Cassio Longino, Gaio
Fu, con M. Giunio Bruto, animatore della congiura contro Cesare; e con Bruto e nell'ombra di lui subì presso i posteri la varia fortuna riserbata, secondo le diverse valutazioni del tirannicidio, ai due personaggi.
Questore di Crasso nel 53 a.C., si segnalò per l'energia con cui seppe limitare le conseguenze della sconfitta partica subita dal triumviro. Tribuno' nel 49, prese le parti di Pompeo nella prima guerra civile e ne ottenne il comando di una flotta, ma dopo la battaglia di Farsalo fu perdonato e beneficato da Cesare che lo accolse, pur con qualche diffidenza, nella propria cerchia. Qui sembra che con la sua influenza C. persuadesse Bruto a unirsi ai congiurati assumendo con lui la guida dell'impresa. Ucciso il dittatore, non seppe dominare la reazione popolare: lasciò allora Roma per l'Oriente e vi affrontò i nemici del Senato sconfiggendo a Laodicea P. Cornelio Dolabella (43). Con Bruto ottenne dal Senato l'imperium maius per le province orientali, ma dopo il colpo di stato di M. Antonio e Ottaviano fu messo fuori legge. Raggiunta la Tracia con il collega, fu battuto separatamente da Antonio nel primo scontro di Filippi, onde si perse d'animo e si uccise sebbene la situazione generale non fosse ancora disperata (42). La sua decisione precipitata determinò probabilmente la sorte delle armi repubblicane e di Bruto.
Sebbene le fonti antiche e più autorevoli permettano di differenziare i due tirannicidi, attribuendo a Bruto una superiore e più indiscussa tempra morale, a C. un carattere più pratico e più atto all'azione (giudizio sintetizzato nelle parole, rimaste ignote a D., di Velleio Patercolo, "dux Cassius melior, quanto vir Brutus " [Hist. Rom. II LXXII 2]), ma facendo pesare su di lui l'accusa di rapacità e il sospetto che fosse mosso all'odio contro Cesare da motivi men che ideali, la tradizione posteriore congiunse per lo più i due amici, come s'è accennato, in un binomio fisso e indifferenziato. Né la cultura medievale poteva disporre di dettagli ben fondati al riguardo, giacché, venute meno le fonti in lingua greca e rimaste poco accessibili fino allo scorcio del Trecento le fonti latine poziori (per es. le Filippiche e l'epistolario di Cicerone), la conoscenza dei fatti di C. si doveva soprattutto a scarne e tardive compilazioni quali il Liber de viris illustribus attribuito ad Aurelio Vittore (LXXVIII-LXXIX) e l'opera di Orosio (Hist. VI XVII-XVIII), che sono anche le fonti precipue di Dante.
C. è, con Bruto e Giuda, nella quarta zona del nono cerchio infernale (v. Giudecca), maciullato da Lucifero nella bocca appartenente alla faccia di colore tra bianca e gialla dalla quale sporge pendendone con la testa in giù (If XXXIV 55-67; cfr. Pd VI 73-74, dove è anche un accenno alla battaglia di Filippi). Poiché incerta è la significazione dei colori che D. attribuisce ai tre volti di Lucifero, non è chiara nemmeno la relazione tra la tinta giallastra e la colpa di C.; ma ove, come pensano i più, il colore indicasse l'invidia, la corrispondenza potrebbe riferirsi all'opinione già accennata che il movente del tradimento perpetrato da C. contro il suo benefattore fosse appunto di tal natura (Orosio tuttavia addita nella superbia la causa dei mali scatenati dal tirannicidio: " horum omnium malorum initium superbia est " [Hist. VI XVII 9], e non accenna all'invidia di Cassio).
È stato osservato che Plutarco, che tuttavia D. non conosceva, raffigura C. piuttosto pallido, gracile e macilento, come Bruto (Plutarco Caes. LXII 9 " Τί φαίνεται βουλόμενος ὑμι̃ν Κάσσιος; ἐμοὶ [a Cesare] μὲν γὰρ οὐ λίαν ἀρέσχει, λίαν ὠχρὸς ὢν " § 10 "Οὐ πάνυ, φάναι [Cesare], τούτους δέδοιχα τοὺς παχει̃ς χαὶ χομήτας, μα̃λλον δὲ τοὺς ὠχροὺς χαὶ λεπτοὺς ἐχείνους Κάσσιον λέγων χαὶ Βρου̃τον"; e cfr. Anton. XI 6; Brut. VIII 2 e XXIX 1). D. lo avrebbe quindi confuso con Lucio Cassio, seguace di Catilina, ricordato da Cicerone (Catil. III VII 16 " non mihi esse P.Lentuli somnum, nec L. Cassi adipem, nec C.Cethegi furiosam temeritatem pertimescendam "). Così la maggior parte dei commentatori; ma non è interpretazione accettabile, perché - come del resto è stato già notato dallo Scherillo (" Giorn. stor. " XXXII [1898] 163) - membruto non traduce il ciceroniano " adipem ". Perciò non giova al nostro scopo stabilire se D. conoscesse o no le Catilinarie, nonostante l'affermazione del Mai (" Tullii Catilinariae cum paucis aliis eiusdem orationibus aetate Dantis regnabant in scholis "), citato dal Moore (Studies in D., I 266). L'affermazione del Mai è priva di fondamento, così come non risolve il caso particolare l'osservazione dello Scherillo, per altro valida in linea generale, che " l'equivoco tra i due Cassii fosse già stato consumato anteriormente a Dante, in quel primo Medioevo che di equivoci siffatti fu tanto fecondo ". Infatti, come notato da Renucci (p. 182 n. 623), le Catilinarie non risultano quasi mai citate prima del 1350. Un codice manoscritto posseduto dal Petrarca (cfr. De Nolhac, Petrarque et l'humanisme, I 226 ss.) induce alla considerazione che esse dovettero essere esumate e trascritte nella prima metà del sec. XIV, senza con ciò escludere categoricamente l'eventualità che D. le abbia conosciute. In verità per spiegare l'aspetto membruto di C. non bisogna ricorrere tanto alle fonti, ma, come ha notato il Petrocchi, al linguaggio " comico ", non dimenticando " il problema della fusione di elementi realistici " che ha un'importanza notevolissima nella prima cantica, " ove il peso dell'esperienza è onnipresente e insopprimibile ".
Il fatto che il Purgatorio si apra con la grande figura di Catone, che si dà la morte in nome della libertà, non contrasta con la condanna degli uccisori di Cesare. Sono due cose diverse. Infatti, come ha notato il Gundolf (Caesar. Storia della sua fama, Milano - Roma 1932), "Cesare è il rappresentante di una sacra dignità metapolitica, Catone è il rappresentante d'un metafisico valore ". Perciò hanno torto sia il Villemain (Littérat. du Moyen Age, I 393) quando dice che " malgré l'attrait naturel que son àme devait avoir pour Brutus, Dante le choisit afin d'immoler au pouvoir impérial la plus grande victime ", sia il Frascino (Cesare, Catone e Bruto nella concezione dantesca, in " Civiltà Moderna " II [1930] 850 ss.), quando osserva che D. ha condannato Bruto per la colpa che ha ritenuto più grave, mentre ha condannato Didone e Cleopatra per lussuria, non per suicidio.
Invero i nomi di Bruto e C. sono (come si può già vedere in A. Graf, Roma, pp. 299, 276 ss.) durante tutto il Medioevo coperti d'infamia. Guiraut de Calanson li considera traditori del loro signore; nel Fioretto di Croniche degli imperadori si dice che essi per astio e per invidia uccisero Cesare " a grande tradizione in sul palazzo del Campidoglio dove si teneva la ragione ". In un poemetto in terza rima di Manetto Ciaccheri su tutti i traditori del mondo (cod. Laurenziano plut. LXII 19, f. 47r a) è scritto: " Conobbi cierto che questo era Bruto / Che vedova fe' Roma del suo figlio, / Iniquo traditore e dissoluto ". Così come non mancano le narrazioni, medievalmente fantasiose, del modo in cui fu attuata la congiura. Nel Libro Imperiale (cod. Laurenziano plut. XLIII 21, f. 10r) si dice che la congiura fu tenuta in luogo sotterraneo; nelle Chroniques de Tournay (II c. 26, cod. della Bibl. Naz. di Torino L 11 15 da f. 120v b a f. 122r a) è narrata assai diffusamente la morte di Cesare. Nel Perceforest (Le cinquiesme volume des anciennes Croniques Dangleterre, ecc., Parigi 1532, cap. IV) l'uccisione di Cesare è considerata come vendetta della vinta Bretagna. In una Chronique des Evesques de Liege, compilata nel secolo XV e conservata tra i manoscritti della Biblioteca di Berna, si narra come Cesare fu ucciso dagli amici di Virgilio (cfr. Sinner, Catalogus codicum mss. bibliothecae Bernensis, Il 149-150). L'assassinio avviene nella casa o nel teatro di Pompeo, oppure nel tempio di Achille sulla rupe Tarpea, come si legge in qualche testo dei Mirabilia, o nel " palazzo di Campo Marzio dove si teneva ragione " (I fatti di Cesare, p. 305), o nel Campidoglio. Ranulfo Hidgen dice (Polychronicon III 42) che Cesare fu trafitto con pugnali da gladiatori, e che nel suo corpo non fu notata nessuna traccia di ferite.
Bibl. - Oltre ai commenti alla Commedia e ad altri autori già citati, si veda: G. Poletto, Dizion. dant., Siena 1885; Toynbee, Dictionary; E. Moore Studies in D., Oxford 1896, 1266; A. Graf, Roma nelle memorie e nelle immagini, Torino 1882-83, I 276 ss., 299; A. Renaudet, D. humaniste, Parigi 1952; P. Renucci, D. disciple et juge du monde gréco-latin, ibid. 1954; S. A. Chimenz, D., Milano (s.a.) 45; V. Rossi, Saggi e discorsi su D., Firenze 1930; B. Nardi, Il canto XXXIV dell'Inferno, Torino 1959; G. Petrocchi, Il canto XXXIV dell'Inferno, in Itinerari danteschi, Bari 1969, 295-310.