TOGNETTI, Gaetano. – N
acque a Roma il 1° novembre 1843 da Gioacchino e da Anna Maria Cherubini.
Apparteneva a una famiglia di bassa estrazione sociale, residente nel rione di Borgo Vecchio. Qui viveva con i genitori e i quattro fratelli, lavorando come muratore.
Poco o nulla si sa della sua vita; il lavoro di muratore lo impiegava in maniera saltuaria e nei periodi di disoccupazione trascorreva le sue giornate all’osteria della Sora Rosa, luogo di ritrovo di cospiratori, o al banchetto di frutta del cugino Angelo Tognetti, nello stesso rione Borgo Vecchio. Con il cugino, che era a Roma un caporione settario, condivideva il coinvolgimento nelle trame cospirative che, all’indomani dell’unificazione italiana, si erano attivate nello Stato pontificio, ormai ridottosi ai territori laziali, per agevolare l’annessione di Roma al Regno d’Italia. Fu la frequentazione di questi ambienti a renderlo complice dell’attentato alla caserma Serristori. Dalla documentazione processuale su questo caso si apprende che Tognetti era stato responsabile, qualche anno prima, di un omicidio, per il quale era stato condannato a cinque anni di carcere.
Le testimonianze raccolte dalle autorità e soprattutto le confessioni fatte dai due imputati Giuseppe Monti, muratore originario di Fermo, e Giuseppe Bossi, ingegnere romano, evidenziarono che Tognetti e il cugino erano stati coinvolti fin dall’inizio nell’organizzazione del piano insurrezionale nell’autunno del 1867. In particolare, i due collaborarono al progetto che prevedeva di far esplodere delle mine collocate nelle caserme che ospitavano i corpi armati stranieri al servizio del governo pontificio. A tal fine erano state designate le due caserme Serristori, sede del corpo degli zuavi, e Cimarra, mentre furono attentamente escluse le sedi di soldati italiani. Dei due attentati progettati solo quello alla caserma Serristori andò a segno e il 22 ottobre 1867 verso le sette di sera, un’intera ala dell’edificio esplose provocando la morte immediata di ventidue soldati e due civili, di passaggio per la strada, mentre altri soldati rimasero feriti e tre morirono nei giorni successivi.
Monti testimoniò che era stato proprio Tognetti a coinvolgerlo nel piano, per conto di Cesare Perfetti, che, con Giuseppe Ansiglioni e Giulio Silvestri, era a capo del progetto insurrezionale e aveva individuato in Monti, che conosceva i locali della caserma Serristori, un possibile collaboratore. Lo stesso Tognetti avrebbe preso parte con Monti ai sopralluoghi presso le due caserme Serristori e Cimarra, per mettere a punto il piano. Tuttavia, stando alle dichiarazioni di diversi testimoni, incluso Monti, la sera del 22 ottobre Tognetti non prese direttamente parte all’attentato, limitandosi a fornire a Monti la chiave del locale da cui sarebbe stata fatta partire la deflagrazione.
L’esplosione della caserma Serristori faceva parte di un più ampio progetto insurrezionale, ideato negli ambienti garibaldini, che consisteva nel provocare una sollevazione popolare a Roma, mentre dall’esterno truppe garibaldine avrebbero dovuto fare il loro ingresso in città. Tuttavia, il piano fallì; nella mattina del 22 ottobre, l’intervento della polizia pontificia aveva impedito l’ingresso dei volontari garibaldini, mentre l’insurrezione a Roma, che si limitò a casi isolati e non riuscì a coinvolgere tutta la città, venne velocemente soffocata. Dopo la sconfitta di Mentana, che segnava il definitivo fallimento del tentativo di Giuseppe Garibaldi di prendere Roma, i capi rivoluzionari, tra cui il generale Francesco Cucchi, riuscirono a fuggire dalla città, mentre gli esecutori materiali dell’attentato del 22 ottobre furono presto individuati e arrestati.
Tognetti venne arrestato il 18 novembre e recluso nelle carceri Nuove, dove rimase per poco più di un anno. Diversamente da alcuni dei compagni, Tognetti rifiutò di confessare e durante il processo negò tutto ciò di cui era accusato, ammettendo soltanto di aver fornito a Monti una chiave, la sera dell’attentato, ma senza sapere di cosa si trattasse.
Il 23 settembre 1868 si riunì il tribunale della Sacra Consulta. Su Tognetti pendeva l’accusa di insurrezione contro il sovrano, perpetrata attraverso l’esplosione della caserma Serristori, e il tentato attacco alla caserma Cimarra. Nella relazione sul caso del procuratore fiscale, monsignor Agostino Pasqualoni, Tognetti era presentato come un «Muratore [...] povero e a contatto dei congiurati. Di pessime qualità per la passata condanna alla galera» (Archivio di Stato di Roma, Tribunale della Sacra Consulta, b. 282, processo n. 1546). Gli avvocati difensori tentarono di lenire la sorte dei propri assistiti, appellandosi al fatto che nessuno di essi era da includersi tra i mandanti, cosa che anche il procuratore riconosceva, e per questo non era da applicarsi la condanna a morte. Nel caso di Tognetti, inoltre, l’avvocato Carlo Palomba insistette sulla marginalità del contributo dato da Tognetti, a cui sarebbe mancata una reale consapevolezza del piano generale, mentre attribuiva un ruolo molto più rilevante all’interno dell’organizzazione al cugino Angelo, che era riuscito a fuggire da Roma. E ancora, il 16 ottobre, quando il Supremo tribunale della Sacra consulta si riunì per deliberare, il difensore di Tognetti ripeté che questi era da considerarsi un «complice subalterno» e non un «agente principale» del piano insurrezionale. In quello stesso giorno il Tribunale emise la sua sentenza con la quale Monti e Tognetti erano dichiarati «colpevoli in qualità di agenti principali con animo deliberato in tali delitti» e quindi condannati alla morte esemplare (ibid.). Probabilmente per via della sua assenza sul luogo dell’attentato la sera del 22 settembre, la condanna a morte di Tognetti non fu decisa all’unanimità, ma «a pluralità di voti».
L’esito del processo venne comunicato ai due condannati solo il 23 novembre, ossia la sera prima dell’esecuzione capitale. Secondo i vari rapporti relativi alle ultime ore di vita dei due prigionieri, Tognetti, prima di uscire dalla cella per udire il verdetto, chiese di non essere portato davanti a Monti, che con la sua confessione l’aveva fatto incriminare, aggiungendo: «Io sono buono, sono nato cristiano, e da cristiano muoio, voglio dare questa consolazione a mio padre» (ibid.). Condotto, dunque, alla conforteria della confraternita di S. Giovanni Decollato, gli fu comunicata la sentenza, alla quale reagì con amaro sarcasmo dicendo «Ah sì! Tognetti ha fatto gli omicidi deliberati?» (ibid.). Secondo tutti i rapporti, l’atteggiamento di Tognetti sarebbe poi, nel corso delle ore, divenuto più docile e rassegnato, fino ad accettare l’incontro con il compagno di sventura e a fare proprie le parole di pentimento espresse da Monti, poco prima dell’esecuzione e chiedendo perdono per le sue azioni al tenente colonnello degli zuavi Athanase de Charrette.
Il 24 novembre 1868, alle sette del mattino, Tognetti morì sul patibolo di piazza dei Cerchi a Roma.
Il suo corpo venne sepolto nel chiostro della chiesa di S. Giovanni Decollato, per essere, nel 1870, trasportato al Campo Verano, dove la famiglia fece erigere un piccolo monumento in ricordo di «Gaetano Tognetti martire della libertà».
Il 25 novembre 1868, la notizia dell’avvenuta esecuzione dava avvio a un’intensa discussione all’interno del Parlamento italiano, durante la quale da più parti si rivolsero interpellanze al presidente del Consiglio e ministero degli Esteri, Federico Luigi Menabrea, sui fatti romani e sul comportamento tenuto dal governo italiano. Giornali di sinistra, come La Riforma, suggerivano in quei giorni l’opportunità di una più decisa azione da parte del governo, che avrebbe dovuto fare pressioni sulla Francia affinché persuadesse il pontefice a concedere la grazia. Nel Parlamento italiano la solidarietà nei confronti dei due muratori e la condanna della politica papale furono unanimemente espresse tanto dai banchi di sinistra quanto da quelli di destra. Ma se da sinistra Giuseppe Ferrari presentò un ordine del giorno che così recitava: «La Camera proclama i cittadini Monti e Tognetti martiri della libertà italiana; invita il Governo a provvedere ai bisogni delle loro famiglie, e passa all’ordine del giorno» (Rendiconti del Parlamento italiano, 1869, p. 8092), alla fine fu messo ai voti e approvato il testo di Cesare Correnti, con cui si dichiarava: «La Camera, associandosi ai sentimenti di riprovazione espressi dal presidente del Consiglio, passa all’ordine del giorno» (ibid., pp. 8099 s.). Dalla corrispondenza personale tra Pio IX e Vittorio Emanuele II, si apprende che anche il re aveva fatto qualche tentativo in favore di Monti e Tognetti, affidando al conte Alessandro Fè d’Ostiani, inviato a Roma con incarichi diplomatici, il compito di perorare presso il pontefice la causa dei due muratori. Pare, tuttavia, che il conte si astenesse dal riferire alla corte papale i sentimenti del re sulla questione di Monti e Tognetti.
La condanna a morte di Monti e Tognetti fu oggetto di narrazioni molto diverse. Durante il processo la ricostruzione dei fatti era finalizzata a dimostrare che l’insurrezione romana faceva parte di una macchinazione del governo italiano, che avrebbe trovato scarso appoggio presso la popolazione romana. Si era inoltre messa in evidenza la gravità dell’attentato, che aveva provocato tra le diverse vittime anche la morte di una bambina, e si evidenziava la freddezza e la perseveranza dimostrata dagli attentatori nel portare a termine il piano di fronte alle numerose difficoltà presentatesi nel corso dei preparativi. Infine, Monti e Tognetti furono presentati come due popolani che avevano agito esclusivamente per ragioni economiche, essendo stato promesso loro un cospicuo compenso per il lavoro svolto. Una ricostruzione, questa, ampiamente ripresa dalla pubblicistica di parte clericale, la quale non mancò poi di dare grande visibilità all’immagine dei due condannati in stato di contrito pentimento nelle ultime ore prima di morire. Nella pubblicistica italiana, invece, Monti e Tognetti furono presentati come ‘martiri della libertà’, le cui azioni erano state ispirate da sentimenti di sincero patriottismo e la cui condanna rappresentava una nuova conferma della natura sanguinaria e liberticida del governo teocratico del papa. Incarnavano pienamente questa prospettiva i versi scritti da Giosue Carducci, il 30 novembre 1868, nella sua Per Giuseppe Monti e Gaetano Tognetti martiri del diritto italiano. Negli anni, Monti e Tognetti, pur rientrando tra quelle figure minori che hanno suscitato scarso interesse nella riflessione storiografica, continuarono a godere di un certo fascino all’interno del dibattito pubblico e nella cultura popolare, divenendo infine soggetto cinematografico nella pellicola di Luigi Magni, Nel nome del papa re, del 1977, liberamente ispirata al romanzo di Gaetano Sanvittore, I misteri del processo Monti e Tognetti, edito a Milano nel 1869.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio storico diocesano, Parrocchia di S. Spirito in Sassia, Battesimi, anno 1843; Archivio di Stato di Roma, Tribunale della Sacra Consulta, b. 282, processo n. 1546.
Inoltre: Giornale di Roma, 23 ottobre 1867; L’Opinione, 26 ottobre 1867, 26 novembre 1868; La Riforma, 22, 25 e 26 novembre 1868; La Civiltà cattolica, s. 7, IV (1868), 450; G. Borioni, La fiumana di sangue. Visione di Pio IX, Napoli 1868; G. Sanvittore, I misteri del processo Monti e Tognetti, Milano 1869; Rendiconti del parlamento italiano, Sessione del 1867, 1ª della X legislatura, Discussioni della Camera dei deputati, dal 24 novembre 1868 al 2 febbraio 1869, Firenze 1869, pp. 8086-8100; Emilio Del Cerro, Cospirazioni Romane (1817-1868). Rivelazioni storiche, Voghera-Roma 1899, pp. 252-265; G. Leti, Roma e lo Stato pontificio dal 1849 al 1870. Note di storia politica, II, Ascoli 1911, pp. 328-339; A. Sassi, Notizie e documenti per la storia dell’ultima insurrezione romana, in Archivio della società romana di storia patria, XXVI (1913), pp. 4-111; O. Montenovesi, Il supplizio di Monti e T., in Rassegna nazionale, novembre 1929; M. Rosi, Monti e T. (Processo), in Dizionario del Risorgimento nazionale, a cura di M. Rosi, I, I fatti, A-Z, Milano 1931, pp. 713 s.; E. Michel, G. T., ibid., IV, Le persone, R-Z, Milano 1937, pp. 441 s.; Pio IX e Vittorio Emanuele II dal loro carteggio privato, a cura di P. Pirri, III, La questione romana. Dalla Convenzione di settembre alla caduta del potere temporale 1864-1870, I, Roma 1961, pp. 198 s.; Roma e l’unità d’Italia. I fatti dell’autunno 1867, a cura di A. Ravaglioli, Roma 1968; A. Appari, Il dibattito parlamentare per l’esecuzione capitale di Monti e T., in Il Parlamento italiano, 1861-1988, II, 1866-1869. La costruzione dello Stato: da La Marmora a Menabrea, Milano 1988, pp. 16 s.; A. Tornielli, Pio IX. L’ultimo papa re, Milano 2004, pp. 316-330.