcetti sono delle semplici ipotesi provvisorie; […] che è suo obbligo abbandonare ogni più cara idea, appena un gruppo di fatti impreveduti e non desiderati venga a contrapporsi in maniera inconciliabile alle fragili costruzioni della mente» (p. 46).
Egli, in sostanza, per affermare la natura scientifica del metodo storiografico criticò l’idea positivistica di una scienza oggettiva e imparziale, immune da qualsiasi influenza esterna, e mise invece in risalto i numerosi punti di contatto, che consistevano essenzialmente nel comune procedere attraverso formulazione di ipotesi controllabili, in un caso per mezzo dell’esperimento, nell’altro mediante la ricostruzione dei fatti e dei nessi di causalità.
Nel 1938, tornato a occuparsi di questioni metodologiche in un ciclo di lezioni tenute all’Università di Chicago (pubblicate nel 1948 con il titolo Storia e scienza), Salvemini ribadì, in pratica, i convincimenti espressi molti anni prima. Al punto che Croce, in una pungente nota dedicata al suo lavoro, scrisse: «Salvemini è rimasto al 1893» («Quaderni della Critica», marzo 1949, 13, p. 94). Lo studioso pugliese si mostrava ancora convinto che la storia appartenesse a pieno titolo alla classe delle scienze naturali e che le basi metodologiche fossero le medesime. Riconobbe tuttavia che essa, condividendo con la sociologia l’impossibilità di ricorrere alla prova sperimentale e la necessità di doversi confrontare con l’analisi dei comportamenti umani, per loro natura complessi, non uniformi e non ripetibili, aveva un compito più arduo e avrebbe raggiunto il livello epistemologico delle scienze con maggiore difficoltà e in tempi più lunghi.
La dignità cavalleresca nel Comune di Firenze, Firenze 1896.
Magnati e popolani in Firenze dal 1280 al 1295, Firenze 1899.
I partiti politici milanesi nel secolo XIX, Milano 1899.
La storia considerata come scienza, «Rivista italiana di sociologia», gennaio-febbraio 1902, pp. 17-54.
Il pensiero religioso, politico, sociale di Giuseppe Mazzini, Messina 1905.
La Rivoluzione francese (1788-1792), Milano 1905.
Le più belle pagine di Carlo Cattaneo, Milano 1922.
L’Italia politica nel secolo XIX, in L’Europa nel secolo XIX, 1° vol., a cura di D. Donati, F. Carli, Padova 1925, pp. 323-401.
La dittatura fascista in Italia, New York 1927.
Mussolini diplomatico, Paris 1932.
Sotto la scure del fascismo, London 1936.
La politica estera dell’Italia dal 1871 al 1915, Firenze 1944.
Storia e scienza, Firenze 1948.
Tutti i principali scritti storici sono stati raccolti nelle Opere di Gaetano Salvemini, 8 voll., Milano 1961-1978.
E. Ragionieri, Gaetano Salvemini storico e politico, «Belfagor», 1950, 5, pp. 514-36.
R. Romeo, Salvemini storico, «Il Mondo», 24 settembre 1957.
F. Venturi, Salvemini storico, «Il Ponte», 1957, 13, pp. 1794-1801.
P. Pieri, Salvemini storico dell’età moderna e contemporanea, «Rassegna storica toscana», 1958, 2, pp. 93-120.
E. Sestan, Salvemini storico e maestro, «Rivista storica italiana», 1958, 1, pp. 5-43; poi in Id., Scritti vari, 3° vol., Storiografia dell’Otto e Novecento, a cura di G. Pinto, Firenze 1991, pp. 305-44.
Gaetano Salvemini, Bari 1959.
W. Maturi, Gaetano Salvemini, in Id., Interpretazioni del Risorgimento. Lezioni di storia della storiografia, Torino 1962, pp. 447-59.
M.L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Torino 1963.
G. De Caro, Gaetano Salvemini, Torino 1970.
Gaetano Salvemini, a cura di E. Sestan, Atti del Convegno, Firenze (8-10 novembre 1975), Milano 1977.
A. Galante Garrone, Salvemini e Mazzini, Messina-Firenze 1981.
Gaetano Salvemini tra politica e storia, a cura di G. Cingari, Roma-Bari 1986.
N. Tranfaglia, Gaetano Salvemini storico del fascismo, «Studi storici», 1988, 4, pp. 903-23.
E. Artifoni, Salvemini e il Medioevo. Storici italiani fra Otto e Novecento, Napoli 1990.
Gaetano Salvemini metodologo delle scienze sociali, a cura di D. Antiseri, Soveria Mannelli 1996.
Ch. Killinger, Gaetano Salvemini: a biography, Westport 2002.
A. De Francesco, “Il meglio che io abbia scritto in vita mia”. Note sulla Rivoluzione francese di Gaetano Salvemini, in Id., Mito e storiografia della “Grande rivoluzione”. La Rivoluzione francese nella cultura politica italiana del ’900, Napoli 2006, pp. 19-76.
G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, Bologna 2007.
P. Cavina, Gaetano Salvemini e Gioacchino Volpe: dalla storia medievale alla storia contemporanea, Pisa 2008.
E. Tortarolo, Gaetano Salvemini metodologo della storia, in Il prezzo della libertà. Gaetano Salvemini in esilio (1925-1949), a cura di P. Audenino, Soveria Mannelli 2009, pp. 341-55.
Gaetano Salvemini (1873-1957). Ancora un riferimento, Atti del Convegno di studi, Roma 2007, a cura di G. Pescosolido, Manduria-Bari-Roma 2010, pp. 13-28.
P. Lauria, Salvanima. Iconoclastie ed epistemologia di Gaetano Salvemini, Potenza 2011.
Su Paolo Treves:
C. Curcio, Paolo Treves tra ragion di Stato e Restaurazione, «Rivista internazionale di filosofia politica e sociale», serie III, 1963, pp. 182-93.
I.M. Lombardo, In ricordo di Paolo Treves, Roma 1969.
Figlio del noto esponente socialista Claudio Treves (Milano 1908-Fregene 1958). Si laureò in giurisprudenza a Torino nel 1929 e l’anno seguente in scienze politiche, seguendo fin da giovanissimo le orme del padre. Collaborò infatti nel 1925 con Filippo Turati nella redazione del periodico «La Giustizia» e fu corrispondente dall’Italia de «La Libertà», organo della Concentrazione d’azione antifascista fondata a Parigi nel 1927. Vigilato speciale per la sua militanza nel Partito socialista clandestino, fu arrestato e incarcerato nel 1929 e nel 1935. Dedicatosi all’attività scientifica, pubblicò importanti studi su Tommaso Campanella (La filosofia politica di Tommaso Campanella, 1930) e su Francesco Guicciardini (Il realismo politico di Francesco Guicciardini, 1931), di cui tracciò anche un breve profilo per una collana dell’editore Formiggini (Francesco Guicciardini, 1932). In alcuni articoli apparsi su varie riviste («Nuova rivista storica», «Rivista di filosofia», «Civiltà moderna») si occupò di Traiano Boccalini, Giovanni Botero, Lodovico Settala, Paolo Sarpi, della ragion di Stato nel Seicento italiano, oltre che di intellettuali e pensatori sia di estrazione liberale (La Mennais, 1934) sia, più frequentemente, conservatrice e reazionaria, come Pierre-Simon Ballanche (1932), Louis-Gabriel-Ambroise de Bonald (1932) e Joseph De Maistre (1936). Pubblicò inoltre alcune edizioni commentate di autori classici (P. Sarpi, Pagine scelte, 1934; Niccolò Machiavelli, Il Principe, 1934; Luigi Settembrini, Ricordanze della mia vita, 1935; Francesco Fiorentino, La filosofia della Rinascenza, 1938).
Ingegno estremamente versatile, in questa fase d’intensa operosità dette alle stampe anche un romanzo (La strada nel cerchio, 1932), la Biografia di un poeta: Maurice de Guérin (1937), e un’opera più propriamente storica sulla crisi di Fascioda del 1898 che aveva portato il Regno Unito e la Francia al rischio di una guerra (Il dramma di Fascioda. Francia e Inghilterra sull’alto Nilo, 1937).
Il varo delle leggi razziali nel 1938 lo costrinse a riparare in Inghilterra, dove trovò impiego dapprima presso l’Università di Liverpool e poi a Cambridge come assistente per l’insegnamento dell’italiano. Dal 1940 al 1945 lavorò presso la BBC (British Broadcasting Corporation) dove, tra l’altro, diresse la rubrica Sul fronte e dietro il fronte italiano, dei cui testi alla fine della guerra pubblicò un’antologia (1945). In questi anni non cessò il suo impegno antifascista, che si manifestò anche attraverso due libri specificamente pensati per informare l’opinione pubblica inglese sui misfatti del regime: What Mussolini did to us, 1940 (trad. it. 1945); Italy yesterday, today, tomorrow, 1942. All’esperienza maturata durante il periodo britannico dedicò anche il volume L’isola misteriosa. Saggio psicologico sugli inglesi (1947).
Tornato a Roma nel gennaio 1945, gli venne affidata la direzione del giornale radio, che tenne soltanto fino all’aprile di quell’anno, quando seguì Giuseppe Saragat, nominato ambasciatore a Parigi, come suo consulente politico e addetto culturale. Rientrato in Italia nel marzo 1946, fu eletto all’Assemblea costituente nelle file del Partito socialista. Aderì quindi al Partito socialista dei lavoratori italiani, poi Partito socialista democratico italiano, per il quale fu eletto deputato nel 1948 e nel 1953. Dal 1954 al 1957 ricoprì inoltre la carica di sottosegretario di Stato al ministero del Commercio estero.
Nel frattempo riprese la sua attività di studio e, nel 1950, venne chiamato sulla cattedra di storia delle dottrine politiche della facoltà di Scienze politiche dell’Università di Firenze. In questi anni, oltre a un volume di riflessione storico-politica sulle origini e i caratteri del fascismo (È inutile avere ragione: saggio su trent’anni di paura, 1949), raccolse e sistemò alcuni suoi lavori precedenti sul pensiero reazionario francese e aprì un filone nuovo di ricerca sul pensiero giuridico e politico inglese del 17° sec. che confluì nel volume Politici inglesi del Seicento (1958).